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Autore: RubyChubb    09/12/2008    9 recensioni
Aspettava da un’ora, seduta sulla sua valigia grigia e rigida, tutta graffiata. Intorno a lei migliaia di viaggiatori di ogni nazionalità, persone che esibivano cartelli con strani nomi neri di pennarello e famiglie che si ricongiungevano, tra baci ed abbracci.
Ma ancora nessuno per Joanna…
Seguito di "Four Guys in her Hair" - RubyChubb & McFly
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Four Guys in Her Hair & And That's How I Realize...'
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Un rumore improvviso lo fece svegliare ed aprì gli occhi. Si guardò intorno, o meglio, guardò il soffitto sopra di lui e lo vide illuminato da colori alterni. Mosse la testa: la tv era rimasta accesa, per tutta la notte. Si trovò addirittura con il telecomando in mano, doveva essersi proprio addormentato nel bel mezzo di un film, non ricordava affatto. Sbadigliò con molta poca educazione e la spense, abbandonando il controllo remoto sul comodino. Si stropicciò gli occhi, fece per richiuderli ancora ma un lieve respiro lo distrasse.
Accanto a lui, Jonny dormiva tranquilla, supina, le mani unite sul petto che si muoveva con costante regolarità. Perfettamente pacifica, non sembrava nemmeno la tigre con cui aveva lottato, quella ragazza aveva gli artigli e li sapeva usare bene. Le sue parole gli avevano fatto abbastanza male, così come era certo che le proprie ne avessero fatto a lei, ma se non se le fossero mai dette tante cose sarebbero rimaste nascoste. Sperò di averle davvero aperto gli occhi.
Lo avrebbe sostenuto finché fosse vissuto: Jonny si meritava il meglio dalla vita e nemmeno lei aveva il diritto di negarlo a se stessa. Sicuramente avrebbe sofferto per molti altri motivi, compreso uno in carne ed ossa che lui conosceva molto bene e che non aveva la più pallida idea dei sentimenti che la sua provasse per lui. Danny era proprio un cretino, uno di quelli con tutte le lettere maiuscole, anche più cretino di quanto lui poteva mai essere, perfino impegnandosi fino al limite delle sue possibilità. Si era sempre chiesto come mai si fosse convinto di quella bella amicizia, perché non l’avesse trasformata in qualcosa di più, innamorandosi di un’altra ragazza. Ma non era nessun altro che Danny Jones... E di donne ne aveva sempre capito meno di quanto gli altri pensassero.
Controllò l’ora, erano le otto di mattina.
La serata precedente era stata abbastanza movimentata, potevano dedicarsi ad altro sonno: Joanna non sembrava affatto volenterosa di svegliarsi e lui sentiva di avere ancora molte altre riserve di stanchezza da svuotare. Si voltò, dandole le spalle ed anche un po’ di privacy, sicuramente le aveva russato in un orecchio per tutta la notte. Si sistemò il cuscino sotto la testa e sbadigliò ancora, pronto a crollare nel mondo dei sogni.
Un suono particolare, uno che riconobbe subito, interruppe il suo tentativo di addormentarsi ancora. Allungò la mano ed afferrò il cellulare.
“Pronto...”, disse, con voce roca.
Dormivi?
Spalancò gli occhi.
“Sì...”, rispose a Danny.
Scusami.”
“Niente, lascia stare.”, borbottò, stringendo le palpebre per trovare la forza di rimanere sveglio.
Perché parli così piano?”, trillò la voce dell’altro.
“Sei pregato di farlo anche tu, ho mal di testa.”, gli sussurrò, “Cosa vuoi alle otto di mattina, non potevi aspettare un altro po’?”
Sono all’aeroporto... A Firenze.”, disse l’altro.
Dougie rimase di stucco. Strabuzzò gli occhi e si sedette sul bordo del letto, assicurandosi che Jonny stesse ancora dormendo.
Ho preso il primo volo disponibile.
“Cosa?!?”, esclamò, senza alzare di un solo decibel il tono della sua voce, “Ma sei pazzo? Ma... Come hai fatto ad atterrare se io stesso sono bloccato qui per via di uno sciopero!"
E che ne so! Ho comprato un biglietto e sono partito!”, disse l’altro, assordandolo con tutto il suo entusiasmo.
“Cristo, abbassa la voce!”, gli disse.
“Dougster...”, lo chiamò Jonny.
Si affrettò a coprire il telefono sperando che Danny non l’avesse sentita.
“E’ Dan.”, le disse.
“Ah...”, rispose lei, voltandosi dall’altra parte, "Fai come se non esistessi."
 “Ehm... Jones, sei ancora lì?”, tornando a prestare attenzione al suo interlocutore.
Ah sì,  pensavo stesse cadendo la linea.”, disse Danny, “Allora, come faccio a raggiungervi?
“Non sarebbe meglio che prima lo dicessi a Jonny?”, gli domandò a sua volta.
“Cosa devo sapere?”, chiese lei, a tono spento.
Poteva passarle la chiamata, poteva lasciare che fosse Danny stesso a dirle che era arrivato lì, per lei. Ma come l’avrebbe presa? E soprattutto, come avrebbe preso il fatto di scoprire che avevano, seppur con tutta l’innocenza del mondo, dormito insieme? Conoscendolo, Danny avrebbe allestito una delle sue scenate di gelosia. Dio, ogni volta c'era una complicazione diversa.
“Jones, glielo dico e ti faccio risapere. Ok?”, gli disse.
Va bene...”, fece lui, solo in parte convinto, “Ma non ci mettere molto.”
Dougie alzò gli occhi al cielo.
“A dopo, Dan.”
Chiuse il telefono, e si toccò stancamente gli occhi.
“Cosa sta succedendo?”, chiese Jonny, non nel suo tono migliore.
“Vuoi proprio saperlo?”, le fece, cercando di essere almeno un po’ ironico, “Vuoi sapere davvero cosa ha fatto Danny?”
“Mi riguarda direttamente?”
“Beh... Sì.”, le disse.
Lei era sempre rannicchiata sul letto, di spalle, e gli volgeva la testa.
“Ha lasciato Tamara?”, avanzò ridacchiando.
“No.”, fu costretto ad informarla, “Peggio.”
Jonny aggrottò la fronte.
“E’ qua, all’aeroporto. Sta aspettando che qualcuno lo vada a prendere.”
Lei non rispose.
“Jonny...”, le fece, posandole una mano sulla spalla, “E’ venuto per te, forse dovremmo...”
“No, doveva starsene a casa.”, disse lei, seccamente, “A ricattare chi gli pare.”
Si risolveva una complicazione e subito ne spuntava un’altra.
"Jonny...”, le disse ancora, “Dovresti dargli una possibilità.”
“Dovrei mandarlo a quel paese, ecco!”, protestò lei.
A Dougie venne da ridere ma si trattenne, sapendo che avrebbe potuto in qualche modo offenderla, nonostante la situazione fosse abbastanza comica già di suo.
“E se vuoi ridere di me, fallo pure! Lo so che sono ridicola!”, sbuffò lei, stringendo il cuscino tra le braccia.
“No che non lo sei, Jonny”, le fece, “sei solo innamorata di qualcuno che è troppo stupido per capirlo.”
“Hai detto bene, Dougs.”, borbottò lei, “Adesso posso tornare a dormire?”
“Ma c’è Danny all’aeroporto.”
“Che prenda un taxi!”
“Non ne è capace.”, ironizzò Dougie.
“Che si compri un libretto di istruzioni!”
“Ok... Vado a prenderlo io.”, disse, alzandosi dal letto e dirigendosi in bagno, “Ma tu, nel frattempo, non fuggire alle Cayman.”
“No, starò ad aspettarlo a braccia aperte!”, sbuffò lei, nascondendo la testa sotto al cuscino.
 
 
Non appena Dougie si chiuse dentro al bagno, Joanna ne approfittò per maledire tutto quello che le stava intorno.  Ci aveva pensato dopo la discussione con Dougie: una volta calmati, si erano distesi sul letto a guardarsi un film. Di lì a poco lei si era addormentata, caduta come un masso, ma aveva avuto il tempo di riflettere.
Glielo aveva detto, era lui l’amico che cercava, non uno di cui era anche innamorata. Per lui non provava niente, tranne uno strano affetto che non aveva mai veramente conosciuto: era l’affetto della fiducia che si prova per un amico. Per un amico vero. E dato che Danny, per lei, era solo un innamoramento sbagliato... Allora sarebbe stato meglio finirla lì. Smettere di pensare a lui, di vederlo, di sentire la sua voce.
No, non le era più possibile farlo! Danny era tornato a bussare alla sua porta, impaziente e precipitoso come sempre! Non le aveva dato nemmeno la possibilità di mettere in azione la sua volontà, preso dalla bella bella idea di salure un aereo e venire lì, da lei.  E allora, dato che Danny era nella sua città, Joanna ne avrebbe solo approfittato per parlargli a quattro occhi e dirgli che non voleva più vederlo, né sentirlo. Prima lo avesse fatto, meglio sarebbe stato.
Scese dal letto, colma di un’energia che non sapeva dove aveva scovato, ed andò nella propria stanza. Si preparò e scese a fare colazione. Dougie era già lì e parlava con Arianna.
“Buongiorno.”, le disse la donna, “Scusami se non ci sono mai stata per te in questi due giorni, ma sapevo che Dougie poteva fare molto di più di quello che era nelle mie possibilità. Spero di non aver preso una decisione sbagliata. ", le vene incontro e la abbracciò , "Dougie mi ha spiegato... Alcune cose che non sapevo."
“Arianna...”, le fece, sospirando, “Scusami per averti tenuto all’oscuro di tutto.”
“Scusarti di cosa?”, disse la donna, scuotendo la testa, “Avevo capito da sola che le cose tra i Bellini non giravano per il verso giusto. Posso darti il mio tetto, un lavoro... Ma comunque non sono nessuno per importi di parlarmi di queste cose. Sono tue e sta a te ritarle fuori quando ne senti il bisogno. Credimi se ti dico che so cosa stai provando.”
Sante parole, pensò Joanna, che la vide mentre lanciava un’occhiata a Dougie. Quello scemo le sorrise, avevano fatto tutto alle sue spalle.
“Non so perché quell’essere alle mie spalle abbia saputo tutto”, si riprese Arianna, “ancor prima di me e del tuo principe azzurro... Ma penso che abbia anche un cervello dentro a quella testa tonda da Charlie Brown.”, aggiunse poi, voltandosi e strizzando un occhiolino in sua direzione.
“A volte mi sento tanto come lo spaventapasseri del mago di Oz.”, fece Dougie, alzando le spalle, “Con la testa piena di paglia pensante.”
“Ti ci vedo su un palo a scacciare i corvi!”, esclamò Arianna, ridendo, “Ma piantiamola con le storielle ed andiamo a prendere Danny.”
“E il locale?”, domandò Joanna, “Perché non sei ancora al lavoro?”
“Beh... Sai, ho licenziato tuo fratello.”, disse Arianna.
Joanna strabuzzò gli occhi.
“Jo, ha alzato le mani su di te.”, si giustificò Arianna, “E tu questo non lo sai, anch'io non sono mai stata totalmente sincera con te, ma ho avuto la sfortuna di avere qualcuno al mio fianco... Che non aveva la mano molto leggera.”
Istintivamente, Joanna si portò una mano alla bocca.
Ecco quello che intendeva Dougie, adesso lo capiva fino in fondo. Lei non aveva mai permesso al mondo di poterla conoscere, di poter entrare in contatto con lei. Aveva escluso tutti dalla sua vita, facendosi schiava dei suoi ricordi e delle sue cicatrici, ed allo stesso tempo anche gli altri l’avevano tenuta lontana dalle loro esistenze.
Che cosa sapeva, in fondo, di Arianna? Poteva dire tutto il presente vissuto con lei, ma quello che c’era stato prima?
“L’ho licenziato perché vederti dare quello schiaffo da lui...”, si spiegò Arianna, “Mi ha fatto sentire ancora una volta come tantissimi anni fa. E l’ho odiato.”
“Beh... Mi dispiace.”, riuscì a dire Joanna.
“E di cosa?”, sbottò subito lei, “Sono io a dispiacermi di essermi trattenuta dal fare altrettanto, mi ha atterrita dalla paura! Non voglio avere a che fare con i tipi violenti, né dividere con loro i miei guadagni!”
A Joanna venne da ridere amaramente.
Intorno a lei tutti avevano avuto i loro problemi, le loro difficoltà, i loro fantasmi con cui combattere. Lei non era mai stata sola, l’unica ad aver sofferto, a cui la vita non aveva quasi mai sorriso.  Le venne quasi nuovamente da piangere dalla felicità.
Non era una contentezza classica, di quelle che si provava dopo una bella notizia, o dopo aver vissuto qualcosa di bello.
Era una felicità strana, tutta sua.
 
 
Arianna rimase in auto, lasciò che andassero da soli in aeroporto. Camminavano tra la gente, vicini, come se rischiassero di perdersi in mezzo alla folla. Era spaventata, Dougie lo vedeva e lo sentiva, si dispiacque di non poter fare molto per aiutarla.
Ora, tutto stava nelle sue mani. Nelle loro mani.
Quello che poteva fare era semplicemente parlare con Danny, fargli capire, a meno che Jonny non lo anticipasse, ma non era completamente certo... Era coraggiosa e, quando voleva, poteva anche abbattere mille barriere davanti a sé, come aveva fatto poco tempo prima con Arianna.
Ma con Danny era diverso.
Alzò gli occhi sopra la gente e riconobbe quel cappellino tra mille. Seduto, su una delle tante poltroncine, dava loro le spalle e leggeva un comunissimo quotidiano del loro paese di origine.
“L’ho visto.”, le disse, fermandola, “Vuoi che... Insomma, vada avanti io?”
La risposta arrivò con estrema incertezza.
“No... Andiamo insieme.”, disse Jonny.
“Ce la puoi fare.”, le fece, sorridendole, "Non è il mostro che pensi..."
“Stai zitto, Dougs!”, sbuffò lei, dandogli una pacca sulla spalla.
Un passo dopo l’altro furono davanti a Danny. Dougie dette un ultimo sguardo verso Jonny: gli occhi si posavano ovunque, tranne che sul giornale al di là del quale lui si nascondeva.
“Signor Jones?”, fece Dougie, scherzosamente.
Il Times si abbassò.
“Hey, ce l’avete fatta!”, esclamò lui, guardandoli entrambi e ripiegando il quotidiano velocemente, prima di alzarsi ed abbracciare il suo amico bassista.
“Com’è andato il viaggio?”, gli domandò Dougie.
“Bene... Improvviso, ma bene.”, rispose Danny, prima di lasciarlo, poi si rivolse a lei,“Ciao. Come... Come va?”
Jonny non lo guardava. O meglio, guardava la sua t-shirt, l’individuo seduto nelle loro vicinanze, l’isterico bambino che piangeva a qualche metro da loro. Avesse potuto evitarle tutto quello, Dougie lo avrebbe fatto, ma per sua grande e divina fortuna non era Harry Potter e non poteva influire sull’andare placido ed inesorabile delle cose.
“Bene. E tu?”, rispose, con tono piatto.
“Beh... Sì, bene anche per me.”
Doveva lasciarli soli? Dare a Danny il tempo di scusarsi per il suo patetico errore?
“Andiamo?”, domandò Joanna, “Arianna è in divieto di sosta!”
E furono in auto. Era schizzata via dall’aeroporto, veloce come la pallina di un flipper. Loro due si erano semplicemente accodati, seguendo la sua scia, senza dire niente.
 
 
“Purtroppo non ho un’altra camera da darti.”, gli spiegava Arianna, mentre salivano le scale, “Ma se non vuoi dividere il letto con Dougie, potremmo anche...”
“Oh no, va benissimo!”, la tranquillizzò, “E poi stasera comunque stasera Dougie tornerà a casa. Vero, Poynter?”
Si voltò per cercarlo ma dietro di lui non c’era nessuno. Il corridoio era vuoto, né Dougie né Little li avevano seguiti, dovevano essere rimasti al piano inferiore.
“Come dici, scusa?”, gli chiese Arianna, vedendolo perplesso.
“Lascia stare.”, le disse, sorridendole, “Solo una cavolata.”
La donna lo accompagnò fino alla porta della stanza e lo lasciò solo.
Danny si sedette sul letto, stanco per il viaggio. Aveva dormito malissimo per tutta la notte e la sveglia aveva suonato proprio nel momento in cui gli era sembrato di stare quasi per addormentarsi. Si sentiva da buttare, avrebbe voluto chiudere un po’ gli occhi e riposarsi, ma non era il caso. Sentì tre lievi colpi alla porta e sperò che fosse Little, ma era soltanto Dougie.
“Riposati un po’.”, gli disse il suo amico, “Ti aspettiamo per pranzo.”
“No, sto bene.”, si oppose lui.
“E dai! Hai due occhiaie che spaventi!”, rise l’altro, “Non ti preoccupare, non abbiamo niente di importante da fare.”
“Little?”, gli domandò.
Dougie rimase in silenzio per qualche attimo, in cerca di una risposta buona da dargli.
“Le posso parlare?”, insistette Danny.
“Prima riposati.”, disse l’altro, “Poi le parlerai quanto vuoi.”
Non gradì affatto quella risposta. Lui non era affatto la persona più indicata per dirgli quelle parole.
“Vorrei parlarle adesso, è un crimine per caso?”, sbuffò, infastidito.
“Dan, per cortesia, riposati almeno un paio di ore.”, gli ripeté Dougie, “Avrai tutto il pomeriggio per parlarle.”
“Voglio farlo adesso.”, gli intimò.
“No.”, negò ancora Dougie, la sua espressione tra le più dure che avesse mai visto dipingersi sulla sua faccia, “E’ meglio così, Danny, credimi.”
E chiuse la porta.
Era sbalordito, totalmente impressionato, pienamente stupefatto. Dougie gli imponeva di non parlare con Little perché prima avrebbe fatto meglio a riposarsi. Ma da quando Poynter si sentiva in grado di intromettersi tra loro due? Sentì la rabbia ribollire dentro di lui, ma una voce da un anfratto abbastanza nascosto della sua mente gli disse che avrebbe davvero fatto meglio a riposarsi. Era troppo nervoso, troppo agitato per poter essere pienamente razionale. Si tolse le scarpe e si sdraiò sul letto. Un’oretta di sonno avrebbe portato un umore migliore, ed avrebbe così potuto affrontare chiunque, senza alzare troppo la voce.
Un ultimo pensiero, prima di addormentarsi, andò a Tamara.
Non avrebbe affatto accettato la sua decisione di partire, non senza gridargli contro qualcosa, non senza tornare a rinfacciargli le solite cose. Ma avrebbe capito, ne era certo, avrebbe compreso. Se l’amava veramente, così come l’amava lui, allora se ne sarebbe fatta una ragione.
Altrimenti, voleva dire che aveva sbagliato tutto.
Un’altra volta.
 
 
 
Si svegliò insieme ad un poderoso buco nello stomaco, una fame epica che borbottava incessante, urlava dentro di lui. Sbadigliò, stirò gambe e braccia, e si rese conto che quella dormita aveva compiuto per lui quasi un miracolo. Scese dal letto e, dopo un passaggio in bagno ed cambio di abiti, guardò l’ora.
L’una e mezza, aveva dormito anche più del previsto, e la fame aumentava esponenzialmente, insieme ai numeri scanditi dalla lancetta dei secondi del suo orologio. Scese le scale ascoltando i rumori che provenivano dalle diverse stanze. In una di esse Arianna sembrava chiacchierare animatamente con qualcuno, al telefono, ridendo e scherzando.
Poi, al di sotto della risata grossa della donna, ne sentì anche una, più gentile e minuta.
La seguì  e si trovò ad origliare, nascosto dallo stipite della cucina.
“Sei troppo stupido, Dougster!”, sentì dire da Little.
“Guarda!”, sembrò sfidarla lui, “Ci riesco! L’ho fatto una volta in un programma televisivo!”
Qualche rumore strano.
“Ma no! Cretino! Hai sporcato tutto!”, lo rimproverò Little.
Gli venne da sorridere, ma non lo fece che per un brevissimo secondo. Non ebbe piacere nel realizzare che tra i due sembrava essere stata fatta pace.  E no, la sua non era gelosia.
“Cosa vuoi che sia!”, disse Dougie, con il suo solito modo di fare troppo menefreghista.
“Era il nostro pranzo!”, sbuffò Little, “Ora dobbiamo rifarlo da capo.”
“Dovremmo chiamare Danny.”, ricordò il suo amico bassista a lei, "E' più importante della frittata caduta a terra."
“Fallo tu.”, rimandò la palla Little.
“E’ compito tuo  Jonny.”
“Non mi va.”, disse lei, secca.
“Avrai modo di parlargli.”, insistette Dougie, “E dirgli quello che devi.”
“No, scordatelo, non lo farò.”, disse lei, “A cosa servirebbe? Solamente a starci male.”
“Beh, se la pensi così…”
“Certo che la penso così!”, esclamò Little, “Dougster, non ho voglia di litigare con te.”
“Nemmeno io.”, rispose lui, “Vado a chiamare Danny.”
Lo schiocco di un bacio entrò nelle sue orecchie come l’evento più inaspettato di tutto il mondo. Prima di poterlo realizzare ed ancora prima che Dougie potesse trovarlo lì, attonito come un cretino, Danny si mosse.
“Buongiorno!”, disse, con entusiasmo, facendo finta di stiracchiarsi le braccia.
“Ah, stavo appunto per venire a chiamarti.”, fece Dougie, trovandoselo davanti.
“Mi sono alzato esattamente adesso, ho una fame!”, disse, cercando di farsi passare per tranquillo.
“Riposato?”, domandò Dougie, sedendosi intorno al tavolo, con lui.
“Sì, abbastanza, mi ha fatto proprio bene recuperare un po’ di sonno.”, gli disse.
"Te l'avevo detto...", insinuò scherzosamente Dougie, "Vieni, è quasi pronto."
Entrarono in cucina: Danny vide subito Little indaffarata tra le pentole, gli rivolse un frettoloso buongiorno a cui lui rispose con leggerezza. Volle provare ad entrare in contatto con lei per vie traverse, accantonando le parole sentite e quel bacio, che ancora percepiva come rumore di fondo, nella sua testa.
“Cosa prepari di buono, Little?”, le chiese, ma lei sembrava troppo indaffarata per potergli rispondere.
“Pasta.”, ripose Dougie, al posto suo.
“Ah… Ok, posso prendermi qualcosa da bere?”, chiese ancora, indirizzando quella domanda a lei.
“Acqua? The?”, gli fece di nuovo Dougie.
Sei diventato di casa?
“Acqua.”, gli disse, con un sorriso stretto.
Dougie si alzò e senza sbagliare cassetto né sportello trovò un bicchiere con acqua fresca per lui; una volta accontentata la sua sete, sistemò anche i piatti e le posate per il pranzo. Notevole fastidio, ma volle scherzarci sopra.
“Sei diventato familiare, qua…”, gli fece, ridendo.
“Beh… Sì, diciamo di sì.”, ripose lui.
“Anche più familiare che a casa tua!”, esclamò Danny, ridendo ancora più forte.
Dougie lo seguì e alzò le spalle in maniera comica. Sapeva che lo stava punzecchiando, che quello che faceva dava fastidio a lui, al suo amico Danny Jones.
 “Buongiorno, Danny!”, sentì dire alle sue spalle da una tonica Arianna, “Hai fame?”
“Abbastanza!”, le rispose, toccandosi la pancia.
“Bene, perché questi due”, fece, riferendosi a Dougie ed a Little, che si lanciarono un’occhiata complice, “hanno già rovesciato due litri di acqua sul pavimento, rotto tre uova e una confezione di yogurt.”
“Ah!”, fece lui, meravigliandosi di quando potessero essere distruttivi insieme, “C’è una vaga speranza allora di poter mettere qualcosa sotto i denti?”
“Sì, ovvio.”, rispose Arianna, “Perché adesso darò loro il cambio. Avanti, toglietevi di lì prima che salti tutto in aria.”
Si sedettero: Poynter davanti a lui e Little, invece, accanto a Dougie, braccia conserte, e sguardo fugace.
“Come stai, Little?”, le chiese.
Ormai non sapeva più come fare per parlarle, lei sembrava avergli voltato totalmente le spalle.
“Bene, sto bene.”, rispose lei.
“Intendevo dire, come stai veramente.”, puntualizzò lui.
Lei scansò gli occhi lontano.
“Te l’ho detto. Sto bene.”, ripeté.
“Ok.”, si lasciò convincere, “Posso parlarti allora?”
“Dopo.”, disse lei, “Ora dobbiamo mangiare.”
“E’ pronto!”, esclamò infatti Arianna, tagliando ogni possibilità di ulteriori tentativi.
 
 
 
Non doveva guardarlo, per niente al mondo. Non doveva farlo. Più teneva lontani gli occhi da lui, meglio era.
Severamente proibito guardare Danny Jones.
Per tutto il pranzo la sua attenzione era stata puntata su Arianna, su Dougie, sul proprio piatto e bicchiere, sulla punta della forchetta carica di cibo, ma mai –mai- su di lui. Fece finta che non ci fosse, che si trovasse altrove, in Inghilterra, in Thailandia, ovunque tranne che lì, in Italia. Quasi davanti a lei.
Ignorò la sua voce, i suoi occhi, il suo viso, le sue mani. Lo ignorò tutto, nell’interezza della sua persona e personalità. E lui sembrò fare altrettanto. O meglio, si convinse che lui si stesse comportando come lei, che si stesse pentendo di essere venuto, che stesse rifiutando di parlarle perché lei, in prima persona, non voleva rivolgergli parola, nonostante le cose da dire sarebbero state compose da valanghe e tonnellate di parole rabbiose e cattive. Ma soprattutto perché se l’avesse fatto davanti a tutti si sarebbe limitata, avrebbe cercato di addolcirgli la pillola amara.
E si stava comportando così perché…
Se avesse fatto diversamente, avrebbe perso ogni coraggio.
Avrebbe perso tutta la volontà, tutti i buoni propositi, tutte le frasi già pronte per lui. Perché se avesse incrociato i suoi occhi profondamente blu, anche se per un solo istante, si sarebbe persa.
Odiava essere innamorata di lui. Si odiava nel provare qualcosa di così profondo e sconosciuto per qualcuno che amava un’altra ma che, ancora prima di quello, l’aveva messa meschinamente alle strette.
Il pranzo si concluse, scandito dalle loro risate: quella riunione quotidiana aveva avuto una parvenza di normalità, al di là di tutto. Arianna declinò ogni tentativo di essere aiutata, sia da parte sua che di Dougie, o di Danny stesso, chiedendo loro di lasciarla in pace e di andarsene a rompere le scatole a qualcun altro.
“Cosa facciamo?”, domandò Joanna a Dougie.
Implicitamente, aveva voluto dirgli: cosa vuoi fare tu, assistere alla rovina del tuo amico?
“Beh, vorrei riposarmi.”, disse, sbadigliando.
Stava fingendo.
“Non ho dormito stanotte.”, aggiunse, per essere più convincente, “Vado a stendermi un po’.”
“Ok.”, gli disse, annuendo ed abbassando la testa.
“E io volevo scambiare quattro parole con te, Little.”, le disse Danny.
Annuì anche a lui, senza però alzare gli occhi da terra.
“A dopo.”, disse Dougie.
Le lanciò un sorriso, poi prese la via del piano superiore.
“Dove… Dove vogliamo andare?”, chiese Danny.
In un posto tranquillo, senza troppa gente.
Senza testimoni.
“Nel retro dalla casa c’è  un piccolo giardino.”, disse lei, “Andiamo là.”
 
 
 
Di nuovo seduti su due comode sedie di vimini, intorno ad un tavolinetto nero. Little si era allontanata un attimo per prendere del caffè appena fatto e, dopo averlo bevuto, venne il momento di fronteggiarsi.
E per lui, di scusarsi.
“Little…”, esordì Danny, “Insomma ... Volevo parlarti… Della telefonata di ieri.”
“Anche io.”, disse lei.
Ritrasse le gambe al petto e le abbracciò.
“Ecco…”, cercò di dire.
“Posso parlare prima io?”, lo interruppe lei.
“Sì… Certo.”, le fece, lievemente spiazzato dalla sua sicurezza.
“Bene.”, disse Little, che si schiarì poi la voce, “Danny...”
Forse per la prima volta in tutta la mattinata, lei alzò gli occhi e li fissò nei suoi. Aspettava quel momento come se fosse stata la cosa più bramata da sempre. Gli occhi di Little erano così trasparenti che bastava guardarci dentro per capire cosa avesse avuto per la testa.
Lei si bloccò, non disse nient’altro.
“Little...”, le fece, volendo esortarla.
Lei sospirò ed abbassò il viso.
Voleva per caso dirgli quello che si aspettava di sapere? E allora perché non ci riusciva, cosa c’era che la bloccava? Anche quello era da capire, e lui non ci riusciva.
Lei si morse le labbra.
Afferrò la sedia su cui si era accomodato e le si avvicinò il più possibile, di fronte a lei. Le prese le piccole mani, che prima stringevano nervosamente le gambe, e cercò di farla calmare.
“Little, ascoltami...”, le disse, “Ho sbagliato, lo so. Non dovevo.”
Lei non tolse gli occhi da terra.
“Guardami, Little.”
Ancora niente.
La costrinse a farlo, prendendole con delicatezza il mento ed alzandole il viso.
“Non dovevo metterti davanti ad una scelta.”, le disse, una volta che i loro occhi si furono sintonizzati sulla stessa frequenza, “E tu hai tutto il diritto di odiarmi, di non volermi parlare e di mandarmi a quel paese. Non ti biasimo.”
Era vero, se lei gli avesse detto di non farsi più vedere, né sentire, lo avrebbe accettato, seppure non senza lottare. In fondo, era stato uno stronzo.
O anche qualcosa di peggio.
“Sono venuto qua perché voglio chiederti scusa di persona, e non tramite uno stupido telefono... O una stupida mail, come abbiamo fatto per tutto questo tempo.”, continuò a dirle, “Perché mi sono rotto le scatole. Perché non posso vedere che faccia fai quando ti parlo, non posso vedere quando ridi mentre leggi una mia battuta.”
Non poteva esserne certo, ma per un piccolissimo istante le labbra di Little si erano lievemente increspate all’insù.
“Perché voglio capire se mi perdoni davvero.”, le fece, “Perché so che guardandoti negli occhi lo capirò. Little, non sempre mi hai detto la verità.”
E vide, infatti, tanta colpevolezza. Se ne dispiacque, era lui quello che doveva sentirsi in colpa per qualcosa, non lei.
“Mi dispiace.”, disse lei, infatti.
“No, non farlo, per favore.”, le disse, sperando che lo ascoltasse, “Qui l’unico che deve dispiacersi di qualcosa sono io, che ti ho messo da parte.”
“Ma Tamara...”
“Tamara capirà.”, le fece, cercando di essere convinto.
Almeno lui lo era.
Quasi...
“Lei lo sa che sei qui?”, domandò Little.
“No, non lo sa, ma non è di lei che voglio parlare.”, disse Danny, riprendendo le redini della conversazione, “Little, voglio ripetertelo finché avrò voce per farlo.”
La guardò ancora più intensamente.
“Ti devi fidare di me.”
Lei scosse la testa.
“Non è questo il punto, Danny.”, disse, con un filo di voce.
“E allora qual è?”, le chiese, in parte contento per quelle parole, ma dall’altra parte in bilico nella voglia o no di sapere cosa lei avrebbe detto.
Little sospirò, si mise i ciuffi ribelli dietro alle orecchie.
“Non lo so, Dan.”, disse.
Lo sapeva, ma non glielo voleva dire.
“Ok, aspetterò.”, le fece comunque, “Quando vuoi parlare, io sarò pronto ad ascoltarti. Io non ho fretta.”
“Però sembravi averla, ieri.”, incalzò lei, contro ogni sua previsione, “E cosa è cambiato oggi?”
Danny rimase lievemente spiazzato.
“Perché ieri volevi sapere tutto di me, ad ogni costo, ed oggi non hai più tutta questa premura?”, domandò lei.
Il suo tono era calmo, ma si sentiva la vena di rabbia che scorreva nascosta tra le sue parole.
“Danny, lo sapevi che non devi forzarmi a fare una cosa del genere.”, insisteva Little, “Ma comunque lo hai fatto. E ti sei giustificato tirando in ballo l’amicizia.”
“Per un attimo ho pensato che, magari, parlandone ti saresti sentita meglio.”
 “Danny, lo dicono tutti i dottori.”, disse Little, sempre più animata, “Sfogarsi fa bene, migliora la salute eccetera eccetera... Ma non lo voglio fare, perché non me la sento. Tu non sai quanto mi costi farlo.”
Non resistette al porle la domanda che da tantissimo tempo frullava in testa, ed a periodi alterni si era presentata con maggiore o minore intensità.
“E allora perché con Dougie lo hai fatto?”, uscì dalla sua bocca con una naturalezza che quasi lo spaventò, “Ti è costato di meno farlo con lui?”
L’espressione di Little si fece dura.
“Perché tu continui a mettermi di fronte a delle scelte”, esclamò lei, furiosa, “mentre lui ha avuto l’umiltà di non farlo, né di pensarlo. Tu hai sempre vantato delle esclusive con me, facendoti scudo con tante caritatevoli attenzioni. E io non sono una bambina dell’orfanotrofio, non ho bisogno della pietà di nessuno… Sei peggio di mio fratello.”, gli disse, liberandosi delle sue mani ed alzandosi. Si chiuse la porta alle spalle, lasciandolo lì, da solo.
Non aveva mai visto, né addirittura era stato in grado di immaginarsi quell’aspetto di Little. Ne aveva avuto un assaggio, una volta ogni tanto, ma erano stati comunque degli sprazzi episodici di rancore e ira repressa.
 
 
Non aveva potuto fare a meno di ascoltare quello che si erano detti. Innanzitutto, perché una delle due finestre che illuminavano la sua stanza si affacciava casualmente proprio sopra di loro, e poi perché era stato doppiamente curioso.
La sentì sbattere la porta di camera sua, poi nient’altro.
Ormai conosceva così bene Danny da sapere che se non lo si metteva con le spalle al muro, cioè finché lui non comprendeva veramente di essersi comportato come un figlio di puttana di prima categoria, non avrebbe mai afferrato pienamente il senso delle sue stupide azioni. Era successo esattamente così anche un anno prima, quando avevano conosciuto Jonny. Si stava comportando nel medesimo modo: sapeva di aver sbagliato, ma non era in grado di ammetterlo fino in fondo e trovava sempre un modo per condividere la sua colpa con gli altri.
Maledetto il suo orgoglio.
E di nuovo si era lì a chiedersi: che cosa avrebbe dovuto fare Dougie Poynter? Intromettersi tra i due, cercare di far ragionare Danny e calmare Jonny? Oppure lasciare che la cosa si risolvesse –o non si risolvesse- senza il suo aiuto?
Quella telenovela non avrebbe mai avuto fine. Si sentiva come il burattinaio, vittima delle sue stesse marionette anarchiche, che cercava inutilmente di farle tornare sulla retta via del copione, scritto da lui o da qualcun altro.
Si mosse, togliendosi dalla finestra per andarsene verso la stanza di Jonny. Origliò di nuovo, ascoltando i suoi singhiozzi. Bussò, ma non ricevette risposta. Sentirla ancora piangere gli stava lacerando il cuore.
Ogni volta che quella ragazza faceva un passo avanti verso lo stare meglio, con se stessa e con gli altri, ne faceva quattro -per colpa di Danny- indietro.
Abbassò la maniglia ed entrò. Stesa sul letto, la faccia tra i cuscini.
“Joanna...”, le sussurrò.
“Vattene!”, gridò lei, “Lasciami in pace!”
“Sono io.”, cercò di rassicurarla.
Doveva averlo scambiato per Danny.
“E’ uguale, sparisci!”, ripeté lei.
“Calmati, Jonny, capirà che ha sbagliato...”
“Capirà che avrebbe fatto meglio ad essersene rimasto a casa!”, continuò lei, piangendo.
Ignorò i suoi ripetuti consigli di lasciarla sola e si sedette sul bordo del letto, aspettando che lei lasciasse perdere le sue nuove lacrime.
“Ti avevo detto di andartene!”, fece lei.
“Lo so.”, le rispose.
“Sei uguale a lui!”
“Sì, suoniamo insieme da... Quanto? Sei anni?”, la sfidò, “Ormai finiamo per somigliarci tutti e quattro.”
“Sei uno stronzo esattamente come lui!”, ribatté Jonny, la sua voce sempre attutita dal cuscino in cui affondava il viso.
“Che bel complimento.”
“Vai a farti fottere, Poynter!”, gridò Jonny, lasciando il suo nascondiglio per rifarsela direttamente con lui.
Le fermò le mani, serrate a pungo, che volevano provare a colpirlo dove potevano: sul petto, sulle spalle. La sua forza fu del tutto sorprendente, ma riuscì comunque a bloccarla, chiudendo strettamente le dita intorno ai suoi polsi.
“Jonny!”, le fece, “Mi hai fatto un male cane! Ti senti meglio adesso?”
La guardò con la rabbia che si meritava, e che l’avrebbe fatta calmare. Jonny tornò a piangere e lui rimase lì, a vederla disperarsi ancora. Non si aspettò nemmeno quella volta il ritrovarsela stretta al collo. Ormai, la sua spalla doveva essere molto più comoda di qualsiasi altra.
“Passerà anche questa.”, le disse.
Non sapeva più cos’altro aggiungere.
Sospirò,  gli fece male pensarlo: non vedeva l’ora di tornare a casa e staccare da tutta quella situazione, così cupa. Non lo pensava con malignità, voleva bene a Jonny e glielo aveva dimostrato in mille modi. Ma tutto quello stava diventando una claustrofobia, un vicolo cieco e lui non voleva imboccarlo, o per lo meno voleva uscirne prima di trovarvisi imbottigliato dentro, senza via di scampo.
Ed era sicuro che fosse anche quello che Jonny volesse di più, con tutto il cuore.
Vide qualcosa muoversi, con la coda dell’occhio, vicino alla porta.
Sapeva cos’era, chi era.
E cosa aveva visto e sentito.
 
 
 
Danny comprese.
Comprese tutto: quello che aveva visto era stato più eloquente di mille parole, mille aggettivi e verbi e nomi, mille frasi, mille romanzi. Se lo sarebbe dovuto immaginare, aspettare, era quello che aveva temuto più di tutto. Il pensiero era vissuto in un angolo dimenticato della sua testa, era stato lui stesso a cacciarcelo.
Stava provando le stesse sensazioni che aveva sentito qualche tempo prima, quando aveva visto Harry e Little tornare dal bosco, ridenti, come se lui e le sue preoccupazioni non esistessero. Ma quella volta non le aveva considerate, le aveva denigrate e accantonate, senza nemmeno stare ad analizzarle. Quanto tempo era passato? Due settimane? No, solo una decina di giorni, addirittura meno, sette giorni e poco più, ma sembravano dieci anni fa.
Di quali sensazioni parlava? Mancanza, perdita, allontanamento, odiava essere messo da parte. Ed era stato messo davvero da parte, non come un anno prima, quando Little aveva rifiutato il suo aiuto contro il fratello prepotente. Sostituito, cambiato. Il posto che aveva conquistato, guadagnato gli era stato tolto così, come se niente fosse stato, e con un solo abbraccio.
Non poté fare a meno di scansare un altro pensiero.
Nel rapporto con Joanna c’era sempre stata un’ombra, un fantasma, un qualcosa di celato, invisibile ma tangibile, percepibile. Non si riferiva direttamente a Dougie, nonostante lui ne facesse parte: riguardava proprio quello a cui aveva appena assistito.
Joanna lo avrebbe allontanato per qualcun altro.
E cosa poteva fare lui? Accettarlo.
Quella sarebbe stata comunque la fine della loro amicizia: indipendentemente da fatti, cose o persone, lei avrebbe trovato qualcuno meglio di lui, come amico.
Si appoggiò contro il muro
Faceva male, cazzo se faceva male.
Prese un forte respiro, buttò fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni, ma la pressione sul cuore non fece altro che aumentare.
“Jones?”, gli fece Dougie.
“Oh… Hey.”, disse Danny, colto alla sprovvista.
Non lo aveva sentito uscire.
“Come sta Joanna?”, gli domandò.
Dougie alzò le spalle.
“Ti posso parlare un attimo, Jones?”, gli domandò Dougie.
Non ne aveva assolutamente voglia, ma non riuscì a dirgli di no. Negli occhi del suo amico, infatti, non stava una domanda, bensì la richiesta imperativa di scambiare quattro parole, benché fosse stata camuffata dal suo tono di voce interrogativo.
“Ok.”, gli fece.
Dougie passò oltre, andando verso la camera che avrebbero condiviso per qualche altra ora e, una volta dentro, parlarono.
“Senti...”, esordì Dougie, “Come avrai capito la situazione è abbastanza… Difficile da gestire.”
“Sì, l’ho capito benissimo.”, rispose Danny, “E ho anche capito che tu la stai affrontando molto meglio di me.”
“Danny, non voglio litigare con te, non mi sembra il caso.”, disse Dougie, scuotendo la testa e fraintendendo il suo tono, più passivo che innervosito.
“Non lo voglio nemmeno io.”, lo tranquillizzò Danny, “Ma è la semplice verità: Joanna ha bisogno di te, non di me.”
“Ed è qui che ti sbagli, Dan.”, disse Dougie, “Perché se solo…”
“No, non mi sbaglio affatto.”, lo interruppe, “Quello che Joanna sta facendo con te, non lo ha mai fatto con me.”
“Non gliene hai mai dato il tempo!”, esclamò Dougie, “Hai preteso tutto e subito!”
Vide il suo amico pentirsi di quella esplosione di sincerità, ma Danny lo apprezzò molto più della verità addolcita da buone e calme parole. Almeno, avrebbe capito come la pensava su tutta quella situazione.
“Non è vero, e lo sai, io non pretendo niente da nessuno.”, gli rispose, animandosi lievemente, “Quello che voglio è solo che mi si dicano le cose come stanno. Così come hai fatto adesso! Io voglio la verità, soprattutto da Joanna… Cosa c’è di sbagliato in questo?”
“Tutto, Danny, tutto.”, rispose Dougie, con aria affranta, “Tu non sai quanto a Jonny costi parlare di determinate cose… Cose che nemmeno ti aspetteresti.”
A Danny tornò in mente la solita domanda fatta a Joanna, e non riuscì a trattenersi, per la seconda volta.
“E perché invece a te ne ha parlato?”, gli domandò.
Dougie scosse la testa.
“E’ semplice da capire, Danny.”, rispose lui.
“Allora spiegamelo! Visto che io non capisco!”
“Perché io non le ho mai chiesto di dirmi niente e Jonny mi ha parlato di tutto, di sua spontanea volontà. Tu, invece, ti sei sempre aspettato che lei lo facesse in automatico, per via della vostra amicizia. E lei, come hai visto, non lo ha fatto.”
Danny rimase interdetto.
“Ti è chiaro?”, disse Dougie, “Vuoi che te lo spieghi meglio?”
La rassegnazione del suo tono era più fastidiosa della rabbia che Danny stava provando.
“E allora cosa avrei dovuto fare?”, gli domandò, “Fare finta che non me ne fregasse nulla?”
“No.”, disse lui, “Neanche quello.”
“Visto che hai tutte le risposte giuste”, insistette Danny, incrociando le braccia, “ora dovrei andarmene, vero? Così vi posso lasciare in pace!”
“Non farne una questione di gelosia, Danny.”
“Non è gelosia, Poynter!”, ribatté prontamente Danny, “Io mi sento preso in giro! Sono venuto qua per scusarmi, per farle capire che ci sono e che la sto aspettando. E tu mi dici che lei continua a comportarsi così solo perché, appunto, io sono qua a braccia aperte per lei?”
Dougie annuì.
“E’ assurdo!”, esclamò Danny, “Ti stai prendendo gioco di me perché vuoi che me ne vada, dillo!”
“Danny, per piacere.”, il tono di Dougie smise di essere tollerante e divenne estremamente intransigente, duro, “Piantala, finiscila.”
“La finisco, ok!”, esclamò Danny, “Ma allora dimmi che cosa devo fare!”
“Devi smetterla di essere presuntuoso ed arrogante, sia con me che con lei. Prenditi le tue responsabilità, capisci i tuoi errori, e chiedile scusa.”
“L’ho fatto!”
“Danny, tu non hai fatto proprio un bel cazzo.”, sibilò Dougie, “Sei solo venuto qua perché avevi paura che qualcun altro… Che io potessi fare quello che volevi tu, cioè farla stare un po’ meglio. Sei venuto qua perché avevi paura che lei ti accantonasse, che ti mandasse a quel paese, non perché ti interessasse davvero il suo stato di salute, non è così?”
Il taglio fine della lingua di Dougie si fece sentire, fin dal profondo.
“Sei sempre il solito egoista.”, disse ancora Dougie, “Il mondo deve girare sempre intorno a te e, appena qualcosa ti sfugge, diventi infantile e stupido.”
“Ah, e così sono io l’arrogante tra i due!”, sbuffò Danny.
Dougie scosse la testa e lo lasciò perdere, prima che potesse con sufficiente forza. Danny avrebbe voluto andargli dietro, terminare quella discussione in una bella litigata snervante, ma sapeva che non era il caso. I toni avevano rischiato più volte di esplodere, incontrollati, e si erano trattenuti a stento.
Prima che potesse fare il punto della situazione, il suo cellulare squillò. Controllò lo schermo –Tamara- e rapidamente afferrò la scusa che, in quello stesso istante, nacque appositamente per lei.
“Hey, Tam.”, rispose, sedendosi sul letto e toccandosi stancamente la fronte.
Dove sei?”, gli chiese lei, “A casa non rispondevi, ho fatto anche fatica a raggiungerti al cellulare.
“Sono da mia madre, sai che qua non c’è molto campo.”, le disse, prontamente e con calma.
Ah… Ho capito.”, rispose la sua ragazza, “Pensavo di tornare a casa, stasera.”
“Mi trattengo qua per qualche giorno, ne ho approfittato, data la mancanza di impegni con gli altri.”, le spiegò.
Hai fatto bene.”, disse lei, con tono dolce, “Ci sentiamo domani?
“Sì, a domani.”
E chiuse la chiamata.
Almeno in quel caso le complicazioni non erano sorte.
 
 
 
Ce l’aveva fatta, glielo aveva detto, anche se lo aveva guardato dritto negli occhi. Vi si era persa per un attimo, ma aveva trovato il coraggio per trattarlo come si meritava. Si sentì pienamente orgogliosa di lei, come pochissime altre volte nella sua vita.
Allora qualcosa stava davvero cambiando, dentro lei.
Allora non era veramente innamorata di lui, come credeva.
Nonostante tutto il nero che vedeva intorno a lei, c’era davvero una luce in fondo al tunnel…
Era diverso tempo che non sentiva più alcun rumore, tranne la voce squillante di Arianna che canticchiava sistemando le sue piante in giardino. Volle scambiare quattro parole con lei: era la giornata dei chiarimenti, perché non approfittarne per darle un piccolo assaggio di quella che era stata la sua vita passata?
A passi furtivi, sperando che nessuno dei due ospiti la vedesse né la sentisse, andò al piano inferiore. Arianna aveva appena abbandonato il suo annaffiatoio, comprendendo che il sole di quella giornata pienamente estiva non era ancora stato capace di far asciugare il terreno bagnato dal temporale della sera precedente, e stava riponendo l’attrezzo nel suo sgabuzzino apposito.
“Arianna…”, la chiamò.
Lei si tolse il foulard colorato che le fasciava la testa, a protezione dal sole.
“Dimmi, Jo.”, disse la donna, “Andato tutto bene con Danny?”
“Affatto.”, le fece, scuotendo la testa.
“L’avevo capito.”, disse lei, sorridendole con comprensione, “Andiamo in salotto.”
“Sai dove sono lui e Dougie?”
“Il tuo amico sta facendo un giro fuori casa. L’altro non lo so.”, spiegò.
“E chi intendi con l’espressione mio amico?”, le chiese Joanna, ridendo.
“Beh… Ormai posso intendere solo Dougie.”, rispose Arianna, con tono di finta saccente, “Non ècoerente chiamare in quello stesso modo anche Danny, e tu sai benissimo perché.”
“Ok…”, rispose Joanna, lievemente confusa da tutte quelle parole.
Sedute e comode, si parlarono.
“Arianna, te l’ho già detto, mi dispiace per averti tenuto nascoste cose che mi riguardavano”, le anticipò, “e che avrebbero spiegato tantissimi fatti.”
“Oh no, ti ho detto di non preoccuparti.”, fece lei, “Ti capisco benissimo, anche io ho preferito tenerti segrete determinati fatti che ho vissuto. Ma non l’ho fatto con cattiveria, credimi, è che mi riesce molto difficile parlarne.”
Quanto la capiva.
“Beh, vedi…”, le disse, “Hai avuto ampie dimostrazioni di quanto la mia famiglia non sia quella della marca dei biscotti che mangiamo per colazione.”
“In quel caso, la odierei.”, sdrammatizzò Arianna.
Non seppe come fece, né perché fu così facile, ma le disse tutto. Di suo padre, delle mani alzate, delle cicatrici visibili ed invisibili. Tutto. E lei se ne stette lì, ad annuire, senza commentare, né fare altro.
“Avevo fatto due più due, ed ero arrivata alla quella stessa conclusione.”, disse Arianna, sospirando.
“Che vuoi dire?”, le chiese.
“Jo… Te l’ho detto stamattina, anche io ho avuto problemi con uomini dalle mani troppo pesanti.”, le ripeté Arianna, “E in tutto questo tempo ho visto riprodotti in te atteggiamenti che furono miei.”
“Non ti capisco.”
“Hai paura di tutto e di tutti. Ti nascondi, non esci mai allo scoperto, non ti fidi di nessuno, tranne che di qualche sporadico caso, più unico che raro.”, disse Arianna, con una nota ironica nel finale, “Esattamente come me. Dopo aver lasciato Giovanni, e Dio sa quanto mi ci è voluto per farlo, mi comportavo esattamente come te. Fuggivo dalla vita, dalle persone…”
“Arianna, credimi quando ti dico che non avrei mai pensato che ti fosse capitata una cosa del genere.”, le disse, con la mano sul cuore.
“E’ successo venti anni fa!”, esclamò la donna, “E in venti anni si guarisce, o si è da ricoverare subito, con la camicia di forza!”
E scoppiò a ridere.
Se c’era una cosa che aveva sempre amato di quella donna, era la sua risata.
Era calda, era grassa, era avvolgente. Ti entrava nelle orecchie come un’esplosione di mortaretti: fastidiosa per un solo attimo, ma poi contagiosa come la febbre alta, solo che faceva stare bene. Arianna aveva il grande pregio di sapere quando scherzare, quando essere seria, quando stare zitta, quando parlare… La adorava, era ufficiale, e le voleva più bene che mai.
“Vieni qua, ranocchia!”, la chiamò Arianna, porgendole le braccia.
Joanna vi si nascose con voglia, riscaldandosi in quella stretta amichevole, fraterna, e pure un po’ materna che la donna le stava offrendo con gusto e affetto. Parlare con lei, che cercava di sdrammatizzare per farla ridere un po’, era stata come la manna dal cielo, era quello che aspettava.
Suo padre era morto da pochi giorni, aveva sputato fango sulla sua bara e non lo aveva nemmeno visto seppellire. Aveva chiuso totalmente ogni rapporto con la sua famiglia, litigato con chi aveva creduto suo migliore amico... Che cosa aveva da ridere? Solo da piangere, finché l’ultima lacrima versata avrebbe significato la sua stessa morte. Ma aveva passato troppo tempo nella paura di vivere e, anche se faceva male, anche se non le era rimasto molto per cui continuare a sorridere, doveva provare a tirarsi fuori da quel buco nero che l’aveva risucchiata.
“E ora, come la mettiamo con quei due?”, domandò Arianna, tornando poi a ridere.
“Non lo so.”, le rispose, sospirando.
“Dougie si è rivelato qualcosa di inaspettato, vero?”, domandò Arianna, quasi retoricamente.
“Sì, puoi dirlo forte...”
“Penso di aver capito una cosa.”, disse Arianna, annuendo in riflessione.
“E cosa?”, le fece, veramente curiosa.
Fino a quel momento, si era dimostrata una vera e sapiente lettrice tra le righe. Magari poteva aver afferrato qualcosa di quel guazzabuglio chiamato Danny Jones.
“Beh... Danny è’ venuto qua, nonostante la sua fidanzata.”, disse, alzando le spalle, “E questo è lodevole da parte sua, vuol dire che se tiene ad una persona, niente lo ferma.”
“Su questo non ho avuto dubbi...”, disse Joanna, con amarezza.
“E tu glielo hai detto?”
“Detto cosa?”
“Del tiro mancino di Cupido.”
“Ma stai scherzando?!?”, esclamò Joanna, capendo subito a cosa si stesse riferendo.
“Se lo sapesse, cambierebbero tante cose.”, affermò l’altra, con sicurezza.
 “Oh sì, certamente.”, rispose Joanna, con sarcasmo, “Non gli ho mai parlato di mio padre, e gli confesserò che ho preso una cotta per lui.”
“Solo una cotta?”, insinuò Arianna, “Fino a ieri eri innamorata di lui.”
“Ero innamorata dell’essere innamorata di lui.”, si specificò.
“Dici?”, fece l’altra, scettica.
“Sì...”, disse Joanna, cercando di dimostrarsi convinta, “Mi sono innamorata di quello che lui rappresentava per me, cioè una figura su cui fare riferimento. Mi ero creata un’idea di Danny: il ragazzo perfetto, quello dolce e gentile, quello che comprendeva ogni mio singolo stato d’animo, quello che ci sarebbe stato sempre per me… E non si è rivelato essere in quel modo.”
“Il tuo Danny e quello reale sono poi la stessa persona.”, aggiunse Arianna
“No, non lo sono, credimi.”, puntualizzò Joanna.
“Jo, ascoltami.”, le fece la donna, prendendole le mani esattamente come aveva fatto Danny, “In questi giorni è successo di tutto, ti senti depressa, confusa. E oltre tutto sei di fronte ad una svolta nella tua vita.”
Si era fatta improvvisamente seria, ma comprensiva.
“Stai mettendo tutto in discussione: gli altri, le amicizie, gli affetti… Ma soprattutto, te stessa.”, continuò Arianna, “Ti stai rendendo conto di quanti errori hai fatto, quante strade giuste hai imboccato.”
Era perfettamente vero.
“Ma permettimi di dire questo, Jo.”, le fece, “Lui potrà essere la persona sbagliata per te, uno stronzo, un cieco, tutto quello che vuoi. Ma tu ne sei innamorata, punto e basta. E finché non farai fronte ai tuoi sentimenti, questi ti rincorreranno. Non ti dico per sempre, ma per moltissimo tempo, a meno che tu non ti sieda intorno ad un tavolo con loro, per la resa dei conti.”
“Ma io tutto questo l’ho già fatto!”, esclamò Joanna, “Io ho già capito quello che provo per lui!”
“E allora alzati, va’ da lui e diglielo. Metti le cose in chiaro.”, la sfidò Arianna, “A cosa tieni di più? Alla tua faccia, a lui, o alla vostra amicizia?”
Joanna spostò gli occhi altrove, cercando una risposta.
“A nessuna delle tre cose.” , disse poi.
“Risposta errata.”, le fece Arianna, “Avresti dovuto dire che tieni di più alla vostra amicizia… Anche se, dopo la comunicazione di servizio da parte tua, è destinata comunque a finire.”
“Arianna…”, disse lei, con tono di supplica, “Cerca di dirmi chiaramente cosa devo fare! Io non ti capisco!”
Sbuffarono a ridere insieme.
“Jo”, si riprese poi Arianna, “puoi anche gridarlo con un megafono, appendere striscioni ovunque, distribuire volantini… Tu sei innamorata di Danny.”
Per l’ennesima volta, si trovò a dirle che non era vero, o meglio, che non era più vero.
“E se lui lo sapesse scommetto che…”, disse Arianna, interrotta poi dal suono del campanello.
Joanna si alzò ed andò a ricevere l’ospite.
 





Eccomiiiiiiiiiiiiiiiiii! Sebbene con un giorno di ritardo, ma ieri era festa anche per me :)
Il titolo del capitolo è appunto una nuovissima (si fa per dire) canzone dei McFly, tratta dal loro ultimo album, Radio:ACTIVE... Che deficienti -____- No scopo di lucro, quando mai con questi scemi...
Anyway... Stasera vi ringrazio al volo perchè sono piuttosto stanca...
Al volo, un bacio a tutte quelle che mi hanno recensito: Kit2007, picchia, vero15star, Ciribiricoccola, x_blossom_x, CowgirlSara, Giuly Weasley, tsumika83 e _Princess_
Siete magnifiche :) vi adoro!
Colgo l'occasione per ringraziare anche chi ha messo questa storia nei preferiti: Anna94_17, GodFather, CowgirlSara, k94, kit2007, lalinus81, leleo 91, ludothebest, picchia, saracanfly, tsimika83, vero15star e x_blossom_x.
Ultimissime ma non per importanza, chi mi fa in complimenti su msn!

Grazie a tutte voi *RC si inchina*







 
   
 
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