V
ALLA
LUCE DEL SOLE
Nàgiri
era al grande tempio
assieme a sua sorella Neikos. La bambina, di pochi mesi più
piccola di lui, era
figlia di Esma. Leggermente abbronzati dal sole di Grecia, ormai
avevano fatto
amicizia con quasi tutto il santuario. Sapevano che Ahriman li teneva
d’occhio
dal suo palazzo nel cielo, ma fin ora non si era fatto vedere.
“Sono
un po’ preoccupato”
ammetteva Saga ad Aiolos, suo gran sacerdote.
“Per
che cosa?” rispose il suo
interlocutore.
“Gli
anni passano, i cavalieri
invecchiano. Alcuni se ne sono già andati, lasciando qui le
loro armature, in
cerca di un futuro diverso. Shura è in Spagna, con moglie e
figli. Mur nello
Jamir, non si vede mai. Ioria e sua moglie Marin abitano qui vicino ma
ufficialmente non son più cavalieri. Dohko è
tornato a sedersi sul suo sasso in
Cina. Chi è rimasto? Aphrodite so che alla dodicesima, ma
non lo vedo mai. Tu
sei qui come gran sacerdote e l’armatura di Sagitter
è senza un proprietario.
Shaka pure fa l’eremita alla sesta e non esce mai. Gli unici
che vedo sono Milo
e Camus, quando il secondo non è da qualche parte in Russia.
Poi Deathmask e
mia nipote Ariadne, il cancro ed i gemelli. Perfino Aldebaran sta
sempre in
giro, fra Brasile ed altri luoghi a me ignoti”.
“È
giusto che le cose cambino”.
“Sì,
ma ci vorrebbero delle
alternative. Dove sono i giovani? Dove sono i piccoli?”.
“Kiki
ha preso il posto di Mur. E
probabilmente Arles II prenderà il posto del padre nella
casa del cancro”.
“I
loro genitori non vogliono. E
comunque sono solo in due. Tutti gli altri?”.
“Ci
sono dei periodi in cui il
santuario è quasi deserto. È normale, se non
è in vista una guerra santa”.
“Ah,
Aiolos, ecco perché come
consigliere sei perfetto. Riesci a distruggere il mio
pessimismo”.
Saga sorrise
debolmente ed Aiolos
scosse il capo, quasi divertito.
“Dov’è
la mia piccola?” chiese
poi la divinità, parlando della figlia.
“Credo
sia di sotto”.
“Cosa?!”
sbottò Saga, che non
voleva che la sua erede lasciasse le stanze di Athena.
“Prendila!
Prendila!” gridava
Arles II, rivolto a Nàgiri.
La piccola
Neikos stava facendo
le bolle di sapone ed i due bambini correvano per prenderle prima che
scoppiassero da sole. Il chiasso che riuscivano a fare in tre,
sbalordiva più
di un cavaliere. D’un tratto, Arles si fermò e
sorrise. Lungo le scalinate,
vedeva una bimba con un grosso pupazzo fra le braccia.
“Vieni!
Gioca con noi!” la
chiamò.
“È
la bambina che ho visto dietro
le tende del salone di Saga” la riconobbe Nàgiri.
“Sì,
è Heiwa, la figlia di Saga e
Hike. Strano che sia qui. Di solito non esce dalla dimora dei
genitori”.
La piccola
scese le scale pian
piano, leggermente spaventata. Raggiunse i bambini, che la salutarono
in coro.
Lei sorrise. Era una bimba deliziosa, con i codini blu e due grandi
occhi come
il miele. Attorno a lei, un alone di luce, simbolo del suo essere
figlia di
divinità e quindi divinità a sua voglia. Neikos
fece altre bolle, che
solleticarono il volto di Heiwa. Lei scoppiò a ridere.
Lasciò il pupazzo su uno
scalino, mettendolo a sedere con cura, e si unì al gioco
degli altri bambini.
Con il lungo abito bianco aveva qualche difficoltà ma, anche
se inciampava e
cadeva in terra, si rialzava subito e si rimetteva a correre.
“Heiwa!”
la chiamò Saga, con tono
severo.
I bambini
non si erano accorti
del suo arrivo, a differenza degli altri lì presenti che si
erano inchinati.
“Ciao,
papà” salutò la bambina,
salutando con la mano.
“Che
ti sei fatta?” chiese il
padre, vedendo i piccoli graffi che lei si era procurata cadendo.
“Niente.
Sono caduta. Non fa
male”.
“Io
ti avevo proibito di uscire
dalla dimora di Athena. Perché non mi hai
obbedito?”.
“Ma
io…”.
“Tu
non capisci che quel dico, lo
dico per il tuo bene!”.
“Ma
sto bene!”.
“Vieni
subito qui!”.
Heiwa rimase
ferma. Era
spaventata. Suo padre sembrava molto arrabbiato. Il genitore, notando
l’immobilità della figlia, camminò
deciso verso di lei. Nonostante l’alone di luce
della Dea Athena che lo circondava, che doveva trasmettere pace,
incuteva
comunque timore. Prese la bimba per mano e lei protestò.
“Mi
fai male” piagnucolò.
“Vieni
con me” la trascinò.
“Che
cosa stai facendo?” si sentì
chiara la voce di Hike, che a braccia incrociate guardava figlia e
marito.
“Riporto
la nostra bambina a
casa” rispose, schietto, Saga.
“La
nostra bambina è a casa. Le
ho dato io il permesso di giocare con gli altri”.
“Come
sarebbe a dire?!”.
“Qual
è il problema?”.
“E
me lo chiedi?”.
“Qui
è al sicuro. Ed è giusto che
lei cresca assieme ad altri bambini”.
“Lei
non è come loro. Lei è una
Dea”.
“E
con ciò?”.
“Ma…Hike!”.
La Dea non
rispose. Rimase con lo
sguardo fisso ed accigliato rivolto al marito. Saga prese in braccio la
figlia
e la riportò su per le scale, fino alla sua dimora.
“Ma
noi…” si stupì Nàgiri di
quella reazione “Non abbiamo fatto niente di male!”.
“No,
tranquilli” ne accarezzò la
testa Hike “Voi siete stati molto gentili a giocare con lei.
È mio marito che è
un po’ troppo paranoico”.
“Chiedi
scusa ad Heiwa da parte
mia?” continuò Nàgiri “Non
volevo che venisse sgridata. E quello là è il suo
pupazzo”.
“Riferirò.
Ma state tranquilli,
non verrà sgridata. Saga non è cattivo come vuole
sembrare” sorrise Hike,
raccogliendo il giocattolo della figlia e risalendo pure lei le scale.
“Possiamo
venire noi lassù a
giocare con lei?” le gridò dietro ancora
Nàgiri.
“No,
mi spiace. Ma sei davvero un
bambino gentile”.
Quella sera,
come sempre Kydoimos
apparve per riportare a casa i suoi figli.
“Ancora
un po’, papà! Ti prego!”
supplicò Neikos.
I tre amici
si erano messi a
giocare con delle palline colorate e stavano per finire la partita.
“Ve
bene” annuì il padre,
sedendosi su quel che restava di una colonna. Ora che il sole stava
tramontando, si era
tolto la maschera
nera ed attendeva il buio.
“Oggi
si sono proprio divertiti”
informò Deathmask, scendendo le scale alle spalle di
Kydoimos.
“Non
danno fastidio se restano
ancora un po’, vero?” si chiese questi.
“No,
noi qui in Grecia ceniamo
tardi. Specie in estate”.
“Capisco.
Il bambino che gioca
con i miei è tuo figlio, giusto?”.
“Sì.
La mia piccola peste”.
“Se
creano qualche problema,
vorrei saperlo”.
“E
che problemi vuoi che creino?
Sono solo dei mocciosi!”.
“I
nostri mocciosi, Signor
Deathmask. Non so il piccolo Arles, ma Nàgiri e Neikos non
sono affatto dei
piccoli tranquilli. Anzi. La loro curiosità li
metterà nei pasticci, prima o
poi”.
“Non
possiamo proteggerli da
tutto”.
Appena il
sole fu tramontato, e
al tempio scese il buio, l’occhio sinistro di Kydoimos,
quello che con la luce
si faceva sottile, si ingrandì. Lo stessero fecero gli occhi
dei suoi figli.
Deathmask, che si era distratto ad osservare suo figlio che giocava,
quando si
voltò e lo notò trasalì.
“Wow”
commentò, non riuscendo a
dire altro.
Kydoimos non
capì subito a che si
riferisse ma quando lo comprese tentò di coprire il viso.
“Scusa”
disse “Non ti volevo
spaventare”.
“Spaventare?!
Ma che dici!! Io
viaggio nel Meikai fra le anime morte! Non mi spaventa di certo un
occhio!”.
“Oh.
Ok…”.
“È
l’insieme che mi lascia un po’
perplesso. Perché un occhio solo fa così? E
perché il tuo viso è di due colori
diversi? Se sono troppo indiscreto, dimmelo. Puoi anche non
rispondere”.
“Il
Caos mi ha donato questo
corpo. Dovresti chiedere a lui”.
“Non
volevo essere invadente”.
“Potresti
chiederglielo
direttamente. Perché non venite da noi, un
giorno?”.
“Al
palazzo nero?”.
“Sì.
Tu, tua moglie, tuo figlio,
Saga, Ahriman…chi lo desidera”.
“Cena?”.
“Sì.
Sarebbe una buona occasione
per consolidare questa sorta di alleanza”.
“Ne
parlerò agli altri”.
I bambini
continuavano a giocare,
ignorando i richiami dei genitori.
“Non
è tardi, piccoli?” parlò
loro una voce femminile.
Era Ninive,
che la sera amava
uscire dalle dimore vestali, approfittando della pace e del silenzio
del
santuario. I tre la guardarono senza capire. Che voleva? Loro stavano
solo
giocando!
“Chi
è quella donna?” domandò
Kydoimos.
“Una
che non sopporto” arricciò
il naso Deathmask.
“E
come mai?”.
“Per
colpa di quella femmina, un
mio caro amico è morto”.
“Quella
donna è un’assassina?!
Non lo sembra”.
“Invece
lo è. Non lo ha ucciso
fisicamente, ma mentalmente”.
“Non
capisco”.
“Io
sono sempre stato considerato
un assassino, un bastardo, un pezzo di merda e chi più ne ha
più ne metta. Ma
rispetto la donna che amo e farei qualsiasi cosa per la mia famiglia e
per i
miei amici. Così, vedere quella lì giocare con i
sentimenti di una persona che
conosco da una vita, mi ha fatto davvero incazzare”.
“Da
come parli di tua moglie, si
sente che la ami davvero molto. Siete sposati da tanto?”.
“Otto
anni. Io e Saga ci siamo
sposati lo stesso giorno, in una sorta di celebrazione per la pace.
Pochi
giorni dopo la fine della guerra contro Gaia ed il risveglio di
Urano”.
“Ed
il tuo caro amico e quella
donna erano presenti?”.
“Sì.
Lui era il padre di mia
moglie. Arles, il nome che ho dato a mio figlio. In suo ricordo. Ha
accompagnato all’altare la sua bambina, con quella stronza
che non faceva che
ripetergli che lo amava. Sembravano una bella famiglia felice. Arles,
la
bastarda, mia moglie ed Ahriman. Ma di punto in bianco lei ha cambiato
idea. Ed
è tornata a fare ciò che era: la vestale. La
casta e pura, si fa per dire”.
“E
questo ha fatto male al tuo
amico? Tuo suocero, mi pare di capire…”.
“Sì,
il padre di mia moglie. Ma
prima di tutto io lo vedo come un amico. E sì, lo ha fatto
star male. Prova ad
immaginare: la donna che ami continua a dirti che starete assieme per
sempre e
che ti vuole bene e poi di colpo cambia idea per tornare con le sue
amichette
lesbiche”.
“Le
vestali sono lesbiche?”.
“Non
lo so. Ma non la danno,
quindi per me sono lesbiche”.
“Che
lo sia pure quella donna?”.
“Non
lo so. Ma quando le ho
chiesto perché lo avesse lasciato, lei ha risposto che aveva
sentito non essere
quella la sua strada ma che la Dea Vesta l’aveva chiamata e
cose del genere”.
“Una
religiosa”.
“Una
pazza. Ed una bugiarda!
Arles la amava, come non aveva mai amato nessun’altra. E
pensava che per lei
fosse lo stesso. Ma dopo i matrimoni l’ho visto quasi
smarrito. Ninive, quella
donna, è uscita dalla sua vita e lui penso si sia sentito
piuttosto
abbandonato. Il figlio si è rintanato nel suo palazzo. Io e
mia moglie
pensavamo a noi, lo ammettiamo. Saga anche ha iniziato una nuova vita
con
Hestia. Tutto l’insieme, il fatto forse di non sapere bene
dove inserirsi nel
mondo, il sentirsi inutile o che ne so
io…insomma…tutto questo lo ha portato a
non reagire davanti all’ultimo nemico. Si è fatto
uccidere, senza reagire”.
“Io
non conosco questo tuo amico,
non l’ho conosciuto, ma forse era stanco di combattere. Siete
guerrieri da
sempre, no? Forse ha cercato qualcos’altro e non ci
è riuscito”.
“Già.
Può essere. Sta di fatto
che sia io che mia moglie che Saga, gli altri non so, ci sentiamo in
colpa a
volte. Ma credo che se Ninive non se ne fosse andata di colpo, non
sarebbe
andata così”.
“Inutile
pensarci, non trovi?”.
“Non
ha mai visto suo nipote. E
Ninive ignora mio figlio come se non avesse alcun legame parentale con
lui”.
“Credo
che ognuno cerchi la
propria felicità. E tutti siamo egoisti, perciò
la nostra felicità conta più
degli altri. Se fare del male a qualcuno ci aiuta a raggiungere il
nostro
obbiettivo, non ci facciamo molti problemi. Tanti buoni propositi, ma,
sotto
sotto, siamo tutti uguali”.
“Hai
ragione. L’umanità fa
schifo”.
“Nàgiri!
È tardi! Adesso
andiamo!” gridò Kydoimos, iniziando a sentirsi
strano. Ora che era
ufficialmente figlio del Caos, il blocco che affliggeva i suoi
discendenti gli
impediva di stare a lungo lontano dal palazzo nero.
Nàgiri
e la sorella obbedirono,
di malavoglia.
“Guarda
cosa mi ha regalato!”
disse la bimba, mostrando due palline di gomma.
“Anche
a me!” si unì Nàgiri.
“Ma
no, non potete portare via i
giochi al vostro amico!” li sgridò il padre.
“Ne
ho tante” lo rassicurò Arles
II “Possono prenderle”.
“Allora
la prossima volta porterete
voi un regalo a questo bambino, ok?” annuì
Kydoimos “E spero abbiate
ringraziato”.
“Grazie,
Ary, per le palline”
sorrise Nàgiri.
“Grazie”
si aggiunse Neikos.
“Spero
di vedervi presto al
palazzo nero” si congedò Kydoimos, con un sorriso.
“Ne
sarei onorato. Un palazzo
tutto oscuro mi incuriosisce parecchio” ghignò
Deathmask.
“Nobile
Deathmask” chiamò una
guardia, nel buio “Il sommo Aiolos ed il divino Saga vi
vogliono parlare”.
“Bene”
rispose il cavaliere
d’oro, un po’ stupito. Era da tempo, che non veniva
convocato. La guardia,
inginocchiata, si rialzò e, con un inchino, si
congedò.
Salendo le
scale, il cancro si
chiese che cosa potessero mai volere i due a capo del santuario. Aveva
forse
commesso qualche errore? No, era certo di non aver commesso troppe
cazzate
ultimamente. Giunto davanti alla porta della tredicesima casa,
notò Milo
davanti alla porta.
“Dai,
muoviti” lo apostrofò lo
scorpione “È da un secolo che ti
aspetto”.
“Potevi
entrare senza di me!” si
stizzì Deathmask “E poi io ho più piani
di te da fare”.
“Ma
lo so, granchio dal culo
pesante!” ridacchiò Milo.
“Artropode
perverso!” ribatté,
sempre ridendo, il cancro.
Entrarono
insieme nella
tredicesima casa, dimora del gran sacerdote Aiolos. Oltre la tenda, nel
tempio
più in altro, stava Saga. Che però in quel
momento si trovava alla tredicesima
in attesa dei due cavalieri.
“Scusa
il ritardo, Saga. È
Deathmask che è sempre lento!” parlò
subito Milo, dando una spintarella al
cancro oro.
“Ma
che minchia vuoi?” fu la
risposta di Deathmask.
“Siete
sempre gli stessi” sorrise
Saga, divertito “Più passano gli anni, e
più fate i bambini”.
“Sì,
è vero” ammise Milo.
“Ho
una missione per voi” riprese
a parlare Saga, mentre Aiolos stava alle sue spalle, in silenzio.
Fra le mani
stringeva una busta,
che porse a Deathmask, visto che Milo era impegnato a fissare una
farfalla.
Death aprì la busta e storse il naso.
“Ma
che cazzo c’è scritto qua
sopra? Zampe di gallina!” restituì il foglio il
cavaliere.
“Sei
tu che non capisci mai
niente, dai qua!” esclamò Milo, non ammettendo di
essere pure lui in
difficoltà.
“Quello
è un indirizzo” spiegò
Saga, mentre Aiolos fissava con rimprovero i due oro perché
dopotutto si
trovavano sempre di fronte alla Dea Athena.
“Indirizzo
di che?” domandò lo
scorpione, non lasciando spiegare.
“Mi
sono giunte delle voci.
Vorrei andaste a controllare che accade” rispose Saga.
“Sarà
fatto! Andiamo, crostaceo!”
si avviò Milo, e Deathmask lo seguì lentamente.
“Ma
perché ci manda in missione a
quest’ora? È buio, non potevamo andare
domani?” sbadigliò il cancro, lungo le
vie di Atene notturna.
“Si
vede che era urgente” alzò le
spalle lo scorpione.
“Sì,
urgente…come no!
Urgentissimo girellare per Atene”.
“Dai,
è un modo alternativo di
passare la serata. Vedila così”.
L’indirizzo
pareva indicare un
vecchio edificio dai vetri oscurati. All’ingresso, due grossi
omaccioni
dall’aria perfida controllavano l’ingresso.
“Salve”
salutò Deathmask, con
fare sicuro “È qui la festa?”.
“Avete
l’invito?” rispose uno
degli uomini, senza cambiare espressione.
“No
ma dico…ci hai visti? Due
uomini così, ma dove altro li trovi? Dai, facci
passare” ghignò Milo, mettendo
le braccia attorno al collo di Death.
“Fateli
entrare” ordinò una voce
di donna, dall’interno.
Una volta
varcata la soglia,
entrambi spalancarono gli occhi. Era un night con splendide ragazze che
si
esibivano.
“Ma…Death…vedi
quello che vedo
io? Questo è…”.
“Il
paradiso”.
“Non
esagerare!”.
“Donne
seminude chiuse in gabbia
che ballano? Non so come altro definirlo!”.
“Oh
grande Saga, non dubiterò mai
più di te! Grazie infinite per questo dono!”.
“Giuro…da
oggi può chiedermi
qualsiasi cosa! Anche di limonarlo, non mi frega! Limonerei con il Dio
migliore
della storia”.
“Femmine!
Finalmente femmine! Che
non ti picchiano se le guardi troppo!”.
Si fecero
spazio fra gli uomini
stretti attorno al palco. In alto, due grandi gabbie argento
contenevano
ciascuna una donna. I due cavalieri, senza armatura, si confondevano
fra la
folla. La musica era alta e gli occhi tutti puntati sulle gabbie. Poi
qualcosa
cambiò. Le ragazze imprigionate si fermarono ed il palco si
illuminò. Tre donne,
in splendi abiti con gli spacchi nei punti giusti, apparvero. Quella al
centro
iniziò a cantare, con voce soave che incantò i
presenti. Le altre due si misero
a ballare. Erano agili, delicate e bellissime. Il loro sguardo
magnetico e le
loro forme piacquero molto ai clienti del locale, che parevano
conoscerle bene
perché gridavano i loro nomi.
“Ti
va una birra, Milo?” chiese
Deathmask, al termine dell’esibizione ed alla ripresa dei
balli nelle gabbie.
“E
me lo chiedi?” sorrise lo
scorpione “E comunque giuro che non parlo di questo a tua
moglie”.
“Sono
in missione, no?” rise il
cancro, raggiungendo il bancone del bar.
Sedettero e
gli venne servita la
birra. Il barista, così come tutte le altre persone al
lavoro in quel luogo ad
eccezione delle ragazze che si esibivano, era un uomo.
“Lady
Shuna vuole parlare con
voi” si sentirono dire i due cavalieri e vennero accompagnati
in una sorta di
saletta privata dove la cantante di prima li attendeva.
“Stai
all’erta” si dissero a
vicenda, vedendola.
Era bella,
quasi troppo bella,
stesa su un divano di velluto, accanto al quale stava un cesto di
frutta
fresca. Stava mangiando dell’uva, spicchio dopo spicchio, con
voluttuosa
sensualità.
“Benvenuti,
cavalieri” salutò
“Venite pure avanti”.
Rimasti solo
in tre, gli uomini
non sapevano bene che fare. Come sapeva quella donna che erano
cavalieri?
“Rilassatevi!”
sorrise la donna
“Gradite un po’ di vino?”.
Ne
versò un po’ in due coppe e
l’offri, invitando i due a sedersi.
“Non
abbiate paura” continuò,
scuotendo la cascata di capelli aranciati “Non vi
farò del male. Vi aspettavamo
da un po’. Sospettavamo che il tempio ci avrebbe mandato a
controllare”.
“Ma
voi chi siete?” domandò Milo,
tracannando il vino.
“Abitiamo
il palazzo nero, ma non
siamo vincolati dal blocco che condanna i suoi antichi
signori”.
“Il
palazzo nero? Intendete
quello del Caos?” si chiese Deathmask.
“Sì.
Qualcuno deve pur portare il
cibo in tavola, no?” mormorò la donna.
“Mi
volete dire che voi donne
lavorate per mantenere chi occupa il palazzo?” si
stupì Milo.
“Non
esattamente. All’inizio,
Gaia provvedeva al nostro sostentamento perché era lei a
generare il cibo. Poi,
quando è stata sigillata,
il Caos ha
iniziato a mandarci a raccogliere frutta e ortaggi in territori a lui
noti, e
di sua proprietà. Rivendendo quelli in eccesso, compravamo
altro cibo come
carne, latte o uova. Oppure tessuti ed altri materiali utili. Noi non
siamo
creature del Caos, siamo umani come voi”.
“E
perché vivete in quel
palazzo?” continuò a chiedere lo scorpione.
“Per
varie ragioni, abbiamo
rinunciato alla vita terrena per abbracciare la protezione di
Caos”.
“Protezione?!”.
“Non
ci fa mancare nulla.
Ultimamente ha preso a palazzo delle piante ed è riuscito a
modificarle
leggermente, in modo da farle vivere e fruttare al buio. Ma ovviamente
c’è
bisogno di molto in una casa. E, visto che lui e gli altri
Dèi in quel luogo
non possono creare dal nulla qualcosa, ci arrangiamo così.
È un lavoro
rispettabile. Inoltre, noi siamo gli unici in quella dimora che
possiamo
allontanarci a lungo senza morire o soffrire a causa del
blocco”.
“Capisco”
annuì, poco convinto,
il cavaliere.
“Inoltre”
riprese la donna “Così
posso comprare un sacco di cose belle a me ed alla mia famiglia. Non
faccio la
puttana. Canto e mi esibisco. E chi mi tocca è morto. Mio
marito è un uomo
senza pietà alcuna sotto certi aspetti”.
Milo e
Deathmask si fissarono un
po’ titubanti.
“Ma
se volete una donna, ce ne
sono. Quante ne volete. Oltre le cinque che avete visto”
sorrise ancora lei.
“Io
sono sposato. Mi sfogherò
stanotte con la mia signora” ghignò Deathmask.
“Se
non ci sono effetti
collaterali…” titubò un po’
Milo “…io invece accetterei. Mi annoio”.
“Nessun
effetto collaterale,
cavaliere. E in quanto al grande tempio…vorrei che riferiste
che stiamo solo
svolgendo una normale attività lavorativa. Non uccidiamo
nessuno, non plagiamo
le menti, non offriamo sacrifici di sangue al sommo Caos. Solo un
locale per
far divertire la gente”.
“Riferiremo
personalmente a Saga”
disse il cavaliere del cancro.
“Perfetto.
E ora scusatemi, il
pubblico attende”.