VII
FRATELLI
Thanatos
suonava una melodia
triste. La sua casa, non molto lontana dall’ingresso per i
campi elisi, come
sempre era silenziosa. Ma non suonava per sé.
Un’anima lo stava fissando,
felice.
“Ti
piace?” domandò il Dio e
l’anima annuì.
“Bene.
Mi fa piacere” sorrise a
sua volta Thanatos “Almeno tu puoi ascoltare questa musica.
Chiunque altro
morirebbe ma tu…sei già morto!”.
L’anima
non disse nulla. Inclinò
la testa leggermente, con la speranza che la divinità
riprendesse a suonare.
Era incompleta, senza buona parte del lato destro.
“Devo
riuscire a trovarti una
sistemazione” parlò Thanatos “Conciato
come sei, non posso farti entrare in
nessun settore del regno dei morti e questo lo sai. Il problema
è che non so
come completarti. Non mi è mai capitata una cosa del genere
in millenni di
servizio”.
L’anima
lo fissò, come a voler
dire “le so queste cose, suona ancora”.
“Insomma…non
trovo giusto che tu
rimanga bloccato qui. Però non trovo altra
soluzione” insistette il Dio.
L’anima
gli sorrise e ruotò,
volteggiando a mezz’aria nella sua luce azzurrina.
“Stai
cercando di dirmi che tu
sei felice anche così?” parve stupito Thanatos e
vide il suo interlocutore
annuire.
“In
vita sei stato un grande
guerriero, ed ora sei imprigionato qui, a sentirmi strimpellare. Ma ti
piace
sul serio? Mi prendi per il culo?”.
Il Dio vide
ridacchiare l’anima
dell’uomo.
“Sei
strano” concluse la divinità
e ricominciò a suonare.
L’anima
socchiuse il suo unico
occhio e si lasciò cullare dalle note. Gli venivano in mente
tanti ricordi,
anche se erano sempre più annebbiati. Sapeva bene che le
anime più passava il
tempo e più dimenticavano. Solo nei campi elisi si poteva
godere della felicità
eterna con le divinità. Altrove, le essenze perdevano sempre
più i tratti
fisici di chi le ospitava fino a divenire di nuovo pure e in grado di
albergare
in un nuovo corpo, una nuova vita. Però
quell’anima era incompleta, non poteva
essere accolta in nessun nuovo corpo e nemmeno riposare in pace in
qualche
luogo dell’oltretomba. Ma la cosa non la rattristava. Era
un’anima tranquilla,
forse l’unica in grado di vivere a fianco del Dio della
morte. Thanatos, del
resto, non si infastidiva di certo all’idea di avere un
po’ di compagnia ogni
tanto. Tolto suo fratello Hypnos, non era il tipo che riceveva visite.
Dopo aver
suonato un po’, il Dio
si alzò e depose la sua cetra. Si diresse verso la grande
parete piena di
libri, in cerca di un passatempo diverso. Quando sì
voltò di nuovo verso il suo
strumento, vide che l’anima lo osservava con
curiosità. Con l’unico braccio, ne
pizzicava le corde.
“Così
ridotto, non la puoi
suonare bene” disse, con dispiacere, Thanatos “Ma
posso reggerla io” aggiunse,
dopo aver riflettuto un po’.
Poggiò
sul tavolino il grosso
volume e poi tornò a sedersi sul trono da megalomane che
aveva in casa.
“Siedi
accanto a me” invitò
l’anima, che obbedì.
Era vero,
era l’anima di un
grande guerriero. Ma accarezzare quelle corde, come gli insegnava il
Dio della
morte, gli donava uno strano senso di pace. Forse perché
quella era la melodia
che accompagnava i morti verso il sonno eterno, verso
l’oblio.
“Adesso
basta, devo lavorare pure
io” interruppe di colpo Thanatos.
L’anima
non disse nulla. Osservò
il Dio allontanarsi e rimase in quella casa senza
nessun’altro. Era una cosa
che capitava spesso. Fluttuò a mezz’aria per un
po’, poi tornò nell’angolino
dove stava solitamente e chiuse di nuovo l’unico occhio.
“Che
scemo che sei!” rise lei.
“Dai,
Pasitea, vieni qui a farmi
compagnia!” rispondeva Hypnos, steso sull’erba sei
campi elisi.
“Sei
sempre il solito” scosse la
testa la donna.
“E
ci mancherebbe solo che
cambiassi dopo migliaia di anni, donna” ghignò lui.
Lei gli si
stese a fianco,
abbracciandolo. Il profumo dei fiori la avvolse. Da millenni viveva in
quel
luogo, ma non smetteva mai di adorarlo e ammirarlo. Così
come non smetteva mai
di adorare ed ammirare l’uomo che amava.
“E
che ho detto di male?” riprese
il Dio dei sogni e del sonno “Ti ho solo chiesto se ti va di
avere un altro
figlio. Ne abbiamo tanti, che differenza fa?”.
“Mettilo
al mondo tu, allora!”.
“E
come?!”.
“Sei
un Dio! Pensaci!”.
“Spiritosona”.
“Però…”
disse lei, dopo un po’,
guardandolo negli occhi “…potrei anche
ripensarci” e lo baciò, stendendosi
accanto a lui.
“Hypnos!”
tuonò una voce.
Il Dio dei
sogni sobbalzò e
guardò in su. Hades lo stava fissando, avvolto nella sua
veste nera.
“Signor
Hades” mormorò Pasitea.
“Qualcosa
non va?” domandò invece
Hypnos, rimanendo rilassato sull’erba.
“Cerco
tuo fratello Thanatos. Lo
hai visto?” furono le parole di Hades.
“Non
di recente. Ultimamente non
passa molto tempo ai campi elisi. Ha combinato qualche
casino?”.
“No.
Ho una missione da
affidargli”.
“Qualcosa
di divertente?” si mise
a sedere Hypnos.
“Per
niente. Ma è un ordine che
viene dall’alto e quindi non posso far altro che riferire e
lasciar fare”.
“Un
ordine che viene dall’alto?”.
Il Dio del
sonno si stupì di
quelle parole. Un ordine dall’alto? Solitamente chi stava al
di sopra di Hades
sbrigava da solo i suoi problemi, non andava a cercare il Dio della
morte!
“Quando
lo vedrò, gli dirò che lo
avete cercato, Signor Hades” parlò poi.
“Ti
ringrazio, Hypnos. Tanto sa
dove trovarmi”.
Il Dio
dell’oltretomba si
allontanò, lentamente. E Hypnos rimase solo qualche istante
a ripensare alle
parole del suo capo. Pasitea era qualcosa di ben più
interessante.
Thanatos
sapeva quando il gemello
lo cercava. Erano strettamente legati fra loro e quindi si
presentò ai campi
Elisi appena poté. Raggiunse la dimora del gemello senza
fretta, osservando le
sue colonne bianche senza troppo entusiasmo. Lì
trovò Pasitea alle prese con
l’ultimo dei suoi figli che era poco più di un
neonato. La donna riconobbe il
cognato, vedendone l’armatura scintillante da lontano.
“Ciao,
Thanatos” lo salutò
“Hypnos è in casa. Se vuoi vado a
chiamarlo”.
“Sì,
magari” quasi sbottò il Dio.
Lei, di
tutta risposta, lasciò il
suo bambino in mano alla divinità ed entrò in
casa.
“Hei!”
protestò Thanatos, ma la
donna ormai era già entrata e non lo sentiva.
L’uomo
fissò un po’ male il
piccolo, che teneva per la vita, stretto fra due mani. Con le braccia
ben tese.
Il piccino allungò le manine, ridacchiando.
“Stai
fermo!” gli ordinò il Dio
ma non venne ascoltato.
“Ma
che fai? Non è mica una
bomba!” lo sfotté il gemello, comparendo e
raggiungendo il gemello.
Senza
armatura, si affrettò a
recuperare suo figlio, scuotendo la testa divertito.
“Che
cosa ti serve? Perché mi
cercavi?” riprese Thanatos.
“Hades
ti voleva vedere”.
“E
per cosa?”.
“Mi
ha parlato di una missione
per te”.
“Ah,
ok. Niente di nuovo”.
“Veramente…ha
parlato di una
missione che viene dall’alto”.
“In
che senso?”.
“Non
ne ho idea. Non ha detto
molto”.
“E
va bene. Lo raggiungo e mi
faccio spiegare”.
“Sembrava
essere una cosa
urgente”.
“Ho
capito. Ma io ho un compito
serio, non sto a casa a trullallare e riprodurmi come te!”.
“Sei
crudele! E geloso”.
“Crudele
quanto vuoi. Geloso non
direi proprio. Anche se ammetto che preferirei essere invocato per
poter
dormire o fare un bel sogno piuttosto che maledetto perché
porto via anime”.
“Prenditi
una vacanza”.
“Quanto
sei spiritoso!”.
“E
dai, non ti offendere!”.
“Sono
nervoso ultimamente”.
“L’ho
notato. E non ne capisco il
motivo”.
“Non
lo so nemmeno io. Forse
sento qualcosa nell’aria…”.
“Signor
Kydoimos!” bussò una
delle serve del palazzo nero.
Il nuovo
figlio del Caos, pur
avendo molte donne, dormiva solo. Ognuno aveva la propria stanza in
quella
casa.
“Signor
Kydoimos?” insistette la
voce fuori dalla porta.
“Vieni
dentro” borbottò l’appena
svegliato.
La donna
entrò. Lentamente,
Kydoimos scivolò fuori dal letto, lasciando che le lenzuola
gli accarezzassero
la pelle nuda. La serva sobbalzò e distolse lo sguardo,
imbarazzata.
“Che
hai? Mai visto un…” spalancò
le braccia lui.
“No”
si affrettò a dire lei,
prima che Kydoimos terminasse la frase.
“Sarebbe
una cosa a cui
rimediare, un giorno di questi” sorrise lui.
“Io…”
mormorò lei, arrossendo
ancora di più.
“Grazie
di avermi svegliato. È
davvero tardi”.
“Ah…sì…vi
ho portato la veste che
la signora Desa ha appena terminato. Per Voi” si
inchinò leggermente la donna,
porgendo un abito scuro all’uomo.
“Grazie.
Ora puoi andare”.
La serva
uscì, ancora
imbarazzata, non sapendo da quale parte guardare. Kydoimos si
preparò e si
vestì lentamente. Il buio costante di quel mondo non rendeva
facile accorgersi
dello scorrere del tempo. Uscì dalla sua stanza e si
incamminò lungo il
corridoio. Salutò tutti coloro che incrociò lungo
il cammino. Era di buon umore
e si sentiva tranquillo, perciò non si allarmò
quando si sentì prendere per un
braccio. Tartaros, il più grosso dei figli del Caos, lo
afferrò e lo sbatté
contro il muro. Con il viso contro la parete, Kydoimos
protestò ma Tartaros gli
tappò la bocca.
“Tu
non mi inganni” gli sibilò,
con tono decisamente minaccioso “Tu non sei e non sarai mai
mio fratello,
chiaro?”.
“Non
sono io che voglio esserlo”
protestò Kydoimos, cercando di liberarsi.
“Io
so perché ti comporti così.
Tu non sei fedele a mio padre, sai solo che non sopravvivresti un solo
giorno
lontano dal Caos. Con questo corpo che ti ritrovi, ovunque al di fuori
di qui
non potresti stare, se non con il consenso di chi ti ha donato la parte
che ti
manca. Senza il consenso di mio padre, tu non sei niente. Moriresti in
pochi
secondi”.
“Io
sono grato al Caos e lo
servo. Non so perché mi consideri suo figlio, ma io non
tradirei mai il sommo
signore di questa casa”.
“Cazzate.
Lo fai solo per
tornaconto personale. Non so fino a che punto vuoi arrivare, che cosa
vuoi
ottenere, ma sappi che io ti tengo d’occhio e sono pronto ad
affrontarti in
qualsiasi momento. Sei solo un moscerino che papà tiene qui
per far riprodurre”.
“Lasciami!”
si agitò Kydoimos e
Tartaros ringhiò.
Con un gesto
rapido, piantò nella
schiena e la spalla del nuovo fratello gli artigli, lo
graffiò. Kydoimos
strinse i denti per non gridare. Non voleva mostrarsi debole.
“E
adesso non correre a piangere
dalla mammina, partorito” lo schernì Tartaros,
lasciandolo andare.
Kydoimos non
sapeva cosa dire.
Non ricordava sua madre, non ricordava un solo giorno vissuto prima di
entrare
in quel palazzo. Gemette, sentendo la schiena bruciare, e si
allontanò, senza
parlare.
Thanatos
raggiunse il palazzo di Hades
quasi con noia. Migliaia di anni, migliaia di volte sempre la stessa
strada e
la stessa storia. Iniziava davvero a stufarsi. Gli specter si
inchinarono e si
scansarono al suo passaggio. Lui camminò senza nemmeno farci
caso e si ritrovò
al cospetto del signore dell’oltretomba.
“Vieni
avanti, Thanatos. Chiudi
la porta” ordinò Hades e il Dio della morte si
stupì.
Di solito
Hades non si faceva
problemi a lanciare ordini a destra e sinistra senza curarsi di chi
potesse
essere all’ascolto. Amava dimostrare che lui, Dio della
“generazione di Zeus”,
comandava una divinità addirittura precedente
all’Era dei Titani. Ma quel
giorno era diverso.
“Che
succede, Signore?” domandò
Thanatos.
“Ho
qui una missione per te”
rispose Hades, stranamente alzandosi dal suo trono e scendendo le scale
che vi
stavano davanti, scansando le tende.
Fra le mani
stringeva una busta,
che porse al Dio della morte.
“Di
che si tratta?”.
“Il
mio compito è solo fare da
messaggero in questo caso. Visto da chi proviene l’ordine,
è ovvio che pretendo
massima discrezione. Spero sia chiaro”.
“Chiaro”.
Thanatos non
capì finché non aprì
il sigillo e lesse la sua missione. Hades ora gli dava le spalle.
“Ma…Signore…”
iniziò a dire
Thanatos.
“Io
sono solo il messaggero. Va e
compi il tuo dovere. Ricorda la discrezione”.
“Sì…”.
Kanon
sbadigliò. Il mondo
sottomarino che governava gli piaceva ma in quel momento non offriva
molti
stimoli.
“Ti
annoi, marito mio?” sorrise
sua moglie, raggiungendolo lungo il corridoio.
Le vesti dai
colori del mare di
entrambi si trascinavano sul pavimento ed i loro passi venivano
accompagnati
dal rumore secco che produceva il tridente quando toccava il pavimento
lucido.
Kanon lo stringeva con orgoglio.
“Un
pochino sì” ammise lui.
“Sei
il Dio del mare e non trovi
un modo per intrattenerti?”.
“Tu
che proponi?”.
“Perché
non vai a trovare tuo
fratello?”.
“Saga,
dici?”.
“Hai
forse altri fratelli?”.
Kanon si
fermò e sospirò. Fissò
il suo tridente ed il suo sguardo si fece malinconico.
“No,
non ho altri fratelli”
rispose, dopo un po’ “Ma lui non mi considera
tale”.
“Ma
che dici?!”.
“Lui
considera Arles un fratello.
Non fa che rimpiangerlo”.
“Arles
era parte di Saga. È
normale che lo consideri importante”.
“Ma
io sono il suo unico
fratello! Pare se lo sia dimenticato”.
“E
allora tu ricordaglielo. Passa
più tempo con lui”.
“Lui
di certo ha altro da fare.
Come del resto ho da fare io”.
Kanon
riprese il suo cammino a
passo svelto. Il regno del mare aveva bisogno di essere governato.
Il sole
bruciava al tempio di
Grecia, nonostante ormai fosse autunno. I cavalieri attendevano la
penombra e
la frescura della sera. Deathmask, però, percepì
un cosmo familiare e si
allontanò dalla sua casa alle prime ore del pomeriggio. Non
gli importava il
sole cocente e l’afa. Raggiunse quel cosmo e chi lo
possedeva, che gli dava le
spalle, distratto dal panorama.
“Ma
guarda un po’ chi è
riapparso!” ridacchiò Deathmask “Shura!
Vecchio caprone spagnolo! È questo il
modo di sparire?! Manco una cartolina”.
“Ciao,
crostaceo” salutò Shura.
“In
abiti civili fai schifo”.
“E
tu sei troppo vecchio per
quell’armatura”.
“Sì,
mi sei mancato”.
“Certo,
anche tu!”.
Si
salutarono con una poderosa
stretta di mano e una botta “spalla contro spalla”.
“Dai,
gambero, togli
quell’armatura e vieni con me in città. Ti offro
una birra e ti faccio
conoscere la mia donna ed i miei due capretti” propose Shura.
“E
perché non l’hai portata
qui?”.
“Non
mi piace l’idea che mia
moglie venga a sapere certe cose”.
“Non
le hai detti chi sei?!”.
“No
e non intendo dirglielo.
Perciò, dai, togli quella cosa oro e vieni con me”.
“E
io? Non merito nemmeno un
saluto?” parlò una voce.
Girandosi, i
due uomini videro
Aphrodite, cavaliere dei pesci, che aveva percepito il cosmo
dell’amico ed era
sceso dalla dodicesima casa.
“Il
mio pesciolino preferito!
Come non salutarti! Sei come un fratello per me!” sorrise
Shura e Aphrodite lo
abbracciò.
“Vieni
anche tu a bere con noi,
Aphro” lo invitò il cancro ma il cavaliere scosse
la testa.
“Andate
e bevete anche per me”
rispose “Fa troppo caldo per i miei gusti. Meglio me ne torni
a casa”.
“Stai
bene?” si preoccupò il
capricorno “Mi sembri un po’ pallido. Ma forse mi
sbaglio”.
“Questo,
mio caro Shura, è il mio
colore da svedese. Tu ti sei abbronzato in Spagna, io preferisco
mantenermi
candido come la più letale delle mie rose”.
“Peccato,
però. Volevo farti
conoscere mia moglie”.
“Scherzi?
E se poi sono geloso?”.
Aphrodite
sorrise e fece
l’occhiolino. Con un inchino, si congedò e
tornò alla sua casa.
“E
gli altri? Come stanno?”
domandò Shura, una volta che lui ed il cancro furono soli.
“Immagino
bene. Molti di loro non
li vedo da tempo”.
“Saga?”.
“Quello
non esce quasi mai dalla
sua casa”.
“Non
si è ancora ripreso dalla
faccenda di Arles?”.
“Temo
di no. Altri sono andati
via oppure fanno gli asociali. Aphrodite non lo si vedeva da un bel
po’. È uscito
solo per te, dovresti esserne felice”.
“Lo
sono. E tu? A te come va?”.
“Mi
annoio”.
“Ma
come ti annoi? Non dirmi che
ti mancano le guerre, i combattimenti e gli spargimenti di
sangue!”.
“Non
farmi eccitare”.
“Scherzi?!”.
“No!
A che servo se non posso combattere?
Tanto vale che mi metta in ciabatte e guardare la tv, mettendo su chili
mangiando schifezze!”.
“Non
è male come idea”.
“Non
scherzare, Shura!”.
“Basta
discutere. Andiamo al bar,
che ho bisogno di aria condizionata”.
L’abito
scuro di Shura non era
proprio il più adatto per quelle temperature ed il
capricorno iniziava ad
acquisire un colorito rossastro in viso.
“Vado
a prendere la famiglia ed
arrivo, amico mio. Ci metto un attimo” disse il cancro,
allontanandosi per
chiamare moglie e figlio.
Thanatos
tornò alla sua casa.
Fluttuando come sempre, lasciò che l’armatura lo
abbandonasse e si rilassò sul
divano. Ribaltò la testa all’indietro, sospirando,
e chiuse gli occhi argento.
Quando li riaprì, l’anima incompleta lo fissava.
“Stasera
non suono, mio caro”
parlò il Dio “Vai a farti un giro”.
L’anima
inclinò la testa.
Incuriosita dalla busta che Thanatos aveva poggiato al tavolino, si
avvicino
con l’intento di prenderla. Subito però il Dio
scattò e la ricacciò indietro in
malo modo. L’anima non capì il perché
di quel gesto e fissò Thanatos con il suo
unico occhio.
“Scusami”
disse la divinità “Ma è
una missione che mi hanno affidato ed è segreta, nessuno ne
deve sapere
qualcosa”.
L’anima
si indicò.
“No,
nemmeno tu! Anima curiosa!
Anche da vivo eri così impiccione?!”.
Il morto si
accoccolò in terra.
In un angolino, stava costruendo un puzzle. Glielo aveva portato per
scherzo
Thanatos dicendo “hai l’eternità
davanti, ora saprai che fare”.
“Ma…lo
stai facendo davvero?” si
stupì il Dio.
L’anima
non rispose e la divinità
gli si sedette accanto. Era un passatempo che non aveva mai preso in
considerazione.
“E
da quando ti piacciono ‘ste
cose?” domandò ancora Thanatos e l’anima
fece una smorfia dubbiosa.
Insieme,
incastrarono qualche
pezzo. Il disegno cominciava a mostrarsi, era un’architettura
gotica.
“Mi
fa bene distrarmi un po’. La
missione che devo compiere non mi piace per niente” e
l’anima rispose alla
divinità con uno sguardo interrogativo.
“Non
chiedermi perché lo faccio.
Sono ordini, mio caro” si stizzì Thanatos
“E gli ordini vanno eseguiti. Specie
se provengono da certi individui”.
Il morto
inclinò la testa.
“No,
non Hades!” parve capirlo il
Dio “Quel poppante non potrebbe mai ordinarmi
un’assurdità simile e pretendere
che obbedisca, cazzo! Qualcuno più in alto, che non ti posso
dire, mi ha dato
un ordine di merda che ovviamente io devo eseguire, che tanto sono io
quello
che si prende la colpa mentre lui non muove un dito. È
sempre così. E mi ha
dato pure la data precisa, come un appuntamento! Che lavoro ingrato che
ho…”.
L’anima
ascoltò e mosse un grosso
pezzo di puzzle, unendolo a quello appena fatto da Thanatos. Sorrise.
“Non
sei più te stesso” mormorò
la divinità “Un tempo non avresti mai tentato di
consolarmi, ma mi avresti
detto che sono un piagnucolone e che se una cosa non la voglio fare non
la devo
fare e basta, ignorando gli ordini. E probabilmente mi avresti pure
dato del
cazzone idiota. Io mi sarei incazzato e ci saremmo azzuffati. Tu
saresti stato
sconfitto ma non avresti perso una sola goccia di spavalderia. Ora,
invece,
sembri quasi un bambino. Forse tenti di tornare ad uno stato
più puro, per
poter avere un nuovo corpo. Ma finché sei incompleto, amico
mio, questo non
accadrà. Mi spiace”.
L’anima
come sempre non parlò.
Anche se avesse potuto, non avrebbe saputo che dire.
Kydoimos
lavorava tranquillo.
Nella stanza buia, stava creando due nuove sedie grazie al legno che si
procuravano nel mondo illuminato dal sole. La famiglia si allargava, ed
era
bene creare posti a sufficienza per tutti.
“Ottimo.
Sta venendo davvero
bene” commentò il Caos, entrando nella stanza.
“Grazie,
Signore” rispose
Kydoimos.
“Non
chiamarmi così! Sono tuo
padre, te lo sei già dimenticato?”.
“Non
lo dimentico…padre”.
“Così
va meglio!”.
Il padrone
di casa prese fra le
mani una delle sedie e l’osservo attentamente.
“Sei
migliorato in fretta, bravo”
commentò, poggiando una mano sulla spalla di Kydoimos, che
sobbalzò per il
dolore.
Quello era
il punto in cui
Tartaros lo aveva ferito. Il Caos ritrasse subito la mano e si
allarmò.
“Cosa
succede?” domandò.
“Niente”
mentì Kydoimos.
“Come
sarebbe a dire?! Ho visto
la faccia che hai fatto. Mostrami!”.
“Non
è niente”.
“La
tua veste stracciata non
mente!”.
Il Caos
scostò i capelli e la
stoffa, che Kydoimos aveva risistemato alla bene e meglio con lacci e
nastri,
riuscendo a vedere la profonda ferita.
“Chi
è stato?” sbraitò e Kydoimos
non rispose.
“Parla!”
insistette il Caos
“Dimmi chi ha osato farti questo”.
“Non
è niente” si sentì
rispondere ancora e questo lo fece infuriare ancora di più.
Chiamò
in quella stanza tutti i
suoi figli. Erebo, Nyx e Tartaros accorsero allarmati. Non era un buon
segno
quando il padre si incazzava.
“Chi
ha alzato le mani su
Kydoimos?” urlò.
“Che
è successo? È ferito?” si
preoccupò Nyx, cercando di scorgerlo dietro la sagoma del
Caos.
“Non
fate i finti innocenti. Io so
quando mentite” si accigliò il padrone del palazzo
nero.
“Ma
potrebbe anche essere stato
qualcun altro oltre a noi tre” azzardò Erebo.
“Certo,
potrebbe. Ma sono tutti
vostri diretti sottoposti o discendenti e quindi è vostro
compito evitare che
facciano cazzate come queste!”.
“Non
mi sembra ferito gravemente”
furono le parole di Tartaros.
“Non
me lo dovete rovinare, sono
stato chiaro? È prezioso e delicato”.
“Non
è mica un giocattolo!”
protestò sempre Tartaros.
“No,
non è un giocattolo. È un
gioiello. Il mio gioiello. E se scopro chi ha osato alzare le mani su
di lui,
giuro che patirà le pene più indescrivibili ed
inimmaginabili!”.
“Padre…”
interruppe Kydoimos,
mentre il Caos si spostava leggermente per mostrarlo ai presenti
“…non è
necessario tutto questo”.
“Ma…”.
“Non
è necessario che Voi puniate
qualcuno. Non sono un bambino, non mi piace essere trattato come tale.
Sono un
uomo e risolverò le mie questioni da uomo”.
“Kydoimos,
tu non…”.
“Io
sono in grado di difendermi
da solo e non sopporto che qualcuno mi difenda come fossi un debole. So
di
esserlo, rispetto a voi, ma non voglio essere trattato come tale. E ora
gradirei vedervi sparire tutti quanti. Devo finire queste sedie. I miei
figli
crescono e devono trovare posto a tavola”.
Il Caos
rimase in silenzio
qualche istante. Poi chiuse gli occhi e sorrise. Con le unghie
affilate, si
praticò un piccolo foro sull’indice e una goccia
di sangue brillò. Nera, con
gli inconfondibili riflessi blu dell’ikor, la
lasciò cadere sulla ferita aperta
di Kydoimos. Egli spalancò gli occhi. Si sentì
attraversare da un brivido lungo
tutta la schiena, mentre i tessuti si cicatrizzavano e la ferita si
rimarginava. Cadde in ginocchio, non avendo mai prima d’ora
provato una
sensazione così.
“Potete
andare” congedò tutti il
Caos “Ma che sia l’ultima volta. Non
sarò clemente al prossimo errore”.
I fratelli
uscirono. Erebo fissò
Tartaros. Aveva riconosciuto le ferite inferte.
“Perché
te la prendi tanto?” gli
domandò “Ricorda che è un mortale,
fratello. Mentre io e te abbiamo dinnanzi
l’eternità, Kydoimos non vedrà
l’alba del nuovo secolo. Lascia a nostro padre
il suo trastullo temporaneo e non te ne crucciare. E nemmeno hai motivo
di
provare gelosia”.
“Ha
donato a quell’essere una
goccia del suo prezioso e fortissimo Ikor”.
“Kydoimos
non ha sangue divino. È
un mortale e, di conseguenza, l’unica cosa che può
fare il sangue di nostro
padre su di lui è curarlo. Non può donargli
potere. Non è un Dio. Vedi di fare
il superiore”.
“Erebo,
come sempre fai il
saggio”.
“Sono
il maggiore. Non
dimenticarlo. E ringrazia quel giovane di non aver confessato a nostro
padre
che sei stato tu a fargli del male, o non ti saresti salvato da una
dura
punizione. E tu sai di che punizioni è capace il
Caos”.
“Lo
so bene. È che tutto questo
non lo comprendo”.
“I
disegni mentali di colui che
ci ha generati sono complessi da capire. Ma un giorno li
scopriremo”.
“Lo
spero”.
“Fidati
di me. Io vedo dove tutti
gli altri non scorgono altro che buio”.
E con un
ghigno, Erebo e Tartaros
si divisero.