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NUOVE
VESTIGIA
Il santuario
era in festa. Dopo
tanto tempo, si consegnava un’armatura d’oro. Arles
II, fiero ed un pochino in
ansia, attendeva quel giorno da anni. Era cresciuto ormai, aveva quasi
sedici
anni, e per metà di questi aveva avuto pieno diritto di
indossare le vestigia.
Il padre Deathmask, però, fino all’ultimo aveva
resistito. Poi si era accorto
che gli anni passavano e che era meglio affidare il suo compito ad un
giovane.
Era tra il pubblico, in abiti civili, ed osservava la moglie Ariadne.
Non era
invecchiata di un solo giorno. Lui, invece, iniziava a mostrare i segni
del
tempo con piccole rughe e qualche capello bianco. Guardò in
su, in cima alla
balconata dell’anfiteatro dove si svolgeva la cerimonia.
Lì stavano Saga ed
Aiolos. Il gran sacerdote, esattamente come Deathmask, era invecchiato
mentre
invece Saga, per merito del sangue divino, era immutato. Con lo scettro
di
Athena fra le mani, sorrideva ai presenti.
“Manca
Aphrodite” parlò Saga,
rivolto ad Aiolos.
“L’ho
notato” ammise il gran
sacerdote “Devo andare a farlo chiamare?”.
“No,
non è necessario. Non è
obbligatoria la sua presenza”.
Aiolos
annuì. Guardò
l’anfiteatro, notando fra la folla anche Kanon, Shura e Mur.
Avanzò di qualche
passo, alzando un braccio per indicare che era tempo di fare silenzio.
“Ti
sei dimostrato all’altezza,
Arles, figlio di Deathmask del Cancro e Ariadne dei Gemelli”
disse “Sei pronto
a giurare fedeltà alla Dea Athena e ricevere le sacre
vestigia?”.
“Sono
pronto” rispose Arles II.
“Bene.
Procedi”.
“Io
giuro fedeltà alla Dea Athena
ed al suo sacerdote e giuro di servire il grande tempio, proteggendo la
quarta
casa da ogni pericolo e obbedendo ad ogni ordine che mi sia impartito
per il bene
del Mondo”.
“Ricevi
questa sacra armatura, giovane
cavaliere. Indossala con onore e con rispetto, in nome di
Athena”.
“In
nome di Athena” ripeté il neo
cavaliere, mentre Saga, con un gesto dello scettro, faceva comparire lo
scrigno
d’oro con le vestigia dinnanzi al ragazzo.
Arles II
sorrise. Finalmente
quelle vesti erano sue. Le aveva sognate tanto a lungo.
Sfiorò, quasi
intimorito, lo scrigno e dall’anfiteatro si levò
un applauso.
Nàgiri
era chino su un libro ma
non lo stava leggendo. Era distratto e fingeva di studiare per non
essere
disturbato. Sua sorella Neikos lo capì subito e gli si
parò davanti.
“A
che pensi?” domandò.
“A
niente, sparisci”.
Lei si
voltò, tentando di capire
dove stesse guardando il fratello. Stava fissando Kydoimos e Airis, che
insieme
passeggiavano per il corridoio.
“Hai
notato che, da quella volta,
non sono nati più bambini?” commentò
Nàgiri.
“Sì”
ammise la sorella “Dicono
che anche papà sia vittima della maledizione che colpisce
tutti i figli del
Caos e che quindi non possa più avere figli”.
“Non
è giusto, però. Lui non è
veramente figlio del Caos”.
“Lo
so”.
“Ma
siamo rimasti così in pochi.
Solo Shuna e Lienn non hanno lasciato questa casa. Le altre mamme se ne
sono
andate con i nostri fratelli. È triste”.
“Sono
passati degli anni, ancora
non lo accetti?”.
Nàgiri
scosse la testa.
“Sai
a me, invece, cosa rende
triste?” riprese lei.
“Cosa?”.
“Il
fatto che, non potendo uscire
da qui, io e te non conosceremo mai l’amore”.
“Papà
ci vuole molte bene”.
“Non
metto in dubbio questo. Intendo
l’amore fra coetanei. I baci, i sospiri…il
sesso…”.
Nàgiri
fissò la sorella. Non si
aspettava da lei discorsi simili. Era cresciuta, era bella, ma fin ora
l’aveva
vista sempre e solo come una bambina.
“E
questo chi lo ha stabilito?”
domandò lui.
“Che
intendi?”.
“Qui
è pieno di fratelli sposati.
Pare sia la prassi, fra le divinità”.
“Ma
noi non siamo divinità”.
“E
non ti andrebbe di fingere di
essere tale?”.
Neikos
arrossì. Invidiava le
mogli di suo padre e tutte le altre donne del palazzo. Le sue sorelline
ancora
non potevano comprenderlo ma lei, ormai più che adolescente,
bruciava quasi di
rabbia. Il fratello si alzò e si stiracchiò,
deciso a lasciare la sorella nel
suo silenzio. Si recò nella sua stanza ma, dopo qualche
istante, Neikos vi
entrò. Nel buio, si avvicinò al fratello.
Sedettero entrambi sul letto.
“Dicevi
sul serio, prima?”
domandò lei.
“Certo”.
“Ameresti
tua sorella?”.
“Qui
quasi tutti amano la propria
sorella. Qualcuno persino la propria madre”.
“E
tu…ameresti…me?”.
“Io…se
tu…”.
Ora il
ragazzo era decisamente in
imbarazzo. Non sapeva bene che rispondere però voleva molto
bene a quella che
poteva considerare la sua gemella. Forse, era destino che lui la
amasse, non
solo che le volesse bene. La guardò. I lunghi capelli le
incorniciavano bene il
viso e i suoi grandi occhi brillavano nonostante il buio. Era bella. Si
passò
una mano fra i lunghi capelli verdi e le sorrise. Prese un profondo
respiro e
poi le si avvicinò, dandole un bacio.
“E
se scoprono che siamo qui?”
domandò lei, un po’ intimorita.
“Non
lo scopriranno. E, se
accade, non hanno alcun motivo di punirci”.
Neikos non
pareva convinta e
quindi Nàgiri si allontanò.
“Se
non te la senti, meglio
vivere come sempre. Come fratelli” le disse.
“Non
mi piace come viviamo
sempre. Voglio di più”.
“Allora
decidi tu quando. Appena
te la senti”.
Lei rimase
in silenzio, qualche
istante. Sfiorò la mano del fratello e poi la strinse.
“Rimarresti
accanto a me per
sempre?” chiese.
“Te
lo prometto. Ti proteggerò e
ti starò accanto sempre” confermò
Nàgiri.
“Allora
non devo provare alcun
timore”.
Fu lei ad
avvicinarsi ed a
baciarlo, stavolta. Lui la strinse forte a sé e la stese sul
letto.
“Ma
tu…” ridacchiò lei
“…lo sai
come si fanno queste cose?”.
“Non
molto” ammise lui “E tu?”.
“Nemmeno.
Però una volta ho visto
Erebo e Nyx”.
“A
me papà ha sempre fatto
discorsi vaghi al riguardo. Ma ho letto certe cose”.
“Intanto
baciami. È una bella
sensazione, no?”.
Lui
annuì e riprese a baciarla.
Era strano, quasi assurdo, ma bellissimo. Sentirla fra le sue braccia
gli piaceva.
Forse era destino che, come tante divinità, loro due fossero
fatti per stare
assieme. Sentiva lo strusciare dei loro abiti, le cui stoffe sfregavano
fra
loro. Lasciò che l’istinto lo guidasse e
risalì con la mano lungo le gambe di
lei. Slacciò i nastri che si intrecciavano davanti al seno
della sorella e ne
tenevano chiusa la veste.
“Sei
bellissima, Neikos” le
sussurrò.
Lei sorrise,
dandogli un altro
bacio.
“Posso
spogliarti?” domandò
ancora lui.
“Solo
se ti spogli anche tu”
annuì lei.
Nudi,
lasciarono scorrere
naturalmente gli eventi. Gemettero di piacere, uniti in un solo corpo,
abbracciandosi forte.
“Ti
amo, Neikos” disse lui.
“Ti
amo, Nàgiri”.
E, giungendo
all’orgasmo, si
promisero fedeltà eterna.
“Aiolos”
chiamò Saga, una volta
rientrato nella sua dimora.
“Sì?”
domandò lui, inchinandosi
leggermente.
“Hai
visto Aphrodite, tornando
qui?”.
“No.
Non l’ho visto. Però ho
percepito qualcosa”.
“Credi
sia nascosto in casa?”.
“Può
essere. Non saprei dire”.
Saga allora
decise di raggiungere
la dodicesima casa. Era un po’ preoccupato. Aphrodite adorava
le cerimonie di
investitura, le trovava divertenti ed un motivo per festeggiare.
“Vieni
con me?” domandò ad
Aiolos.
Il gran
sacerdote annuì e seguì
il suo signore lungo la scalinata di rose rosse, che lasciarono passare
i due
senza problemi, creando un sentiero. Per Saga il profumo di quelle rose
non
provocava alcun danno ma per Aiolos poteva essere fatale. Assieme
giunsero alla
dodicesima. Si percepiva una presenza, ma non erano sicuri che fosse il
cavaliere dei pesci.
“Anche
voi qui?” si sentirono
chiedere.
“Deathmask?”
si stupì Saga.
“Cosa
ci fate qui, ragazzi?”
riprese l’ormai pensionato cavaliere del cancro.
“Cerchiamo
Aphrodite. E tu?”.
“Idem.
Mi sono chiesto il perché
della sua assenza alla cerimonia. A lui piacciono queste
cose”.
“E
allora dov’è?”.
Girarono per
la dodicesima,
chiamando il cavaliere senza però ricevere risposta. Si
divisero e poi Saga
gridò il nome di Aphrodite, con tono spaventato. Gli altri
due cavalieri lo
raggiunsero. Il cavalieri dei pesci era steso in terra, senza armatura.
I tre
capirono subito che Aphrodite era senza vita forse da giorni. Rimaneva
comunque
bellissimo, anche se mortalmente pallido.
“Chi
ti ha fatto questo?” disse
Deathmask, non aspettandosi risposta.
“È
stata colpa mia” invece si
sentì dire.
Nel buio,
una voce di donna. Saga
si avvicinò. Una figura stava rannicchiata contro il muro e
piangeva.
“Perché
dici che è stata colpa
tua?” le domandò la reincarnazione di Athena.
La ragazza
puntò il dito indice,
che mostrava una piccola ferita. Saga capì. Quella giovane
aveva affrontato il
rituale del legame di sangue, quello che doveva affrontare ogni
cavaliere dei
pesci per divenire tale. Il veleno del sangue del maestro, lentamente
si
trasferisce all’allievo fino a quando l’allievo non
supera il maestro e finisce
con l’ucciderlo. Quella ragazza doveva essere la nuova
rappresentante del segno
dei pesci.
“Vieni,
mostrati” la invitò Saga.
“L’ho
ucciso io” pianse lei “Ho
fatto morire il mio maestro”.
“Fa
parte del rituale. Per tutti
i pesci è così”.
“Sono
un’assassina”.
“Lo
siamo tutti” sdrammatizzò
Deathmask.
La ragazza
si alzò e si mostrò.
Era bella da mozzare il fiato. I suoi occhi argento brillavano come
stelle e i
lunghi capelli parevano fuoco. I tre la guardarono, non sapendo cosa
dire.
“Per
la spada di Ares!” esclamò
qualcuno.
Arles II,
che era lì per
controllare dove fosse il padre, era rimasto fulminato da quella
visione.
Scansando i tre “vecchi”, salutò la
fanciulla con un elegante baciamano.
“Ciao,
bellissima” le sorrise
“Sono Arles, cavaliere del cancro. E tu?”.
“Non
toccarmi” rispose lei
“Perché è rischioso. Ho nel sangue il
veleno dei pesci”.
“Non
mi ha mai creato alcun
problema. E hai un nome?”.
“Tania”.
“Tania?
Piacere di conoscerti”.
Lei sorrise,
vedendo lui inchinarsi.
“Sangue
italiano” commentò
Deathmask.
Arles II e
Tania parevano avere
la stessa età. Saga li fissò. La nuova
generazione finalmente iniziava
mostrarsi e, per un istante, provò quasi sollievo.
“Tartaros”
chiamò Nàgiri “Ti
posso parlare?”.
Tartaros si
stupì di quella
domanda. Non parlava quasi mai con i giovani della casa
perché, con le sue
dimensioni, incuteva un certo timore.
“Cosa
c’è, ragazzo?”.
“Ho
provato a chiedere a tanti a
palazzo, ma nessuno ha saputo dirmi molto. Magari tu puoi
aiutarmi”.
“Parla”.
“Cosa
sai su mio padre?”.
“Su
Kydoimos?”.
“Sì.
Cosa sai sul suo passato?
Chi era prima di venire qui?”.
“Perché
non lo chiedi a lui?”.
“Non
mi da risposte chiare”.
Tartaros
rimase in silenzio.
Guardò Nàgiri e gli mise una mano sulla spalla.
“Ragazzo…”
iniziò “…molti di
coloro che sono qui non hanno avuto un bel passato. Probabilmente non
vuole
ricordare o raccontare ciò che è stato.
Capisci?”.
“Capisco”.
“Se
un giorno vorrà, ti
racconterà ogni cosa, ma non è detto che questo
accada”.
“Ma
non sai da dove l’ha
raccattato il Caos?”.
“Non
è un bel termine quello che
hai usato e comunque io non so nulla a riguardo. So che lo ha portato
qui dopo
una battaglia. Chiedilo a lui”.
“Ne
andrebbe a parlare a mio
padre”.
“E
qual è il problema? Perché ti
interessa sapere del passato di tuo padre?”.
“Perché
sono abbastanza grande
per sapere la verità, no?”.
“Non
siamo mai abbastanza grandi
per certe cose, Nàgiri”.
"Come
ho potuto non accorgermene, amico mio?”
parlava Saga, camminando solo per la sua dimora “Una vita
passata insieme e non
un solo sospetto. Crescere assieme e non conoscersi. Che pessima
persona sono,
ma questo lo sapevo già. Ora so di essere stato perfino un
pessimo amico.
Ti chiedo perdono, come ho chiesto perdono a tanti. Ma che senso ha? Le
anime
morte non possono perdonarti. E più passano i giorni e
più osservare quella
daga d'oro diventa un'ossessione. La voglia di piantarmela in gola,
esprimendo
il desiderio di ritrovarvi, è forte. Ti rivedrei, fratello?
E tu mi
sorrideresti ancora, amico mio?
Perché mi abbandonate tutti? Perché qui resto
solo io?".
Pensava
ad Aphrodite, non riuscendo a capacitarsi di non essersi accorto della
decisione dell’amico. Il rituale richiedeva anni prima di
concludersi. Come aveva
potuto essere così
concentrato su se stesso da non vedere il cavaliere stare male e
lentamente
spegnersi? Con una lacrima che gli scorreva sul viso,
camminò per raggiungere
il piccolo armadio dove teneva gli alcolici. Si riempì il
bicchiere e bevve un
lungo sorso. Per un attimo si sentì meglio ma poi fu colto
da un improvviso
malessere. Si premette la fronte. Il bicchiere cadde in terra, andando
in
frantumi e Saga svenne.
Kydoimos se
ne stava tranquillo
nella vasca. Stava steso e si rilassava, immerso nell’acqua
calda. Muovendo
lentamente le braccia, si beava del rumore lieve che produceva. Poi
l’orecchio
a sinistra, quello a punta, percepì qualcosa. Qualcuno era
entrato nella
stanza. Erebo raggiunse il bordo della vasca e rimase a fissarlo.
“Vedi
qualcosa che ti piace?”
ridacchiò Kydoimos.
“Vorrei
parlarti e questo è
l’unico luogo dove sei solo”.
“Già.
Chissà perché” sbottò
sarcastico.
“Volevo
solo farti notare che i
tuoi figli crescono, Kydoimos”.
“Questo
lo vedo da me”.
“E
cosa pensi di fare?”.
“A
che proposito?”.
“Non
lo immagini?”.
“No”.
“Stanno
crescendo. Dovrebbero
conoscere delle persone diverse dai parenti, magari di sesso
opposto”.
“E
perché?”.
“Vuoi
che si sposino fra loro?”.
“Tu
hai sposato tua sorella!”.
“Eravamo
in pochi al mondo. Amo
Nyx, tantissimo, ma forse quei giovani meritano di esplorare. Se poi
è destino
che stiano fra loro, allora andrà così”.
Kydoimos non
parlò subito,
capendo che probabilmente Erebo aveva ragione. Immerse parte del viso
in acqua.
Non voleva che i suoi piccoli si allontanassero. Erano rimasti in
pochi, solo
in sette. Ne aveva avuti oltre quaranta, ma così pochi erano
ancora in vita ed
accanto a lui!
“So
che è difficile per te” parlò
Erebo e ancora non ricevette risposta.
Il Dio
sospirò e si alzò. Era
inutile parlarne.
“Posso
solo chiedere perché ora
tieni il ciuffo davanti all’occhio destro?”
parlò.
“Perché
tanto sono del tutto
cieco da quell’occhio” rispose, calmo, Kydoimos.
“Capisco”.
Erebo
fissò il fratello minore,
che nella vasca pareva quasi immerso nei lunghissimi capelli. Era
meglio
lasciarlo da solo.
Aiolos,
seduto sul trono della
tredicesima, sospirò. Sapeva che Saga era solo. La moglie e
la figlia erano al
tempio di Hestia per qualche giorno perché la madre
desiderava far conoscere
alla sue erede anche quella realtà. Forse doveva dargli una
controllata. Scostò
la tenda e salì i pochi scalini che lo dividevano dalle
stanze della
reincarnazione di Athena e la sua famiglia.
“Saga”
lo chiamò “Sei già a
letto?”.
Scostando
l’ennesima tenda, vide
Saga a terra. Era pallido. Lo fece rinvenire.
“Sto
bene” gli disse Saga,
alzandosi a sedere e tentando di rialzarsi.
Non ci
riuscì, colpito da un
altro capogiro. Aiolos lo sorresse e lo accompagnò a letto.
“Che
ti succede?” domandò,
preoccupato, il gran sacerdote.
“Niente.
Sarà la stanchezza”.
“Tieni,
bevi” offrì Aiolos,
notando gli occhi rossi dell’amico.
Entrambi
avevano sicuramente
pianto per Aphrodite.
“Devo
solo riposare un po’. È
stata una giornata impegnativa” mormorò Saga.
“Sei
sicuro?”.
“Sì.
È da un po’ che…”.
“Un
po’? Chiamo Hermes”.
“No,
non serve”.
“Adesso
chiamo Hermes, Dio della
medicina”.
“No,
non voglio far preoccupare
qualcuno”.
“Gli
ordinerò massima
discrezione. Ma lo chiamo, perché voglio vederti stare bene,
ok?”.
Saga non
disse nulla. Si stese
sul letto, cercando di rilassarsi. Però non riusciva a
dormire. Aiolos si
allontanò e tornò dopo meno di mezz’ora
con Hermes.
“Nessuno
sa che è qui, sei
contento?” disse il gran sacerdote.
“Grazie”
sorrise debolmente Saga.
“Ora
vi lascio per la visita”.
“Puoi
restare. Non c’è niente che
ti voglia nascondere”.
“Ma
ti lascio la tua privaci. E
poi vado a letto. Sono un po’ stanco”.
Dopo essersi
dati la buonanotte,
i due si separarono e Hermes iniziò la sua visita.
Osservò attentamente gli
occhi del paziente, chiedendone i sintomi. Ascoltò il
battito e tastò alcuni punti.
“Da
quanto tempo ti capita di
provare capogiri, mal di testa e mancanza di respiro?”.
“Non
lo so” ammise Saga “Ogni
tanto mi capita”.
“Ultimamente
hai notato che
capita più spesso?”.
“Sì
e faccio sempre più fatica a
dormire. Sono sempre stanco ma non dormo perché ho sempre
male da qualche
parte”.
Lo sguardo
di Hermes si fece
serio. Respirò a fondo, passandosi una mano dietro al collo.
“È
una cosa per cui non ti posso
aiutare” disse “Qualcosa in te non va. Qualcosa di
grave. Qualcosa che non ho
mai riscontrato prima. E purtroppo pare progressivo. Nonostante tu sia
una
divinità”.
“È
solo un po’ di stanchezza.
Dammi qualcosa per dormire, vedrai che poi starò
meglio”.
“C’è
qualcosa nel tuo sangue.
Qualcosa di nero, oscuro, che ti sta consumando. E uccidendo”.
“Uccidendo?”.
“Sì.
Non so fra quanto. Ma pian
piano ti spegnerai”.
Saga
riappoggiò il capo sul
cuscino, in silenzio.
“Farà
male?” domandò.
“Probabilmente
sì. Segui il mio
consiglio: parlane con chi ami, perché ogni momento
sarà prezioso. Potrebbero
volerci vent’anni come pochi mesi”.
“Capisco”.
“Mi
dispiace”.
“Non
dispiacerti. È scritto nelle
stelle”.
“Ti
lascio qualcosa per riposare.
Allevierà il dolore, quando avrai qualche crisi”.
“Grazie”.
Saga non
aveva voglia di dire
altro. Girò la testa, evitando lo sguardo del Dio, che fece
un piccolo inchino
di congedo e si allontanò.
“Hei”
lo fermò Saga “So che sei
anche il Dio dei ladri. Non portarmi via nulla” e
ridacchiò.
“Non
lo farò. E buona fortuna.
Pregherò per te, Athena”.
“Le
preghiere non servono. Il
mondo non gira con le preghiere”.
“Ma
a volte scaldano il cuore”.
“Può
essere”.
Hermes se ne
andò e Saga rimase
al buio, da solo. Decise che non avrebbe detto nulla, fin quanto
possibile,
sulla sua condizione. C’erano cose più importanti
a cui pensare. Quasi sorrise.
Forse morire era la cosa migliore che potesse fare.
“Benvenuto,
Aphrodite” fece un
inchino Thanatos.
“Ciao”
salutò il cavaliere dei
pesci.
Sorrise,
felice. Aveva finalmente
trovato la pace. Poteva riposare per sempre nei campi elisi.