XII
PIANGERE
Thanatos se
ne stava immobile,
appoggiato alla porta. Che rabbia! Gridò e batté
i pugni contro il muro.
L’anima incompleta si era rintanata in un angolo. Piangeva
ancora. Quando il
Dio della morte si avvicinò, ella chiuse l’unico
occhio, attendendo la fine.
Aveva udito le parole di Hades. Ma Thanatos non le fece del male. La
fissò,
rammaricato.
“Tranquillo,
non ti ucciderò.
Però dobbiamo andare via, o verranno a prenderti per
eliminarti”.
L’anima
lo guardò, mostrando di
essere molto triste per quanto accaduto.
Il Dio prese
alcune delle sue
cose. Doveva lasciare quella casa e l’oltretomba.
Pensò al gemello, qualche
istante, e poi uscì da quella dimora, con a fianco
l’anima col capo chino.
Insieme, giunsero fino alla casa di Aiaco. Il giudice, che viveva con
Violatte,
non si aspettava una visita così illustre. Il Dio, assieme
all’anima, fu fatto
accomodare. Si trovavano in una zona piuttosto tranquilla ed isolata
del regno
dei morti.
“Ho
un favore da chiederti”
esordì Thanatos.
“Qualsiasi
cosa” si affrettò a
dire Aiaco “È solo merito vostro se viviamo qui,
io e la mia amata. Altrimenti
saremmo stati separati, come desiderava Hades”.
“Non
aveva senso quel che aveva
in mente al tempo” scosse la testa il Dio “Sono qui
per chiedervi un favore.
Quest’anima incompleta ha bisogno di un luogo dove stare.
Hades la cerca per
farla eliminare ed io non voglio che accada, perché merita
di certo di meglio”.
“Che
le è successo? Perché è
incompleta?” domandò Violatte.
“Non
lo so. Lo è da quando è
arrivata qui. È per questo che Hades vuole
eliminarla”.
“E
non potete difenderla Voi?”.
“Non
più. Devo lasciare
l’oltretomba per ordine di Hades e le anime non sopravvivono
fuori di qui”.
“Capisco…”.
“Qui
Hades non passa mai” spiegò
Aiaco “Credo lo infastidisca il sentimento che
c’è fra me e Violatte. L’anima
sarebbe al sicuro”.
“Se
è un problema, ditemelo.
Rischiate grossi guai, se lui la dovesse trovare qui”.
“La
terremo al sicuro il più
possibile. A chi apparteneva?”.
“Ad
Arles”.
“Il
nome non mi è nuovo”.
“Cavaliere
di Athena e, di
recente, reincarnazione del Dio Ares”.
“Ah,
lui. Capisco. Certo che
merita di più un’anima del genere. La terremo al
sicuro con orgoglio”.
“Io
cercherò di trovarle una
soluzione. Se trovo la parte che manca, forse…”
L’anima
si guardò attorno,
piuttosto spaesata. Era così lontana dal luogo dove si
trovava Saga! E non voleva
separarsi da quel Dio che si era preso cura di lei. Però
capiva che non c’era
altra soluzione. Si andò ad accoccolare in un angolo, pronta
a nascondersi in
caso di pericolo.
“Devo
andare, anima incompleta”
si alzò Thanatos, ringraziando il giudice e la specter
“Vedrai che troverò una
soluzione e tutto si risolverà. Fino a quel
momento…addio”.
Kydoimos
aveva sempre avuto una
splendida voce. Ma non cantava mai. Tuttavia, all’ultimo
saluto per Saga, si
sentì in dovere di farlo. Com’era tradizione, gli
abitanti del santuario
accompagnavano la bara fino al cimitero con un canto. Kydoimos, che
poteva
rimanere lontano dal palazzo nero ancora per poco, era in disparte, per
non
attirare l’attenzione. Da lontano, vide il feretro seguito
dalla figlia del
defunto e dalla moglie, sorretta da Aiolos. A portare la bara,
Deathmask,
Shura, Ioria e Kiki. I primi due perché lo avevano sempre
considerato un amico,
il leone e l’ariete per senso del dovere. Terminata la
cerimonia, ognuno
rientrò alla sua casa e Nàgiri prese coraggio.
Voleva parlare con la figlia di
Saga. Lei, rimasta da sola con le prime luci del tramonto, non voleva
scocciatori attorno. Il giovane lo comprendeva, ma si sentiva in dovere
di
chiederle scusa.
“È
stata colpa mia, mi spiace”
disse.
“Cosa?”
quasi sbottò lei.
“La
morte di tuo padre. Ero io
uno dei due litiganti che ha diviso, usando le ultime forze”.
“Allora
non hai motivo di
scusarti”.
“Che
intendi?”.
“Mio
padre era gravemente malato.
Lo hai fatto smettere di soffrire. Si è spento con il
sorriso sulle labbra,
perché la sua morte ha fatto cessare un atto
d’odio”.
“Io…”.
“Tu
sei Nàgiri, giusto? Mi
ricordo vagamente di te”.
“Sì,
sono io. E comprendo il tuo
dolore”.
“Davvero?”.
“Ho
perso mia madre quando ero un
bambino. E molti fratelli e sorelle”.
“Quindi
mi sai dire fra quanto
tempo questo dolore passerà?”.
“Mai.
Non ti abbandonerà. Basterà
un suono, una parola, un profumo, un sogno…e ti
tornerà in mente”.
“Capisco…”.
“Però…se
posso fare qualcosa…”.
“Mi
porteresti a fare un giro?
Questi rompicoglioni non mi lasciano allontanare da sola, ma ho bisogno
di
passare almeno un paio d’ore lontano dal santuario”.
“Certo,
ti accompagno
volentieri”.
“Di
te mi fido. Ricordo che eri
un bambino buono”.
“E
non temi che possa essere
cambiato?”.
“No.
Un animo buono lo rimane per
sempre, anche se tenta di nasconderlo”.
Udendo
un rumore, Deathmask uscì dalla sua dimora. Nel buio della
notte, chi poteva
venire a disturbare? Il precedente cavaliere del cancro abitava ancora
alla
quarta casa, in una delle braccia della croce che la formava.
Nell’oscurità,
vedeva solo fuochi fatui ed anime erranti. Guardò in su.
"Thanatos..."
mormorò, riconoscendolo.
Il
Dio della morte non rispose.
"Non
sarai mica venuto a prendermi adesso,
vero? Ho altri progetti" ridacchiò l’ormai
pensionato cavaliere.
Ancora
nessuna risposta, solo una singola nota
della cetra del Dio. L’ex cavaliere si fece serio. L'espressione di quella divinità
non gli piaceva.
"Dai, vieni giù a
berti una birra"
propose Deathmask.
"Ho migliaia di anni. Credi
che possa tirarmi
su di morale un alcolico, mortale?" sbottò, scocciato,
Thanatos.
"Come vuoi, la mia era solo
una
proposta".
"Non hai paura di me?".
"E perché dovrei?
Non ho mai temuto la morte e
l'inferno".
"E non mi odi, per coloro di
voi che ho
portato via?"
"La vita termina, prima o
poi. Sono certo che
ora i miei amici se la stanno spassando ai campi elisi. Ed un giorno
saremo
tutti assieme. O forse no, non fa differenza. Viviamo e periamo,
è il destino
di noi mortali".
"Capisco...".
Ed il Dio dai capelli
argento guardò le stelle. Forse
era l'ultima volta che le poteva ammirare. Sorrise, per un istante,
quando
accanto al cavaliere del cancro apparve la fanciulla che ora portava
l’armatura
dei pesci.
Thanatos la trovò
bellissima e per qualche istante
si perse nei suoi grandi occhi color dell’acciaio. Poteva
anche dire addio alla
luce delle stelle, per lei.
“Cosa
ti porta al grande tempio?” domandò Arles
II, raggiungendo la sua ragazza.
“Volevo
solo salutare anche io Saga. E la luce.
Da ora sono pure io un cittadino del palazzo nero”.
“Torni
da mammina?” ridacchiò Deathmask.
“Almeno
io so chi è” ghignò Thanatos e
svanì.
Kydoimos
fissava Tartaros di
nascosto. Quel Dio aveva sempre un’aria un po’
arrabbiata ed un po’
malinconica. Lo spiato notò il fratello minore e rispose al
suo sguardo, con
rabbia.
“Che
hai da guardare?” sbottò.
“Niente.
Oggi sono un po’ fuori
fase”.
“Per
via della morte di quel
tizio?”.
“Anche,
immagino”.
“Perché
ti dai tanta pena per
lui?”.
“Non
ha importanza”.
I due si
guardarono qualche
istante poi Tartaros fece per allontanarsi.
“Ti
manca?” domandò Kydoimos.
“Chi?”
si stupì Tartaros.
“Gaia”.
“Certo.
Che domande fai?”.
“E
non hai mai provato a
liberarla?”.
“Per
liberare dal sigillo Gaia
serve l’arma di un Dio e, come ben sai, qui non ce ne sono.
Sempre per colpa di
quella cazzo di maledizione”.
“E
non potete procuravene una?”.
“Non
si può usare l’arma di un
altro Dio! E poi a Gaia servirebbe un corpo, che non ha al momento.
È stato
distrutto nell’ultima guerra. Devo attendere la sua prossima
reincarnazione”.
“Ma
se la sua essenza è
intrappolata, non si reincarnerà mai!”.
“Le
ho detto addio, ormai. Anche
se so che torneremo insieme”.
“Se
lo dici tu…”
“Ma
cosa vuoi saperne tu, che
alla morte di quasi tutta la tua famiglia non hai versato nemmeno una
lacrima?
Tu, che non hai lottato per impedire
l’allontanamento delle tue donne con i
bambini!”.
“La
mia anima è incompleta!”
“Stronzate.
È che non ti importa
di nulla, nemmeno di te stesso. Non so che ci veda papà di
così speciale in te,
mostriciattolo”.
Kydoimos non
disse altro. Lasciò
Tartaros andare oltre e chinò la testa, fissando la
differenza fra la mano un
tempo umana e quella creata dal Caos. Chissà se erano ancora
in grado di
impugnare una spada…
Il palazzo
nero era rimasto
invariato nei secoli, notò Thanatos. Davanti alla porta
chiusa, non aveva il
coraggio di entrarvi. Poi capì che non aveva alternative.
Spinse ed entrò,
quasi con enfasi. Nel buio totale, non aveva alcun problema a
camminare. Notò
alcune facce nuove, figli di Kydoimos. Passò oltre.
Sentì dei mormorii e li
ignorò. Vide un sorriso familiare e dovette fermarsi.
“Il
mio bambino!” lo accolse Nyx,
spalancando le braccia.
Thanatos
sospirò. Non era un
bambino da parecchio tempo, ma sua madre lo abbraccio comunque. Era
strano,
anche perché lei era parecchio più bassa. Eppure
lo trattava come un bambino
piccolo.
“Vieni”
parlò lei “Ho fatto
lasciare invariata la tua stanza”.
“La
mia stanza? Di quando ero
piccolo?”.
“Sì,
vieni”.
Thanatos la
seguì lungo il
corridoio, fino a giungere all’ingresso di quella che un
tempo era la sua
cameretta. Non era cambiata. Provò una certa nostalgia.
Metà di quella stanza
la divideva con Hypnos, tanto tempo fa.
“Immagino
che ora sia un po’
infantile” notò Nyx “Potrai cambiarla a
tuo piacimento”.
“Per
ora va bene così, grazie.
Tanto lo sapete che con il lavoro che faccio non sarò molto
presente”.
“Ma
è sempre bello avere un bel
posto dove tornare”.
“Già…”.
Il Dio della
morte lasciò che la
sua armatura si staccasse e si accomodasse in un angolo della stanza.
Con la
tunica bianca, girò un po’ per la casa, ricevendo
i saluti dei fratelli e degli
zii. Anche il Caos lo salutò, sorridendo. Thanatos e
Kydoimos si scambiarono
solo uno sguardo rapido. Il Dio, in un istante, capì che la
parte mancante
della sua amata anima era in quell’essere ibrido.
Tentò di escogitare un modo per
risolvere la questione. Gli era bastato un’occhiata per
notare la piccola parte
di anima di Kydoimos e pochi secondi per capire che, nel caso
l’anima errante
fosse stata eliminata, per quell’uomo non ci sarebbe stato un
futuro dopo la
morte. Sorseggiando uno strano liquido verde scuro, ripensava a quando,
da
bambino, correva lungo quei corridoi che al tempo gli sembravano
lunghissimi.
Inseguiva Hypnos. Insieme, si divertivano a combinare un sacco di guai.
Quella
volta, il palazzo nera era allegro e le divinità poche. Ora
nell’universo il
sovrannumero era evidente e lì si respirava decisamente
un’aria diversa. C’era
malinconia. Tristezza. Un po’ sapeva di esserne la causa.
Aveva portato via
molte anime da quel luogo.
“Dai,
tirati su” gli sorrise il
Caos “Non amiamo molto i musi lunghi. Sappiamo che
sarà difficile, per te,
rimanere separato da Hypnos ma…”.
“Eravamo
separati già da molto”
tagliò corto Thanatos “Vivevamo in due parti
diverse dell’oltretomba e lui era
troppo impegnato a riprodursi per venirmi a salutare. Come io, del
resto, ho un
lavoro che mi impedisce di perdere tempo.
Perciò…”.
“Spero
che ti ambienterai presto.
Non sono cambiate molte cose”.
“No,
ho solo uno zio nuovo e
tanti cuginetti”.
“Eh
sì” sorrise Caos, fissando
Kydoimos, che non sorrise.
Thanatos
ricordò quando, da molto
piccolo, aveva osservato con innocenti occhi argento suo nonno Caos,
chiedendogli che cosa fosse la morte. Al tempo aveva le idee piuttosto
confuse.
Il nonno gli aveva accarezzato i capelli e gli aveva sorriso,
rassicurandolo
che era qualcosa che lui non avrebbe mai provato. “E come
mai, nonno Caos?”
aveva domandato, con le manine strette e lo sguardo curioso.
“Perché noi siamo
Dei” aveva risposto Caos “E gli Dei non
muoiono”. Quella volta era così. Ora
invece morivano tutti. Solo il Caos si salvava da quel destino. Si
poteva
ferire a piacimento. Questo perché era materia primigenia e
quindi in continua
creazione e morte.
“Vado
a letto” mormorò Thanatos,
alzandosi.
Non sarebbe
stato facile, lo
sapeva, abituato com’era ad udire le musiche del fratello per
dormire. Ma
doveva abituarsi a farne a meno. Calpestò nel buio uno dei
giochi che aveva da
piccolo. Com’era potuto rimanere intero dopo tutto quel
tempo? Lo guardò,
sorridendo. Poi scosse la testa. Era ora di lasciar perdere certi
ricordi. Era
il tempo di lasciarsi tutto alle spalle. Era il tempo di dire a tutto:
“Addio”.