NOTE
INIZIALI
Alla fine dell’estate sono stata contattata da un gruppo di
loschi personaggi per partecipare a un’iniziativa pregevole, che era poi la IV
DISFIDA di Criticoni, DUALITEAM. Evidentemente le povere creature non sapevano davvero
più dove sbattere la testa e mi hanno coinvolta, inserendomi nella loro
squadra. Ciascuna di noi ha scritto e presentato la propria opera e questa
è la mia.
Il nostro team Lambda è
composto da (alfabeticamente) ery, fiorediloto,
herm weasley, juliette saito, kimmy dreamer, sourcreamandonions
(che cito con piacere pur essendo il fumo negli occhi per certuni) e,
ovviamente, me. Ringrazio
sentitamente e sinceramente tutte per l’occasione fornitami (di fare una
figura barbina).
SPOILER: questa fanfic
è collocata in un ipotetico – e improbabile - futuro prossimo dopo
il capitolo 416 del manga. Quindi
non tiene conto di tutto quanto segue (perché all’epoca della
stesura non era stato ancora pubblicato).
∞∞∞∞∞∞∞∞∞
L’Akatsuki è alle porte di Konoha.
La notizia ha attraversato il villaggio con la potenza di
un’esplosione: per tutti gli shinobi della Foglia l’annuncio ha
avuto l’effetto di un colpo in pieno petto, ma anche di una scarica di
adrenalina. Da settimane erano stati avvisati dalle autorità del
pericolo incombente e ora sanno che è giunto il momento di combattere
con ogni forza per la salvezza della loro terra. Tra poche ore, stanotte forse,
saranno decise le sorti di Konoha.
È come se un vento si diffondesse per le strade, soffiando
sotto le soglie e dagli spifferi delle finestre e attirandoli fuori con
sé. E per la prima volta senza ordini, senza disposizioni, i guerrieri
depositari della volontà del fuoco si radunano ai cancelli
d’ingresso, lungo le mura, come se già sapessero che ogni metro, ogni
zolla di terra sarà da difendere strenuamente.
I jonin dell’Hokage sono i primi a giungere
all’accesso del villaggio: Gai, Anko, Genma e poi tutti gli altri, fino al giovane Neji Hyuga e al neopromosso,
Shikamaru Nara. Con grande sorpresa trovano già lì Uzumaki
Naruto, sul punto di uscire dai confini; sono costretti a trattenerlo,
perché la sua intenzione, afferma risoluto, è andare incontro al
nemico, a Sasuke.
È Sakura Haruno, accorsa dopo un paio di minuti, a riuscire
a calmarlo abbastanza da attendere l’arrivo dell’Hokage. Ma prima
di Tsunade giungono i chunin, e poi alcuni ANBU.
Lei, la hime di Konoha, arriva scortata
da Danzou. E finalmente dà conferma della
notizia: la squadra di ricognizione di Konoha è stata trattenuta e poi
sconfitta dagli intrusi, un solo suo membro è stato lasciato in vita per
portare un messaggio al villaggio.
Gli shinobi si radunano intorno all’Hokage, e ascoltano.
Ti vorrei
insegnare
Il silenzio successivo alle parole di Tsunade si è
già fatto cupo, quando Kakashi dello sharingan arriva dalla via che
porta alla lapide. Il grande shinobi passa da anni una buona percentuale del
suo tempo libero davanti al monumento ai caduti, ripensando ai suoi morti,
perciò non c’è poi nulla di così stupefacente nel
fatto che anche stasera, questa sera così decisiva per il villaggio, la
sua sagoma scura compaia proveniente proprio da quella direzione, avanzando
lenta verso i suoi compagni riuniti alle porte del villaggio. Questo non
impedisce che la sua flemma nel raggiungerli, dopo che già l’Hokage
stessa è arrivata e ha parlato, non venga sottolineata da sguardi
rassegnati e vagamente disapprovatori.
Lui, il ninja-copia, non sembra affatto impressionato da
quell’attenzione: si limita a guardarsi intorno bonario, celando dietro
le maniere placide la sollecitudine del combattente. Studia il gruppo radunato
nell’attesa, i visi seri e irrigiditi dall’aspettativa e osserva in
silenzio, per farsi un’idea più precisa della situazione non solo
per quanto può concernere gli avversari, ma Konoha stessa.
Nota che persino Tsunade hime si trova
lì, lontana dai corridoi del palazzo degli Hokage. E, a giudicare
dall’occhiata collerica che rivolge al numero uno dei suoi guerrieri, non
ha gradito il fatto che si sia presentato in palese ritardo anche in un momento
tanto delicato.
“Kakashi,” scandisce irosa, attirando l’attenzione
generale su di lui. Gai si volta di scatto, fosco, con le spesse sopracciglia
aggrottate, e Naruto freme, protendendosi istintivamente verso di lui.
“Avresti dovuto arrivare prima, ritengo,” osserva l’Hokage,
mantenendo a stento la calma.
“Mi dispiace,” afferma Kakashi stancamente, “ho
avuto un contrattempo. Qual è la situazione esatta?”
“La nostra squadra si è imbattuta in due di loro
un’ora fa,” annuncia Shizune pronta.
“Hanno lasciato vivo uno dei nostri, col messaggio che manderanno un loro
ambasciatore sulla via del villaggio al calar del sole.”
Kakashi annuisce lentamente, spostando intorno a sé
l’occhio scoperto, vigile. L’agitazione è davvero palpabile
su ognuno dei visi che lo attorniano: i jonin sono tutti tesi come corde di
violino e persino gli ANBU, come Tenzou, sembrano sul
chi vive; sono schierati alle spalle di Tsunade, pronti a scattare a un suo
cenno. Gli shinobi più giovani, come Neji e
Shikamaru, sembrano non essere capaci di stare fermi. Il fatto che persino il
controllato Hyuuga, sempre calmo e lucido, paia tanto
nervoso è indizio di quanto la situazione sia inquietante per ragazzi di
quell’età. Anche Sai, l’indecifrabile Sai, ha accantonato
del tutto il sorriso artefatto e sembra guardingo, seppur perfettamente padrone
di sé.
Sakura, in un angolo, è immobile. Gli occhi verdi
dell’allieva di Tsunade – nonché sua ex allieva – sono
tremuli e fissi a terra, come se già sapesse di non voler vedere quel
che presto accadrà.
Non ha invece bisogno di guardare in faccia Naruto per sapere
quanto sia ansioso in questo momento, ma lo fa ugualmente: il viso del biondo
jinchuuriki è attraversato da un’angoscia che traspare con
evidenza, le mani sono strette tanto che le nocche sembrano bianche, lo sguardo
spaventato e deciso al contempo.
Danzou è l’unico a non sembrare
preoccupato. Kakashi non se ne sorprende più di tanto, limitandosi a
registrare la sua presenza con fastidio; uno dei motivi principali per cui ha
lasciato gli ANBU è che pullulano tuttora di gente del suo stampo, anche
se Danzou è unico nel suo genere.
“Altro?” chiede con flemma.
“Hanno detto che dobbiamo mandare un uomo anche noi,” annuncia
proprio il capo della Radice, impassibile. “Ho suggerito a Tsunade-sama uno dei miei uomini: sono addestrati per
mantenere il sangue freddo in ogni situazione.”
Kakashi annulla il movimento scontento delle proprie sopracciglia ancor
prima che avvenga. Sposta l’occhio in direzione dell’Hokage,
scorgendo nello sguardo di Tsunade contrarietà e disappunto.
“Non ne dubito, Danzou-sama,”
replica, con un accenno di sorriso rispettoso. “Tuttavia, se nessuno
è contrario, vorrei assumermi io quest’onere,” prosegue di
slancio, risoluto. Le parole gli sono sgorgate dalle labbra quasi
autonomamente, come dando voce a quel profondo senso di malessere che la
notizia dell’arrivo dell’Akatsuki, e di Sasuke, gli ha arrecato.
Non è facile essere il maestro di un traditore.
Ignora gli occhi sgranati di Gai e la testa di Sakura che si
solleva di scatto, tanto che sembra essere stata caricata a molla. Rimane fermo
sotto i loro sguardi, senza abbandonare il suo remoto sorriso.
“Tu?” ripete Danzou, senza
entusiasmo. “Sei l’uomo migliore dell’Hokage, avrà
bisogno di te. Se dovessero decidere di…” inizia, mellifluo.
“Non oseranno uccidere un ambasciatore,” risponde
Kakashi sicuro, sapendo perfettamente di mentire. “E se davvero sono
l’uomo migliore, allora un compito tanto delicato non può essere
affidato che a me.”
E non gli interessa spiegare la vera ragione per cui vuole essere
lui a incontrare il membro dell’Akatsuki che verrà a parlamentare.
Qualcosa gli dice che potrebbe essere esattamente la persona che da tre anni
aspetta di rivedere, per scoprire dopo tanto tempo in che cosa la lontananza ha
trasformato il ragazzino che ricorda. Non è, comunque, niente più
di una sensazione a spingerlo.
Un altro rapido sguardo scivola tra lui e Tsunade, che tace fosca
per qualche istante e poi, con un impercettibile sospiro, annuisce un poco.
Forse ha capito quel che lui sta pensando; è stata un’allieva del
Terzo. Era la compagna di squadra di Orochimaru.
“Mi fido di te più che di chiunque altro,
Kakashi,” esclama, insolitamente solenne. “Se te la senti, per me
è la soluzione migliore,” conclude, con un tono definitivo atto a
ricordare che è lei il capo del villaggio.
“Vengo anch’io, sensei!” esclama Naruto,
scattando in avanti.
Shikamaru lo afferra per la spalla sospirando senza parlare, lo
sguardo al cielo.
“Naruto,” inizia il maestro, senza scomporsi,
“non essere ridicolo. Vogliono un solo uomo.”
“Ma io devo… Sas’ke!” balbetta il ragazzo
caparbio, agitandosi. “Io devo venire con te!” insiste, scuotendo i
pugni.
“Naruto,” ripete lui, severo. “Non è il
momento di giocare al migliore amico. Questa è una guerra, se non
l’hai capito, e la posta in palio sei tu. Non è davvero il caso
che tu esca dal villaggio,” lo ammonisce calmo.
Naruto non risponde. China la testa, le labbra serrate con
amarezza. È un segno di resa, e il maestro lo sa.
“Allora io vado, Hokage-sama,”
fa Kakashi, placido.
Tsunade annuisce e lui si volta senza aggiungere
nient’altro. Non è il tipo da discorsi, né da saluti. In
teoria, per giunta, tornerà indietro tra poco e non vuole che le cose
sembrino gravi come in realtà probabilmente sono.
“Kakashi!” esclama Gai di soprassalto, facendo un
prestante balzo avanti. “Vedi di tornare intero! Non è stato
ancora decretato il vincitore della nostra sfida!” E si sente, che gli
trema la voce.
Lui non risponde. Non dà segno di badare a nulla,
finché non sente una mano esile afferrare il suo avambraccio con urgenza
e la riconosce senza bisogno di abbassare lo sguardo – per un maestro il
respiro stesso degli allievi è unico, identificabile a occhi chiusi. Sorride
ancor prima di guardarla, e Sakura è pallida, il suo volto è
tutto un tremore e gli occhi sono grandi, lucidi.
“Andrà tutto bene, Sakura,” afferma con cauta
dolcezza, usando il tono rassicurante che riserva sempre a lei.
“Sensei…” mormora la giovane con voce rotta, in
una preghiera che è un lamento. Chissà per chi: per lui, per
Sasuke, per Konoha. Kakashi non lo sa, però annuisce sicuro.
“Sistemeremo tutto. Fidati di me,” conferma.
Le palpebre di Sakura si chiudono per un secondo appena e due
grosse lacrime luccicanti scivolano giù dagli angoli degli occhi, mentre
stringe le labbra. Kakashi ricorda di averle già detto altre volte
parole analoghe, ma niente si è sistemato: Sasuke non è tornato,
Naruto non è al sicuro e nemmeno Konoha. Ma questa volta, questa volta
sarà diverso.
Si libera della sua presa con delicatezza. Continua a camminare
senza voltarsi, finché non è fuori dal villaggio. La sera
è già quasi del tutto buia, le piante stormiscono nel silenzio e
lo spicchio di luna nel cielo scurito è l’unica luce che rischiara
tratti di sterrato facendoli sembrare quasi bianchi, in mezzo a tanta penombra.
Percorre qualche centinaio di metri nel silenzio notturno,
camminando lentamente. Incatena i passi uno dietro l’altro su quella via
percorsa infinite volte. Passi su passi, per anni, passi di bambino, con Rin e Obito, passi curiosi affianco allo Yondaime, passi tristi con Rin
sola, passi solitari per tutto il tempo a seguire, fino ai passi sicuri per
guidare la sua squadra, i suoi allievi, le tre piccole foglie di Konoha
affidate a lui.
Passi trepidanti e frettolosi accompagnando Sasuke a combattere
per la terza prova del torneo, una vita fa. I piedi corti ed esili del
ragazzino, accanto ai suoi, grandi.
Quando vede la figura sbucare dal nero della notte Kakashi si
ferma, e aspetta. Lui, l’altro, è avvolto nel tabarro che
distingue i membri dell’Akatsuki, un gran manto nero con dipinte nuvole
di porpora; ha il capo coperto dal cappello di paglia, le cui sottili falde
bianche e svolazzanti celano il suo viso. Kakashi studia quella figura che si
avvicina, la scruta attentamente e a ogni passo, a ogni metro di distanza
annullato sente il proprio corpo pesare di più, anche se sa che non
è precisamente il corpo a pesare ma qualcos’altro, dentro,
più in profondità. La sua sensazione non era sbagliata, ne
è più certo ad ogni passo.
Lo shinobi che gli sta venendo incontro non è un
bambinetto, non arriva poco sopra la sua cintola e non ha gambette esili di
ragazzino. Ma non è abbastanza alto da avere troppi anni ed è esile
nella figura. Si muove con sicurezza, ma senza esserne appesantito. Ha un passo
leggero, elegante, che Kakashi conosce. Quando poi solleva il capo – lui
intuisce appena il brillio lontano dei suoi occhi, nel buio - e vede
l’uomo di Konoha ha un’impercettibile esitazione: il suo piede
sollevato rimane immobile per una frazione di secondo e si deposita a terra
quasi con cautela; ma è un attimo e l’avanzata riprende con
invariata fermezza. Arrivato a pochi metri si ferma, immobile; soltanto il
manto ondeggia leggermente nella brezza serale.
C’è un istante in cui nessuno dei due parla. Kakashi
lo può vedere da vicino, adesso, anche se il suo volto è celato.
E ha un moto involontario di angoscia, perché non ha bisogno di scorgere
i suoi lineamenti per riconoscerlo: è lui, è lui nelle mani, agili
e nervose, è lui nelle spalle dritte e altere, è lui nella
dignità del silenzio.
È come vederlo bambino. Aveva dodici anni e la sua faccia
era tutta una smorfia di disappunto. Bisognava pensarci allora, sarebbe stato
ovvio farci caso, al fatto che non ridesse proprio mai. Che razza di maestro ci
si può definire, se non si è in grado di vedere tanto strazio?
Ma non è più il momento per pensarci. Kakashi
raddrizza la testa con sicurezza e poggia una mano sul fianco, pratico.
“Sono l’uomo che avete chiesto a Konoha per
parlamentare,” annuncia con tono dimesso. “Il mio nome è
Hatake Kakashi, sono un jonin della Foglia.”
C’è un momento di silenzio lungo, denso. L’uomo
dell’Akatsuki continua a non muoversi. S’intuisce – o forse
è quel che Kakashi vuole intuire – la sua esitazione ed è
quella che il ninja-copia sfrutta, anticipando l’interlocutore.
“Sta a te, adesso, mostrare il viso,” prosegue,
sbrigativo.
La mano dell’altro fa un movimento impercettibile e torna
immobile prima di sollevarsi con decisione, nel rinnovato silenzio. Kakashi sa
che non è reale, ma la sua impressione è che quelle dita
impieghino un tempo lunghissimo a raggiungere il cappello e afferrarlo –
gli pare di scorgere distintamente il piegarsi di ogni falange – e ancora
più infinito a sfilarlo dalla testa. Però istantaneamente, non
appena il copricapo si scosta quel poco da liberare le prime inconfondibili
ciocche di scompigliati capelli corvini, lo vede tutto intero: il resto
è solo un’immagine che si sovrappone a quella che i suoi occhi
hanno già disegnato, nella mente. È Sasuke.
Le sue labbra sorridono da sole con amarezza, senza che nemmeno se
ne accorga, nel vederlo. È cambiato: è alto, i lineamenti si sono
snelliti e induriti, la sua non è più una faccia paffuta da ragazzino
ma un volto più netto, che l’espressione fredda e apatica fa
sembrare non solo da adulto, ma quasi da vecchio: il bambino è diventato
grande. Eppure a vederlo così, infagottato in quella cappa nera che
quasi lo ingoia, sembra ancor più piccolo di quando se n’è
andato. È un grido di dolore e di rabbia, Sasuke, lo è sempre
stato; ed è intollerabile l’idea di averlo sentito troppo tardi.
“Avevo supposto,” inizia il ragazzo
d’improvviso, con tono neutro e sguardo distante, “che avrebbero
mandato te…Kakashi dello sharingan.”
La sua voce calca le ultime parole con freddo sarcasmo, quasi a
sottolineare l’improprietà di quella definizione usurpatoria.
Forse con intento intimidatorio, ma non è certo sufficiente a
impressionarlo: è la provocazione di un ragazzo che non sa come
comportarsi, è la sfrontatezza arrogante e intimamente insicura di
Sasuke come la ricordava; quasi piacevole, perché lo fa sembrare ancora
abbastanza simile al ragazzo che era il suo allievo prediletto.
“Già,” commenta lui affabile. “Anche io
ho pensato che avrebbero mandato proprio te…Uchiha Sas’ke,”
ribatte, con una nota di durezza sul suo nome. “Un uomo di Konoha per
parlare con Konoha, dico bene?”
Sasuke non si scompone, annuisce solamente.
“Avresti potuto rifiutare,” commenta con piatta
indifferenza.
“Al contrario,” ribatte Kakashi con tono paziente,
“mi sono offerto volontariamente per questo ruolo. Ho ritenuto di doverlo
fare.”
Lo sguardo del ragazzo si fa sprezzante, bellicoso.
“Per…come dice Uzumaki? Ah, sì…salvarmi,” ipotizza Sasuke gelido,
con sarcasmo. “Hai pensato che sarebbe stato sufficiente venire qui a
parlarmi perché ascoltando il mio sensei capissi i miei errori, non
è così?” continua, sicuro e con arrogante condiscendenza.
Kakashi tace per un attimo, porta una mano automaticamente a
grattare la testa, con incuria. L’altra, affondata nella tasca dei
pantaloni, si serra lievemente.
“No, Sas’ke,” replica mite. “Non sono
Naruto. Non ho nessuna intenzione di salvarti contro la tua volontà.
Sarebbe insensato, non ti pare?” commenta con leggerezza, incassando
leggermente le spalle. “Sono venuto per Konoha.”
Le labbra del ragazzo si piegano in un sorriso di sufficienza, un
sorriso spento e vuoto che fa male guardare.
“Konoha,” ripete sarcastico. “Dimenticavo, sei
uno di quegli imbecilli che ritengono questo villaggio di ipocriti un paradiso.
Incontrerai una morte inutile difendendo un paese di vigliacchi sleali e
approfittatori,” commenta senza interesse, ma non riesce del tutto a
celare la vibrazione della rabbia nel proprio tono.
Quando smette di parlare Kakashi lo osserva per qualche lungo
istante. È più difficile riconoscerlo, adesso. L’adulto che
si sforza di essere ha troppo veleno nelle vene e troppo bisogno di sembrare
impermeabile a qualunque sentimento. Davvero troppo, per essere autentico. Il
bambino, lui riusciva ancora a lasciarsi andare a qualche sporadico gesto
d’affetto.
“Vedo che hai imparato alla perfezione la dottrina di
Orochimaru,” commenta con una certa durezza. “Ma ti sbagli ancora,
Sas’ke, io non penso che Konoha sia un paradiso. E mi conosci troppo bene
per credere davvero che sia così. Ma, te l’ho già detto una
volta, qui ci sono le persone che hanno dissipato la mia solitudine, i miei
compagni. E le difenderò: è a questo che serve essere uno shinobi,
mi sembrava di avertene parlato.”
Sasuke lo scruta impassibile, prima di aggiustare il bavero del
mantello con un gesto annoiato.
“Niente lezioni, sensei,” esclama distaccato.
“Non è più tempo di giocare all’allievo e al maestro,
quell’epoca è finita. Sono venuto per portare un messaggio
all’Hokage e al villaggio,” annuncia, spiccio.
Quel repentino cambio di registro lascia intuire il suo fastidio,
forse dovuto al ricordare che anche lui, sebbene lo neghi, aveva qualcuno di
importante a Konoha, che ha abbandonato. Kakashi non insiste, si raddrizza in
una posa più formale.
“A nome dell’Hokage, ti ascolto e riferirò il
tuo messaggio,” replica pronto.
Sasuke – ha i capelli un po’ più lunghi, o
forse è solo un’impressione – annuisce brevemente, prendendo
fiato.
“Se volete avere qualche speranza di sopravvivenza dovete
arrendervi e sottostare alle nostre richieste. Tra tre ore torneremo qui e
dovrete consegnarci l’uomo chiamato Danzou,
insieme ai consiglieri dell’Hokage…e al jinchuuriki di Kyuubi,
Uzumaki Naruto,” conclude lapidario, fissando imperscrutabile un punto
appena sopra la spalla dell’antico maestro. “Se lo farete senza
creare problemi e vi sottometterete, valuteremo se risparmiarvi,”
s’interrompe in una breve pausa, durante la quale a Kakashi pare che nel
suo petto non ci sia un cuore, ma un tamburo che rimbomba
d’incredulità.
“Se rifiuterete, marceremo su Konoha e la raderemo al
suolo.”
Ed è strano, e infinitamente amaro, sentire la sua voce ferma
e priva di emozione che pronuncia quelle parole. La voce di Sasuke, soltanto un
po’ più grave e matura, ma indubbiamente la stessa voce che, con
note cristalline, apostrofava proprio Naruto con affezionata beffardia e parlava di ricreare un clan, di futuro. Ed
è un’ondata di rabbia quel che lo porta a sviluppare, di
indignazione per tutto il rispetto che Sasuke ha mancato per cominciare a se
stesso, rendendosi strumento di un’aberrazione, e poi a tutti loro, e a
chi ancora crede in lui in qualche modo. A lui, a Sakura, a Naruto che continua
a sperare e che viene considerato alla stregua di un oggetto di scambio.
“Sas’ke!” esclama Kakashi, e la sua voce grave
freme di collera, la figura irrigidita con decisione. “Penso di poter
già rispondere a nome dell’Hokage. Noi non vi consegneremo mai
nessuno, non importa a quale prezzo. Marciate su Konoha: troverete che la
volontà del fuoco riscalda ancora i suoi abitanti e che gli shinobi
della Foglia sono pronti ad accogliervi come meritate.”
Ha parlato con fermezza, ogni sillaba vibrava di disprezzo per
quella richiesta vergognosa. Nell’occhio nero del ninja-copia non
c’è più mitezza, ma una luce combattiva, risoluta. Sasuke
lo ascolta immobile, sbuffa leggermente e serra le labbra. Deve aver percepito
anche lui che non ha più davanti un maestro, ma un guerriero pronto a
tutto.
“Lo immaginavo,” commenta ironico, senza
apparentemente badarvi. “Come volete. Ma sappi che, così facendo,
nessuno dei tuoi preziosi compagni sopravvivrà a questa notte,”
aggiunge freddamente.
“Lo vedremo,” replica Kakashi, nient’affatto
impressionato. Ne ha ricevute tante, di minacce analoghe, che sentirne una in
più non lo sfiora. È piuttosto il fatto che sia Sasuke
l’autore di quell’intimidazione a ferirlo, ma questo non traspare.
“Aspetteremo comunque tre ore. Forse a Konoha
c’è qualcuno meno temerario e meno stupido di te, disposto ad
accontentarci,” aggiunge Sasuke, facendo per rimettere in testa il
cappello.
È una conversazione che dovrebbe concludersi così.
Non c’è più altro da dire, perché il bambino ha
camminato troppo lontano e troppo in fretta e ormai intorno a lui
c’è un abisso. Ma Kakashi lo guarda ancora per un secondo e quello
che vede, forse perché davvero è stupido, è il ragazzino
terrorizzato dal marchio nero comparso sul suo collo, il piccolo Sasuke che si
è affidato a lui in cerca di aiuto, confidando nella sua protezione e in
quella del povero sigillo che gli aveva impresso sul collo per fermare quello
oscuro di Orochimaru. Il ragazzo fatto di solo odio che ha davanti gli somiglia
poco, ma è troppo doloroso pensare che non c’è più
niente del suo giovane genin in questo shinobi gelido e troppo cresciuto.
“Perché Naruto, Sas’ke?” mormora
amareggiato. “Era il tuo migliore amico.”
Il ragazzo interrompe il movimento del braccio repentinamente. Non
risponde, ma fissa il cappello facendolo roteare nella mano con lentezza
estenuante.
“L’ho già spiegato a lui,” risponde con
disinteresse. “Ho cancellato quel legame insieme a tutti gli altri.
Naruto ai miei occhi non ha più importanza di un granello di sabbia, che
viva o muoia mi è del tutto indifferente. Ma per gli altri membri
dell’Akatsuki è di fondamentale importanza ottenere il suo bijuu e
io ho un accordo con loro,” conclude fermo.
“Un accordo,” ripete Kakashi scettico. “A quale
scopo?”
Sasuke sbuffa, infastidito.
“Dovresti saperlo,” risponde lapidario. “Portare
a termine la mia vendetta.”
Kakashi aggrotta la fronte, con un moto di delusione nel vedere i
suoi sospetti confermati.
“Parli ancora di vendetta, Sas’ke?” lo apostrofa
duro. “Hai già ucciso tuo fratello, non ti fermerai mai?”
Sasuke lo guarda con indecifrabile pesantezza.
“Mi fermerò quando tutti quelli che hanno fatto del
male avranno pagato,” risponde sibillino.
“Allora dovrai distruggere il mondo intero. Dappertutto
c’è qualcuno che va punito,” osserva lui, brusco.
Sasuke accenna un sorriso cupo, compiacente.
“Non parlo del male generico. Dell’andamento del mondo
non m’importa nulla; che le nazioni continuino pure a devastarsi
l’un l’altra, per me è indifferente. È quello che
accadrà in ogni caso. Io voglio vendicarmi di chi ha distrutto i
miei.” Tace per un istante, deciso. “Non c’è niente
che ti debba spiegare, non mi interessa che tu capisca o meno.”
“Sei tu che non capisci, Sas’ke,” replica
Kakashi, cupo. “La tua vendetta è una spirale che continua ad
allargarsi. Devi fermarti, e devi farlo ora. Dopo sarà troppo tardi e
non ti resterà che disperarti per gli errori commessi,” ammonisce,
con una sorta di raccolta solennità.
“Non so di cosa tu stia parlando,” replica il ragazzo,
altero.
“Sì che lo sai!” sbotta Kakashi, alzando la
voce. “Puoi anche mentire a te stesso e raccontare a chi ti sta intorno
le tue sciocchezze da eroe sfortunato, ma non funziona con me,
Sas’ke,” lo avverte, secco. “Sai, io c’ero. Ero
lì quando tu e Naruto avete combattuto contro Haku,
quando l’hai salvato mentre precipitava dall’albero, vi ho visti
crescere insieme. Ti conosco, Sas’ke. Forse sono l’unico che ti
conosce davvero. So cosa si prova ad essere soli e ricordarsi del tempo in cui
si aveva qualcuno vicino, e so della rabbia che quella memoria genera. Te
l’avevo detto, io e te siamo simili. Io ho voluto rinchiudermi nella
solitudine molto a lungo, prima di trovare voi. Tu stai commettendo un errore
ancora più grave,” s’interrompe, chinando leggermente la
testa. “Ti vorrei insegnare un’ultima cosa, anche se non sono
più il tuo sensei: ricominciare da zero. Permettimelo,” conclude,
abbassando lo sguardo in quella che è la più aperta dichiarazione
d’affetto della sua vita schiva.
Solleva di nuovo lo sguardo sul ragazzo ed ha un leggero moto di
sorpresa. Sasuke, lo sguardo basso, non è più una maschera senza
espressione: il velo che copre il suo viso si è lacerato, mostrando nei
suoi lineamenti il rammarico e forse – ma non è sicuro – la
nostalgia. E quando parla la sua voce è più bassa, meno impostata.
“Ti avevo detto che non volevo sentire lezioni,”
mormora stancamente. “Quanta tenacia, Kakashi, non sei cambiato. Mi fai
tornare in mente quella sera, quando mi dicesti che per nessuna ragione
abbandoneresti un tuo compagno al suo destino, nemmeno se avesse puntati
addosso gli occhi del peggiore dei mostri. Ti ricordi?” domanda con
leggera derisione, mentre il suo sguardo si sposta di lato, verso il fitto
della boscaglia.
Una cosa che gli piaceva
di lui era che non si arrendeva per nessuna ragione, nelle piccole come nelle
grandi sfide. Anche stremato, senza più forze, Sasuke portava a termine
l’allenamento fino all’ultimo punto della tabella di marcia,
rifiutando di fermarsi. Giorno dopo giorno, con determinazione, e tanto
più preparando quel torneo che segnava un grande passo verso i suoi
obiettivi.
Là, tra le
montagne, sotto il sole cocente, era capace di proseguire per ore e ore, senza
fermarsi; e se per caso un momento di stanchezza eccessiva lo annichiliva,
bastava una minima incitazione perché si raddrizzasse sulle gambe e
riprendesse, con negli occhi la stessa volontà inarrestabile che
restituiva energia al suo corpo smilzo di ragazzetto.
Certe volte non poteva
fare a meno di esserne intenerito, anche se era Kakashi Hatake, un guerriero
temprato e irremovibile, esente dalle debolezze umane. Perché Sasuke era
alto un soldo di cacio e aveva braccia sottili come stecchini – niente di
strano, a dodici anni – ma viveva nello sforzo costante di superare i
limiti, di essere completo nonostante l’età. Voleva bastare a se
stesso, era orgoglioso come il più testardo degli adulti, incapace di
ammettere di non potercela fare da solo. Ma non gli bastava negarlo per
evitarlo e a volte, inaspettatamente, qualcosa del ragazzino che era gli
sfuggiva, in certi sguardi confusi e smarriti, certe esitazioni intimidite che
controllava a stento e le paure, che tutti i bambini hanno. Sapeva dominarle
quasi sempre, ma non era sufficiente per celarle agli occhi di un maestro.
Quel pomeriggio aveva
preso a piovere poco dopo le quattro. Un vento freddo aveva iniziato a soffiare
quasi da un momento all’altro e il cielo si era coperto di nuvoloni
tenebrosi, d’un grigio plumbeo e opprimente, che ben presto avevano
scatenato un piovasco violento, sferzante. Essere tra le vette delle montagne,
all’addiaccio, non risultava granché comodo e allievo e maestro si
erano rifugiati in un anfratto fra le rocce nella gola sottostante la spianata
dove si allenavano, per ripararsi almeno dalle folate più gelide e
dall’acqua che cadeva fitta.
Sasuke era bagnato come
un pulcino. Naturalmente anche lui stesso doveva esserlo –
d’accordo essere il numero uno di Konoha, ma a diventare impermeabile
all’acqua ancora non c’era arrivato – ma di sicuro non faceva
lo stesso effetto di quel mucchietto d’ossa con i capelli neri
appiccicati alla testa e la maglietta che gocciolava, mesta: Sasuke non
sembrava piccolo, sembrava microscopico. Era accoccolato in fondo alla grotta e
tremava di freddo, ma quando lui gli aveva chiesto se non volesse la sua giubba
aveva risposto che non ne aveva bisogno, l’unica cosa importante era che
smettesse di piovere per continuare l’allenamento.
E poi era crollato come
un sacco. Un momento Kakashi gli suggeriva di approfittare della pausa forzata
per riposare, poi voltava lo sguardo a scrutare uno spicchio di cielo fuori
dalla grotta e l’attimo dopo, girandosi di nuovo verso Sasuke, lo trovava
addormentato come un ghiro, con la testa piegata sulla spalla e le mani
ciondolanti a terra. Sfinito da settimane di continui sforzi, dalla recente
convalescenza e dal trauma mai ammesso dell’aggressione di Orochimaru.
Non aveva potuto non
sorridere. Che facesse il duro o meno, Sasuke restava un dodicenne.
Lo aveva osservato per
qualche minuto in silenzio. Dei suoi tre allievi, era quello che più
sentiva vicino. Per lo sharingan, certo, e perché si somigliavano.
Avevano entrambi un carattere chiuso e maniere composte, erano tutti e due soli
da parecchio tempo e avevano visto morire tutti quelli che amavano di
più. Sasuke gli ricordava se stesso, un bambino sperduto in un mondo
troppo grande in cui qualcuno di tanto giovane non avrebbe dovuto essere solo.
Come lui, Sasuke era cresciuto troppo in fretta e gli mancava
l’equilibrio: bruciando tante tappe – non che lo avesse voluto, povero
orfano – era grande a metà, non più bimbo, non adulto.
Avrebbe voluto poter
cambiare quello stato di cose. Sarebbe stato bello sapergli insegnare a
ritrovare la spensieratezza. Lui, a riconquistarla, ci aveva messo anni: e
soltanto nel ciarlare esaltato di Naruto, nelle moine di Sakura e negli occhi
neri di Sasuke ci era riuscito a fondo.
Aveva anche
un’infinità di altre cose da insegnargli, comunque: tutto quel che
si poteva imparare con uno sharingan, gli infiniti jutsu
da copiare, il comportamento di un vero shinobi; perché Sasuke aveva
potenzialità straordinarie e lui non nutriva dubbi sul fatto che ben
presto lo avrebbe superato. Sarebbe diventato un grande ninja, e prima di
allora voleva che sapesse cosa questo significasse davvero. Voleva insegnargli
la giusta considerazione per la vita, per i più deboli, per le
gerarchie; voleva vedere quel ragazzino introverso diventare uomo e guidarlo da
vicino, perché non dovesse più procedere da solo, a tentoni,
com’era stato costretto a fare in quegli anni. Era un bel pensiero,
promettente e luminoso.
Era quasi come essere
padre. A ventisei anni, forse precocemente, ma non aveva una grande importanza.
Per quel suo speciale allievo poteva, finalmente, imparare a condividere
veramente la sua vita. Anche tutte le cose che non diceva mai, il modo in cui
passasse le giornate, qualunque cosa Sasuke avesse voluto sapere.
E non gli sembrò
strano, dopo tre ore di pigre e insolite elucubrazioni cullate dal ticchettio
della pioggia, che anche Sasuke, svegliandosi, sembrasse assorto. Il ragazzino
sollevò leggermente la testa con un sussulto, si guardò intorno
perplesso, facendo mente locale, e infine raddrizzò la schiena con in
faccia la vergogna di essersi addormentato come un moccioso.
“Potevi svegliarmi,
sensei,” borbottò sostenuto.
“Non ce n’era
motivo, Sas’ke. Sta ancora piovendo,” replicò lui, benevolo.
E Sasuke non disse altro.
Si piegò sulle ginocchia e rimase rannicchiato, con ancora un vago
broncio e un’espressione pensosa, inquieta. Era piuttosto intontito
– nulla di strano, era crollato come in un letargo – e soltanto
quando lui lo riscosse leggermente, chiedendogli se avesse fame, storse il naso
e annuì spiccio.
Però, quando lui
gli porse la ciotola, prese a giocherellarvi con riluttanza, distratto e
corrucciato.
“Qualcosa non va,
Sas’ke?” chiese accorto.
L’allievo parve
quasi sussultare, poi raddrizzò il capo con la consueta fierezza e la
sua espressione tornò composta.
“Non ho molta fame,
sensei,” ammise noncurante.
Kakashi lo scrutò
penetrante, registrando il suo pallore innaturale.
“Probabilmente hai
preso un colpo di freddo, con quel vento,” ipotizzò bonario.
“Dovresti rimetterti a dormire. Sdraiati, tanto per oggi
l’allenamento è andato.”
Sasuke aggrottò la
fronte con fastidio, probabilmente per il pensiero di tutte quelle ore di
apprendimento sprecate. Però non protestò, come invece Kakashi si
era aspettato, e con inusuale ragionevolezza e uno sbuffo silenzioso gli
allungò il piatto indietro, senza aver preso un boccone.
“Sicuro che non ne
vuoi nemmeno un po’?” lo interrogò lui. Gettò
un’occhiata al misero pasto messo insieme alla meglio: con tutta
quell’acqua non si poteva nemmeno accendere un fuoco e la sua cucina ne
risentiva. “Capisco che non sia molto invitante, in effetti,” borbottò,
quasi tra sé.
A Sasuke sfuggì un
sorriso divertito, prima che il suo viso si corrugasse in una smorfia
contrariata.
“Non sono un
bambino,” protestò bizzoso, voltando lievemente la testa con un
involontario gesto di risentimento del tutto infantile. “Non ho davvero
fame. Mangerò domattina.”
“Come vuoi,”
confermò Kakashi solerte, sforzandosi di prendere sul serio le sue
rivendicazioni. “Dormi, allora. Io farò un po’ di luce e
leggerò qualche pagina,” aggiunse, sedendosi più comodamente
e sfilando dalla tasca il suo fedele volumetto.
“Ancora…quella
scemenza della pomiciata?” borbottò Sasuke noncurante,
infagottandosi nella sua coperta per allungarsi al suolo. “Non capisco
cosa ci trovi in quella roba da femmine,” aggiunse annoiato.
“Ne riparleremo
quando tu e Sakura avrete qualche anno in più,” lo schernì
Kakashi, rimanendo tuttavia perfettamente serio e riprendendo la sua lettura
dell’opera di Jiraiya. Sasuke sbuffò sprezzante, con dileggio.
“Che c’entra
Sakura?” ribatté freddo, quasi sulla difensiva.
“Assolutamente
nulla. Adesso dormi, che mi fai perdere il filo,” replicò Kakashi
distratto, dando corda alle sue convinzioni.
“Va bene,”
rispose il ragazzino, sostenuto. “Buonanotte, sensei,”
mormorò piano.
Kakashi sorrise tra
sé: da quand’erano lì insieme, ogni sera Sasuke sussurrava un
buonanotte quasi impercettibile, come se si vergognasse di mostrare tanta
considerazione per un altro essere umano. Ma nel fondo della sua voce
c’era una scintilla di remota gioia, quasi di sorpresa: come se non si
capacitasse di avere di nuovo, finalmente, qualcuno a cui fare
quell’augurio tanto normale ma per lui dimenticato.
“Anche a te,
Sas’ke.”
Kakashi continuò a
leggere per un paio d’ore: i romanzi di Jiraiya lo appassionavano sempre
enormemente; c’era chi lo riteneva un passatempo deplorevole, ma lui
giudicava fosse perfetto per un uomo solo, che trascorreva la sua vita sui
campi di battaglia e ogni tanto aveva voglia giusto di staccare il cervello e
non usare la materia grigia. D’altra parte, da quando era il sensei del
team sette il tempo che dedicava alle sue letture era enormemente diminuito.
Non badò
all’allievo finché non decise che fosse venuto il momento di
dormire anche per lui: a quel punto, chiudendo il libro, gli gettò
un’occhiata di sbieco, scoprendolo immobile ma non, come credeva,
addormentato. Gli occhi neri del ragazzino erano aperti, anzi ben spalancati, e
fissi sul soffitto scuro della grotta.
“Sas’ke?”
lo interrogò stupito, provocandogli un sobbalzo. “Non
dormi?”
Quello si rigirò,
colto in flagrante, ed emise un mugugno incomprensibile.
“Mi è
passato il sonno,” annunciò infine, riluttante ma sempre compito.
“Ma devi dormire, o
domani sarai uno straccio e non combinerai nulla. Hai visto quel ragazzo che
è stato qui l’altro giorno, Gaara: sarà
il tuo primo avversario e non credo convenga sottovalutarlo. Ha qualcosa di
strano,” osservò lui, svagato e ragionevole.
“Lo so,”
rispose Sasuke altezzoso, risentito per quelle raccomandazioni che
evidentemente riteneva inadatte a
un persona matura e ragionevole del suo stampo.
Ma non chiuse gli occhi,
mentre Kakashi si allungava indietro. Continuò a fissare il vuoto come
in trance, finché il maestro non sbuffò pazientemente.
“Sicuro che non ci
sia qualcosa che non va, Sas’ke?” lo spronò con voce
distratta, per non dargli l’impressione che si preoccupasse per lui come
se fosse stato un bambino.
“No, a posto,”
rispose l’allievo con fierezza.
Kakashi socchiuse gli
occhi, rassegnato. Lui, a differenza di Sasuke, di sonno ne aveva eccome. Era
già mezzo intontito quando la sua voce mormorante lo raggiunse, con un
tono noncurante che però tradiva la sua ansia.
“Ho fatto un sogno,
prima.”
Kakashi aprì di
scatto l’occhio scoperto, prestandogli la massima attenzione, ma senza
muoversi.
“Vuoi
raccontarmelo?” propose vago, fingendosi molto più insonnolito e
disinteressato di quanto fosse.
“No,” rispose
Sasuke, deciso. “Sensei,” riprese poi, la voce quasi imbarazzata
per quello slancio di confidenza, “tu…tu non lascerai…quando Orochimaru…”
E s’interruppe, serrando strettamente le labbra. Si girò, dandogli
la schiena, e si accoccolò su se stesso. “Non fa niente. A
domani.”
Kakashi tacque per
qualche secondo, prima di raddrizzarsi e torcere il busto nella sua direzione.
“Sas’ke,”
iniziò grave, “come dico sempre, per nessuna ragione abbandonerei
un mio compagno al suo destino. Nemmeno se avesse puntati addosso gli occhi del
peggiore dei mostri. Lo sai, che si tratti di Orochimaru o di chiunque altro,
non sarai da solo ad affrontarlo.”
Non giunse risposta per
un tempo così lungo che pensò Sasuke stesse fingendo di dormire.
Poi lo sentì muoversi impercettibilmente ed emettere un sospiro forse
preoccupato, forse sollevato.
“Grazie,”
mormorò infine il ragazzino.
Non dissero altro. Quando
si svegliò, al levar del sole, Kakashi trovò la testolina scura
di Sasuke poggiata sul suo avambraccio, scoprendolo allungato di sbieco sulla
terra come se nel sonno il suo corpo avesse cercato istintivamente un rifugio.
Lo spostò facendo molta attenzione a non svegliarlo, sapendo quanto il
suo allievo si sarebbe vergognato di aver mostrato tanta debolezza.
“…Mi fai tornare in mente quella sera, quando mi dicesti
che per nessuna ragione abbandoneresti un tuo compagno al suo destino, nemmeno
se avesse puntati addosso gli occhi del peggiore dei mostri. Ti ricordi?”
esclama Sasuke con leggera derisione, mentre il suo sguardo si sposta di lato,
verso il fitto della boscaglia.
È come una cascata di ricordi che scroscia, e Kakashi
ritrova in un secondo la sensazione vivida di svegliarsi con accanto quel
bambino che era un po’ figlio, un po’ fratello e un po’
amico. Lo guarda, e non lo trova più. Adesso Sasuke si sente grande, non
ha più bisogno di dormire con qualcuno vicino. O forse ne avrebbe, ma
non lo ammetterà.
“Sì, me ne ricordo,” risponde, schietto. Lo
sguardo di Sasuke non si muove da lui, resta fermo sulle chiome nere degli
alberi, dove si perde con innaturale fissità. Troppa, per essere
casuale.
“Ma ora è diverso,” aggiunge fiero il ragazzo.
“Agisco spontaneamente seguendo la mia volontà, nessuno mi
controlla. Non ho bisogno del tuo aiuto.”
È allora che la comprensione illumina il jonin, repentina ed
evidente, mentre ancora segue lo sguardo immoto del ragazzo che si perde tra i
rami. C’è qualcuno, lì. C’è qualcuno che li sta osservando.
Fatica a trattenere un’esclamazione di sorpresa, la soffoca
muovendo appena una mano. Qualcuno dell’Akatsuki sta controllando che il
traditore di Konoha non tradisca anche loro: non si fidano così tanto di
Sasuke, dunque.
E non hanno tutti i torti, dal momento che lui lo sta mettendo a
parte del fatto; Sasuke gli sta dicendo che non può parlare, che deve
agire secondo uno schema di facciata. Adesso, guardandolo negli occhi che
finalmente sono tornati su di lui, sollevati per essere riusciti a trasmettere
il messaggio, lo ritrova: il suo viso è rimasto glaciale, sprezzante, ma
nelle iridi danza una scintilla di speranza, una muta richiesta di aiuto e
collaborazione. Kakashi vorrebbe sorridere, se solo non sembrasse così
strano.
“Capisco,” risponde pacato, con segreta intesa.
“Non sta a me giudicare le tue scelte.”
Sasuke annuisce, dignitoso.
“E’ tutto, Kakashi,” conclude, rimettendo
finalmente il cappello. “Porta il mio messaggio a Konoha,” intima,
sparendo tra la stoffa e la paglia. “Spero per loro che capiscano cosa
è meglio per tutti voi, e che quando tornerai avrai una risposta
affermativa e non sarai solo. Portaci Naruto,” aggiunge, freddo e
sbrigativo.
Ma il messaggio è chiaro, cristallino: Naruto probabilmente
è l’unico che, ora come ora, possa davvero qualcosa per Konoha e
anche per Sasuke stesso. E se Kakashi non si sbaglia, se lo conosce ancora
almeno un po’, il suo giovane allievo ha già in mente qualcosa per
sbrogliare quella complicata situazione.
“Riferirò,” afferma marziale.
Sasuke annuisce, spostando la gamba indietro. Quando si volta,
ruotando su se stesso, muove leggermente la mano in un cenno di saluto quasi
invisibile, poi inizia ad allontanarsi.
Lui lo guarda in silenzio, mentre la sua sagoma si fa sempre
più lontana. Sorride, perché il bambino, adesso sì,
è diventato un po’ più grande. Abbastanza grande da sapersi
abbassare a chiedere aiuto, da riconoscere l’importanza di chi gli
è vicino. E questa volta, Kakashi lo può giurare, qualunque cosa
succeda non lo perderanno di nuovo. In barba a qualunque ostacolo, quali che
siano gli intoppi, la storia non si ripeterà. Potranno esserci infiniti
avversari ma li batteranno, e fermeranno anche Sasuke medesimo, perché a
volte è lui il nemico di se stesso e Kakashi lo sa. C’è
tanto caos, in quella testa che ha dovuto troppo precocemente pensare da
sé, e troppi impulsi e voci contrastanti di infanzia e maturità
che lo confondono come un rumore persistente e lo spingono ad agire in
contraddizione.
Ma ormai loro lo sanno, e si comporteranno di conseguenza.
E, proprio mentre Sasuke sparisce, gli viene in mente
un’ultima cosa, ma è troppo tardi per dirgliela: lo farà
immediatamente quando lo rivedrà, se lo rivedrà, appena la
battaglia sarà finita e lo avrà di nuovo a portata d’udito.
Ti vorrei insegnare anche
a crescere, Sas’ke. Permettimelo.