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Autore: suni    09/12/2008    4 recensioni
Scritta per la IV DISFIDA: DUALITEAM di CRITICONI.
Kakashi lo può vedere da vicino, adesso, anche se il suo volto è celato. E ha un moto involontario di angoscia, perché non ha bisogno di scorgere i suoi lineamenti per riconoscerlo: è lui, è lui nelle mani, agili e nervose, è lui nelle spalle dritte e altere, è lui nella dignità del silenzio.
È come vederlo bambino. Aveva dodici anni e la sua faccia era tutta una smorfia di disappunto. Bisognava pensarci allora, sarebbe stato ovvio farci caso, al fatto che non ridesse proprio mai. Che razza di maestro ci si può definire, se non si è in grado di vedere tanto strazio?
Genere: Generale, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Kakashi Hatake, Sasuke Uchiha
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Premetto che in questa fic ho voluto inscenare un futuro impossibile



 

 

NOTE INIZIALI

 

Alla fine dell’estate sono stata contattata da un gruppo di loschi personaggi per partecipare a un’iniziativa pregevole, che era poi la IV DISFIDA di Criticoni, DUALITEAM. Evidentemente le povere creature non sapevano davvero più dove sbattere la testa e mi hanno coinvolta, inserendomi nella loro squadra. Ciascuna di noi ha scritto e presentato la propria opera e questa è la mia.

Il nostro team Lambda è composto da (alfabeticamente) ery, fiorediloto, herm weasley, juliette saito, kimmy dreamer, sourcreamandonions (che cito con piacere pur essendo il fumo negli occhi per certuni) e, ovviamente, me. Ringrazio sentitamente e sinceramente tutte per l’occasione fornitami (di fare una figura barbina).

 

SPOILER: questa fanfic è collocata in un ipotetico – e improbabile - futuro prossimo dopo il capitolo 416 del manga. Quindi non tiene conto di tutto quanto segue (perché all’epoca della stesura non era stato ancora pubblicato).

 

 

 

 

∞∞∞∞∞∞∞∞∞

 

 

 

 

 

L’Akatsuki è alle porte di Konoha.

La notizia ha attraversato il villaggio con la potenza di un’esplosione: per tutti gli shinobi della Foglia l’annuncio ha avuto l’effetto di un colpo in pieno petto, ma anche di una scarica di adrenalina. Da settimane erano stati avvisati dalle autorità del pericolo incombente e ora sanno che è giunto il momento di combattere con ogni forza per la salvezza della loro terra. Tra poche ore, stanotte forse, saranno decise le sorti di Konoha.

È come se un vento si diffondesse per le strade, soffiando sotto le soglie e dagli spifferi delle finestre e attirandoli fuori con sé. E per la prima volta senza ordini, senza disposizioni, i guerrieri depositari della volontà del fuoco si radunano ai cancelli d’ingresso, lungo le mura, come se già sapessero che ogni metro, ogni zolla di terra sarà da difendere strenuamente.

I jonin dell’Hokage sono i primi a giungere all’accesso del villaggio: Gai, Anko, Genma e poi tutti gli altri, fino al giovane Neji Hyuga e al neopromosso, Shikamaru Nara. Con grande sorpresa trovano già lì Uzumaki Naruto, sul punto di uscire dai confini; sono costretti a trattenerlo, perché la sua intenzione, afferma risoluto, è andare incontro al nemico, a Sasuke.

È Sakura Haruno, accorsa dopo un paio di minuti, a riuscire a calmarlo abbastanza da attendere l’arrivo dell’Hokage. Ma prima di Tsunade giungono i chunin, e poi alcuni ANBU.

Lei, la hime di Konoha, arriva scortata da Danzou. E finalmente dà conferma della notizia: la squadra di ricognizione di Konoha è stata trattenuta e poi sconfitta dagli intrusi, un solo suo membro è stato lasciato in vita per portare un messaggio al villaggio.

Gli shinobi si radunano intorno all’Hokage, e ascoltano. 

 

 

 

 

Ti vorrei insegnare

 

 

 

Il silenzio successivo alle parole di Tsunade si è già fatto cupo, quando Kakashi dello sharingan arriva dalla via che porta alla lapide. Il grande shinobi passa da anni una buona percentuale del suo tempo libero davanti al monumento ai caduti, ripensando ai suoi morti, perciò non c’è poi nulla di così stupefacente nel fatto che anche stasera, questa sera così decisiva per il villaggio, la sua sagoma scura compaia proveniente proprio da quella direzione, avanzando lenta verso i suoi compagni riuniti alle porte del villaggio. Questo non impedisce che la sua flemma nel raggiungerli, dopo che già l’Hokage stessa è arrivata e ha parlato, non venga sottolineata da sguardi rassegnati e vagamente disapprovatori.

Lui, il ninja-copia, non sembra affatto impressionato da quell’attenzione: si limita a guardarsi intorno bonario, celando dietro le maniere placide la sollecitudine del combattente. Studia il gruppo radunato nell’attesa, i visi seri e irrigiditi dall’aspettativa e osserva in silenzio, per farsi un’idea più precisa della situazione non solo per quanto può concernere gli avversari, ma Konoha stessa.

Nota che persino Tsunade hime si trova lì, lontana dai corridoi del palazzo degli Hokage. E, a giudicare dall’occhiata collerica che rivolge al numero uno dei suoi guerrieri, non ha gradito il fatto che si sia presentato in palese ritardo anche in un momento tanto delicato.

“Kakashi,” scandisce irosa, attirando l’attenzione generale su di lui. Gai si volta di scatto, fosco, con le spesse sopracciglia aggrottate, e Naruto freme, protendendosi istintivamente verso di lui. “Avresti dovuto arrivare prima, ritengo,” osserva l’Hokage, mantenendo a stento la calma.

“Mi dispiace,” afferma Kakashi stancamente, “ho avuto un contrattempo. Qual è la situazione esatta?”

“La nostra squadra si è imbattuta in due di loro un’ora fa,” annuncia Shizune pronta. “Hanno lasciato vivo uno dei nostri, col messaggio che manderanno un loro ambasciatore sulla via del villaggio al calar del sole.”

Kakashi annuisce lentamente, spostando intorno a sé l’occhio scoperto, vigile. L’agitazione è davvero palpabile su ognuno dei visi che lo attorniano: i jonin sono tutti tesi come corde di violino e persino gli ANBU, come Tenzou, sembrano sul chi vive; sono schierati alle spalle di Tsunade, pronti a scattare a un suo cenno. Gli shinobi più giovani, come Neji e Shikamaru, sembrano non essere capaci di stare fermi. Il fatto che persino il controllato Hyuuga, sempre calmo e lucido, paia tanto nervoso è indizio di quanto la situazione sia inquietante per ragazzi di quell’età. Anche Sai, l’indecifrabile Sai, ha accantonato del tutto il sorriso artefatto e sembra guardingo, seppur perfettamente padrone di sé.

Sakura, in un angolo, è immobile. Gli occhi verdi dell’allieva di Tsunade – nonché sua ex allieva – sono tremuli e fissi a terra, come se già sapesse di non voler vedere quel che presto accadrà.

Non ha invece bisogno di guardare in faccia Naruto per sapere quanto sia ansioso in questo momento, ma lo fa ugualmente: il viso del biondo jinchuuriki è attraversato da un’angoscia che traspare con evidenza, le mani sono strette tanto che le nocche sembrano bianche, lo sguardo spaventato e deciso al contempo.

Danzou è l’unico a non sembrare preoccupato. Kakashi non se ne sorprende più di tanto, limitandosi a registrare la sua presenza con fastidio; uno dei motivi principali per cui ha lasciato gli ANBU è che pullulano tuttora di gente del suo stampo, anche se Danzou è unico nel suo genere.

“Altro?” chiede con flemma.

“Hanno detto che dobbiamo mandare un uomo anche noi,” annuncia proprio il capo della Radice, impassibile. “Ho suggerito a Tsunade-sama uno dei miei uomini: sono addestrati per mantenere il sangue freddo in ogni situazione.”

Kakashi annulla il movimento scontento delle proprie sopracciglia ancor prima che avvenga. Sposta l’occhio in direzione dell’Hokage, scorgendo nello sguardo di Tsunade contrarietà e disappunto.

“Non ne dubito, Danzou-sama,” replica, con un accenno di sorriso rispettoso. “Tuttavia, se nessuno è contrario, vorrei assumermi io quest’onere,” prosegue di slancio, risoluto. Le parole gli sono sgorgate dalle labbra quasi autonomamente, come dando voce a quel profondo senso di malessere che la notizia dell’arrivo dell’Akatsuki, e di Sasuke, gli ha arrecato. Non è facile essere il maestro di un traditore.

Ignora gli occhi sgranati di Gai e la testa di Sakura che si solleva di scatto, tanto che sembra essere stata caricata a molla. Rimane fermo sotto i loro sguardi, senza abbandonare il suo remoto sorriso.

“Tu?” ripete Danzou, senza entusiasmo. “Sei l’uomo migliore dell’Hokage, avrà bisogno di te. Se dovessero decidere di…” inizia, mellifluo.

“Non oseranno uccidere un ambasciatore,” risponde Kakashi sicuro, sapendo perfettamente di mentire. “E se davvero sono l’uomo migliore, allora un compito tanto delicato non può essere affidato che a me.”

E non gli interessa spiegare la vera ragione per cui vuole essere lui a incontrare il membro dell’Akatsuki che verrà a parlamentare. Qualcosa gli dice che potrebbe essere esattamente la persona che da tre anni aspetta di rivedere, per scoprire dopo tanto tempo in che cosa la lontananza ha trasformato il ragazzino che ricorda. Non è, comunque, niente più di una sensazione a spingerlo.

Un altro rapido sguardo scivola tra lui e Tsunade, che tace fosca per qualche istante e poi, con un impercettibile sospiro, annuisce un poco. Forse ha capito quel che lui sta pensando; è stata un’allieva del Terzo. Era la compagna di squadra di Orochimaru.

“Mi fido di te più che di chiunque altro, Kakashi,” esclama, insolitamente solenne. “Se te la senti, per me è la soluzione migliore,” conclude, con un tono definitivo atto a ricordare che è lei il capo del villaggio.

“Vengo anch’io, sensei!” esclama Naruto, scattando in avanti.

Shikamaru lo afferra per la spalla sospirando senza parlare, lo sguardo al cielo.

“Naruto,” inizia il maestro, senza scomporsi, “non essere ridicolo. Vogliono un solo uomo.”

“Ma io devo… Sas’ke!” balbetta il ragazzo caparbio, agitandosi. “Io devo venire con te!” insiste, scuotendo i pugni.

“Naruto,” ripete lui, severo. “Non è il momento di giocare al migliore amico. Questa è una guerra, se non l’hai capito, e la posta in palio sei tu. Non è davvero il caso che tu esca dal villaggio,” lo ammonisce calmo.

Naruto non risponde. China la testa, le labbra serrate con amarezza. È un segno di resa, e il maestro lo sa.

“Allora io vado, Hokage-sama,” fa Kakashi, placido.

Tsunade annuisce e lui si volta senza aggiungere nient’altro. Non è il tipo da discorsi, né da saluti. In teoria, per giunta, tornerà indietro tra poco e non vuole che le cose sembrino gravi come in realtà probabilmente sono.

“Kakashi!” esclama Gai di soprassalto, facendo un prestante balzo avanti. “Vedi di tornare intero! Non è stato ancora decretato il vincitore della nostra sfida!” E si sente, che gli trema la voce. 

Lui non risponde. Non dà segno di badare a nulla, finché non sente una mano esile afferrare il suo avambraccio con urgenza e la riconosce senza bisogno di abbassare lo sguardo – per un maestro il respiro stesso degli allievi è unico, identificabile a occhi chiusi. Sorride ancor prima di guardarla, e Sakura è pallida, il suo volto è tutto un tremore e gli occhi sono grandi, lucidi.

“Andrà tutto bene, Sakura,” afferma con cauta dolcezza, usando il tono rassicurante che riserva sempre a lei.

“Sensei…” mormora la giovane con voce rotta, in una preghiera che è un lamento. Chissà per chi: per lui, per Sasuke, per Konoha. Kakashi non lo sa, però annuisce sicuro.

“Sistemeremo tutto. Fidati di me,” conferma.

Le palpebre di Sakura si chiudono per un secondo appena e due grosse lacrime luccicanti scivolano giù dagli angoli degli occhi, mentre stringe le labbra. Kakashi ricorda di averle già detto altre volte parole analoghe, ma niente si è sistemato: Sasuke non è tornato, Naruto non è al sicuro e nemmeno Konoha. Ma questa volta, questa volta sarà diverso.

Si libera della sua presa con delicatezza. Continua a camminare senza voltarsi, finché non è fuori dal villaggio. La sera è già quasi del tutto buia, le piante stormiscono nel silenzio e lo spicchio di luna nel cielo scurito è l’unica luce che rischiara tratti di sterrato facendoli sembrare quasi bianchi, in mezzo a tanta penombra.

Percorre qualche centinaio di metri nel silenzio notturno, camminando lentamente. Incatena i passi uno dietro l’altro su quella via percorsa infinite volte. Passi su passi, per anni, passi di bambino, con Rin e Obito, passi curiosi affianco allo Yondaime, passi tristi con Rin sola, passi solitari per tutto il tempo a seguire, fino ai passi sicuri per guidare la sua squadra, i suoi allievi, le tre piccole foglie di Konoha affidate a lui.

Passi trepidanti e frettolosi accompagnando Sasuke a combattere per la terza prova del torneo, una vita fa. I piedi corti ed esili del ragazzino, accanto ai suoi, grandi.

Quando vede la figura sbucare dal nero della notte Kakashi si ferma, e aspetta. Lui, l’altro, è avvolto nel tabarro che distingue i membri dell’Akatsuki, un gran manto nero con dipinte nuvole di porpora; ha il capo coperto dal cappello di paglia, le cui sottili falde bianche e svolazzanti celano il suo viso. Kakashi studia quella figura che si avvicina, la scruta attentamente e a ogni passo, a ogni metro di distanza annullato sente il proprio corpo pesare di più, anche se sa che non è precisamente il corpo a pesare ma qualcos’altro, dentro, più in profondità. La sua sensazione non era sbagliata, ne è più certo ad ogni passo.

Lo shinobi che gli sta venendo incontro non è un bambinetto, non arriva poco sopra la sua cintola e non ha gambette esili di ragazzino. Ma non è abbastanza alto da avere troppi anni ed è esile nella figura. Si muove con sicurezza, ma senza esserne appesantito. Ha un passo leggero, elegante, che Kakashi conosce. Quando poi solleva il capo – lui intuisce appena il brillio lontano dei suoi occhi, nel buio - e vede l’uomo di Konoha ha un’impercettibile esitazione: il suo piede sollevato rimane immobile per una frazione di secondo e si deposita a terra quasi con cautela; ma è un attimo e l’avanzata riprende con invariata fermezza. Arrivato a pochi metri si ferma, immobile; soltanto il manto ondeggia leggermente nella brezza serale.

C’è un istante in cui nessuno dei due parla. Kakashi lo può vedere da vicino, adesso, anche se il suo volto è celato. E ha un moto involontario di angoscia, perché non ha bisogno di scorgere i suoi lineamenti per riconoscerlo: è lui, è lui nelle mani, agili e nervose, è lui nelle spalle dritte e altere, è lui nella dignità del silenzio.

È come vederlo bambino. Aveva dodici anni e la sua faccia era tutta una smorfia di disappunto. Bisognava pensarci allora, sarebbe stato ovvio farci caso, al fatto che non ridesse proprio mai. Che razza di maestro ci si può definire, se non si è in grado di vedere tanto strazio?

Ma non è più il momento per pensarci. Kakashi raddrizza la testa con sicurezza e poggia una mano sul fianco, pratico.

“Sono l’uomo che avete chiesto a Konoha per parlamentare,” annuncia con tono dimesso. “Il mio nome è Hatake Kakashi, sono un jonin della Foglia.”

C’è un momento di silenzio lungo, denso. L’uomo dell’Akatsuki continua a non muoversi. S’intuisce – o forse è quel che Kakashi vuole intuire – la sua esitazione ed è quella che il ninja-copia sfrutta, anticipando l’interlocutore.

“Sta a te, adesso, mostrare il viso,” prosegue, sbrigativo.

La mano dell’altro fa un movimento impercettibile e torna immobile prima di sollevarsi con decisione, nel rinnovato silenzio. Kakashi sa che non è reale, ma la sua impressione è che quelle dita impieghino un tempo lunghissimo a raggiungere il cappello e afferrarlo – gli pare di scorgere distintamente il piegarsi di ogni falange – e ancora più infinito a sfilarlo dalla testa. Però istantaneamente, non appena il copricapo si scosta quel poco da liberare le prime inconfondibili ciocche di scompigliati capelli corvini, lo vede tutto intero: il resto è solo un’immagine che si sovrappone a quella che i suoi occhi hanno già disegnato, nella mente. È Sasuke.

Le sue labbra sorridono da sole con amarezza, senza che nemmeno se ne accorga, nel vederlo. È cambiato: è alto, i lineamenti si sono snelliti e induriti, la sua non è più una faccia paffuta da ragazzino ma un volto più netto, che l’espressione fredda e apatica fa sembrare non solo da adulto, ma quasi da vecchio: il bambino è diventato grande. Eppure a vederlo così, infagottato in quella cappa nera che quasi lo ingoia, sembra ancor più piccolo di quando se n’è andato. È un grido di dolore e di rabbia, Sasuke, lo è sempre stato; ed è intollerabile l’idea di averlo sentito troppo tardi.

“Avevo supposto,” inizia il ragazzo d’improvviso, con tono neutro e sguardo distante, “che avrebbero mandato te…Kakashi dello sharingan.”

La sua voce calca le ultime parole con freddo sarcasmo, quasi a sottolineare l’improprietà di quella definizione usurpatoria. Forse con intento intimidatorio, ma non è certo sufficiente a impressionarlo: è la provocazione di un ragazzo che non sa come comportarsi, è la sfrontatezza arrogante e intimamente insicura di Sasuke come la ricordava; quasi piacevole, perché lo fa sembrare ancora abbastanza simile al ragazzo che era il suo allievo prediletto.

“Già,” commenta lui affabile. “Anche io ho pensato che avrebbero mandato proprio te…Uchiha Sas’ke,” ribatte, con una nota di durezza sul suo nome. “Un uomo di Konoha per parlare con Konoha, dico bene?”

Sasuke non si scompone, annuisce solamente.

“Avresti potuto rifiutare,” commenta con piatta indifferenza.

“Al contrario,” ribatte Kakashi con tono paziente, “mi sono offerto volontariamente per questo ruolo. Ho ritenuto di doverlo fare.”

Lo sguardo del ragazzo si fa sprezzante, bellicoso.

“Per…come dice Uzumaki? Ah, sì…salvarmi,” ipotizza Sasuke gelido, con sarcasmo. “Hai pensato che sarebbe stato sufficiente venire qui a parlarmi perché ascoltando il mio sensei capissi i miei errori, non è così?” continua, sicuro e con arrogante condiscendenza.

Kakashi tace per un attimo, porta una mano automaticamente a grattare la testa, con incuria. L’altra, affondata nella tasca dei pantaloni, si serra lievemente.

“No, Sas’ke,” replica mite. “Non sono Naruto. Non ho nessuna intenzione di salvarti contro la tua volontà. Sarebbe insensato, non ti pare?” commenta con leggerezza, incassando leggermente le spalle. “Sono venuto per Konoha.”

Le labbra del ragazzo si piegano in un sorriso di sufficienza, un sorriso spento e vuoto che fa male guardare.

“Konoha,” ripete sarcastico. “Dimenticavo, sei uno di quegli imbecilli che ritengono questo villaggio di ipocriti un paradiso. Incontrerai una morte inutile difendendo un paese di vigliacchi sleali e approfittatori,” commenta senza interesse, ma non riesce del tutto a celare la vibrazione della rabbia nel proprio tono.

Quando smette di parlare Kakashi lo osserva per qualche lungo istante. È più difficile riconoscerlo, adesso. L’adulto che si sforza di essere ha troppo veleno nelle vene e troppo bisogno di sembrare impermeabile a qualunque sentimento. Davvero troppo, per essere autentico. Il bambino, lui riusciva ancora a lasciarsi andare a qualche sporadico gesto d’affetto.

“Vedo che hai imparato alla perfezione la dottrina di Orochimaru,” commenta con una certa durezza. “Ma ti sbagli ancora, Sas’ke, io non penso che Konoha sia un paradiso. E mi conosci troppo bene per credere davvero che sia così. Ma, te l’ho già detto una volta, qui ci sono le persone che hanno dissipato la mia solitudine, i miei compagni. E le difenderò: è a questo che serve essere uno shinobi, mi sembrava di avertene parlato.”

Sasuke lo scruta impassibile, prima di aggiustare il bavero del mantello con un gesto annoiato.

“Niente lezioni, sensei,” esclama distaccato. “Non è più tempo di giocare all’allievo e al maestro, quell’epoca è finita. Sono venuto per portare un messaggio all’Hokage e al villaggio,” annuncia, spiccio.

Quel repentino cambio di registro lascia intuire il suo fastidio, forse dovuto al ricordare che anche lui, sebbene lo neghi, aveva qualcuno di importante a Konoha, che ha abbandonato. Kakashi non insiste, si raddrizza in una posa più formale.

“A nome dell’Hokage, ti ascolto e riferirò il tuo messaggio,” replica pronto.

Sasuke – ha i capelli un po’ più lunghi, o forse è solo un’impressione – annuisce brevemente, prendendo fiato.

“Se volete avere qualche speranza di sopravvivenza dovete arrendervi e sottostare alle nostre richieste. Tra tre ore torneremo qui e dovrete consegnarci l’uomo chiamato Danzou, insieme ai consiglieri dell’Hokage…e al jinchuuriki di Kyuubi, Uzumaki Naruto,” conclude lapidario, fissando imperscrutabile un punto appena sopra la spalla dell’antico maestro. “Se lo farete senza creare problemi e vi sottometterete, valuteremo se risparmiarvi,” s’interrompe in una breve pausa, durante la quale a Kakashi pare che nel suo petto non ci sia un cuore, ma un tamburo che rimbomba d’incredulità.

“Se rifiuterete, marceremo su Konoha e la raderemo al suolo.”

Ed è strano, e infinitamente amaro, sentire la sua voce ferma e priva di emozione che pronuncia quelle parole. La voce di Sasuke, soltanto un po’ più grave e matura, ma indubbiamente la stessa voce che, con note cristalline, apostrofava proprio Naruto con affezionata beffardia e parlava di ricreare un clan, di futuro. Ed è un’ondata di rabbia quel che lo porta a sviluppare, di indignazione per tutto il rispetto che Sasuke ha mancato per cominciare a se stesso, rendendosi strumento di un’aberrazione, e poi a tutti loro, e a chi ancora crede in lui in qualche modo. A lui, a Sakura, a Naruto che continua a sperare e che viene considerato alla stregua di un oggetto di scambio.

“Sas’ke!” esclama Kakashi, e la sua voce grave freme di collera, la figura irrigidita con decisione. “Penso di poter già rispondere a nome dell’Hokage. Noi non vi consegneremo mai nessuno, non importa a quale prezzo. Marciate su Konoha: troverete che la volontà del fuoco riscalda ancora i suoi abitanti e che gli shinobi della Foglia sono pronti ad accogliervi come meritate.”

Ha parlato con fermezza, ogni sillaba vibrava di disprezzo per quella richiesta vergognosa. Nell’occhio nero del ninja-copia non c’è più mitezza, ma una luce combattiva, risoluta. Sasuke lo ascolta immobile, sbuffa leggermente e serra le labbra. Deve aver percepito anche lui che non ha più davanti un maestro, ma un guerriero pronto a tutto.

“Lo immaginavo,” commenta ironico, senza apparentemente badarvi. “Come volete. Ma sappi che, così facendo, nessuno dei tuoi preziosi compagni sopravvivrà a questa notte,” aggiunge freddamente.

“Lo vedremo,” replica Kakashi, nient’affatto impressionato. Ne ha ricevute tante, di minacce analoghe, che sentirne una in più non lo sfiora. È piuttosto il fatto che sia Sasuke l’autore di quell’intimidazione a ferirlo, ma questo non traspare.

“Aspetteremo comunque tre ore. Forse a Konoha c’è qualcuno meno temerario e meno stupido di te, disposto ad accontentarci,” aggiunge Sasuke, facendo per rimettere in testa il cappello.

È una conversazione che dovrebbe concludersi così. Non c’è più altro da dire, perché il bambino ha camminato troppo lontano e troppo in fretta e ormai intorno a lui c’è un abisso. Ma Kakashi lo guarda ancora per un secondo e quello che vede, forse perché davvero è stupido, è il ragazzino terrorizzato dal marchio nero comparso sul suo collo, il piccolo Sasuke che si è affidato a lui in cerca di aiuto, confidando nella sua protezione e in quella del povero sigillo che gli aveva impresso sul collo per fermare quello oscuro di Orochimaru. Il ragazzo fatto di solo odio che ha davanti gli somiglia poco, ma è troppo doloroso pensare che non c’è più niente del suo giovane genin in questo shinobi gelido e troppo cresciuto.

“Perché Naruto, Sas’ke?” mormora amareggiato. “Era il tuo migliore amico.”

Il ragazzo interrompe il movimento del braccio repentinamente. Non risponde, ma fissa il cappello facendolo roteare nella mano con lentezza estenuante.

“L’ho già spiegato a lui,” risponde con disinteresse. “Ho cancellato quel legame insieme a tutti gli altri. Naruto ai miei occhi non ha più importanza di un granello di sabbia, che viva o muoia mi è del tutto indifferente. Ma per gli altri membri dell’Akatsuki è di fondamentale importanza ottenere il suo bijuu e io ho un accordo con loro,” conclude fermo.

“Un accordo,” ripete Kakashi scettico. “A quale scopo?”

Sasuke sbuffa, infastidito.

“Dovresti saperlo,” risponde lapidario. “Portare a termine la mia vendetta.”

Kakashi aggrotta la fronte, con un moto di delusione nel vedere i suoi sospetti confermati.

“Parli ancora di vendetta, Sas’ke?” lo apostrofa duro. “Hai già ucciso tuo fratello, non ti fermerai mai?”

Sasuke lo guarda con indecifrabile pesantezza.

“Mi fermerò quando tutti quelli che hanno fatto del male avranno pagato,” risponde sibillino.

“Allora dovrai distruggere il mondo intero. Dappertutto c’è qualcuno che va punito,” osserva lui, brusco.

Sasuke accenna un sorriso cupo, compiacente.

“Non parlo del male generico. Dell’andamento del mondo non m’importa nulla; che le nazioni continuino pure a devastarsi l’un l’altra, per me è indifferente. È quello che accadrà in ogni caso. Io voglio vendicarmi di chi ha distrutto i miei.” Tace per un istante, deciso. “Non c’è niente che ti debba spiegare, non mi interessa che tu capisca o meno.”

“Sei tu che non capisci, Sas’ke,” replica Kakashi, cupo. “La tua vendetta è una spirale che continua ad allargarsi. Devi fermarti, e devi farlo ora. Dopo sarà troppo tardi e non ti resterà che disperarti per gli errori commessi,” ammonisce, con una sorta di raccolta solennità.

“Non so di cosa tu stia parlando,” replica il ragazzo, altero.

“Sì che lo sai!” sbotta Kakashi, alzando la voce. “Puoi anche mentire a te stesso e raccontare a chi ti sta intorno le tue sciocchezze da eroe sfortunato, ma non funziona con me, Sas’ke,” lo avverte, secco. “Sai, io c’ero. Ero lì quando tu e Naruto avete combattuto contro Haku, quando l’hai salvato mentre precipitava dall’albero, vi ho visti crescere insieme. Ti conosco, Sas’ke. Forse sono l’unico che ti conosce davvero. So cosa si prova ad essere soli e ricordarsi del tempo in cui si aveva qualcuno vicino, e so della rabbia che quella memoria genera. Te l’avevo detto, io e te siamo simili. Io ho voluto rinchiudermi nella solitudine molto a lungo, prima di trovare voi. Tu stai commettendo un errore ancora più grave,” s’interrompe, chinando leggermente la testa. “Ti vorrei insegnare un’ultima cosa, anche se non sono più il tuo sensei: ricominciare da zero. Permettimelo,” conclude, abbassando lo sguardo in quella che è la più aperta dichiarazione d’affetto della sua vita schiva.

Solleva di nuovo lo sguardo sul ragazzo ed ha un leggero moto di sorpresa. Sasuke, lo sguardo basso, non è più una maschera senza espressione: il velo che copre il suo viso si è lacerato, mostrando nei suoi lineamenti il rammarico e forse – ma non è sicuro – la nostalgia. E quando parla la sua voce è più bassa, meno impostata.

“Ti avevo detto che non volevo sentire lezioni,” mormora stancamente. “Quanta tenacia, Kakashi, non sei cambiato. Mi fai tornare in mente quella sera, quando mi dicesti che per nessuna ragione abbandoneresti un tuo compagno al suo destino, nemmeno se avesse puntati addosso gli occhi del peggiore dei mostri. Ti ricordi?” domanda con leggera derisione, mentre il suo sguardo si sposta di lato, verso il fitto della boscaglia.

 

Una cosa che gli piaceva di lui era che non si arrendeva per nessuna ragione, nelle piccole come nelle grandi sfide. Anche stremato, senza più forze, Sasuke portava a termine l’allenamento fino all’ultimo punto della tabella di marcia, rifiutando di fermarsi. Giorno dopo giorno, con determinazione, e tanto più preparando quel torneo che segnava un grande passo verso i suoi obiettivi.

Là, tra le montagne, sotto il sole cocente, era capace di proseguire per ore e ore, senza fermarsi; e se per caso un momento di stanchezza eccessiva lo annichiliva, bastava una minima incitazione perché si raddrizzasse sulle gambe e riprendesse, con negli occhi la stessa volontà inarrestabile che restituiva energia al suo corpo smilzo di ragazzetto.

Certe volte non poteva fare a meno di esserne intenerito, anche se era Kakashi Hatake, un guerriero temprato e irremovibile, esente dalle debolezze umane. Perché Sasuke era alto un soldo di cacio e aveva braccia sottili come stecchini – niente di strano, a dodici anni – ma viveva nello sforzo costante di superare i limiti, di essere completo nonostante l’età. Voleva bastare a se stesso, era orgoglioso come il più testardo degli adulti, incapace di ammettere di non potercela fare da solo. Ma non gli bastava negarlo per evitarlo e a volte, inaspettatamente, qualcosa del ragazzino che era gli sfuggiva, in certi sguardi confusi e smarriti, certe esitazioni intimidite che controllava a stento e le paure, che tutti i bambini hanno. Sapeva dominarle quasi sempre, ma non era sufficiente per celarle agli occhi di un maestro.

Quel pomeriggio aveva preso a piovere poco dopo le quattro. Un vento freddo aveva iniziato a soffiare quasi da un momento all’altro e il cielo si era coperto di nuvoloni tenebrosi, d’un grigio plumbeo e opprimente, che ben presto avevano scatenato un piovasco violento, sferzante. Essere tra le vette delle montagne, all’addiaccio, non risultava granché comodo e allievo e maestro si erano rifugiati in un anfratto fra le rocce nella gola sottostante la spianata dove si allenavano, per ripararsi almeno dalle folate più gelide e dall’acqua che cadeva fitta.

Sasuke era bagnato come un pulcino. Naturalmente anche lui stesso doveva esserlo – d’accordo essere il numero uno di Konoha, ma a diventare impermeabile all’acqua ancora non c’era arrivato – ma di sicuro non faceva lo stesso effetto di quel mucchietto d’ossa con i capelli neri appiccicati alla testa e la maglietta che gocciolava, mesta: Sasuke non sembrava piccolo, sembrava microscopico. Era accoccolato in fondo alla grotta e tremava di freddo, ma quando lui gli aveva chiesto se non volesse la sua giubba aveva risposto che non ne aveva bisogno, l’unica cosa importante era che smettesse di piovere per continuare l’allenamento.

E poi era crollato come un sacco. Un momento Kakashi gli suggeriva di approfittare della pausa forzata per riposare, poi voltava lo sguardo a scrutare uno spicchio di cielo fuori dalla grotta e l’attimo dopo, girandosi di nuovo verso Sasuke, lo trovava addormentato come un ghiro, con la testa piegata sulla spalla e le mani ciondolanti a terra. Sfinito da settimane di continui sforzi, dalla recente convalescenza e dal trauma mai ammesso dell’aggressione di Orochimaru.

Non aveva potuto non sorridere. Che facesse il duro o meno, Sasuke restava un dodicenne.

Lo aveva osservato per qualche minuto in silenzio. Dei suoi tre allievi, era quello che più sentiva vicino. Per lo sharingan, certo, e perché si somigliavano. Avevano entrambi un carattere chiuso e maniere composte, erano tutti e due soli da parecchio tempo e avevano visto morire tutti quelli che amavano di più. Sasuke gli ricordava se stesso, un bambino sperduto in un mondo troppo grande in cui qualcuno di tanto giovane non avrebbe dovuto essere solo. Come lui, Sasuke era cresciuto troppo in fretta e gli mancava l’equilibrio: bruciando tante tappe – non che lo avesse voluto, povero orfano – era grande a metà, non più bimbo, non adulto.

Avrebbe voluto poter cambiare quello stato di cose. Sarebbe stato bello sapergli insegnare a ritrovare la spensieratezza. Lui, a riconquistarla, ci aveva messo anni: e soltanto nel ciarlare esaltato di Naruto, nelle moine di Sakura e negli occhi neri di Sasuke ci era riuscito a fondo.

Aveva anche un’infinità di altre cose da insegnargli, comunque: tutto quel che si poteva imparare con uno sharingan, gli infiniti jutsu da copiare, il comportamento di un vero shinobi; perché Sasuke aveva potenzialità straordinarie e lui non nutriva dubbi sul fatto che ben presto lo avrebbe superato. Sarebbe diventato un grande ninja, e prima di allora voleva che sapesse cosa questo significasse davvero. Voleva insegnargli la giusta considerazione per la vita, per i più deboli, per le gerarchie; voleva vedere quel ragazzino introverso diventare uomo e guidarlo da vicino, perché non dovesse più procedere da solo, a tentoni, com’era stato costretto a fare in quegli anni. Era un bel pensiero, promettente e luminoso.

Era quasi come essere padre. A ventisei anni, forse precocemente, ma non aveva una grande importanza. Per quel suo speciale allievo poteva, finalmente, imparare a condividere veramente la sua vita. Anche tutte le cose che non diceva mai, il modo in cui passasse le giornate, qualunque cosa Sasuke avesse voluto sapere.

E non gli sembrò strano, dopo tre ore di pigre e insolite elucubrazioni cullate dal ticchettio della pioggia, che anche Sasuke, svegliandosi, sembrasse assorto. Il ragazzino sollevò leggermente la testa con un sussulto, si guardò intorno perplesso, facendo mente locale, e infine raddrizzò la schiena con in faccia la vergogna di essersi addormentato come un moccioso.

“Potevi svegliarmi, sensei,” borbottò sostenuto.

“Non ce n’era motivo, Sas’ke. Sta ancora piovendo,” replicò lui, benevolo.

E Sasuke non disse altro. Si piegò sulle ginocchia e rimase rannicchiato, con ancora un vago broncio e un’espressione pensosa, inquieta. Era piuttosto intontito – nulla di strano, era crollato come in un letargo – e soltanto quando lui lo riscosse leggermente, chiedendogli se avesse fame, storse il naso e annuì spiccio.

Però, quando lui gli porse la ciotola, prese a giocherellarvi con riluttanza, distratto e corrucciato.

“Qualcosa non va, Sas’ke?” chiese accorto.

L’allievo parve quasi sussultare, poi raddrizzò il capo con la consueta fierezza e la sua espressione tornò composta.

“Non ho molta fame, sensei,” ammise noncurante.

Kakashi lo scrutò penetrante, registrando il suo pallore innaturale.

“Probabilmente hai preso un colpo di freddo, con quel vento,” ipotizzò bonario. “Dovresti rimetterti a dormire. Sdraiati, tanto per oggi l’allenamento è andato.”

Sasuke aggrottò la fronte con fastidio, probabilmente per il pensiero di tutte quelle ore di apprendimento sprecate. Però non protestò, come invece Kakashi si era aspettato, e con inusuale ragionevolezza e uno sbuffo silenzioso gli allungò il piatto indietro, senza aver preso un boccone.

“Sicuro che non ne vuoi nemmeno un po’?” lo interrogò lui. Gettò un’occhiata al misero pasto messo insieme alla meglio: con tutta quell’acqua non si poteva nemmeno accendere un fuoco e la sua cucina ne risentiva. “Capisco che non sia molto invitante, in effetti,” borbottò, quasi tra sé.

A Sasuke sfuggì un sorriso divertito, prima che il suo viso si corrugasse in una smorfia contrariata.

“Non sono un bambino,” protestò bizzoso, voltando lievemente la testa con un involontario gesto di risentimento del tutto infantile. “Non ho davvero fame. Mangerò domattina.”

“Come vuoi,” confermò Kakashi solerte, sforzandosi di prendere sul serio le sue rivendicazioni. “Dormi, allora. Io farò un po’ di luce e leggerò qualche pagina,” aggiunse, sedendosi più comodamente e sfilando dalla tasca il suo fedele volumetto.

“Ancora…quella scemenza della pomiciata?” borbottò Sasuke noncurante, infagottandosi nella sua coperta per allungarsi al suolo. “Non capisco cosa ci trovi in quella roba da femmine,” aggiunse annoiato.

“Ne riparleremo quando tu e Sakura avrete qualche anno in più,” lo schernì Kakashi, rimanendo tuttavia perfettamente serio e riprendendo la sua lettura dell’opera di Jiraiya. Sasuke sbuffò sprezzante, con dileggio.

“Che c’entra Sakura?” ribatté freddo, quasi sulla difensiva.

“Assolutamente nulla. Adesso dormi, che mi fai perdere il filo,” replicò Kakashi distratto, dando corda alle sue convinzioni.

“Va bene,” rispose il ragazzino, sostenuto. “Buonanotte, sensei,” mormorò piano.

Kakashi sorrise tra sé: da quand’erano lì  insieme, ogni sera Sasuke sussurrava un buonanotte quasi impercettibile, come se si vergognasse di mostrare tanta considerazione per un altro essere umano. Ma nel fondo della sua voce c’era una scintilla di remota gioia, quasi di sorpresa: come se non si capacitasse di avere di nuovo, finalmente, qualcuno a cui fare quell’augurio tanto normale ma per lui dimenticato.

“Anche a te, Sas’ke.”

Kakashi continuò a leggere per un paio d’ore: i romanzi di Jiraiya lo appassionavano sempre enormemente; c’era chi lo riteneva un passatempo deplorevole, ma lui giudicava fosse perfetto per un uomo solo, che trascorreva la sua vita sui campi di battaglia e ogni tanto aveva voglia giusto di staccare il cervello e non usare la materia grigia. D’altra parte, da quando era il sensei del team sette il tempo che dedicava alle sue letture era enormemente diminuito.

Non badò all’allievo finché non decise che fosse venuto il momento di dormire anche per lui: a quel punto, chiudendo il libro, gli gettò un’occhiata di sbieco, scoprendolo immobile ma non, come credeva, addormentato. Gli occhi neri del ragazzino erano aperti, anzi ben spalancati, e fissi sul soffitto scuro della grotta.

“Sas’ke?” lo interrogò stupito, provocandogli un sobbalzo. “Non dormi?”

Quello si rigirò, colto in flagrante, ed emise un mugugno incomprensibile.

“Mi è passato il sonno,” annunciò infine, riluttante ma sempre compito.

“Ma devi dormire, o domani sarai uno straccio e non combinerai nulla. Hai visto quel ragazzo che è stato qui l’altro giorno, Gaara: sarà il tuo primo avversario e non credo convenga sottovalutarlo. Ha qualcosa di strano,” osservò lui, svagato e ragionevole.

“Lo so,” rispose Sasuke altezzoso, risentito per quelle raccomandazioni che evidentemente riteneva  inadatte a un persona matura e ragionevole del suo stampo.

Ma non chiuse gli occhi, mentre Kakashi si allungava indietro. Continuò a fissare il vuoto come in trance, finché il maestro non sbuffò pazientemente.

“Sicuro che non ci sia qualcosa che non va, Sas’ke?” lo spronò con voce distratta, per non dargli l’impressione che si preoccupasse per lui come se fosse stato un bambino.

“No, a posto,” rispose l’allievo con fierezza.

Kakashi socchiuse gli occhi, rassegnato. Lui, a differenza di Sasuke, di sonno ne aveva eccome. Era già mezzo intontito quando la sua voce mormorante lo raggiunse, con un tono noncurante che però tradiva la sua ansia.

“Ho fatto un sogno, prima.”

Kakashi aprì di scatto l’occhio scoperto, prestandogli la massima attenzione, ma senza muoversi.

“Vuoi raccontarmelo?” propose vago, fingendosi molto più insonnolito e disinteressato di quanto fosse.

“No,” rispose Sasuke, deciso. “Sensei,” riprese poi, la voce quasi imbarazzata per quello slancio di confidenza, “tu…tu non lascerai…quando Orochimaru…” E s’interruppe, serrando strettamente le labbra. Si girò, dandogli la schiena, e si accoccolò su se stesso. “Non fa niente. A domani.”

Kakashi tacque per qualche secondo, prima di raddrizzarsi e torcere il busto nella sua direzione.

“Sas’ke,” iniziò grave, “come dico sempre, per nessuna ragione abbandonerei un mio compagno al suo destino. Nemmeno se avesse puntati addosso gli occhi del peggiore dei mostri. Lo sai, che si tratti di Orochimaru o di chiunque altro, non sarai da solo ad affrontarlo.”

Non giunse risposta per un tempo così lungo che pensò Sasuke stesse fingendo di dormire. Poi lo sentì muoversi impercettibilmente ed emettere un sospiro forse preoccupato, forse sollevato.

“Grazie,” mormorò infine il ragazzino.

Non dissero altro. Quando si svegliò, al levar del sole, Kakashi trovò la testolina scura di Sasuke poggiata sul suo avambraccio, scoprendolo allungato di sbieco sulla terra come se nel sonno il suo corpo avesse cercato istintivamente un rifugio. Lo spostò facendo molta attenzione a non svegliarlo, sapendo quanto il suo allievo si sarebbe vergognato di aver mostrato tanta debolezza.

 

“…Mi fai tornare in mente quella sera, quando mi dicesti che per nessuna ragione abbandoneresti un tuo compagno al suo destino, nemmeno se avesse puntati addosso gli occhi del peggiore dei mostri. Ti ricordi?” esclama Sasuke con leggera derisione, mentre il suo sguardo si sposta di lato, verso il fitto della boscaglia.

È come una cascata di ricordi che scroscia, e Kakashi ritrova in un secondo la sensazione vivida di svegliarsi con accanto quel bambino che era un po’ figlio, un po’ fratello e un po’ amico. Lo guarda, e non lo trova più. Adesso Sasuke si sente grande, non ha più bisogno di dormire con qualcuno vicino. O forse ne avrebbe, ma non lo ammetterà.

“Sì, me ne ricordo,” risponde, schietto. Lo sguardo di Sasuke non si muove da lui, resta fermo sulle chiome nere degli alberi, dove si perde con innaturale fissità. Troppa, per essere casuale.

“Ma ora è diverso,” aggiunge fiero il ragazzo. “Agisco spontaneamente seguendo la mia volontà, nessuno mi controlla. Non ho bisogno del tuo aiuto.”

È allora che la comprensione illumina il jonin, repentina ed evidente, mentre ancora segue lo sguardo immoto del ragazzo che si perde tra i rami. C’è qualcuno, lì. C’è qualcuno che li sta osservando.

Fatica a trattenere un’esclamazione di sorpresa, la soffoca muovendo appena una mano. Qualcuno dell’Akatsuki sta controllando che il traditore di Konoha non tradisca anche loro: non si fidano così tanto di Sasuke, dunque.

E non hanno tutti i torti, dal momento che lui lo sta mettendo a parte del fatto; Sasuke gli sta dicendo che non può parlare, che deve agire secondo uno schema di facciata. Adesso, guardandolo negli occhi che finalmente sono tornati su di lui, sollevati per essere riusciti a trasmettere il messaggio, lo ritrova: il suo viso è rimasto glaciale, sprezzante, ma nelle iridi danza una scintilla di speranza, una muta richiesta di aiuto e collaborazione. Kakashi vorrebbe sorridere, se solo non sembrasse così strano.

“Capisco,” risponde pacato, con segreta intesa. “Non sta a me giudicare le tue scelte.”

Sasuke annuisce, dignitoso.

“E’ tutto, Kakashi,” conclude, rimettendo finalmente il cappello. “Porta il mio messaggio a Konoha,” intima, sparendo tra la stoffa e la paglia. “Spero per loro che capiscano cosa è meglio per tutti voi, e che quando tornerai avrai una risposta affermativa e non sarai solo. Portaci Naruto,” aggiunge, freddo e sbrigativo.

Ma il messaggio è chiaro, cristallino: Naruto probabilmente è l’unico che, ora come ora, possa davvero qualcosa per Konoha e anche per Sasuke stesso. E se Kakashi non si sbaglia, se lo conosce ancora almeno un po’, il suo giovane allievo ha già in mente qualcosa per sbrogliare quella complicata situazione.

“Riferirò,” afferma marziale.

Sasuke annuisce, spostando la gamba indietro. Quando si volta, ruotando su se stesso, muove leggermente la mano in un cenno di saluto quasi invisibile, poi inizia ad allontanarsi.

Lui lo guarda in silenzio, mentre la sua sagoma si fa sempre più lontana. Sorride, perché il bambino, adesso sì, è diventato un po’ più grande. Abbastanza grande da sapersi abbassare a chiedere aiuto, da riconoscere l’importanza di chi gli è vicino. E questa volta, Kakashi lo può giurare, qualunque cosa succeda non lo perderanno di nuovo. In barba a qualunque ostacolo, quali che siano gli intoppi, la storia non si ripeterà. Potranno esserci infiniti avversari ma li batteranno, e fermeranno anche Sasuke medesimo, perché a volte è lui il nemico di se stesso e Kakashi lo sa. C’è tanto caos, in quella testa che ha dovuto troppo precocemente pensare da sé, e troppi impulsi e voci contrastanti di infanzia e maturità che lo confondono come un rumore persistente e lo spingono ad agire in contraddizione.

Ma ormai loro lo sanno, e si comporteranno di conseguenza.

E, proprio mentre Sasuke sparisce, gli viene in mente un’ultima cosa, ma è troppo tardi per dirgliela: lo farà immediatamente quando lo rivedrà, se lo rivedrà, appena la battaglia sarà finita e lo avrà di nuovo a portata d’udito.

Ti vorrei insegnare anche a crescere, Sas’ke. Permettimelo.  

   
 
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