XIII
MORTALE
Appeso a
testa in giù, come era
solito dormire, Erebo notò il fratello adottivo passare
lungo il corridoio
deserto. Lo seguì con lo sguardo e vide che stava lasciando
il palazzo. Lo
trovò strano, ma poi si disse che Kydoimos aveva
un’età tale da fare quel che
preferiva. Anche Nàgiri lasciava spesso quella casa la sera
e rientrava molto
tardi. Ma, convenne, non sono affari miei.
Kydoimos,
col viso in buona parte
coperto da stoffa nera, camminava nel buio. Sapeva che il suo tempo era
ristretto, perché la maledizione non gli consentiva di stare
lontano da palazzo
molto a lungo, quindi affrettò il passo lungo quelle strade
dimenticate.
Tutt’attorno, macerie e rovine. Che tristezza. Una statua
armata di tutto punto
fissava, con occhi vuoti, l’orizzonte. La vegetazione
l’aveva in parte avvolta.
L’uomo si aspettava di incontrare qualcuno ma non percepiva
alcuna presenza.
Entrò al tempio scuro, con tutte quelle venature color del
sangue, con
sicurezza. Ed ecco, la vide. La spada di Ares. Bella, imponente, con
riflessi
vivi rosso cupo sulla superficie nera. Il suo scintillio illuminava a
tratti la
stanza dove era custodita. Saldamente incastonata nella pietra, fra le
colonne,
pareva incustodita. Kydoimos proseguì ma, come aveva
previsto, qualcuno lo
fermò. Due minacciosi occhi scarlatti si mostrarono nel nero.
“Hai
fatto un grosso errore a
venire qui, mortale” ringhiò una voce, profonda e
minacciosa.
“Ragazzi,
siete presentabili?”
domandò Deathmask, cercando il figlio.
Arles II e
Tania risero e lo
rassicurarono. Erano stesi sul pavimento, fra le teste della quarta
casa,
concentrati su un gioco da tavolo.
“Cosa
c’è, papà?”
domandò il
ragazzo.
“Niente.
Volevo solo avvisare che
vado a farmi un giro”.
“Vai
pure. Se c’è qualcosa, ti
mando un messaggino sul cellulare”.
“Quel
trabiccolo infernale non me
lo porto di certo dietro!”.
“Come
vuoi. A dopo”.
Deathmask
sospirò. Uscì dalla
quarta casa con aria malinconica. Il tempo è impietoso,
pensò. Sua moglie
Ariadne se ne stava alla casa dei gemelli, ridendo in compagnia di suo
nonno
Apollo e la prozia Artemide.
“Cos’è
quella faccia
imbronciata?” parlò una voce e Deathmask
sobbalzò, non aspettandosela.
Alzò
gli occhi e vide Thanatos.
Si accigliò.
“Ma
tu…” sbottò “…non
hai niente
di meglio da fare? Te ne stai sempre a ronzare da queste
parti!”.
“Ti
do fastidio?”.
“No,
mi inquieti”.
Il Dio
sorrise. Fluttuava a
mezz’aria, avvolto da una lieve luce argentea.
“Che
cosa vuoi?” riprese
Deathmask “Sei sempre qui. Che cosa cerchi?”.
“Niente
di particolare”.
“Cazzate.
Spii Tania!”.
“Ho
le mie ragioni”.
“Certo,
è figa. Ma tu sei
vecchio”.
“E
tu peggio di me”.
“Solo
d’aspetto”.
Il passato
cavaliere del cancro
storse il naso. Era già complessato, senza che quel Dio
mettesse costantemente
il dito nella piaga.
“Cosa
c’è che non va,
Deathmask?”.
“Gli
anni passano, ecco cosa c’è
che non va. Sto invecchiando. Guardami! I miei capelli stanno
diventando
bianchi, sul viso ho le rughe, mi sta crescendo la
pancia…”.
“Sei
un mortale, è il cerchio
della vita”.
“Bella
merda! Io invecchio, mia
moglie e mio figlio no. È frustrante”.
“Loro
hanno sangue divino”.
“Lo
so bene”.
“Era
una cosa che dovevi
prevedere”.
“L’ho
previsto ma che dovevo
fare? Io amo Ariadne, farei qualsiasi cosa per starle accanto e non
rinsecchire
come una foglia d’autunno”.
“Non
comprendo voi mortali che
non accettate la morte. Nascete con la fine già scritta,
è inutile remarvi
contro. Eppure lo fate sempre. Come se la vita eterna fosse
bella”.
“Io
voglio stare accanto alla
donna che amo, invece so che dovrò morire, vecchio e
sfigurato, mentre lei sarà
bella e giovane per sempre. E di certo avrà un altro uomo
dopo di me”.
“Pensa
l’ironia: io sono così
stanco di ammazzare gente e di farmi odiare, che farei volentieri a
cambio con
te, essere dalla vita effimera”.
“Dici
sul serio?”.
I due si
fissarono in silenzio.
Kayros, che Dio dalla mente complicata!
“Phobos!”
esclamò Kydoimos,
riconoscendone la voce.
“Bravo,
sai il mio nome. Ora
vattene dal palazzo del mio signore, prima che ti uccida
brutalmente”.
“Non
ho intenzione di combattere”.
“Che
peccato, perché io ne ho
davvero tanta voglia!”.
Gli occhi
rossi di Phobos
scintillarono, scatenando il loro potere. Kydoimos però non
provava terrore nel
guardarli,anche se fu colto di sorpresa dall’improvviso
attacco del gran
sacerdote di Ares. Saltò, per schivarne i colpi.
“Fermo!”
provò a dire.
Il generale
non ascoltò, pronto a
difendere l’armatura contenuta nella spada del suo signore a
tutti i costi.
“Fermo!”
tuonò una voce ben più
profonda di quella di Kydoimos.
Phobos
obbedì, sobbalzando per la
sorpresa. Alle spalle della grande spada di Ares, era apparsa
l’essenza del
Dio, color del fuoco.
“Mio
signore” si inginocchiò il
suo sottoposto “Stavo difendendo la Vostra spada da questo
intruso”.
“Non
è un intruso” sorrise Ares.
Kydoimos si
fece avanti, fissando
Ares con un mezzo sorriso.
“Ciao,
θανασιμος”
(thanassimos:
mortale) salutò Ares.
“Ciao,
Dio”.
“Come
stai, mio vecchio
involucro?”.
“Non
mi posso lamentare. Sono
passato a salutare. Credevo di trovarti già
rinato”.
“Eh,
no. A quanto pare il tuo
corpo era troppo perfetto. Non ne trovo un altro uguale”.
“Mi
sento lusingato”.
“E
fai bene. Ma cosa ti porta qui
realmente?”.
Phobos,
ascoltando la
conversazione, comprese quel che stava accadendo e si alzò
in piedi, forse in
attesa di ordini. Anche altri guerrieri di Ares fecero lo stesso, pur
non
capendo bene quel che stava accadendo.
“Sono
qui per chiederti un
favore” ammise Kydoimos “Mi servirebbe la tua
spada”.
“La
nostra spada? E per farne
cosa?”.
“Ha
così tanta importanza?”.
“La
spada appartiene a me. Se fai
qualcosa che non mi aggrada, lei si ribella”.
“Lo
so bene”.
“Inoltre
ricordati che la spada
contiene la mia armatura”.
“So
bene anche quello, ho
contenuto il tuo animo per anni. Non farò nulla di non
gradito”.
“Che
farai?”.
“Libererò
Gaia”.
“E
perché?”.
Ares era
perplesso. Non avevano
forse combattuto a lungo per sigillarla?
“Fidati
di me. Ho in mente
qualcosa ma…”.
“Mortale,
io ti conosco molto
bene. Questo mi permette di dire che sei del tutto folle. Ma non sei
uno
stupido, tutt’altro, perciò mi fido”.
“Ti
ringrazio”.
“Però
ricordati che quell’arma è
libera di tornare qui in qualsiasi momento, nel caso impazzissi e ti
mettessi a
fare cazzate”.
“Lo
ricorderò. Ora, scusami, ma
devo andare. Ho tempi stretti con questa maledizione”.
“Ah,
già. Sei figlio del Caos
ora. Avremo altre occasioni per parlare, e magari anche per combattere
un po’.
Che ne dici?”.
“Mi
piacerebbe. Userò questa
spada come è degna di essere usata”.
“E
ci mancherebbe altro! Ora và,
avremo modo di perdere tempo in un altro momento”.
“Ma
la fregatura dove sta?”
chiese Deathmask.
“Fregatura?”
alzò un sopracciglio
Thanatos.
“Certo.
Se mi dai ciò che
desidero, la fregatura dove sta? Dev’esserci la
fregatura”.
“La
morte non è mai una bella
faccenda. Ma se riesci ad accettare questo, non vedo niente di
particolarmente
problematico. Ho solo una questione in sospeso”.
“Una
questione in sospeso?”.
“Sì.
Se mi assicuri di
risolverla, allora il nostro patto è valido”.
“Di
che si tratta?”.
“Dell’anima
di colui che voi
chiamate Arles”.
“Arles?!”.
“Sì,
lo ricordi?”.
“Certo
che sì. Cos’ha la sua
anima?”.
“È
giunta incompleta nell’oltretomba.
E non ho potuto farla riposare in pace. Ormai non è che
un’ombra, credo stia
perdendo i ricordi di ciò che è stata la sua
vita. Però io so dove si trova la
parte mancante”.
“Come
Dio della morte, non puoi
farla tornare intera?”.
“Come
Dio della morte, sì. Però
ora Hades ha dato ordine di eliminare quell’anima e mi tiene
d’occhio. Se mi
aggirassi da quelle parti, attirerei di certo
l’attenzione”.
“Ma
un Dio della morte può
riparare questo danno?”.
“Certo”.
“Tieni
così tanto a quell’anima,
da rinunciare al tuo potere per permettere a me di salvarla?”.
“Non
solo per questo,
ovviamente”.
“Per
che cosa?”.
“Io
giro per questo mondo da
millenni, mortale. Ho visto l’alba del genere umano, ho
tenuto per mano
divinità bambine che ora sono fra le più potenti
e antiche, ho ucciso creature
illustri e risparmiato carogne disgustose che meritavano la
putrefazione
istantanea. Mi sono divertito, non nego di averlo fatto. Mi
è piaciuto ciò che
sono stato ed ho passato tanti momenti di puro godimento nel togliere
la vita.
Ma ora sono stanco. È giunto per me il momento di
cambiare”.
“E
credi davvero che io…”.
“Tu
sei un uomo cresciuto in
mezzo ai morti. Non hai timore alcuno dell’oltretomba e, per
quanto tu lo
neghi, ti diletta uccidere”.
“Mai
negato”.
“Quindi
direi che non potrei
trovare uomo più perfetto per questo ruolo”.
“E
tu che fine farai?”.
“Invecchierò
e morirò come ogni
uomo sulla terra. E sarai tu a venirmi a prendere”.
“Sarà
strano”.
“Forse
all’inizio. Ma pensa alle
opportunità, Deathmask. La vita accanto a tua moglie,
giovane e con il potere
che hai sempre sognato”.
Deathmask
rimase in silenzio
qualche istante. Era vero quel che Thanatos diceva. Il potere lo aveva
sempre
desiderato ed ammirato, ed il potere di uccidere era di certo notevole.
Divenire un Dio e rimanere accanto alla sua donna per sempre, fino alla
fine
dei giorni, era un sogno. Suo figlio, avendo ereditato il sangue della
madre,
lo avrebbe accompagnato senza vederlo mai invecchiare. Thanatos lo
guardava in
silenzio, con aria malinconica, quasi di supplica. Essere un Dio
depresso
doveva essere una gran scocciatura.
Com’era
faticoso volare al di
fuori del palazzo nero! La parte un tempo appartenuta ad Arles non era
facile
da coordinare. Kydoimos fluttuò lungo la verde cupola del
palazzo di Gaia. Con
la pesante spada di Ares stretta nella mano destra, salì
fino a raggiungere una
piccola apertura da cui entrò. La grande sala circolare era
buia e polverosa.
Si aspettava un qualche tipo di sorveglianza ma non ne
trovò. Si guardò
attorno. In quale oggetto era sigillata la Dea? Pensò in una
delle statue di
Gaia che lo circondavano ed iniziò a decapitarle con la
spada, senza trovare
nulla. Spazientito, non si accorse che l’immenso quadro alle
sue spalle lo
seguiva con gli occhi.
“Cerchi
forse qualcosa?” sibilò
una voce, familiare.
Kydoimos si
voltò e vide lei,
sull’uscio verde e oro della sala. Bellissima, armata di
tutto punto, con la
cascata di capelli ricci e ramati che le copriva parte del viso. Rimase
qualche
istante a fissarla.
“Ciao,
Ninive” la salutò, poi.
“Ci
conosciamo?” disse lei.
“Da
molto tempo”.
Ninive non
capì. Del resto, dei
tratti somatici di Arles era rimasto ben poco. La donna, vedendo in
quell’essere nero solo un nemico, puntò la sua
lancia.
“Sono
a difesa dell’anima di
Gaia” spiegò “Per impedire a quelli come
te di liberarla”.
“Pensavo
fossi una vestale,
figlia di Apollo”.
“Lo
sono ancora. E il mio ruolo è
questo”.
Scattò,
tentando di attaccare
Kydoimos. L’uomo schivò, non avendo alcuna
intenzione di combatterla. Il tempo
scorreva rapido, non poteva temporeggiare ancora. Forse poteva
tramortirla, con
un colpo soltanto. Le immobilizzò i polsi, pronto a farle
perdere i sensi
usando il ginocchio. La guardò negli occhi e lei
spalancò i sui. Non poteva
crederci.
“Arles”
mormorò.
Lui non la
colpì, ma la tenne
ferma strettamente.
“Riconoscerei
il tuo cosmo fra
miliardi” continuò lei “Ma
com’è possibile? Tu…tu sei
morto!”.
“La
storia è piuttosto lunga e
complicata”.
“Tu
sei sempre stato complicato.
Puoi lasciarmi i polsi?”.
“Solo
se la smetti di combattere.
Lo sai che non puoi vincermi”.
Ninive
rimase in silenzio. Era
vero. Sapeva di non poter battere Arles. Però il suo compito
era sorvegliare
l’anima di Gaia e non poteva arrendersi. Tentò di
ribellarsi, con non molta
convinzione. Lui non la lasciò andare e lei riprese a
fissarlo.
“Lasciami”
disse lei, lentamente.
“Non
combattere. Non voglio farti
del male”.
“Io
ho un compito. Perché vuoi
liberare l’anima di Gaia? Tante persone sono morte a causa
sua”.
“La
mia visione è diversa dalla
tua, mi dispiace”.
“E
allora spiegamela”.
“Non
lo posso fare”.
“E
allora io non posso concederti
di liberare Gaia”.
“E
come credi di fermarmi?”.
“Non
lo so, ma troverò un modo”.
Ninive
concentrò la sua energia
sulle mani, nel tentativo di liberarsi i polsi. Kydoimos resistette.
“Dimmi
come puoi essere in vita”
riprese lei.
Lui non
rispose. Lei non sapeva
che cosa fare. Non poteva arrendersi. Guardò con odio in
viso quell’uomo e poi
mutò espressione. Una lacrima d’un tratto apparve
e rigò la guancia destra
della figlia di Apollo. Quante volte si era sentita dire che Arles era
molto
per colpa sua, perché gli aveva sottratto tutta la voglia di
vivere! Lei non
aveva mai potuto crederlo ed ora lui
era lì. Allungò il collo e gli diede un piccolo
bacio, solo sfiorando le labbra
nere come le tenebre. Kydoimos, non aspettandosi questo, non
reagì. Lasciò
andare le braccia di Ninive, che lo abbracciò.
“Mi
sei mancato” parlò lei.
“Non
è vero” rispose Kydoimos.
Che strana
sensazione dava
quell’abbraccio. Sapeva che quella donna non provava amore
alcuno dei suoi
confronti e lui credeva ormai di poter superare quel legame passato. Si
sbagliava, perché la strinse a sé e non
riuscì a pensare ad altro. Fu lui a
baciarla stavolta, ma con ben più passione rispetto al
contatto pressoché
sfiorato di lei. Lei ricambiò quel bacio e si
lasciò avvolgere.
“Perché?”
chiese a se stessa
“Perché, per quanto mi sforzi di allontanarmi da
quest’uomo, finisco con il
ritrovarmi fra le sue braccia? Perché ne sono
così irrimediabilmente
attratta?”.
E lui si
chiedeva come mai si
lasciasse sempre irretire da quella femmina, che giocava con il suo
cuore come
se fosse la pallina di un flipper. Ma bastò poco prima il
suo cervello
smettesse di pensare, sentendo il corpo caldo di lei premere contro il
proprio.
Lasciò perdere tutto. Missioni, ragionamenti,
problemi…
La
spogliò dell’armatura e delle
armi, lasciandole solo quella veste leggera che pareva poter essere
tolta da un
soffio di vento. Quella non la levò. Il suo occhio sinistro
brillò quando la
spinse contro una delle colonne smeraldo. Ghignò
soddisfatto, sollevandole
l’abito. Lei rispose a quel ghigno e gridò, quando
sentì lui penetrarla con
forza.
“Mi
sei mancato” disse ancora,
stringendolo forte a sé.
Lui
continuò, senza risponderle.
Finirono in terra e lei piantò le unghie nella schiena di
lui. Kydoimos fece
altrettanto, mordendola poi con i denti a punta. Ninive
gridò di nuovo.
“Mi
sei mancato” gemette “Ancora,
continua ancora, più forte! Questo ho sempre amato di te.
Non avere indugio
alcuno. Solo tu sei in grado di farmi questo. Più
forte!”.
“Zitta”
quasi ordinò Kydoimos,
graffiandola con più violenza.
Il pavimento
si tinse di rosso.
Lei ribaltò gli occhi e gridò con tutto il fiato
che aveva.
“Arles!
Arles!” ripeteva ad
oltranza, mentre i capelli ora sciolti di lui si muovevano e
l’avvolgevano come
in un abbraccio.
“Ninive”
rispose questa volta lui,
ancora e ancora.
Poi si
fermò e gridò a sua volta.
Ansimando, i due rimasero stretti ancora, dopo l’amplesso.
“Perché?”
ansimò, stanca, lei
“Perché io e te finiamo sempre
per…”.
“Scopare
come animali rabbiosi?
Non te lo so dire”.
“Perché
non dici a tutti che sei
ancora in vita?”.
“Ho
altri progetti in mente”.
“Manterrò
il tuo segreto”.
Non
parlarono più, ascoltando
solo il battito dei loro cuori, cullati dai loro respiri. Poi Kydoimos
si alzò
di scatto. La sua veste nera lo ricoprì, nonostante il
notevole spacco che si
apriva non avendo più la cinta. Scosse la testa. Era rimasto
troppo a lungo
lontano dal palazzo nero. La maledizione lo stordiva. Doveva rientrare
in
fretta. Afferrò la spada di Ares, mentre un’altra
presenza entrava in quel
luogo.
“Cosa
sta succedendo qui?” tuonò
Ahriman, sbattendo la porta.
Vide sua
madre in terra, nel
sangue, e subito pensò al peggio. Ringhiò,
vedendo il figlio del Caos.
“Tu!”
lo apostrofò “Lurida merda!
Come osi toccare mia madre? Te ne pentirai per averle fatto del
male!”.
Kydoimos
scosse ancora la testa,
tentando di rimanere lucido. Maledisse se stesso per essersi concesso
distrazioni non necessarie. Notò lo sguardo del quadro e
capì che l’anima di
Gaia doveva trovarsi lì. Scattò in fretta,
affondando la spada nel petto della
donna ritratta. Il dipinto brillò di luce verde e la spada
ne assorbì l’essenza.
“No!”
gridò Ahriman, creando una
sfera di luce azzurra con la mano e scagliandola contro Kydoimos.
Il figlio
del Caos fu
scaraventato contro il muro e finì a terra, ma tenne stretta
la spada. Ninive
tentò di fermare il figlio, ma non era semplice placare la
collera del Dio del
cielo.
“Ti
ridurrò in cenere!” continuò
Ahriman, avvicinandosi al suo avversario ferito.
Saltò,
aprendo le ali, ma
qualcosa di nero lo ricacciò indietro. Si udì un
brontolio sordo, profondo, e
la terra tremò. Il Caos apparve, grosso fino al soffitto,
con gli occhi rossi
scintillanti di rabbia.
“Stai
lontano dal mio gioiello,
traditore” tuonò il Dio nero.
“Non
darmi ordini!” rispose
Ahriman, con la voce di Urano.
Il Caos
allungò il suo lungo
braccio e spinse Ahriman contro il muro. Pareva così piccolo
il Dio del cielo,
confrontato con quella grossa nuvola oscura! Il Caos
continuò a schiacciare,
intenzionato a ridurre in briciole quell’essere. Ahriman
tentò di reagire. Usò
il suo potere e qualche goccia di sangue scese dalla mano del suo
aggressore,
che però non volle lasciarlo. Si udì uno
scricchiolio, qualche osso che si
rompeva. Ahriman gridò di dolore.
“Fermati!”
parlò Kydoimos,
tornando per qualche istante lucido.
Ora stava
davvero male, per colpa
della maledizione.
“Fermatevi!
Non uccidetelo!”.
Il Caos non
comprendeva la
richiesta del figlio. Aveva l’occasione di schiacciare
l’odiato Urano, mosso
dalla collera, eppure quel suo gioiello lo supplicava di non farlo.
“Non
è colpa sua se io sto male”
continuò Kydoimos “Non è causa di
Ahriman. È la maledizione. Lasciatelo andare
e portatemi a casa, vi prego”.
“Mi
chiedi molto, Kydoimos”.
“Lo
so, ma mi sento morire. Devo
tornare a casa. Risparmiatelo. Lui è solo qui per proteggere
l’anima della
donna che ha amato”.
“Lui
è la causa del nostro
malessere”.
“Lui
e molti altri Dèi.
Uccidendoli, non la annullerai”.
Kydoimos
tossì sangue.
“Padre”
gemette “Vi prego,
torniamo a casa. E risparmiate questo giovane, la cui unica colpa
è essere l’involucro
di un Dio che detestate”.
Il Caos,
capendo quanto il figlio
stesse male, lasciò andare Ahriman. Prese Kydoimos con un
braccio,
sorreggendolo come si fa con un neonato. La differenza di dimensione
fra i due
era pressoché la stessa. Lanciò
un’ultima occhiata al Dio del cielo e poi
scomparve, senza lasciare traccia.
Thanatos e
Deathmask si fissarono
ancora qualche istante. Poi colui che un tempo era cavaliere del cancro
annuì.
Il Dio della morte sorrise.
“Va
bene, ci sto” parlò Deathmask
“Affare fatto”.
“Ne
sei sicuro?” rispose Thanatos
“Non si può tornare indietro”.
“Sono
sicuro. E tu? Sei certo di
quello che fai?”.
“Sì,
lo sono”.
Il Dio
allungò la mano e strinse
quella di Deathmask. Il mortale avvertì come una scossa
lungo tutto il braccio
e poi su tutto il corpo. In principio era piacevole ma poi la
sensazione si
fece fastidiosa. Tentò di ribellarsi. Thanatos lo tenne
più forte ed entrambi
caddero in terra, in ginocchio. Si osservarono, qualche minuto, in
silenzio.
“Amico,
ora hai le pupille”
sorrise Deathmask.
“E
tu non le hai più. Significa
che lo scambio è avvenuto” rispose Thanatos
“Ora tu sei il Dio della morte”.
“E
tu un semplice mortale”.
“Impareremo
entrambi ad accettare
la cosa”.