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Autore: Rota    05/03/2015    0 recensioni
La notizia di un trasferimento improvviso per motivi di lavoro, annunciata da sua madre dopo una cena sfarzosa, non lo aveva destabilizzato più di tanto. Aveva certo amici, nel vecchio distretto, e una rete di conoscenze più fitta e sicura, ma andare a vivere a Shibuya non voleva dire rintanarsi dall'altra parte del mondo, isolato da qualsiasi sprazzo di civiltà, né tanto meno dover abbandonare in modo definitivo le vecchie amicizie. L'unica cosa che Yukio aveva chiesto a sua madre, in cambio della solita pacifica convivenza familiare, era una scuola con un club di basket, dove poter continuare a giocare ciò che più preferiva. La Touou Academy era stata una delle opzioni possibili, avvicinata con interesse per la sua fama e il suo prestigio rispetto alle altre, e da quello che il ragazzo aveva visto, in quei dieci giorni dall'inizio delle lezioni, non sembrava smentire le dicerie.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shoichi Imayoshi, Touou, Un po' tutti, Yoshinori Susa, Yukio Kasamatsu
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
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*Primo anno – III*

 

 

 

La scuola, dotata di lauti fondi più che sicuri, aveva fornito al club di basket tutto un piccolo pullman per la trasferta di quel pomeriggio. La strada da percorrere non era tanta, e anche abbastanza fornita di mezzi per arrivare in sicurezza e velocità, ma il responsabile nonché allenatore dei ragazzi aveva preferito tenerli in un solo spazio ristretto, in modo da poterli meglio controllare e non disperdere come foglie al vento.
Titolari o meno, tutti gli iscritti al club si presentarono all'orario stabilito, e tutti salirono sul pulmino perfettamente in ordine.
Kasamatsu andò a occupare uno dei posti verso l'inizio, poco distante dal conducente. Non che ci fosse così tanto spazio da poter lasciare un grande vuoto, tra i compagni più rumorosi e sé – e di certo il parlottare eccitato che si alzò già nei primi dieci minuti di viaggio non gli diede particolarmente fastidio – ma era sufficiente perché un volume medio dentro gli auricolari lo isolasse da ogni possibile tipo di rumore molesto. Chiuse gli occhi, con la fronte appoggiata al vetro lucido e la schiena tutta sporta di lato, verso sinistra. La riproduzione casuale del suo lettore lo portò a una iniziale musica lenta, un'introduzione tranquilla che si risolse in un climax che lo obbligò ad aprire gli occhi per cercare la levetta giusta e abbassare di qualche numero il volume del brano, infastidito come all'improvviso.
Quando tentò di assumere una seconda volta la stessa posizione di prima, gli fu inevitabile alzare gli occhi verso l'unico particolare che stonava in quel quadro quasi perfetto.
-Sei preoccupato, per caso?
Imayoshi lo stava guardando dall'altro, con il mento appoggiato alla spalla del proprio sedile e il viso schiacciato tra la parte terminale del proprio e di quello accanto, in modo oltremodo buffo e invadente allo stesso tempo. Aveva il solito sorriso sulle labbra – era diventato così frequente, vederlo, che quasi Yukio non lo notava più se non in un generale sentire appiccicoso addosso, meno invadente ma discretamente strisciante.
In quel momento, non aveva molta voglia di fare conversazione con l'altro ragazzo, quindi non sprecò più parole di quanto non fosse per lui necessario.
-No.
Guardò fuori, di nuovo, senza che Imayoshi potesse impedirglielo.
Shibuya rimaneva sempre un quartiere molto attivo, a qualsiasi ora del giorno. Le insegne dei negozi lampeggiavano di neon e colori vivaci, continuando nel loro zelante impegno lavorativo così carichi di aspettative e di promesse gioiose, trasbordanti. Altre persone, sui marciapiedi della strada, camminavano di quel passo svelto che avevano tipicamente i cittadini impegnati nella loro velocità quotidiana, a calpestare pezzi omogenei di cemento quasi come se fossero in una marcia serrata tra un negozio e un ufficio, una commissione e l'ennesimo impegno sulla propria agenda.
E poi tante, tante macchine. Colori prevalentemente spenti, gomme nere e vetri scuri che non lasciavano trasparire alcuna umanità intrinseca.
Tanti ciclisti che sciamavano in ogni dove – e fili dell'elettricità che si arrampicavano e si aggrappavano ovunque, quei lunghi e maestosi palazzi di vetro che si innalzavano come cilindri perfetti dalle radici delle città fino a toccarne la volta con un'alta punta protesa. Cartelle, completi e cravatte ovunque; cancelli alti e piazze dalle mattonelle bianche. Tacchi a spillo e scarpe di pelle nera. Profumo di smog.
Una lunga strada grigia che il pullman mangiava metro dopo metro.
La musica terminò, e lui tornò in un secondo a respirare.
-Te ne stai così zitto zitto, di solito?
Imayoshi riuscì ad approfittare del cambio di canzone per parlare e disturbarlo ancora una volta; aveva occhi curiosi e poca malizia sulle labbra, come un bambino che ha solo l'interesse nella burla ma non in possibili sue conseguenze. Yukio, assolutamente certo che l'altro non avrebbe mollato la presa se non dopo un secco ed esplicito rifiuto, premette il testo stop del suo lettore e lo guardò male, con le sopracciglia abbassate e uno sguardo assai scuro, sperando di essere abbastanza esplicito.
-Me ne sto per i fatti miei senza dar fastidio alle persone.
Shoichi capì quello che c'era da capire e tornò al proprio posto, più o meno accondiscendente; Kasamatsu sbuffò prima di tornare a sentire la musica, ignorando sia i propri compagni rumorosi sia la manager che stava quasi strillando nel tentativo di riprenderli e quindi zittirli, neanche fossero dei bambini delle scuole elementari.
Mosse le spalle all'indietro, così come le fece appena roteare e stese i muscoli della parte alta della schiena. Inevitabilmente, i suoi occhi finirono col percorrere il braccio, arrivando quindi alla mano chiusa a pugno.
Aveva dormito poco, quella notte – era eccitato, non poteva negarlo a sé stesso. Eccitato e agitato, nella maniera più assoluta.
Sospirò ancora, e con il gesto di un solo dito alzò il volume dell'ultima canzone concessagli.

 

Shoichi non seppe dire, da principio, cosa lo stesse facendo fremere a quel modo, scivolando sotto la pelle eccitata come un torrente più impetuoso del sangue da un cuore pieno di umano sentire.
Si lasciò completare dall'immagine della scuola rivale, per qualche secondo, in quella che era a conti fatti la rimembranza fisica di un particolare tipo di nostalgia di tempi non troppo recenti.
A Osaka poche erano le scuole che partecipavano a campionati di basket più o meno seri con quell'entusiasmo che si poteva definire degno, e a livello di scuola media inferiore certo i numeri scarseggiavano più del necessario. Sembrava tutto impregnato del gusto del locale e del provinciale, senza i lustri di un'economia piena e grossa che tanto si poteva vantare a livello nazionale, sotto un punto di vista più vanaglorioso che realmente d'essenza. Non tanto l'amaro in bocca quanto una certa vena di sbadiglio aveva lasciato nei primi ricordi sportivi la pigrizia mentale di Imayoshi, che a stento e poco a poco era riuscito a riprendersi da uno stato solo di apparente torpore totale.
Solo in seguito all'arrivo di Hanamiya Makoto lui aveva cominciato a provare un discreto coinvolgimento nel gruppo che allora capitanava, senza più lasciare il tutto a una mera questione di meccanica fisica e di spesa di sforzo e tempo. Allora aveva capito tutte le cose che si era perso in quei due anni di indifferenza, e aveva cominciato a investire qualcosa in più – di personale e davvero intimo come la passione e il divertimento.
Però, in quel momento, molto di lui era diverso. A cominciare dalla modalità con cui respirava a pieni polmoni, a come camminava lungo i ciottoli del vialetto che portava dall'ingresso alla palestra della scuola e tutto quello che stava nel mezzo fra il primo limite e l'ultimo degli ultimi.
Il peso di quel nuovo inizio gravava, nella sua leggerezza per niente materiale, sulle sue giovani spalle. Aveva una spruzzata della giusta aspettativa, come quella di ogni ragazzo che si appresta a fare per l'ennesima prima volta qualcosa. Shoichi era cinico, e si commiserava da sé quella felicità non necessaria e inutile, quel tipo di entusiasmo assai infantile. Eppure, per quanto crudele e spietato – forse anche un po' troppo drastico – fosse il giudizio, non aveva la minima intenzione di rinunciare a un grammo dei sentimenti che provava in quel preciso momento particolare.
I passi dei compagni di classe che lo circondavano sembravano andare al passo con il battito del suo cuore, e nel quasi religioso silenzio in cui la tensione li aveva tutti rilegati riusciva a sentire i loro respiri a tempi, i loro sentimenti svuotati da polmoni troppo pieni di cose innominabili – lui li registrava, come una pellicola l'impressione precisa e fin troppo definita del reale, li faceva propri implicitamente e ne lasciava andare il resto superfluo.
Si ritrovò quindi in ambienti a cui non era abituato, a spazi che non gli erano propri e con cui non doveva entrare in nessun tipo di intimità necessaria; luoghi pregni delle impronte altrui, di sentimenti che lui non aveva mai vissuto ma che poteva sentire librare nell'aria, come fantasmi poco corporei che non avevano mai lasciato davvero la pace dei sensi a chi li aveva evocati.
Sempre Shoichi si era ritrovato con una sensibilità empatica addosso da non riuscire a rimanere indifferente all'ambiente umano esterno a lui, per quanti muri erigesse attorno a sé. Come gestiva le informazioni che riusciva a ricevere era davvero qualcosa da non poterne parlare facilmente – sulle ferite lasciate non solo dal tempo che gli bruciavano ogni volta che venivano esposte con più o meno brutalità al sole esplicito – ma che fosse attento spettatore di tutto era una delle poche verità della sua vita.
A cominciare da uno spazio reso vacante troppo presto dalla crudeltà del reale, all'intenzione catturata dalla coda dell'occhio al momento opportuno. Nulla poteva sfuggire a Imayoshi, neppure l'ansia non troppo celata di un Yukio Kasamatsu tremante nella propria immensa divisa da titolare, esattamente contro l'armadietto che ha preso come suo.
Susa, accanto a lui, lo guardò con tanta ammirazione nello sguardo e solo un velo discreto di invidia, vestito della propria divisa chiara della riserva, e quella felpa lunga che copriva e riscalda a dovere i suoi muscoli.
Gli sorrise, il meno scaramantico di sempre.
-Se vinciamo, mi devi un pranzo.
Si sistemò meglio gli occhiali sul naso mentre l'altro rideva tanto, senza più tremare per l'emozione. Ed ecco che Shoichi capì quello che sta provando, in mezzo a tutti loro – ed era un po' stupido, davvero, e non credeva di non doverne ragione a nessuno in particolare se non a se medesimo.
Felicità, pura e semplice.

 

***

 

La sensazione del momento era qualcosa di abbastanza familiare, in quasi tutte le sue componenti distinte.
Il pubblico non era particolarmente coinvolto, per quanto abbastanza presente a ogni loro passaggio, composto com'era dai genitori degli studenti della scuola ospitante decisamente troppo zelanti e qualche amico che probabilmente di sport poco o niente se ne intendeva davvero e sprecava solo un poco di entusiasmo per quella partita poco importante e quasi del tutto incomprensibile ai suoi occhi. Sembravano tutti quanti macchie sparute di colore tra gli spalti omogenei di un rossastro poco appetibile, che riusciva a confondere la vista qualora si alzasse lo sguardo dal campo da gioco, terribile sbaglio.
Il tetto alto della palestra, poi, spandeva in troppe eco le parole e soprattutto le grida, confondendole con la sensazione di umido e di calura spessa penetrata dall'esterno con indomabile vigore.
Ancora un canestro – qualche secondo di movimento frenetico e di ansimo trattenuto a stento – e la partita si sarebbe conclusa.
Sotto i polpastrelli, Kasamatsu sentiva ruvido. Per la palla e il contatto prolungato dell'uso, qualcosa che lo sfregava fisicamente ma lo faceva sentire leggero per altri versi.
Un triplo passo e un palleggio sotto le gambe tese; una finta e lo sguardo diretto agli occhi del proprio avversario, abbagliante come un lampo simultaneo. La scarpa raschiò contro il pavimento, producendo solo l'ennesimo suono acuto tra i tanti. Più indietro, senpai e compagni gridavano ancora qualcosa, esattamente come l'allenatore e la manager a bordo campo, dimentichi della consueta calma e postura.
Imayoshi, però, era proprio sotto canestro, inspiegabilmente smarcato. La palla passò in modo fin troppo naturale dalle mani di Yukio a quelle di Shoichi, come se fosse animata da volontà propria. Il ragazzo con gli occhiali si dimenticò di sorridergli in ringraziamento, troppo concentrato su quello che doveva fare: si alzò in volo con un ragazzo avversario sbucato all'improvviso e ruotò il busto in aria, nascondendo la propria mano nel gesto.
Non si seppe come, ma segnò due punti.
Il fischio dell'arbitro determinò la fine della prima partita del campionato estivo, e quasi tutto si fermò in quel determinato punto – tranne Imayoshi, che finalmente toccò terra con le suole dei propri piedi, tenendo le braccia alzate per qualche secondo mentre fissava la rete del canestro ondeggiare in alto. Sospirò e seguì con interesse i rimbalzi modesti della palla sul parquet, svuotato di ogni altra forza, anche quando fu lo stesso Kasamatsu a raccoglierla e a porgerla all'arbitro. Si sentì qualcuno esultare di gioia, e anche parecchi applausi inaspettati.
I due ragazzi si fecero vicini con passi un po' pesanti e un po' no.
Imayoshi aveva ancora il sorriso a tirargli gli angoli delle labbra quando l'altro si allungò verso di lui con parole positive, cariche, piene.
-Bella partita!
Aveva gli occhi che brillavano, sottilmente. Tutta l'emozione e l'impegno erano valsi a qualcosa, dopotutto, ed era inutile negarlo.
L'arbitro fischiò l'ultima delle volte e alzò in alto un braccio, per richiamarli tutti. Lesti, i dieci giocatori ancora in campo formarono due file parallele, l'una di fronte all'altra, e all'opportuno comando si salutarono a vicenda.
Imayoshi non si soffermò troppo a guardare le loro espressioni afflitte o a tergiversare su significati nascosti e impliciti su quanto potessero provare in quel preciso momento. Bastava percepire i loro respiri e ricordare le proprie vecchie sconfitte, tra sudore grondante e quel senso di acuta impotenza che faceva tremare più della fatica sprecata nel nulla. Non poteva avere gentilezza per loro, né la minima ipocrisia.
E così sentiva anche Kasamatsu, per quanto la sua giustificazione vertesse molto di più sull'orgoglio e la dignità compiute.
Fu mentre si avvicinavano agli spogliatoi con il resto della squadra che decise di parlargli ancora, prendendolo un poco in disparte.
-Cos'era, quello?
Shoichi non capì subito, e lo guardò con espressione dapprima smarrita.
-Cosa?
Kasamatsu corrucciò la propria espressione, entrando dopo di lui nella sala dello spogliatoio maschile. I senpai e le riserve che non avevano giocato erano i più ilari, probabilmente perché con abbastanza energia in corpo da poterselo permettere.
Molte furono le pacche sulle loro spalle e sulle loro nuche, molte le parole di scherno e di pura felicità che furono vomitate addosso a loro – Kasamatsu, per la stazza più minuta e meno massiccia, rischiò quasi anche di venire sollevato di peso per essere portato sotto la doccia ancora vestito, in pieno rispetto di quella cosa malsana chiamato nonnismo scherzoso.
Yukio riuscì a svicolarsi da questo dovere pericoloso e ad avvicinarsi di nuovo a Imayoshi, mentre questi si spogliava lentamente per non forzare ancora i muscoli del proprio corpo.
-Cos'era quello che hai fatto sotto il canestro?
Lo vide tornare a sorridere in maniera furba, come se dovesse confidargli un segreto neanche troppo a lungo conservato.
Susa, in quel momento, era nel gruppo lontano e riservato dei giocatori che non si erano mossi per la partita, e li guardava con un misto di curiosità e fastidio.
-Una mossa che ho perfezionato da solo.
Tolta la maglia gronda di sudore nauseabondo, ora toccava anche ai calzoni e alle calze; Kasamatsu si allontanò un poco, con le dita chiuse attorno alle narici del naso, quando Shoichi si liberò delle proprie scarpe, rubandogli una sincera e divertita risata.
-Ho pensato fosse l'occasione ideale per adoperarla.
Solo quando Imayoshi fu completamente nudo davanti a lui, con l'asciugamano allacciato in vita e il bagnoschiuma nella propria mano, Yukio ricordò di doversi fare a propria volta la doccia. Si spogliò fin troppo velocemente, mentre l'altro lo aspettava tranquillo, e andarono assieme alle piccole docce lì presenti, dove già gli altri avevano occupato i posti migliori e il vapore dell'acqua calda ondeggiava nell'aria con insolita allegria.
-E perché?
-Beh, perché non è ancora perfetta. Volevo vedere l'effetto che poteva fare.
L'acqua venne aperta da un gesto quasi scandalizzato, decisamente molto sorpreso di fronte a una dichiarazione del genere, fin troppo egoista da parte dell'altro – come se mancasse un senso intimo di responsabilità di gruppo.
-E se non ti fosse riuscita?
-Probabilmente avrei passato il prossimo quarto d'ora picchiato da tutti voi negli spogliatoi.
Lo disse ridendo, e questo confermò le ipotesi di Kasamatsu.
No, decisamente ancora no: non poteva cambiare troppo opinione riguardo quel tipo, così come non poteva ancora fidarsi di lui a livello prettamente umano. Troppo volpe – troppo ferino, per tutti i versi che interessavano a lui.
-Non hai scrupoli.
-Mi piace il senso della tensione.
-Sì, l'ho notato.
Tra di loro, cominciò a esserci il profumo del bagnoschiuma, e questo rese il tutto almeno un poco piacevole. A Yukio scappò quasi un sorriso quando si passò la mano impregnata di schiuma sulla spalla dolorante, dimentico quasi della situazione e della compagnia attorno, tranne che quella di Imayoshi.
-Ora sei decisamente più loquace di prima.
-Quando sono teso, non mi piace che mi si parli.
Non era un chiedere scusa, perché l'uno non poteva permetterselo e l'altro ne avrebbe approfittato di sicuro. Però, da un altro punto di vista, quello faceva parte dei dettagli personali che andavano a definire la personalità di Kasamatsu, e Shoichi lo raccolse con cura tutta sua.
-La prossima volta me lo ricorderò. Sicuramente.

   
 
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