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Autore: Shine_    05/03/2015    8 recensioni
“Non incontriamo le persone per caso. Se le nostre strade sono destinate a incrociarsi c’è sempre un motivo.”
O come una perdita può portare a un incontro speciale, uno di quelli che col tempo potrebbe cambiare la tua vita.
[Cinque passi indietro da “You’re my end and my beginning” e il primo vero incontro tra Liam e Zayn | Liam/Kaylyn; Liam/Rick]
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Liam Payne, Nuovo personaggio, Zayn Malik
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Strangers’ Meeting

 

 

Avviso: Prima di lasciarvi in pace - o meglio a struggervi in mezzo a questo angst - ci tengo a dire due o tre cose. È uno spin-off della long “You’re my end and my beginning” ma può essere letto tranquillamente senza la storia originale, tenendo conto che anticipa tutto quello che nella fanfiction si scopre con lo scorrere dei capitoli. E, questo penso sia importante, contiene quanto più amore non corrisposto, lacrime e struggimenti che possiate immaginare. (Ah, una piccola scena Liam/Rick che non sono riuscita a evitare)

 

 

We don't meet people by accident. They are meant to cross our path for a reason.”

 

 

Trisha aveva segnato quel giorno sul calendario con un grosso cerchio rosso e Zayn sapeva che doveva essere un giorno importante, che dalla sua pancia - quella che cresceva sempre di più - sarebbe saltata fuori la sorellina di cui non smettevano un secondo di parlare.

Era emozionato all’idea di non essere più l’unico piccolo della famiglia, ora i suoi genitori l’avrebbero considerato come un vero uomo e magari l’avrebbero lasciato fino a sera tardi al parco; erano settimane che si stava impegnando per riuscire in una strana acrobazia con lo skate, ma finiva sempre con il sedere a terra o le ginocchia sbucciate.

Era quindi il più emozionato dei tre, suo padre aveva solo un’espressione preoccupata mentre la madre aveva un colorito pallido e sembrava troppo stanca, e non aveva smesso un secondo di ripetere di quanto fosse felice per l’arrivo di Safaa, l’aveva scelto con loro una sera il nome, e di poterle insegnare tante cose con lo skate. Aveva sbuffato con il cucchiaio nella tazza piena di cereali allo sguardo severo di Trisha, a come scuoteva la testa e ripeteva: - Non sarà una tua bambola, Zayn. È fragile e piccola, non può seguirti nelle tue strambe avventure.-

Si erano poi spostati nella camera da letto dei genitori, Yaser aveva fatto una corsa nel discount lì vicino per le ultime cose, e Zayn stava sdraiato sopra il materasso morbido, dopo averci fatto qualche salto e ricevuto in risposta un’occhiata della donna, osservando i movimenti sinuosi della madre che, nonostante il pancione, aveva una grazia  e un portamento impossibile da trovare nelle bambine della scuola. Stava guardando in silenzio le sue dita, come si muovevano velocemente per piegare i vestiti e riporli con delicatezza in valigia, quando un piccolo dubbio si fece strada nella testa, lasciandolo con la fronte aggrottata e i denti incisi nel labbro inferiore.

- Maa.- la richiamò in un bisbiglio, spostandosi nel letto fino a sedersi accanto alla valigia aperta. - Anche quando ci sarà Safaa con noi, tu non smetterai di volermi bene?-

Ascoltò il suo sospiro esasperato - no, non era la prima volta che le poneva quella domanda - e sollevò gli occhi grandi nei suoi, picchiettando le dita sulle cosce e allungando una mano per accarezzarle i capelli lunghi, intrecciandoli attorno al polso e fissandoli quasi con ammirazione.

- Zayn.- aveva sussurrato lei, mettendosi in ginocchio di fronte al piccolo e portando una mano contro la sua guancia. - Non smetterò mai di volerti bene. Sei il mio cucciolo, il mio piccolino e il mio campione. E potrò avere anche altri figli ma non per questo ti vorrò meno bene, sei speciale e sei il mio ometto.-

Mosse il capo in un cenno, ridacchiando al bacio contro la fronte e alla sua mano tra i capelli cortissimi, per poi portare le dita sottili contro la sua pancia, aggrottando la fronte in un’espressione concentrata; Trisha gli ripeteva sempre che la bambina era timida, solo se stava in silenzio sarebbe riuscito a sentirla muoversi.

Aveva deciso che li avrebbe seguiti in ospedale, loro non sapevano a chi lasciarlo e lui non aveva alcun amico che potesse ospitarlo per qualche ora, e si era impegnato per prendere la valigia quasi più grande di lui e caricarla nel baule della macchina, sorridendo tutto soddisfatto ai complimenti della madre e ai suoi “Stai diventando grande”. Non era quello che gli aveva detto solo dieci minuti prima, quando non voleva saperne di lasciare lo skate a casa e si era sentito rimproverare con “Non fare il bambino, Zay” e “Niente capricci”.

Il viaggio in macchina era stato tranquillo, aveva canticchiato tutto il tempo con la fronte premuta contro il finestrino freddo, ed era saltato con un balzo dai sedili posteriori per aiutare il padre, camminando poi di fronte a loro e con la valigia che copriva completamente la visuale. Erano stati mandati a prendere posto in una saletta e aveva avuto il tempo di stringere le braccia attorno al collo della madre e schioccarle un bacio contro la guancia prima di vederla dar loro le spalle e perdersi tra le pareti bianche.

Era passato troppo tempo per chiedergli di stare seduto composto e aveva quindi iniziato a misurare la larghezza del corridoio con dei lunghi passi, saltando sulle sedie opposte a quelle in cui stavano seduti loro e fingendo di essere su uno skate, ricevendo occhiate curiose dalle altre persone lì con loro e dei richiami del padre.

Saltò giù dalla sedia con un tonfo e raggiunse il padre con dei piccoli salti, appoggiando la mano sul suo ginocchio e borbottando: - Voglio la mamma, tra quanto arriva?-

- Ancora un po’ di pazienza, Zay.- gli rispose quello con un sorriso, premendo i polpastrelli contro la nuca e muovendoli in un massaggio leggero, facendo sbuffare il più piccolo che si buttò sulla sedia accanto e incrociò le braccia al petto con un broncio.

Era noioso stare lì fermi ad aspettare, non aveva pazienza e pensava solamente che avrebbe dovuto convincerli a portare lo skate; si sarebbe divertito tra quei corridoi mezzi vuoti e non avrebbe dovuto patire la noia e essere paziente.

 

 

 

 

Puoi controllare Leen questa sera?”, “Oggi pomeriggio ho un colloquio, ti occupi tu della bambina?”, “Ho fatto i doppi turni, puoi andare a vedere cosa le prende?

Il problema non era in quella bambina, Aileen, perché lui la amava con tutto il cuore e gli piaceva averla tra le braccia; ma c’era un limite a tutto. C’era un limite alle notti che poteva sopportare con gli strilli in sottofondo alle ore di studio, c’era un limite alle sveglie quasi all’alba perché Aileen piangeva e Kaylyn non voleva saperne di alzarsi dal letto. Aveva corsi da seguire, esami da dare e una relazione con un ragazzo che gli ricordava tanto uno psicopatico; in quelle ultime settimane avevano litigato per i motivi più disparati e poi raggiungevano sempre lo stesso punto, quella mancanza di fiducia che doveva essere l’unico motivo per i suoi “Te la sei spassata stanotte con quella?” Ci aveva provato a parlargli, cercare di spiegargli che non era stanco per chissà quale attività tra lui e Kaylyn ma che era difficile occuparsi di una bambina e studiare. Lui roteava semplicemente gli occhi e gli diceva di non sforzarsi troppo per cercare delle banali scuse.

Forse per quel motivo, quella gelosia infondata, non si toccavano da mesi ed era un piccolo dettaglio che lo stava portando all’esaurimento. Era teso per qualsiasi cosa e sentiva che il momento in cui sarebbe esploso si avvicinava sempre di più. Voleva mettere fine a quella tensione, voleva andarsene via da quelle responsabilità e aveva solo vent’anni! Era un ragazzo e voleva divertirsi, non sentirsi in colpa perché aiutava la migliore amica a crescere una bambina, che non era sua come aveva più volte ipotizzato Rick.

Quel pomeriggio stava sdraiato sul divano con il peggior mal di testa di tutta la sua vita, un cuscino sopra il viso per cercare di bloccare i pianti di Aileen e la voce di Kaylyn, che stava camminando per la stanza da almeno due ore per cercare di calmare la figlia. E il livello di sopportazione ormai l’aveva superato da un po’, ma non voleva sputare fuori cattiverie verso quella che si stava impegnando per mettere a tacere la bambina.

- Abbiamo fatto il record, vero Leen?- la sentì dire una volta calmata, grugnendo infastidito quando si butto sulle proprie gambe senza nemmeno chiedere. C’erano momenti in cui non sopportava quel loro non avere spazi personali, quell’invadere tranquillamente la bolla dell’altro e non ricevere lamentele in cambio; sembrava non riuscissero a far a meno di quei contatti e Rick gli ripeteva che “siete destinati o una puttanata del genere, giocate alla famiglia felice senza sapere che lo siete davvero”.

Era rimasto in silenzio ad ascoltare la discussione tra le due - più una serie di versi senza significati - e aveva spostato le gambe per lasciare lo spazio alla ragazza, recuperando il cellulare dalla tasca dei jeans e sbuffando all’ennesimo messaggio di Rick. Non voleva capirla che quella settimana era stata disastrosa per lui, che aveva dormito due ore ogni notte - senza calcolare quelle insonni - e che voleva semplicemente riposare, non andare a una stupida festa dove il volume della musica avrebbe solamente incrementato il male alla testa.

Era così concentrato da rispondere al messaggio - «Dimenticavo che avevi di meglio da fare con quella» - che non si accorse di Kaylyn che rimetteva la bambina addormentata nella culla e lo raggiungeva nuovamente, spostandosi per lasciarle posto quando si sdraiò accanto a lui e avvolse le braccia attorno alla propria vita.

- Che succede, Leeyum?- gli aveva chiesto dopo qualche minuto di silenzio, il viso che teneva premuto contro il collo e il profumo del suo shampoo che gli riempiva le narici. - Non fare quel muso lungo, perché non mi racconti tutto?- la sentì insistere con un tono dolce, rispondendo con un’alzata di spalle e “Rick è un coglione”.

Non ci fu bisogno di dire altro, portò un braccio attorno alle sue spalle e lasciò che si rannicchiasse al proprio fianco, infilando le dita tra le sue ciocche e premendo le labbra contro la sua tempia, sospirando e scuotendo il viso ai suoi richiami.

- Non è che ci sono rimasto così male.- bisbigliò con gli occhi chiusi e il naso tra i suoi capelli profumati, premendo le punta delle dita contro il suo collo in un massaggio. - Non sono innamorato di lui, però.. sì, insomma mi stavo affezionando. E mi piaceva, stavo iniziando a provare qualcosa per lui. Prima che iniziasse a trasformarsi in una specie di maniaco e fissato con storie assurde.- concluse con una smorfia, intrecciando una sua ciocca attorno all’indice e perdendosi nelle sfumature quasi ramate.

- Non era quello giusto.- ribatté lei con decisione, stringendogli la pelle tenera della guancia tra le dita, e si sdraiò completamente sopra di lui, spingendo i gomiti contro l’addome di quello che iniziò a lamentarsi dal fastidio. - Tu hai bisogno di qualcuno più solare, quel Rick è troppo misterioso e tutti quei tatuaggi sono bocciati, come la giacca di pelle. Devi trovare qualcuno che ti faccia ridere e non uno che faccia comparire un brutto muso sul tuo bel viso. Leeyum deve essere sempre felice.- concluse con una risata, tirandogli gli angoli delle labbra con le dita per creare un sorriso enorme.

- Ecco, questo è il Leeyum che mi piace. Questo è il Leeyum che devi essere sempre.- insistette con gli occhi luminosi e una curva dolce sulla bocca. - Non perdere mai questo sorriso, lo adoro e Rick può fottersi. Non mi è mai piaciuto.-

Liam roteò gli occhi con un ghigno a quella confessione della ragazza, spingendola via dal proprio corpo e tornando a respirare normalmente senza il suo peso addosso e contro la cassa toracica. Aspettò qualche minuto prima di mormorare: - Forse perché sei gelosa.- e vide il suo sopracciglio raggiungere quasi l’attaccatura dei capelli, mentre lui la fissava come a istigarla a ribattere.

- Non in quel senso.- biascicò lei, mettendosi seduta e aggiungendo: - Non come intendi tu, sono solo preoccupata per te e non voglio che stia male per dei coglioni che..-

- Oh, andiamo!- esclamò Liam, interrompendola e sollevandosi con il busto. - Non dire idiozie, Lyn. Esiste un solo tipo di gelosia e a volte sembra davvero tu sia..-

- Io sia? Che problemi hai? Pensi io sia innamorata di te?- lo anticipò con un tono di voce alto, scattando in piedi e tenendo le braccia rigide lungo i fianchi. - Pensavo avessimo risolto anni fa questo punto!-

- Tu hai risolto anni fa!- gridò senza preoccuparsi della bambina e del fatto che avrebbero potuto svegliarla. - Tu ti sei messa la coscienza in pace! Tu, solo tu! Io non ho ancora capito cosa vuoi da me! Mi stai facendo male e vorrei non averti mai conosciuta, vorrei non aver mai accettato questo compito assurdo. Ti sembra che mi stia divertendo a far finta di essere il papà di Aileen? Non è bello, non è la cosa che ho sempre sognato e non volevo che andasse così. Non voglio crescere la figlia di mio fratello e della mia migliore amica, non voglio stare sveglio per colpa sua e non voglio vedere la mia vita rovinarsi per colpa vostra!-

- Non sarai mai suo padre e non ti ho mai chiesto di essere lui.- sibilò la ragazza con i pugni stretti per scaricare la rabbia. - Non sarai mai Paul, lui era migliore di te. E questo Liam, questo stronzo, io non lo voglio. E fottiti, so badare a mia figlia senza supplicare il tuo aiuto.- sputò fuori con un tono velenoso, spostandosi le ciocche dietro l’orecchio in un tic nervoso. - Tu però me l’avevi promesso, mi avevi giurato che ci saresti stato per me.-

- Ma non così!- gridò con esasperazione, allargando le braccia come a indicargli quel che intendeva senza bisogno di parole. - Non in questo modo, ho la mia vita!-

- Non ho mai avuto scelta.- sussurrò dopo qualche minuto di silenzio, tenendo gli occhi fissi sulle scarpe e la mani aperte in una posizione di resa. - Quando si tratta di te, Lyn, io non ho mai avuto una scelta. Non ho avuto scelta quando mi sono innamorato, quando hai scelto mio fratello e io ho continuato a pensarti, a volerti. E non ho avuto scelta quando sei corsa da me in lacrime, quando mi hai chiesto aiuto e io ero l’unico a poterti offrire riparo. Io non ho mai avuto scelta quando si è trattato di te, Kaylyn. Mai una sola volta. Sono succube di qualsiasi tuo desiderio e ora non ce la faccio più, non posso vivere con il pensiero di poterti dare ogni cosa, il mondo, e non ricevere nulla in cambio.-

- E allora vattene.-

Non aveva avuto bisogno di sollevare lo sguardo per capire che i suoi occhi erano ricolmi di lacrime, incassando la testa tra le spalle e lasciando che lo spingesse fuori dall’appartamento tra i “Noi non abbiamo bisogno di te” e “Vivi la tua vita, Liam Payne, e non tornare mai più”.

 

 

 

Quella mattinata si era trasformata dalla più felice della sua vita a quella che avrebbe voluto dimenticare, cancellare. E poco gli importava della nuova arrivata, se non aveva più sua mamma; anzi, per quel che lo riguardava, non voleva avere nulla a che fare con quello sgorbio, con quel mostro. Era riuscito a svincolarsi dalla presa del genitore, quando aveva cercato di dargli quella notizia con la miglior cautela possibile, e aveva percorso tutti quei corridoi simili senza alcuna meta, sedendosi a terra in un angolo e stringendo le ginocchia al petto.

Era tutto un brutto sogno, si sarebbe svegliato di nuovo quella mattina con l’orecchio premuto contro la pancia di Trisha e avrebbe visto il suo sorriso, non si sarebbe lamentato per tutti quei baci contro la guancia e l’avrebbe stretta forte ripetendole quanto le volesse davvero bene. Non poteva essere che un sogno, era tutto troppo brutto, orrendo. E sua mamma era forte, più forte di qualsiasi uomo, non poteva essere andata via.

Nascose il viso tra le braccia, non volendo mostrare le lacrime a chi si era fermato di fronte a lui, ignorando come cercasse di chiedergli il nome e “Ti sei perso? Cerchi la tua mamma?

- Non mi sono perso.- sibilò dopo aver passato i polsini della felpa contro il viso, tenendo un’espressione orgogliosa mentre affrontava quella donna vestita con gli stessi camici di quelli che avevano portato via Trisha qualche ora prima. - Sono scappato e non voglio tornare indietro.- spiegò velocemente e con stizza, sperando di essere lasciato in pace da quell’impicciona.

Sbuffò alle sue successive domande, incrociando le braccia al petto e grugnendo al suo “Sei Zayn?”, cercando di restare in silenzio mentre lei gli ripeteva di quanto il padre lo stesse cercando, che era davvero molto preoccupato e “La tua sorellina è la più bella di tutte, non vuoi vederla?

- Fa schifo.- sputò fuori in con rabbia, sbattendo un piede contro il pavimento e girandosi per guardare il muro e non la pietà negli occhi di quella donna. - Non voglio vedere quel mostro.- insistette con un tono sempre più acido e freddo, allungando un braccio di fronte a lui per grattare la superficie del muro con le unghie. Voleva restare solo, non gli importava di nessuno e non voleva vedere la causa di tutti i suoi problemi.

Stava rannicchiato contro l’angolo del muro da qualche minuto - o forse qualche ora, non aveva l’orologio al polso - e desiderava solo avere contro un corpo caldo e non una parete così fredda; gli mancava anche il suo papà, ma non avrebbe detto a quella donna - non si era allontanata da lì e restava in silenzio alle sue spalle - che si era davvero perso e voleva tornare dal suo baba. Non era più un bambino, era un uomo. E non voleva nemmeno piangere, non voleva mostrarsi debole.

Ascoltò distrattamente le parole di quella che si rivolgeva al nuovo arrivato, stringendo ancor di più le gambe al petto nel riconoscere la voce profonda del padre, e sentì i passi allontanarsi nello stesso momento in cui una mano gli si posò contro la spalla.

- Vuoi parlarne, Zay?- scosse il capo per rispondere, non trovando le forze di aprire bocca e sapendo di non riuscire a impedire il pianto. - Mi sono preoccupato, non riuscivano più a trovarti.- scrollò le spalle per liberarsi della presa debole del padre, alzandosi in piedi e infilando le mani nelle tasche dei pantaloni, deciso a lasciare quel corridoio per trovare un angolo più sicuro e solitario.

- Zayn!- si sentì richiamare ai primi passi in direzione opposta, bloccandosi al “Non vuoi vedere la tua sorellina?” che lo portò a voltarsi con uno scatto e gridare: - Non voglio avere niente a che fare con lei, è un mostro e la odio. È colpa sua se la mamma non c’è più e io non voglio una sorella!-

Appoggiò il palmo contro la guancia, massaggiando il punto colpito dallo schiaffo del genitore, e percepì una patina di lacrime premere per liberarsi, tirando su con il naso e puntando gli occhi a terra mentre ascoltava i rimproveri, quel “Non provarci mai più, Zayn Malik, a dire queste brutte cose su Safaa” che lo fece sbuffare e stringere le braccia al petto per difendersi.

- Non è colpa sua, sono cose che succedono e non ti permetto di parlare in questo modo di lei, di un innocente che ha l’unica colpa nell’essere venuta alla luce e in vita. Preferivi perdere anche lei? Dovresti essere grato ad Allah per averla protetta.-

Preferì restare in silenzio e fermo in quella posizione, non trovando modo di ribattere per i singhiozzi che tratteneva; si lasciò andare a tutte quelle emozioni, al pianto, solo quando si trovò con il viso contro la maglia del padre, stringendola tra le dita e ripetendo solo il nome della madre, di quanto fosse ingiusto e di quanto gli mancasse.

- Ce la faremo, Zay.- Annuì tra i singhiozzi, aggrappandosi a lui e ascoltandolo continuare con voce roca e spezzata: - Siamo due uomini forti e ce la faremo. Sei un campione, Zay. Non diceva che eri un campione?-

Non rispose a quella domanda, stringendo più forte la presa e premendo il viso bagnato contro la sua maglia, e sentì le sue dita tra i capelli corti e contro la cute, staccandosi dopo dieci minuti di pianto continuo e lasciando che fosse lui, inginocchiatogli di fronte, ad asciugargli le lacrime che continuavano a scorrere lungo le guance.

- Ce la faremo, Zayn, ma dobbiamo stare insieme.- lo sentì insistere su quel concetto, come se stesse convincendo entrambi con quella frase, e gli strinse la mano per lasciarsi guidare verso il reparto in cui stava la sorellina, accettando di darle un’occhiata dalla vetrata.

 

 

Liam sapeva di aver sputato fuori parole troppo velenose, cose che nemmeno credeva più e sì, un tempo provava rancore per quella scelta di Kaylyn, per quel suo preferire Paul a lui, ma ora era tutto dimenticato, ora stavano crescendo una figlia assieme e non era innamorato di lei, non più. Aveva ripetuto quel discorso, quello che la ragazza gli aveva fatto anni prima, più e più volte nella testa durante le notti insonni e aveva capito, aveva capito perfettamente quel che intendeva e il motivo per cui tra loro non avrebbe mai funzionato. Però c’era questa stupida parte dentro di lui che non voleva saperne di lasciar cadere quel discorso, quella carta che lo portava sempre vincitore in qualsiasi litigio. Si sentiva un bambino a rinfacciarle continuamente il suo aver scelto Paul, vedeva come riusciva a ferirla con quelle poche parole ma non riusciva a farne a meno, era sempre l’orgoglio a prevalere.

Aveva quindi raggiunto la festa con l’idea di mettere a tacere il cervello per qualche ora, aveva preso un taxi e mandato un messaggio a Rick, sperando di chiarire con lui e magari dormire con lui, ben lontano dalle grida di quella bambina e da una probabile discussione con Kaylyn. Era circondato da alcuni compagni di corso, brindando alla buona riuscita degli ultimi esami e aveva sorriso con l’alcool nelle vene al braccio che si era stretto attorno alla vita e al petto solido contro cui era stato guidato.

- Rick!- esclamò sopra il volume della musica, gettando indietro il capo e premendo dei baci umidi contro il suo collo, per poi risalire lungo la mandibola e strofinare il naso contro la sua pelle. - Andiamo a ballare?- gli domandò con un sorriso malizioso, voltandosi tra le sue braccia e intrecciando le dita dietro la sua nuca, indietreggiando fino al centro della pista da ballo.

Stava cercando di muoversi a ritmo con la musica, canticchiare qualche strofa e cercare allo stesso tempo di non cadere a terra per l’alcool e il suo addormentargli i sensi, rendere goffi i passi; aveva percepito le dita di Rick stringere troppo forte i fianchi, lasciandogli qualche livido per i giorni a venire, ma non voleva dirgli si lasciarlo, di diminuire la stretta. E sì, c’erano giorni in cui gli faceva male ma per il resto amava quel suo lato possessivo.

Aveva schiuso le labbra per potergli chiedere il motivo di quel gesto, solitamente lo faceva quando qualcuno guardava nella loro direzione, ma scoppiò a ridere contro la sua bocca famelica, cercando di recuperare del controllo in quel bacio per poi arrendersi e lasciarlo fare, aggrappandosi ai suoi capelli e spingendo il viso contro il suo. Talvolta si innervosiva per quel suo prendere ogni cosa, ogni bacio e morso, senza farlo partecipare in alcun modo, si sentiva quasi un suo burattino a restare fermo e lasciare che prendesse quel che gli serviva.

Non si era opposto quando aveva percepito i suoi denti contro la pelle tenera del collo, mugugnando di dolore ma lasciando che incidesse quel marchio e “Sei solo mio” in bella vista, lasciandosi afferrare per mano e guidare verso il bancone del bar mentre usava il palmo dell’altra mano per toccarsi il punto sensibile e sbuffare infastidito. Vide le sue spalle tendersi a quel gesto, trovandosi bloccato tra una colonna e il suo corpo, le mani che teneva premute sui fianchi e gli occhi puntati sul segno rosso; aveva cercato di allontanarsi non appena aveva visto il suo ghigno quasi sadico e aveva sibilato per il fastidio al suo dito che continuava a premere contro la pelle sensibile.

- Che ti prende? Non ti piace più, Payne?- gli aveva chiesto con un tono acido, i suoi occhi verdi che guizzavano nella luce soffusa, e aveva stretto le dita attorno al suo mento per fargli sollevare lo sguardo e incrociarlo col suo. - Non vuoi più essere mio? Hai trovato altro che possa soddisfarti più di me?-

- Hai bevuto troppo.- sentenziò senza rispondere, scacciandogli la mano senza però allontanarsi da lui. - E negli ultimi mesi sei.. non sei il Rick di prima, quello che mi piaceva e..- fu costretto a bloccarsi alla sua risata, aggrottando la fronte e cercando di chiudere fuori gli altri rumori che non fossero la voce di quel ragazzo così diverso da quello che aveva conosciuto durante un corso sbagliato.

- Di chi è la colpa? Prova a indovinare.- Distolse lo sguardo alle sue parole, indicandosi e chiedendo: - Stai dicendo che è colpa mia?-, per poi farsi sempre più confuso alla sua risata e al suo cenno del capo.

- Tu sei..- Il successivo “Fuori di testa” gli morì nella gola con un grugnito, Rick l’aveva spinto contro il muro e teneva una gamba tra le proprie mentre succhiava una porzione di pelle sensibile dietro l’orecchio. E Liam avrebbe voluto rimangiarsi tutti i gemiti di piacere a quella tortura, a come lo stava mordendo senza alcuna tenerezza mentre ripeteva in una cantilena di quanto fosse bello e suo, solo suo e di nessun altro, che l’avrebbe rovinato pur di non farlo toccare da altre persone.

Cercò di richiamarlo più e più volte, premendo i polpastrelli contro la sua cute e cercando di stringere le dita sulla manica della giacca per allontanarlo, ma più cercava di liberarsi e più quello rafforzava la stretta sui fianchi, chiudeva la distanza tra i loro corpi e rendeva i gesti più espliciti e sporchi, facendo strofinare i loro bacini assieme.

- Possono vedere tutti, Rick.- mugolò infastidito, premendo un palmo contro il suo addome e ottenendo in risposta un sopracciglio sollevato e “Non ti piacerebbe far vedere a chi appartieni?”. Non riuscì a bloccare la scossa del capo istintiva, spiegando alla sua stretta eccessiva che “Sei arrabbiato e hai bevuto, non così”, e risalì con le dita lungo il suo braccio, cercando di convincerlo con un semplice sguardo.

Non si aspettava di vederlo così furioso, di sentire il sapore metallico del sangue per come gli aveva morso il labbro fino a spaccarlo e diede degli strattoni per liberare i polsi dalla sua presa, inclinando il viso per allontanarsi da lui e rabbrividendo al suo sussurro contro l’orecchio, quel “O forse ti piace un altro”.

- Non dire idiozie, Rick.- ribatté con una smorfia, leccandosi il labbro per ripulirlo del sangue e lenire il taglietto aperto. - Sai che mi piaci tu.- confessò in un sussurro, sperando di non essere sentito dall’altro e ringraziando il buio che nascondeva le guance rosse per l’imbarazzo.

Intravide una scintilla di dolcezza passare dai suoi occhi, segno che doveva averlo sentito sopra tutto quel baccano, e roteò i polsi, massaggiando la pelle su cui erano evidenti delle macchie rosse per la forza con cui l’aveva stretto. Lasciò che infilasse la mano sotto la maglia, le loro pelli calde a contatto, e avvolse le braccia attorno al suo corpo, facendo scivolare una mano nella tasca posteriore dei suoi jeans con un sorriso premuto contro la sua guancia.

- Ogni tanto non riesco a trattenerla questa gelosia e non voglio farti del male, Liam.- annuì con il viso contro il suo collo, evitando di concentrarsi sul “Ma non mi lasci altra scelta alcuni giorni”, e ascoltò invece la sua proposta a fermarsi da lui, quel “Ci divertiamo e ti mostro di chi sei” che non suonava così bene come settimane prima. Restò in silenzio a pensarci, rilassandosi con le dita che gli percorrevano l’addome, e passò la lingua contro il labbro inferiore prima di farfugliare: - Forse dovrei tornare a casa e chiarire con Lyn, abbiamo litigato e poi non posso lasciarla sola con la bambina.-

Aveva appena concluso l’ultima vocale quando percepì le sue unghie incidere sulla pelle e lasciare sicuramente dei segni rossi verticali, trovandosi con la schiena contro il muro e il suo corpo a tenerlo bloccato, strizzando gli occhi al suo fiato caldo e ai morsi contro la mandibola, assieme a continui sibili come “Devi smetterla di parlare di lei” o “Tu sei mio, mettitelo in testa”.

Sentì le sue dita stringersi attorno al polso, trascinarlo tra quella massa di corpi e cercò inutilmente di richiamare la sua attenzione, il volume della musica era troppo alto e stava gridando il suo nome invano, come quei continui strattone per liberarsi servivano solo a fargli più male. Si arrese quando capì di non avere altra scelta che seguirlo in silenzio e mugolò infastidito non appena la schiena venne a contatto con una superficie fredda e dura; Rick l’aveva spinto contro il muro del bagno e lo osservava con gli occhi ridotti a fessure e la rabbia evidente nei suoi pugni chiusi.

- Sei impazzito?!- esclamò con una smorfia, portando una mano sulla spalla e dove il dolore era più acuto. - Che ti sei fumato prima di venire qui? Oggi sei impazzito e non ti riconosco.- borbottò poi, scrollando le spalle e staccandosi dalla parete per andarsene. Lo spinse lontano dal proprio corpo non appena gli fu addosso, riuscendo a difendersi dal suo attacco e ripetendo: - Tu sei matto, vai a riposare.-

- E tu sei mio.- ribatté invece quello, piantandosi di fronte alla porta d’uscita e non accennando a muoversi o lasciarlo passare. - Ma ti comporti come una puttana.-

Non riuscì a bloccare lo schiaffo che andò ad abbattersi contro la sua guancia, sentendo il palmo diventare caldo per la forza che ci aveva impiegato, e invece delle scuse già pronte riuscì solo a lamentarsi per il dolore, le dita del ragazzo che gli stringevano con forza i capelli mentre lo obbligavano ad avvicinarsi sempre di più a lui.

- Non è forse così?- gli aveva chiesto con un tono deciso, ignorando i richiami di Liam e le suppliche a diminuire quella stretta. - Vai dietro alla prima ragazzina che ti si inginocchia davanti, alla prima che apre le sue gambe per te. Ma le tue devono stare aperte solo per me, Liam.-

- Mi fai incazzare quando corri da quella.-

- È la mia migliore amica e si chiama Kaylyn, idiota.- grugnì con rabbia a quelle ultime parole, liberando i capelli dalla sua mano e spingendolo lontano da lui, facendo forza sulle sue spalle e trovandoselo l’attimo dopo addosso in una lotta a chi riusciva a ferirsi di più. Era sicuro di vedergli nei giorni a seguire un livido sotto l’occhio, dove il proprio pugno l’aveva colpito con forza, e doveva aver perso più di una ciocca di capelli per come gli faceva male la cute.

 Era accaduto poi tutto velocemente, un attimo prima stavano lottando e subito dopo cercavano di sfilare i vestiti dell’altro nel minor tempo possibile, e si era trovato con la guancia premuta contro le piastrelle fredde, le labbra del ragazzo tra le scapole e le sue dita che si muovevano esperte dentro di lui, facendolo gemere e arrossire dall’imbarazzo.

Annuì solamente al suo chiedere se volesse di più, sollevando il braccio per poter nasconderci contro il viso e mordere la pelle per soffocare i gemiti disperati e le suppliche a finirla con i preliminari, con quelle dita che gli sfioravano la prostata per colpirla subito dopo e fargli tremare le ginocchia.

Non era durato molto quel rapporto tra loro, Rick sembrava inseguire un piacere personale mentre Liam teneva le mani contro le piastrelle per non sbattervi contro alle spinte dell’altro; aveva preferito non pensare troppo alla brutta sensazione nello stomaco, a come tutto pareva un semplice dargli una lezione e fargli del male, ma non era semplice chiudere fuori quel macigno. Si intensificò il tutto al grugnito di Rick, al suo morso contro la spalla e a come raggiungeva l’orgasmo senza neppure avvolgere una mano attorno al membro di Liam, come era solito fare tutte le volte precedenti. L’aveva lasciato con un’erezione pietosa in quel bagno vuoto e freddo dopo aver dato una pacca contro il suo sedere e aver bisbigliato con un tono roco e basso: - Quando ti impegni e se lo vuoi, puoi essere un bravo ragazzo. Hai visto?-

Non appena sentì i suoi passi allontanarsi, sollevò i boxer e i jeans, preferendo non raggiungere un orgasmo solo per bisogno e con delle brutte immagini nella testa. Si bagnò il viso con l’acqua fredda, cercando di ridurre l’effetto dell’alcool e schiarirsi le idee senza quel martello che pulsava contro la tempia; non si era accorto di essersi accasciato a terra, di avere la schiena premuta contro la parete e le dita che digitavano velocemente dei numeri, fino a quando non sentì la voce della ragazza dall’altra parte della linea, come bisbigliava il suo nome con preoccupazione.

- Ho rovinato tutto.- evitò di rendere quell’affermazione una domanda, sapeva benissimo quanto quei pensieri fossero corretti. - Sempre e solo colpa mia, sono un disastro.- bisbigliò con la mano premuta contro la fronte per cercare di asciugare il sudore e riportare del calore sulla pelle pallida.

Scosse il capo alle domande della ragazza, come stava cercando di chiedergli spiegazioni e “Smettila con le stronzate, è tardi”, per poi mugugnare di dolore al gettare indietro il capo e venire a contatto con le piastrelle dure e fredde.

- Se solo.. Lyn.- ripeté il suo nome come se fosse l’unica cosa in grado di aiutarlo, premendo il palmo contro la fronte per calmare il mal di testa. - C’è qualcosa di sbagliato, non è.. non può andare bene così. Io non sono.. giusto, non sono.. non posso e.. e Paul, lui sarebbe.. lui dovrebbe essere con voi, non io. Che ci faccio in questo posto? Io non ho nulla, non ho niente e lui.. dovevo essere io, non è così?      Io e non lui, così avrebbe potuto.. non è giusto che lui sia.. Aileen è sua figlia!- esclamò dopo vari farneticamenti, sentendo il suo sospiro e “Vengo a prenderti, Leeyum”.

- Lyn, Lyn.- mugugnò con la voce impastata dall’alcool, appoggiando il palmo sul pavimento e cercando di rimettersi in piedi sulle gambe instabili. - Ascolta, per favore. Lyn, so che l’hai capito.- farfugliò, appoggiando l’avambraccio contro la parete e tenendo il telefono stretto nelle dita dell’altra mano. - Cosa dovremmo dire quando lei diventerà grande? Quando chiederà di suo padre  e io.. io non sono Paul, Lyn. Io non sono lui e non sarò mai in grado di crescerla. Quanti mesi sono passati? E sono già un completo disastro, lui sarebbe stato meglio. Loro l’hanno sempre saputo, sempre detto. E io ero così, così geloso e invidioso di lui. Era sempre meglio di me, aveva tutto e io avevo te e poi anche tu hai visto che lui..-

Scosse il capo quando sentì i suoi borbottii sulle stronzate che stava dicendo, percependo il pavimento sparire per qualche secondo sotto i piedi, e spinse il braccio contro le piastrelle per non cadere, ripetendo: - Ero così geloso di lui, quando lui è.. non volevo le sue cose a questo prezzo, non così, non è.. non è giusto, Lyn.-

Aveva poggiato la testa contro la parete, cercando di regolare il respiro, e poi aveva sussurrato con un filo di voce e spezzata dal pianto: - Farei qualsiasi cosa per renderti felice, Lyn. Se solo potessi riavvolgere tutto, se potessi scegliere di.. di prendere il suo posto e così, così sarebbe giusto. Tu, lui e la vostra famiglia. Non io, io non sono lui.-

Aveva guardato il cellulare con una smorfia quando gli si era spento tra le mani, avvicinandosi al lavandino e cercando di pulirsi il viso e regolare il respiro, il battito del cuore e calmare il pianto. Doveva solo essere forte, il fratello lo prendeva spesso in giro per quel suo comportarsi come una femminuccia, un moccioso dal pianto facile, e doveva solo prendere un grosso respiro, ricacciare tutto in fondo allo stomaco e ignorare la sensazione di avergli rubato il posto.

Si portò una mano contro la guancia, massaggiando la zona che si stava arrossando per via dello schiaffo della ragazza che teneva le braccia strette attorno alla vita e il viso contro la maglia; ascoltò distrattamente i suoi continui farfugli su quanto si fosse preoccupata, di promettergli di non bere mai più e di smetterla di pensare cose così stupide e senza senso, ma c’era una parte di lui che gli ripeteva di aver ragione, che lei era solo troppo buona per ammetterlo ed erano un grosso casino pronto per esplodere. Si sarebbe fatto più male lui, lo sapeva per come Kaylyn teneva i palmi sulle proprie guance e gli ripeteva con quel sorriso dolce che non sarebbe riuscita a vivere senza di lui, che non riusciva a respirare lontano da lui; avrebbe voluto rispondere che lui si sentiva morire in ogni caso, che stare vicino a lei gli faceva male quanto lo stare lontano.. o forse di più, molto di più.

Annuì con lo sguardo fisso di fronte a sé e non poteva dirlo, non poteva confessarle quante volte avrebbe solo voluto averla tra le braccia, baciarla e ripeterle che lui era meglio, lui era molto meglio. Si sentiva un mostro a piangere per la scomparsa del fratello e essere felice di averla per sé, di nuovo solo per lui; non voleva pensare a quanto tutto quello sembrasse un suo oscuro desiderio.

L’aveva stretta in un abbraccio per soffocare quella voglia di averla ancora più vicino, percependo ogni parte del corpo tremare per il suo respiro contro la pelle, e aveva ascoltato come ripeteva il suo nome, quel Leeyum che voleva suonasse con tutt’altra intonazione, mentre gli chiedeva di tornare a casa con lei. C’era qualcosa di quotidiano nel pensare a quell’appartamento, alla piccola che stavano crescendo assieme e alla parola famiglia che non sembrava volerlo lasciare in pace; Aileen era la figlia di Kaylyn e Paul, ma c’erano momenti - troppo brevi e seguiti dai sensi di colpa - in cui sognava di sentire il suo “papà” rivolto a lui. Ed era sbagliato, ingiusto e sapeva che sarebbe caduto a pezzi nel sogno di quella famiglia.

 

«Morning will come and I'll do what's right
Just give me til then to give up this fight
And I will give up this fight
Cause I can't make you love me if you don't
I can't make your heart feel something it won't
Here in the dark in these final hours
I will lay down my heart
»


 

 

Non era così complicato tenere Safaa in braccio, come gli aveva ripetuto più volte sia il padre che quella donna con il naso a punta, e dopo un primo momento di smarrimento - aveva paura di farle del male perché gli adulti lo stavano fissando come se potesse farglielo - era riuscito a tenere le braccia salde, come gli avevano spiegato e imitato più volte i due, e muoversi appena per non farla scoppiare in un pianto. La prima volta che aveva tentato di prenderla lei era scoppiata a piangere, come se sapesse perfettamente dei cattivi pensieri che aveva fatto su di lei, e si era spaventato, aveva cercato di rifiutare un nuovo contatto tra loro ma suo padre sembrava non volerne sapere di arrendersi.

E ora la stava tenendo da qualche minuto, vedendo con la coda dell’occhio i due pronti a scattare, aveva iniziato persino a canticchiare la ninna nanna che gli aveva insegnato la mamma, lei giurava sempre che il mostro sotto il letto sarebbe scappato via a quelle parole. Aveva cercato di sollevare il suo corpicino per poter premere le labbra contro la sua fronte e gli era sembrato di sentire un singhiozzo quando aveva sussurrato “Ti proteggerò sempre, sorellina”, portandolo a voltarsi verso il padre e porgergli il fagotto nella paura di aver sbagliato qualcosa. Non pensava di aver fatto qualcosa di male ma sia Yaser che Safaa stavano piangendo, chi più silenziosamente dell’altro, e persino quella donna aveva gli occhi lucidi e cercava di nasconderli.

Era rimasto in piedi di fronte a loro, ficcando le mani nelle tasche dei pantaloni e fissando in silenzio come cercasse di calmarla, ripetendole che era la gioia del papà e della mamma. Non era geloso o arrabbiato con lei, con Safaa, però si sentiva un po’ solo a guardarli, a pensare a tutti quei mesi passati a prendere in giro il suo essere così tanto preoccupato con la sua mamma. Ricordava che c’erano sere in cui Trisha stava sveglia con lui e gli ripeteva “Sarà la sua principessina, come ogni figlia per il suo papà”, poi si addormentava con le braccia avvolte attorno al suo corpo sempre più grande e fingeva di non sentire a colazione i suoi lamenti sul mal di schiena - o Yaser che le ripeteva di riposare in un letto comodo e “Pensa alla bambina” -, perché poi lei gli rivolgeva quello sguardo, come a ripetergli il discorso della sera prima e allora scoppiavano a ridere assieme. Era solo la sua mamma e aveva cercato di essere forte, aveva cercato di fare l’uomo, di essere un campione, ma non credeva di poter rispettare quella promessa fatta al padre. Forse era ancora un bambino, nonostante gli undici anni, che voleva correre tra le braccia della mamma e ascoltare la sua voce, come gli ripeteva con quell’inclinazione delicata che “ti riuscirà meglio la prossima volta, rialzati sempre e fai come i veri campioni che non hanno paura di cadere”.

Aveva cercato di mantenere un tono normale, le lacrime che cacciava in fondo alla gola, mentre chiedeva al genitore delle monete per un succo di frutta, aprendosi in un sorriso allegro - o in quello che ricordava somigliargli di più - per rassicurarlo e non dover rispondere alle domande impresse sul suo viso. Sapeva che non era stato convinto da quella messa in scena, gli occhi di entrambi erano troppo lucidi, ma sapeva anche quanto nessuno dei due fosse pronto per affrontare quella discussione; avevano bisogno di tempo, dovevano abituarsi a quel piccolo vuoto nella loro famiglia.

Teneva le monete strette nel palmo, come se il freddo contro la pelle potesse fargli capire quale fosse la realtà, e stava percorrendo velocemente i corridoi, volendo solo allontanarsi il più possibile da quel posto per non dover pensare a Safaa, ai suoi occhi neri e a come avrebbe voluto rannicchiarsi contro la madre per piagnucolare ancora un pochino. Quando si era chiuso in ascensore aveva ricevuto degli sguardi curiosi, soprattutto a quel suo passare insistentemente il polsino della felpa contro le palpebre, e aveva tenuto gli occhi rossi fissi sui numeri dei piani che scorrevano e si lasciavano sopra le teste.

Si era catapultato fuori quando non era più riuscito a resistere in quel silenzio, non sapendo nemmeno dove fosse finito e guardandosi attorno per cercare una macchinetta qualsiasi, delle merende o delle bibite non faceva alcuna differenza. Si era messo quasi a correre quando l’aveva trovata, volendo tornare dentro quell’ascensore e pregare di riportarlo dal suo papà, che non voleva più stare solo e aveva un filo di paura, e si era bloccato con le dita contro i tasti, dopo aver inserito la moneta, quando aveva sentito delle grida.

Ed era quello che avrebbe voluto fare lui, gridare contro quei dottori che non era giusto, che non poteva morire e che era troppo giovane, che era la sua mamma e la rivoleva, che non poteva essere vero e dovevano smetterla di dire stronzate.

Si mordicchiò il labbro inferiore nel ricordare quante volte l’avesse rimproverato o guardato male a una di quelle parole; gli diceva sempre che non stavano bene sulla bocca di un bravo bambino e quando insisteva sul suo essere ormai un uomo, lei scuoteva il capo e gli lasciava un bacio sulla fronte.

Riportò nuovamente la sua attenzione sulla macchinetta, riuscendo a percepire quel “Ho perso tutto, è solo un brutto sogno” in lontananza, e sbuffò quando il succo selezionato restò bloccato a metà, spingendo il palmo contro il vetro e supplicando a voce bassa di funzionare. Imprecò contro quello strumento per qualche minuto, prendendolo persino a spallate e ottenendo scarsi risultati; si era mosso di poco, ma non abbastanza per cadere e lasciarsi prendere.

Si stava massaggiando la spalla con una mano, maledicendo tra i grugniti infastiditi il succo e tutto l’ospedale, quando percepì uno spostamento d’aria attorno a sé e “Puoi farti male quanto vuoi, se non inserisci le monete, non scenderà nulla”. Si voltò con uno scatto e un verso sorpreso, trovandosi di fronte il ragazzo che stava urlando solo pochi minuti prima contro quei medici, e roteò gli occhi con una smorfia, premendo il palmo contro la spalla e dando un calcio alla base della macchinetta, desiderando solo quel dannato succo e il padre accanto.

Aveva ignorato il sospiro di quel tipo strano, non che lo odiasse - aveva riconosciuto il suo stesso dolore nei suoi occhi rossi - ma voleva che prendesse il suo caffè e lo lasciasse poi solo a sfogare la rabbia contro quello strumento inanimato. Lui non si era forse messo a gridare contro tutti? E allora poteva capirlo e lasciarlo distruggere quella macchinetta che non voleva dargli il succo.

- Sai che..- lo sentì riprendere a parlare, la voce roca per le urla e lo sfogo di poco prima. -.. se dovessi spaccarla davvero, poi il tuo papà dovrà pagare tutto quanto? Non fare il bambino e paga per quello che vuoi. Tua mamma non ti ha insegnato ad avere un po’ di rispetto? O ti piace tanto fare il vandalo e..-

E non trovava giusto quel suo attaccarlo con quell’acidità, come se la colpa di quel che gli fosse successo la trovasse in lui, quel rivolgersi a lui con una superiorità che gli faceva stringere le mani in pugni. Voleva gridargli tante cose, soprattutto che la sua mamma non doveva nemmeno nominarla, ma indicò solo la macchinetta con gli occhi lucidi e rossi, trattenendo i singhiozzi e il pianto mentre farfugliava: - Non vuole scendere e non ho altre monete, non ho più niente.-

Sperava di essere riuscito a fargli intendere più di quel che aveva effettivamente detto e non capiva perché fosse così importante farsi capire da lui, da un estraneo e da uno dei tipici ragazzi arroganti che trovava in giro. Era come se una parte di lui - molto stupida e senza alcun senso - volesse raccontargli di quella giornata, di come era stata faticosa e pesante, di quanto gli mancasse la mamma e di non riuscire a essere forte come lei voleva.

Ma lui non poteva capire, si sarebbe solo fatto delle risate sul suo essere un bambino patetico e in cerca di attenzioni, e quella voglia di stringere le braccia attorno a lui e piangere, stare stretto a un completo sconosciuto e lasciarsi consolare, era solo dovuto al desiderio di essere tra le braccia del padre. Non che quel ragazzo glielo ricordasse, era molto più giovane e cattivo, ma sembrava quel tipo di persona in grado di ascoltarlo.

Puntò gli occhi sul suo braccio, arricciando il naso in una smorfia ai segni sul suo polso e alla puzza che emanava, e si passò la manica della felpa contro il viso per cancellare le lacrime e non mostrarsi così debole e bisognoso di calore, per poi aggrottare la fronte con confusione al suo inserire le monete, digitare dei numeri e far cadere entrambi i prodotti.

- Perché hai.. non volevi il caffè?- gli chiese timidamente dopo aver accettato il succo, vedendo come si stringeva nelle spalle e gli rivolgeva poi un sorriso luminoso, indicando quel che teneva tra le mani e leggendo la scritta prima di esclamare: - Adoro il succo alla pera, il mio preferito.-

Inarcò un sopracciglio alle sue parole, mostrandogli quanto poco vi credesse, e lo osservò mentre prendeva il primo sorso e sporgeva poi le labbra in una smorfia, lamentandosi con un “Hai dei gusti orrendi, piccoletto” a cui rispose con una risata e un incassare la testa tra le spalle.

Aveva trattenuto la curiosità del chiedergli che gli fosse successo, Trisha gli ripeteva che certe volte non si dovevano fare domande, ma aveva continuato a fissare le sue mani bendate, il cerotto contro la sua fronte e gli sfregi contro la sua guancia, trovandoli simili a quelli che si era fatto in una brutta caduta con lo skate.

Aveva seguito il suo cenno del capo a voltarsi e si era trovato tra le braccia del padre, aggrappandosi alle sue spalle e annuendo alle sue preoccupazioni, strizzando gli occhi e chiedendogli in un bisbiglio se potessero tornare a casa e dormire assieme. Solo quando il genitore aveva accettato e aveva stretto la sua mano si era ricordato del ragazzo, di doverlo ancora ringraziare per quel piccolo gesto, e soprattutto di ricordargli che non era solo - come l’aveva sentito gridare contro i medici - ma che c’era sempre qualcuno pronto a salvarlo.

Restò in silenzio a fissare il vuoto con il succo stretto in una mano, scuotendo il capo alle domande di Yaser su chi stesse guardando o aspettando, e rafforzò la presa sulla sua mano pensando a quante possibilità ci fossero che avesse immaginato solamente tutto.

 

 

«And I’ll be there with you in the sound of your laughter.
I’ll be in the tears you cry,

I will always be with you,
Like a guardian angel, constant and true.
When you're lost in the night
And you can see the light
My love will see you through.

I will always be there»

 

 

 

 

 

 

Angolo Shine:

 

Non ho nulla da dire per giustificare questa follia, solo che avevo bisogno - quasi disperato - di scrivere questa sciocchezza e un probabile incontro tra Liam e Zayn nel giorno più brutto della loro vita.

Come detto là sopra, se non vi siete persi in mezzo all’angst, è una specie di prequel della long che sto per concludere (domani pubblico l’epilogo e lasciatemi soffrire da oggi).

Se siete capitati qui per sbaglio io vi giuro che non sono così tanto sadica e so scrivere tanto fluff e dolcezza; promesso, andate a controllare se non mi credete.

Se invece mi conoscete bene (troppo bene) vi ringrazio per essere qui ancora una volta e spero di non avervi ucciso.

Poi se volete farvi ancora più male potete ascoltare la canzone che mi ha ispirato (ci stanno quanti più smile cattivi possibili qui), “I can’t make you love me” e potete scegliere tra la versione originale di Bon Iver o la cover di Adele (tanto per soffrire ancora di più).

A domani per ancora più sentimentalismi in queste righe e ho in cantiere più di una one-shot super fluff per colmare questa fanfiction troppo triste e seria.

   
 
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