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Autore: Nadie    09/03/2015    3 recensioni
Un giorno ha chiesto cosa fosse quell’amore ripetuto dai dischi in vinile di papà.
«Una cosa che aggiusta tutto.» gli hanno risposto.
«Come una super colla?»
«Proprio come una super colla.»
Adesso che il bambino che è stato lo ha abbandonato, capisce che gli hanno mentito.

[Ben e Prudence]
[La Legge del Resto - sentivo il bisogno di cambiar titolo]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Temporale '
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17. Prudence e ciò che sentì

          
 

Adesso è giusto che si racconti anche un’altra storia, che si spenda qualche parola anche per Prudence e ciò che sentì.
 
Le era sempre piaciuto scrivere, era sempre stata attratta dalle parole e dal loro misterioso e affascinante potere.
Prudence sapeva, aveva letto e studiato, che le parole erano capaci di grandi cose; di cose splendide oppure terribili; di pace e di guerra.
Le parole avevano mani che sapevano raggiungere posti fisicamente irraggiungibili e ne fu più che mai certa quando quelle mani d’inchiostro si infilarono, silenziose e letali, tra lei e Benjamin e spaccarono a metà la loro storia.
Lei non avrebbe voluto, non avrebbe mai voluto scrivere certe cose al ragazzo che dormiva nudo accanto al suo corpo, con gli occhi scuri chiusi dal sonno.
No, no che non avrebbe voluto ma pensò che fosse la cosa giusta, pensò che gli avrebbe fatto male, ma uno di quei mali che ti bagnano per un poco, poi si asciugano e scompaiono.
Pensò che sarebbe stata solo lei ad uscire irrimediabilmente scheggiata e frantumata da quella storia ormai scaduta e consumata, quindi si convinse di star facendo la cosa giusta e lasciò un foglio accuratamente piegato accanto al corpo caldo del ragazzo addormentato.
‘Verrà a riprendermi’ pensò all’inizio, ‘non mi lascerà andare via tanto facilmente’ ma, non seppe ammetterlo nemmeno a se stessa, sentì un’amara fitta al petto quando capì che, invece, Benjamin era andato per la sua strada.
Una strada ben più rosea di quella che la attendeva, una strada in cui non c’era il pensiero di fratellini mancanti a tenerlo sveglio la notte o case che sarebbero presto scivolate via, soffitti che non gli avrebbero più protetto la testa nei giorni di pioggia.
Ma Prudence se ne sarebbe andata prima, non avrebbe aspettato che degli sconosciuti la buttassero fuori da quella che era stata casa sua; non avrebbe aiutato sua madre a raccogliere ciò che restava di una famiglia irrimediabilmente spezzata.
No, Prudence e la sua schiena dritta avevano bisogno di rinascere, bisogno di staccarsi dal buio guscio del passato e in quel momento, in bilico su quella corda tanto sottile che lega il ciò-che-è-stato al ciò-che-sarà, lei si sentì come una farfalla.
Una farfalla-non-ancora-farfalla in attesa di sgranchirsi le ali, di sbocciare, spingersi fuori dalla pupa, di librarsi in aria staccandosi dal pensiero lontano di una vita passata ad essere solo un bruco.
Decise di cominciare a riscriversi in un piccolo appartamento lontano dal centro, che aveva un affitto poco caro ed un letto ed un bagno e lei, la donna-bruco, poteva sopravvivere, poteva essere forte, poteva essere nuova e diversa e rinascere dentro la sua stessa pelle.
Fu brava, fu così brava a reinventarsi che seppe chiudere la vecchia se stessa in cassetti remoti del suo io inafferrabile e si ripromise di stare attenta a non riaprirli mai più, quei cassetti.
E così si dimenticò di chi era stata, di chi fu Prudence Gallagher e di ciò che il suo cuore-di-bruco aveva sentito, adesso lei era una farfalla e non aveva tempo per pensare agli occhi scuri di un ragazzo-con-un-nome-da-dimenticare.
Concentrò ogni sua energia sul lavoro, non era facile trovarlo ma quando ci riusciva lei era grata, era grata anche se la paga faceva schifo, anche se le sue mani erano stanche di lavare piatti o servire  facce sconosciute ma era grata, era grata alla stanchezza che sapeva non farla pensare, sapeva trasformarla in un guscio vuoto e senza pensieri, senza passato.
E cadde giù, spingendosi lontana dall’ombra di se stessa e si sentì spazzata via, scivolata troppo in là, bisognosa di aggrapparsi a qualcosa o qualcuno.
Ma lei era una farfalla e le farfalle si salvano da sole.
Si raccontò di potercela fare, camminò per la strada a testa alta convinta che ci sarebbe riuscita, a ricominciare, ricostruirsi, rimettere ogni suo pezzo al posto giusto e volare, volare, volare.
Ma la sera, quando si ritrovava sola e nuda sotto il getto gelido della doccia, chiudeva gli occhi e ripeteva a bassa voce: ‘Benjamin. Benjamin’, con la guancia poggiata contro una piastrella umida.
BenjaminBenjamin.
Si aggrappò stretta a quel nome, al suo nome, un nome che sapeva raccogliere e sottointendere un’intera esistenza, esiste il nome, esiste Lui, lui che a chissà quanti chilometri di distanza forse stava pensando ad una ragazza-bruco che lo aveva lasciato e abbandonato senza nemmeno guardarlo negli occhi.
E magari adesso lui la odiava, il ricordo della loro storia era macchiato dall’odio.
Anche lei lo odiò, lo odiò con ogni centimetro della sua carne per averle permesso di scrivere quella lettera, per essere andato avanti, oltre, quanto lo odiava!
E quanto odiava se stessa, se stessa che sentiva il logorante bisogno di aggrapparsi ad un nome, se stessa che la notte fingeva che il cuscino fosse il petto caldo del ragazzo con gli occhi scuri e ci si raggomitolava contro e ‘scusa, scusa’, diceva, ‘non essere arrabbiato. Non odiarmi’.
Ma lei lo odiò, lo odiò quando capì di non saperlo e di non poterlo buttar fuori dalla sua memoria perché tutto intorno c’era un mondo intero che le urlava la sua esistenza e la sua fastidiosa, insopportabile mancanza.
Ma in fondo se lo meritava, se lo meritava perché lei sapeva cosa gli aveva fatto, sapeva quanto fosse grande l’alone di colpa che le pesava addosso.
Provò a darsi giustificazioni, a proteggere il pensiero delle sue scelte ma non c’erano scuse abbastanza forti da sorreggere il peso di ciò che aveva fatto.
Ciò che gli aveva fatto.              
Perché quando litigarono per l’ennesima ed ultima volta, lei si sporcò e non seppe più lavar via lo sporco dalla sua pelle.
 
Se lo ricordava bene, quel litigio.
Benjamin era così stanco, stanco di cosa? gli aveva chiesto.
«Di essere un fallimento.»
Povero ragazzo-senza-futuro, ragazzo-fallimento e la sua stanchezza, il suo futuro incerto, i giorni in cui si svegliava arrabbiato col mondo, facevano sentire Prudence un peso opprimente, una grossa macchia-avvolgi-speranze, ma lei non voleva rubare il futuro a nessuno.
Lui le disse: ‘la scelta è mia, tu non c’entri nulla’.
Ma lei c’entrava, era più dentro che mai. Si sentiva la scelta sbagliata e Lui la faceva sentire la scelta sbagliata.
Un giorno Benjamin usò qualche parola di troppo che scottò Prudence e la tagliò, un taglio netto, preciso, letale.
«Sono stanco! Dopo tutto quello che ho sacrificato per te, hai anche il coraggio di lamentarti!»
E quello fu il primo passo di una danza che Prudence conosceva fin troppo bene, ma non esitò: fece la sua mossa, rispose a tempo e presto si passò dal parlare al gridare e lei non pensò, non pensò di fermarsi e si fece trascinare dal ritmo oscillante di una danza che si concluse con il suono di una bottiglia di birra scagliata a terra.
Corse fuori da casa di Benjamin, avvolta dalla notte buia di Dublino, entrò nel primo bar che capitò sulla sua strada e andò a sedersi davanti al bancone.
Il buio del locale era interrotto a tempo da esplosioni di luci artificiali e la musica era banale e insopportabile, di certo non il suo genere.
Stava sorseggiando agitata la sua Coca-Cola quando le si mise accanto un ragazzo biondo e riccioluto, con gli occhi di un marrone chiaro e due fossette che comparivano sulle sue guance, appena accennate, ogni volta che sorrideva.
Si chiamava Alex e lei non impiegò troppo tempo a capire cosa volesse, cosa cercasse, i suoi sguardi insistenti non lasciavano spazio ad alcun dubbio.
Sapeva, era certa di star facendo la cosa sbagliata, ma la sua mente continuava a ritornare su quelle parole affilate, su quelle voci che avevano alzato troppo il tono e su quella bottiglia spaccata, ridotta in pezzetti su un pavimento freddo.
Lasciò che Alex la portasse a casa sua ed era così arrabbiata, arrabbiata con la se stessa che continuava a pensare a quel ragazzo con gli occhi scuri che sapeva solo farla sentire un peso.
E quella notte, mentre il tocco fastidioso di Alex le bruciava la pelle, lei pensò: ‘hai visto, Prudence? Adesso sai che puoi bastarti da sola, che non hai bisogno di rubare il futuro a nessuno’.
E si sentì sporca, tremendamente sporca.
 
 
Non lo scrisse nella lettera, avrebbe voluto ma non ci riuscì, non trovò le parole adatte e quali avrebbero mai potuto essere, le parole adatte?
‘Benjamin, mi sono sporcata’
‘Benjamin, sono caduta, ho fatto una sbaglio ed ora sono troppo sporca per poter stare con te’
‘Benjamin, ti devo chiedere una cosa: puoi non odiarmi? Ci riesci a non odiarmi?’
‘Benjamin, secondo te perché gli uomini sbagliano?’
‘Benjamin, sono una farfalla che è caduta nel fango ed ha le ali troppo impastate per poter volare’
Cancellò ogni tentativo, non esistevano parole per poter raccontare un simile sbaglio.
Non gli disse nulla, lui non seppe nulla e lei scivolò via da quella storia, silenziosa e sporca, come se non fosse mai successo nulla.
 
 
 
 
Salve ciurma!
Stavolta il ritardo non è di durata epica, dai!
Alura, scrivere questo capitolo è stato particolarmente piacevole perché: anzitutto c'è stato un cambio di stile, ed avevo un po' di voglia di far qualcosa di diverso; e poi perché mi è mancato molto scrivere dal punto di vista di Prudence, è stato bello tornare alle origini tanto che, per qualche altro capitolo, continuerò a scrivere della punto di vista di Occhi Verdi(nonsoperché).
E... nulla.
Grazie come sempre a chi legge, di cuore.
A presto,
C.

P.S: Sì, nel caso non si fosse capito io adoro le farfalle.

 
 
 
 
 
 
  
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