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Autore: allonsy_sk    14/03/2015    5 recensioni
Un diverso 'lieto fine' per ognuno dei capitoli di Protect me from what I want o in altre parole, come la storia sarebbe finita se una certa decisione fondamentale fosse stata presa in ognuno dei capitoli iniziali.
Ognuno di questi capitoli è un diverso possibile finale della storia che sto scrivendo. Non vanno trattati come una storia continuativa (anche perché non avrebbero senso come tale).
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Come Home'
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3 - Venerdì 20 Maggio 2016 (versione alternativa)

 

Sherlock, io andrei. Ma se hai bisogno... beh, chiamami.”

Sherlock non risponde, e John esita sulla porta, una mano sulla maniglia, l'altra che sorregge la giacca.

Sherlock, mi sentirei meno in colpa ad uscire senza lasciarti qui così, sai.”

Sherlock lo sa, eccome. John ha ricominciato da poco a lavorare e al momento non ha perso neanche un giorno di lavoro, cosa che gli permette un fremito di orgoglio professionale, accompagnato inevitabilmente dalla rassegnazione di dover mandare tutto all'aria non appena un caso interessante farà capolino. Ha senso che non voglia perdere giorni, per quanto Sherlock si renda conto di non provare alcun piacere all'idea di essere lontano da John per ore ogni giorno.

Scrolla le spalle.

No, vai. Io...” Io cosa? Cosa vuole promettere? Che andrà a dormire? Sa benissimo che nonostante la stanchezza che gli divora le ossa, il suo cervello forse è abbastanza stanco da fargli dimenticare il coperchio su di una piastra di Petri, ma non sufficientemente esausto da rallentare i propri giri e dargli la possibilità di riposare.

John sospira.

Riposati, se ci riesci. Non far saltare in aria niente, mentre non ci sono. Ok?”

Ok.”

John esita un ultimo istante, poi esce. Sherlock conta i suoi passi giù dalle scale. Sedici, diciassette, poi altri cinque dalla base delle scale alla strada. Cardini della porta giù che cigolano leggermente mentre l'uscio pesante vi ruota intorno. Passi sul marciapiede in rapido allontanamento, sempre più confusi tra i passi di decine di persone.

È solo. Non gli resta che alzarsi e ciabattare distrattamente fino in camera da letto, ma non riesce a raccogliere le energie o la coordinazione per farlo.

Andare a letto, certo, senza nessuna speranza di dormire.

Si sente strano, drenato da ogni energia e stravolto, come se tutto fosse troppo vicino e rumoroso ma come se allo stesso tempo stesse osservando il mondo da troppo lontano, attraverso la fitta nebbia chimica di un anestetico.

Prova a spostare i propri pensieri verso quell'attimo, quella scintilla assurda e sconvolgente di voglia che l'ha percorso come una scarica elettrica. È ancora lì, smorzata al tenue brillio di braci non spente, pronte a divampare in qualsiasi momento.

Cristo, è completamente fottuto.

Finché i suoi sentimenti inopportuni si sono mantenuti su di un piano puramente emotivo ha avuto ancora qualche speranza di trattenerli, di nasconderli dietro il velo impalpabile di un'amicizia troppo stretta, di farla passare per l'ossessione della mente bizzarra di un genio troppo solo e strano, l'unico e solo concentrarsi di un'intelligenza sovrumana su di un pallido e banale dettaglio umano.

Ma se il suo fisico, se il suo mezzo di trasporto su questa terra decide di tradirlo in maniera così palese e banale, allora è completamente perduto.

Ha sempre trascurato il proprio corpo, al di là di quanto necessario per renderlo, appunto, un ottimo mezzo di trasporto e strumentale al proprio lavoro.

Non ha nessuna speranza di trattenere l'evidenza del desiderio fisico, se questo dovesse continuare a sopraffarlo in presenza di John. È inesperto come il ragazzo che ancora era quando ha voluto chiudersi alla pienezza dei sensi, e la mancata evoluzione su questo piano lo espone troppo facilmente alla scoperta, forse persino al ridicolo.

È ancora seduto a riflettere sulla dolorosa assurdità della sua situazione, quando i passi di John risalgono le scale e lo conducono prima in soggiorno, poi in cucina.

“Sei ancora qui,” mormora John, leggermente senza fiato. Non è salito di corsa, ma ha rifatto la strada a passo veloce, senza dubbio.

“Mh,” risponde Sherlock, altrettanto piano. Tipico, John ricompare nel momento in cui cerca di venire a patti con la nuova, spaventosa, inevitabile consapevolezza dell'attrazione che prova nei suoi confronti.

“Ho chiamato in ambulatorio, ho chiesto di andare nel pomeriggio. Ma pare che sia una giornata tranquilla, quindi resterò a casa... non me la sentivo di lasciarti qui così. E dovresti veramente riposare.”

Le parole di John sono piacevoli, e hanno sicuramente un significato, anzi più significati in diversi ordini di importanza. Di questo Sherlock è convinto, ma l'unica cosa che riesce a considerare è il fatto che John si avvicini, chinandosi su di lui e sfiorandogli la tempia con le dita per invitarlo a inclinare la testa e controllare il taglio sul sopracciglio.

“Ti fa male? I punti tirano?”

“John,” balbetta Sherlock, incapace di formare altre parole. Non vogliono saperne di venire fuori, e comunque non c'è nessuna spiegazione per quello che vorrebbe dire, e che gli resta in gola e nel petto come sensazioni troppo dense e intricate da poter essere espresse in parole.

Sherlock fa presto ad alzare una mano, a stringere la spalla di John e a farlo chinare un po' più vicino, abbastanza da voltare appena il viso e premere un bacio lievissimo sulla sua bocca.

Occorrono soltanto un paio di secondi dall'esclamazione leggera e soffocata di John perché questi chiuda gli occhi e inizi a ricambiare.

È il turno di Sherlock di essere sorpreso, invaso da un'ondata di calore che lo sferza dalla testa ai piedi e gli causa un capogiro. Ma non lascia andare, e se gli difetta forse la pratica e la finezza, non gli manca certo la buona volontà.

La mano di John sulla sua tempia scivola nei suoi capelli, suggerendo un angolo migliore per approfondire il bacio e a Sherlock sfugge un verso così voglioso e indifeso che John riapre gli occhi e si stacca per un solo lunghissimo istante, respirando forte e prendendo colore sul viso e sulla gola.

“Sh-” mormora, senza staccargli gli occhi dal viso.

“John,” risponde Sherlock, ma non sa cos'altro aggiungere. Vorrebbe dirgli esattamente e in grande dettaglio quanto ha bisogno che John ricominci a baciarlo, fino a togliergli ogni possibilità di respirare e di pensare. Forse non è necessario che lo dica, forse John glielo legge in viso, negli occhi scuriti e confusi e nella bocca un po' schiusa e arrossata.

“Credo che ti serva un Dottore,” dice John dopo un attimo, chinandosi su di lui con un sorriso pieno di calore, accarezzandogli il viso con una mano e i capelli con l'altra e a Sherlock non importa. Davvero, non importa se John ha tirato fuori una citazione insulsa dal suo insulso show, e gli importa ancora di meno se lui stesso è arrivato al punto di riconoscerla, e di reagire alla frase come se si trattasse proprio di un companion del vagabondo spaziale.

L'unica cosa che importa è proprio John, caldo e solido tra le sue braccia quando si permette di stringerlo a sé, tirarlo giù fin quasi al punto di fargli perdere l'equilibrio – e che caduta piacevole sarebbe, quella – ben disposto a ricambiare la sua temerarietà crescente e sempre più famelica.

Tutto il resto, per che lo riguarda, ha messo di esistere fuori dal minuscolo universo costituito dal loro abbraccio.

 

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