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Autore: AlexEinfall    15/03/2015    1 recensioni
[Casey/Severide] Prima mia long-fic su questa coppia, che credo abbia un grosso potenziale.
Severide affronta Casey circa il suo comportamento sconsiderato, ma le cose non vanno mai come ci si aspetta. Questo è l'inizio di qualcosa oppure le resistenze e l'antico astio ostacoleranno la loro strada?
Un giorno qualunque alla Caserma 51 è destinato a cambiare ogni cosa.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota importante: Hello guys! Il ritardo è dovuto in parte alla revisione di un capitolo che si è rivelato così lungo da portarmi a dividerlo in due parti (don't panic, posterò entrambe in un'unica volta). Nei prossimi giorni sarò via e senza pc, dunque credo posterò verso fine settimana. Detto questo, altra piccola precisazione: non credevo che la storia diventasse più lunga di una decina di capitoli, ma a quanto pare mi sbagliavo, quindi ho deciso di dividerla in due parti. Questi due capitoli sono una sorta di stacco, un modo per risolvere alcune questioni e svoltare verso il resto della trama con la mia coscienza a posto (può sembrare assurdo, ma tant'è!)
   Ora...a voi!
   Ejoy!



13

Le memorie non vogliono bruciare
Pt I




   Matt rientrò nell'appartamento sudato e stanco. Il pomeriggio cominciava a stendere un manto di nuvole scure sull'orizzonte, risucchiando il rossore che indicava la fine del giorno e l'inizio della
notte. Il suo umore non era molto distante dalla tempesta che quieta attendeva oltre i confini di Chicago. Con uno strano senso di vuoto e intorpidimento, aveva percorso a piedi la distanza tra la piccola palestra e la casa di Kelly. Perso in quella sensazione ovattata, si era ritrovato in una strada che conosceva bene: gli sarebbe bastato camminare un altro chilometro, svoltare a destra e poi a sinistra, per ritrovarsi di fronte alla propria casa.
  La realizzazione lo aveva colpito come una doccia fredda; era stato così automatico per lui percorrere quelle strade, fin da quando aveva preso in affitto quella casa, che ora gli sembrava assurda la realtà. I suoi mobili un po' retrò, che lui aveva ben levigato, e le sue lenzuola comprate all'angolo della strada, erano svaniti. Le foto che aveva appeso ai muri e posto sulla libreria, andate. I suoi vestiti, quelli di tutti i giorni, non c'erano più.
  La foto di sua madre e suo padre, felici prima della rottura ma con quella strana nostalgia negli occhi simile a un presagio, l'aveva tenuta su un mobile nascosto. Doveva essere finita tra le fiamme.
  Conservava sulla scrivania una statuetta di cartapesta a forma di idrante, una delle opere di Violet nel laboratorio d'arte della scuola. La cartapesta brucia, rammentò.
  C'era poi un'altra foto, nascosta nel comodino sotto una pila di fogli e memorie vecchie. In quella, Edward sorrideva con il sole negli occhi scuri, stringendogli un braccio intorno alle spalle. Il fuoco non poteva averla perdonata, perché le fiamme non guardano negli occhi felici, non si ritirano rispettose.
   C'erano stati momenti, in passato, in cui aveva creduto nel sollievo che bruciare i ricordi avrebbe apportato. Dimenticare suo padre e il dolore che la sua vita e la sua morte avevano causato; dimenticare i tempi in cui lo abbracciava felice, allacciandogli le braccia al collo, e l'odore d'ufficio e pelle di costosa poltrona che portava con sé; dimenticare l'odio che li aveva divisi, alimentato dalla rabbia di sua madre e dalla propria incapacità di rispecchiare l'ideale di un padre autoritario; dimenticare le mani di Edward su di sé, le sue labbra giovani, la sua barba incolta, nei pomeriggi assolati e nelle mattine nevose.
  Non avrebbe mai creduto di potersi sentire così perso, senza i segni tangibili di quei ricordi.
  Improvvisamente, poco prima di aprire la porta, desiderò che l'appartamento fosse vuoto. Niente Shay, niente Kelly, nessuno. Ma ancor prima di essere investito dall'aria calda del salotto, gli giunse alle narici l'odore di frittura e alle orecchie lo scalpiccio dei passi di Shay nella cucina.
  Scrollò di dosso ogni cosa, indossando un sorriso plastico nel tragitto per il bancone. Prese una birra già aperta, presumibilmente di Kelly, e ne bevve un lungo sorso.
  «Alchol dopo la palestra?» sbuffò Shay, rivolgendogli il viso arrossato dal calore dei fornelli. «Matthew Casey, stai diventando un ragazzaccio!»
  Matt rise, poggiando il peso al piano, i gomiti ben piantati. Ogni muscolo gli doleva, ma non credeva che fosse un male: era, al momento, l'unica cosa che riuscisse a sentire.
  Quando Kelly lo raggiuse, raggiante e fresco di riposo, una strana inquietudine si depositò nel suo stomaco, prendendosi il suo spazio e allargandosi sempre di più. Il bacio sulle labbra, le sue mani intorno alla vita, il suo sorriso sulla pelle, riuscirono a istillargli un senso di disagio profondo. Più le ore passavano, tra la cena e chiacchiere liberatorie di fronte a diverse bottiglie di birra, più Matt si sentiva estraneo. Dietro la sua maschera sorridente, non sentiva altro che il rombo del proprio vuoto.
  Quando il silenzio scivolò lento tra loro, indicando la fine della giornata, Matt incrociò lo sguardo di Kelly e comprese esattamente cosa quel disagio significasse: Kelly lo guardava come sapesse la sua menzogna e potesse vedere dietro le sue mura.
  Matt non voleva affrontarlo, non ora.
  Aprì la bocca per dire qualcosa che alleviasse la tensione che sentiva, ma fu interrotto dalla suoneria del proprio telefono. Lo recuperò dal tavolino e guardò l'ID del chiamante.
  «E' Christie» disse, prima di rispondere. Le avrebbe detto che andava tutto bene e non aveva bisogno di nulla, come sempre. Ma questa volta sua sorella aveva scelto il giorno sbagliato per i sentimentalismi.
  «Matthew.» L'uso del suo nome per esteso, unito a quel particolare tono, lo mise all'erta. «Ho trovato la mamma-»
  Matt si alzò, allontanandosi di fretta. Non aveva intenzione di avere quella conversazione.
  «Christie, non dirmi che le hai detto...sai che non voglio» mormorò, poggiandosi alla finestra.
  «E' tua madre...nostra madre. Vuoi che non sappia che sei-che sei quasi morto?»
  Al tono esasperato della sorella, sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla fronte sudata.
   «Cosa ha detto?»
   Non voleva davvero saperlo, ma doveva.
   «Vuole vederti. Domani mattina per colazione, puoi?»
  «D'accordo.»
  Chiuse la chiamata senza pensarci troppo. Strinse il cellulare in un pugno, così stretto da imprimerne la forma nel palmo, mentre poggiava la fronte al freddo vetro della finestra. Si permise per un secondo di considerare la macchinazzione della madre: far chiamare Christie per convincerlo e impedirgli di trovare scuse.
  «Brutte notizie?»
  Staccò la fronte dal vetro, incrociando nel riflesso lo sguardo di Kelly.
  «Domani mattina ho una colazione con mia madre.»
  «Uhm» mugugnò Kelly, non certo di cosa pensarne. Matt non amava molto quell'argomento. «Vuoi...insomma, vuoi che ti accompagni o roba simile?»
  Matt alzò un sopracciglio, più divertito che sorpreso alla domanda. Il sorriso non riuscì a raggiungere gli occhi; l'idea di rivedere sua madre, di riaprire altre ferite, lo straziava. Portare Kelly con sé...non era esattamente qualcosa che riusciva a figurarsi. Scrollò le spalle e declinò l'offerta, passadogli accanto. Le dita che si serrarono sul suo braccio, forti e decise, lo bloccarono e sorpresero.
  «Che c'è che non va?»
  «Nulla.»
  Kelly lo fissò così a lungo che Matt temette di aver scritto sul volto qualcosa che lui non conosceva, qualche strana verità. Si sentì incredibilmente esposto.
  «Non mentirmi» mormorò il moro, in un tono al confine tra minaccia e ammonimento. Un confine molto labile. «Sei strano da quando sei tornato dalla palestra. So che non è per tua madre, giusto?»
  Matt distolse lo sguardo troppo velocemente per non confermare i dubbi di Kelly.
 «È successo qualcosa?»
 Qualcosa di pungente gli premette dietro le palpebre, e Matt dovette deglutile saliva e amarezza prima di rispondere: «Hanno distrutto tutti i miei ricordi e ora sono liberi. Come mi dovrei sentire?»
  Kelly non aveva una risposta. Non poteva realmente capire cosa Matt provasse, anche se una sua idea ce l'aveva. Sapeva che non si riduceva tutto all'attacamento materiale a degli oggetti: era molto di più. Soprattutto per loro, gravati dal peso di un lavoro rischioso e attanagliati dall'imprevisto, un posto da chiamare casa era molto più che quattro mura e un tetto. Era un posto sicuro, in cui sentirsi liberi e in contatto con se stessi, rilasciando tutte le paure e le incertezze. Anthony Messer aveva distrutto quel luogo, il rifugio di Matt, quello in cui accumulava ricordi non solo sotto forma di fotografie o oggetti, ma nelle mura stesse.
  Fece scivolare la mano dietro la sua schiena, premendo con l'altra sulla nuca. Matt cedette subito e con sua sorpresa si lasciò abbracciare, nascondendo il volto nella sua spalla. Lo tenne stretto, carezzandogli la testa. Il suo respiro era veloce contro la propria pelle, carico di pianto, anche se nessuna lascrima sfuggì agli occhi.
  Costruiremo memorie nuove, avrebbe voluto dirgli. Non disse nulla, mormorandogli nelle orecchie parole incomprensibili in tono cauto, solo per calmarlo.
  Quando sentì le sue braccia intorno al busto divenire meno forti e il suo corpo abbandonarsi al proprio, esausto, sciolse l'abbraccio. Gli alzò il mento e lo baciò.
  Era ora di dormire, di coprire ogni dolore con una coperta di intimità e accettazione.
  Quella notte Matt si addormentò con le braccia di Kelly a stringerlo, le mani premute sull'addome e il fiato che gli solleticava il collo. Forse, si disse, non aveva bisogno di quelle memorie a cui tanto si era aggrappato, odiandole e amandole costantemente



   Un bambino gli tagliò la strada, quasi incespicando nei suoi scarponi, prima di ridere rumorosamente e allontanarsi lungo il marciapiede. Matt seguì la piccola schiena scomparire oltre un angolo, prima di tornare a guardare il locale di fronte a lui, all'altro lato della strada. Era un modesto cafè con poche pretese e una tendina a strisce al di sopra della porta, ombreggiando i gradini. Ricordava distintamente il campananello che suonava mentre le sue mani, molto più piccole di ora, spingevano la porta a vetri; l'odore fragrante dei pancakes e lo sfrigolare della pancetta e delle uova; il sorriso sul volto rubicondo del cuoco, sempre lo stesso, arrossato e sudato.
  Matt non si meravigliò più di tanto per la scelta di quel posto: sua madre usava avere un tipo di umorismo macabro. Quello era il luogo dove facevano colazione molto tempo prima, ogni lunedì mattina, dopo il weekend passato con il padre. Era una sorta di rivendicazione per lei, un atto che dichiarava l'appartenenza di suo figlio, mascherato da dolci e bibite gasate.
  Quando il campanello suonò, per Matt fu un rumore fastidioso, molto lontano dalla gioia che usava istillargli. Condizionamento, pensò mentre cercava con lo sguardo la madre, trovandola seduta allo stesso tavolo in fondo alla sala. Il loro tavolo.
  Salutando distrattamente una cameriera, notò con un misto di nostalgia e sollievo che il vecchio cuoco non c'era più. Ebbe appena il tempo di notare quanto manipolatrice, ancora una volta, si mostrasse sua madre, prima che i suoi occhi si alzassero su di lui. Lei sorrise e lui ricambiò di riflesso, lasciandosi trascinare in un imbarazzato abbraccio.
   «I pancakes sono ancora fantastici» disse Nancy appena Matt si fu sistemato sul divanetto. «Te li ricordi com'erano?»
  «Sì, mamma. Me li ricordo» rispose guardando distrattamente il piccolo menù.
  «Anche se George non lavora più qui-»
  «Prendo uova e pancetta» tagliò corto Matt, alzando una mano per richiamare una cameriera.
  Nancy esalò un sottile oh, ordinando i suoi pancakes. La cameriera prese gli ordini e si allontanò, lasciandoli a un teso silenzio.
  «Stai bene, Matt?» chiese Nancy.
  «Sì, sto bene.» Matt la guardò negli occhi, cercando una frase che fosse abbastanza convincente ma non troppo impegnativa. «Sono pronto a tornare al lavoro» decise di dire, alla fine.
  Nancy annuì, ma l'angolo della sua bocca si storse in disapprovazione. Per un attimo sembrò voler dire qualcosa -qualcosa che Matt sapeva essere al confine tra rimprovero e preoccupazione. La cameriera portò i loro ordini, sollevandolo dal peso di quelle parole sospese nell'aria.
  Ingagiarono una conversazione futile sul più e meno, e Matt si rese conto che il suo stomaco non voleva accettare la colazione. Perdonare una persona non vuol dire essere disposti a lasciarla entrare nella propria sfera personale. Picchiettò le uova con i denti della forchetta, chiedendosi perché avesse accettato di incontrarla. Un'altra domanda lo pressava - perché non riesco a rilasciare tutto questo rancore? - ma lui non voleva pensare alle implicazione che trasportava.
  «Dovresti mangiare, tesoro. Sei piuttosto magro.»
  Matt alzò lo sguardo e sbuffò una risata. Vide l'ombra ferita che quel gesto lasciò negli occhi della madre, e si sentì automaticamente in colpa. Quelle stesse parole gli erano state ripetute anni prima, con lo stesso disarmante tono e quell'inclinazione dolorosa nella voce.
  Erano i mesi seguiti alla scomparsa di Edward. Partenza non rendeva l'idea.
  «Tu lo sapevi» disse alla fine, quasi a se stesso.
  «Cosa?»
  «Sapevi di Edward.»
  Nancy si mosse a disagio sul sedile di finta pelle. Abbandonò la forchetta sul piatto e allungò una mano, ma riuscì solo a sfiorare le nocche di quella del figlio, che la ritirò come scottato.
  «Tu lo sapevi e non hai detto niente.»
  «Matt...» pregò Nancy in quel tono sconfitto che, lui lo riconosceva, precedeva una rabbia difensiva. «Perché mi fai questo? Perché vuoi riportare a galla-»
  «Lui è morto, mamma» soffiò Matt, chinandosi sul tavolo per non essere ascoltato. Avrebbe voluto cacciare tutti i presenti, tutte le famigliole riunite per la colazione, perché non voleva che quel ricordo sfiorasse il mondo. «Potevi impedirlo.»
  «Matt» disse caustica, stringendo un pugno sul tavolo. Matt rimase sconvolto, ancora una volta, dalla subdula ferocia nel suo sguardo. Aveva sempre un effetto deleterio su di lui, malgrado gli anni fossero passati e lui li avesse spesi ad allontanarsi il più possibile da quelle strette radici. Le stesse che ora sembravano stringergli la gola. «Non c'era nulla che potessi fare, lo sai. Se tu me ne avessi parlato...Se ti fossi fidato di me, avrei potuto fare qualcosa. Parlare con tuo padre, o aiutarti a nascondere la cosa.»
  A Matt ci volle più di un secondo per registrare l'accusa insita in quelle parole. Quando la realizzazione arrivò, sentì il sague defluirgli dal viso, prima di tornare con forza. «Stai dicendo che la colpa è mia?»
 Riconobbe il formicolio nelle mani e il particolare ritmo accellerato del proprio battito. Dovette stringere le palpebre per non lasciare che lo sguardo di sua madre lo alimentasse. Si alzò di colpo, afferrando il giubbotto e infilandoselo in fretta. Come scossa, Nancy lo imitò, ma rimase incerta su come frenare il proprio figlio.
  «Matt, aspetta. Parliamo» lo pregò, ignorando le teste vicine che si erano sollevate dai piatti e ora li fissavano a disagio. Più di un paio di persone pensò a un litigio tra una donna annoiata e il proprio giovane amante, ma lei non ci badò, sopprimendo il moto di vergogna e il bisogno di nascondere i propri drammi familiare. Una vita fa questo aveva avuto valore, ora non più. «Sei quasi morto, Matt. Non puoi andartene così.»
  Nancy sapeva che era un colpo basso, e lo vide negli occhi accusatori del figlio. A mali estremi...
  «E' stato bello rivederti, mamma» disse in tono freddo e meccanico, le mascelle contratte. «Grazie per la colazione.»
  Sentì gli occhi di sua madre sulla nuca bruciare come soli estivi, mentre si voltava e usciva da quel cafè con l'intenzione di non tornarci mai più.
 
  Nancy tremava mentre posava le banconote sul tavolino, adocchiando il piatto ancora pieno di pancetta e uova strapazzate. Una strana indifferenza e lontananza dal mondo esterno l'accompagnò fuori da quel cafè, che ormai non aveva più nulla dei bei ricordi che conservava di suo figlio. Quella sensazione mosse le sue gambe verso l'auto e le sue mani guidarono la vettura fino alla Caserma 51.
 Entrando nell'hangar intriso dell'odore di fulligine e olio per motori, si torturò le mani, con ancora quella bizzarra leggerezza nella mente. Era sconvolta, realizzò brevemente. Suo figlio era così distante da ricordarle il disastro che aveva procurato a quell'essere gentile che, anni prima, gli posava baci sulle guance e rideva per un nonnulla.
  Il più grande pentimento della sua vita era questo. In un'aula di tribunale aveva affermato di essere pentita di aver ucciso suo marito, ma non era dell'omicidio che si sentiva in colpa. Aveva rovinato i suoi figli, non meglio di quanto aveva fatto Gregory.
  «Signora Casey?»
  Voltò la testa in direzione di quella voce, strappata alla propria trance. Un ragazzo moro dagli occhi chiarissimi la osservava con sorpresa. Nancy lo conosceva, ma al momento il nome gli sfuggiva. Lui dovette intuirlo, perché con un sorriso cordiale si presentò.
  «Kelly Severide, ricorda? Ci siamo incontrati qualche mese fa.»
  Nancy annuì, esalando una risata che spaventò se stessa, per quanto rotta era.
  «Lei è un buon amico di mio figlio?»
  «Certo. È successo qualcosa?»
  Ignorò la debole inflessione della voce verso una nota preoccupata. Annotò mentalmente che avrebbe dovuto venire a patti con tutto ciò che quel giorno aveva deciso di ignorare.
  «Ho bisogno di parlare con qualcuno che gli è vicino.»
  Severide la osservò a lungo, prima di annuire in tono comprensivo ed invitarla a seguirlo.










  
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