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Autore: Biszderdrix    17/03/2015    1 recensioni
Come possiamo sapere se siamo pronti per le sfide del mondo? Come possiamo sapere se saremo all'altezza di ogni nemico? Ma soprattutto... se fossi tu stesso il tuo nemico?
L'intera saga di Dragon Ball e degli eroi che tutti amiamo riscritta dalle origini del suo stesso universo, per intrecciarsi a quella di un giovane guerriero, che porta dentro sé un potere tanto grande quanto terribile, dai suoi esordi fino alle sfide con i più grandi nemici, e la sua continua lotta contro... sé stesso.
Se non vi piace, non fatevi alcun problema a muovere critiche: ogni recensione è gradita, e se avete critiche/consigli mi farebbe piacere leggerli, siate comunque educati nel farlo.
Genere: Avventura, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Violenza
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CAPITOLO QUINTO- ALLENAMENTO

BEEP- BEEP- BEEP- BE *click*
Per poco non ruppi la sveglia quando schiacciai il pulsante per fermarla, nel momento in cui iniziò a lanciare il suo fastidioso suono. L’avevo impostata per le sei: io, però, ero sveglio già da mezz’ora prima. Mi ero già lavato e vestito. L’unica pecca era che non sapevo che calzature indossare: per non sbagliare mi misi le mie solite scarpe da ginnastica. Uscii dalla mia stanza, e mi diressi verso la cucina: afferrai una mela dal cesto che si trovava sul tavolo, e, proseguendo verso l’ingresso, la mangiai.

Sapevo che mio padre era già fuori ad aspettarmi: lo vidi seduto sul nostro prato, gli occhi chiusi e la faccia concentrata. Cercai di scendere le scale in silenzio, muovendomi piano per non disturbarlo.

«Sei arrivato prima di quel che pensassi. È un buon inizio.»

Dannazione! Devo essere proprio incapace a muovermi con discrezione. Mio padre aprì gli occhi e si girò: «Avanti, vieni. Prima iniziamo e meglio sarà.» Andai a sedermi al suo fianco.

«Ricorda, non avere fretta di sincronizzarti al mio respiro. La fretta è sempre una cattiva consigliera.» Apprezzavo che me lo ricordasse, ma non ce n’era bisogno: mi ci volle un attimo per sincronizzarmi con lui. E allora iniziò la fase di concentrazione.

Poiché vivevamo in prossimità di un bosco, le percezioni erano tra le più svariate: potei percepire il movimento delle zampe di una talpa che si muoveva sotto di noi; lo zampettare di uno scoiattolo sulla corteccia, il debolissimo schiocco di una foglia che si staccava da un ramo, il vento tra le piume di un airone che planava sopra le nostre teste. Arrivai a percepire la paura di un piccolo ermellino che viveva sulla montagna, e la fame della volpe che lo stava inseguendo. Potei avvertire la forza vitale di una pianta, mentre compiva quello che doveva essere un gesto normale per lei, ma che in quel momento era per me meraviglioso.

In uno spazio che poteva essere definito banalmente in qualche chilometro, le percezioni erano tali che potevano essere scambiate per quelle di un intero mondo. E in quel momento, io ero perfettamente in armonia con esse: sentivo l’energia che si sprigionava da esse scorrere attorno a me. Era tanta, tantissima energia che comunque rimaneva stabile, seguendo gli schemi dettati dal potere più grande: quello della natura stessa.

«Daniel!» la voce di mio padre mi risveglio dall’idillio: nel momento in cui mi separai da quel flusso di energia, per tornare alla realtà, ebbi un mancamento.

«Tutto bene?» mi chiese mio padre, vedendo in che stato mi ero risvegliato. Io gli feci un cenno con la testa per rassicurarlo, ma sapevo che non  mi credeva: lui sapeva che il ritorno alla realtà era stato quasi traumatico, come spesso mi capitava.

«Col tempo imparerai a mantenere il controllo sulla tua coscienza» disse «in modo da poter entrare in armonia con l’energia del mondo senza perdere la percezione di te stesso. Ma non ti addestrerò io a farlo, ci vorrebbero anni che non abbiamo. Ora andiamo, forse non te ne sei accorto ma siamo qui da più di un’ora.»

Uscimmo insieme dal giardino, e ci avviammo verso il bosco. «Pamela ci raggiungerà, tra poco» disse, mentre proseguivamo lungo un sentiero evidentemente poco battuto. Camminammo per un buon quarto d’ora, finché non raggiungemmo una piccola radura che non avevo mai visitato nei miei momenti di divertimento con Pamela: un’area perfettamente circolare, circondata dagli alberi, l’erba non troppo alta. Una perfezione che tutto sembrava tranne che naturale: eppure non c’era traccia di intervento umano.
«ECCOMI! Scusi il ritardo, signor Ryder.» Mi voltai: era arrivata anche Pamela. Indossava una tuta rosa (cosa che trovai incredibile per lei) e aveva optato anche lei per le scarpe da ginnastica. Da come ansimava, sembrava avesse corso una maratona: evidentemente credeva di essere veramente in ritardo.

«Non ti preoccupare Pamela, non abbiamo ancora iniziato. Ora, mettetevi uno a fianco dell’altro.» Eseguimmo l’ordine, mentre mio padre si posizionava di fronte a noi, dandoci le spalle. «Per prima cosa, vi insegnerò alcune kata: dei movimenti di base per il combattimento. Li eseguiremo dapprima molto lentamente, per poi aumentare di intesità. Nell’eseguirle, dovete imparare a canalizzare la vostra energia nel gesto: quindi, mantenete una respirazione lenta e regolare e concentratevi. Quando poi vi cimenterete in un vero combattimento, dovranno essere per voi gesti normali,  proprio come respirare.»

«Ora fate ciò che faccio io.» concluse. Chiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro: poi porto il braccio destro in avanti, con la mano aperta. Io e Pamela lo imitammo. Molto lentamente mosse in avanti il braccio sinistro allo stesso modo, ritraendo contemporaneamente l’altro. Noi lo seguimmo, imitando perfettamente i suoi movimenti. Li ripetemmo una decina di volte, poi mio padre passò a quello che doveva essere un calcio: alzò la gamba destra, tenendola piegata, poi la volse verso l’alto, la ritrasse, poi l’allungò nuovamente, questa volta tenendola più bassa, perpendicolare al corpo. Ripetemmo anche questo esercizio una decina di volte.

«Ora li proveremo tutti insieme, uno dietro l’altro.» ordinò «ricordate di mantenere regolare la respirazione.»

Mi concentrai, mentre mi ripetevo in testa la sequenza: braccia in avanti, due calci con la gamba destra. Presi un profondo respiro, e lì accade qualcosa di molto particolare: mentre eseguivo i gesti, riuscivo a percepire l’energia che scaturiva da ognuno di essi. Come quando meditavo, potevo percepire il flusso regolare dell’energia tutto intorno a me, al quale i miei gesti si armonizzavano, rendendolo ancora più impetuoso. Non contai quante volte ripetei la sequenza: ero completamente concentrato sul mantenimento del flusso di energia tutto intorno a me, e a mantenere intatta l’armonia con esso.

Tutto questo durò finché non sentii un tonfo al mio fianco.

«OUCH!» Pamela era caduta all’indietro mentre eseguiva i calci. Mi ero quasi dimenticato dove mi trovavo e cosa stessi facendo, così che quando cadde mi sembrò come risvegliarmi da un sogno. Lei mi guardò con un sorriso imbarazzato.

«Non devi aver fretta, Pamela.» le disse papà, mentre le porgeva una mano per aiutarla a rialzarsi «Concentrati sull’esecuzione di ogni singolo gesto. Elimina l’idea di un risultato finale: questa combinazione è solo una di tante possibili. In un combattimento dovrai sempre agire in base all’avversario che ti troverai davanti, quindi non devi fissarti su uno schema da seguire. Ora riprova, questa volta concentrati, come nella meditazione, ed esegui la sequenza senza fretta.»

Pamela annuì. Si voltò un attimo a guardarmi. Io ricambiai, cercando di infonderle coraggio: a quanto pare ci riuscì, vista l’espressione decisa che assunse. Poi chiuse gli occhi, emise un profondo respiro e riprese. Mi parve fosse decisamente migliorata.

«Daniel, perché ti sei fermato?» mi ammonì mio padre. Immediatamente mi rimisi all’opera. Non ci misi molto a recuperare la concentrazione di prima.

Dopo qualche minuto sentii nuovamente la sua voce: «Per oggi basta così.»

Fu un taglio netto. Mi separai così bruscamente dal flusso energetico che per un attimo mi girò la testa. Dopo qualche secondo ero nuovamente in piedi, comunque un po’ scosso. Mi voltai verso Pamela: sembrava avesse passato la stessa, non certo piacevole, esperienza.

«Ora e per il resto della giornata faremo del lavoro sul fisico. Iniziamo con una corsa da qui alla cima della montagna.»

Io e Pamela ci guardammo atterriti: entrambi avevamo pensato la stessa cosa, ossia che molto probabilmente lassù non ci saremmo mai arrivati. Almeno, non da vivi, probabilmente.

«Togliete immediatamente quegli sguardi dalle vostre facce. In fondo non è poi così dura. State dietro di me.» Lo seguimmo fino al limitare della radura circolare, dove ci accorgemmo che iniziava un sentiero, che evidentemente papà conosceva già.

«Pronti?»

Fisicamente? Dubito. Mentalmente? Assolutamente no. Lo sguardo sulla faccia di Pamela mi faceva capire quanto fossimo uniti in quel momento.

«VIA!»

E scattò lungo il sentiero, con me e Pamela immediatamente dietro di lui. Ci accorgemmo immediatamente che non sarebbe stata una corsa semplice: tra radici, rocce, tronchi caduti e piccoli fossi gli ostacoli si ripetevano a non finire. Mio padre proseguiva a gran velocità, dimostrando grandi doti atletiche: la cosa che però mi faceva più rabbia era la sua quasi noncuranza al fatto che ogni due per tre sia io che la mia compagna d’allenamento avremmo potuto seriamente farci male. Quando poi, dopo quasi quaranta minuti, notammo le prime nevi, e quindi la consapevolezza di essere praticamente arrivati sulla cima, entrambi riacquisimmo nuovo vigore: ormai gli ostacoli più grossi erano le rocce, la foresta era ormai terminata da un pezzo. Il sentiero proseguiva comunque, sempre più tortuoso, e l’aria iniziava ad essere rarefatta, ma nonostante ciò proseguimmo con lo stesso ritmo.

Ogni tanto lo perdevamo di vista, ma riuscivamo comunque a mantenerci sulla sua scia: alla fine riuscimmo a raggiungere mio padre, per poi accorgerci che in realtà si era fermato. La corsa era finita: eravamo arrivati in una piccola area piana sulla montagna, risparmiata dalla neve, posta su un altissimo strapiombo. Io e Pamela ci appoggiammo sulle ginocchia, cercando disperatamente di recuperare fiato.

«Ma come? Siete già così stanchi? Questo era solo il riscaldamento!»

Lo guardammo con occhi pieni di maledizioni. Lui sogghignò: «Rispetto agli allenamenti ai quali mi sono sottoposto io, questo è una bazzecola! Pensate di percorrere la stessa strada, ma con una cassa piena di bottiglie di latte e venti chili di guscio di tartaruga sulle spalle!»

L’ultimo riferimento mi fece capire con quale maestro doveva essere stato sottoposto ad una tortura simile.

«Le arti marziali sono uno stile di vita, dal quale non ci si può mai veramente separare: il corpo e la mente devono essere in armonia, e per questo serve che entrambi siano ben allenati e mantenuti sempre in allenamento. Se sulla seconda vado sul sicuro, riguardo il primo credo ci sia ancora molto da lavorare. Ora riprendete pure fiato.» concluse, girandosi e dandoci le spalle. Poi si sedette, a gambe incrociate, a meditare.

Mi voltai a guardare Pamela: ero rimasto profondamente colpito dalle ultime parole di papà. Forse avevamo preso troppo sottogamba questa cosa. Forse non eravamo veramente in grado… Notai la delusione nei suoi occhi: per l’ennesima volta in quella giornata ci vedevamo legati dallo stesso sentimento. Ci sedemmo entrambi per terra: la roccia era fredda e umida, la cosa mi infastidì parecchio sul momento, ma mi sentivo comunque molto stanco.

Rimanemmo così seduti per qualche minuto. Poi volsi lo sguardo verso mio padre: stava ancora meditando, seduto a gambe incrociate sul bordo dello spiazzo, le spalle alte, in rigoroso silenzio. Mi avvicinai a lui: era da stamattina che mi sembrava parecchio distante, volevo quantomeno provare a parlare un po’ con lui, cercare di capire se fosse veramente così deluso come mi era parso. Mi sorprese vedere che in realtà non stava meditando, anzi, aveva gli occhi aperti, intenti ad osservare il vuoto che si stendeva davanti a lui.

«Siediti qua, figliolo.» Sussultai: per quanto mi aspettassi una sua reazione, il silenzio che si era venuto a creare rese quelle parole quasi estranee e inattese. «Vieni anche tu Pamela.»

Ci sedemmo al suo fianco, uno per lato. Ci chiedevamo cosa stesse per dirci.

«Osservate.»

Volsi lo sguardo al vuoto che si estendeva davanti a noi: dapprima vidi solo qualche nuvola bassa. Poi la visione fu più chiara: sotto di noi la montagna scendeva elegantemente verso la pianura, passando per il grande bosco che si estendeva tutto intorno ad essa. In lontananza notai un lago: era il lago Shoen, quel lago, dove avevo passato momenti memorabili della mia infanzia. Se potevo vedere il lago Shoen, poteva significare che se avessi volto il mio sguardo un po’ più a destra, l’avrei vista, e cosi fu: riuscii a vedere Pepper Town in tutta la sua, modesta, estensione. E fui costretto a rivalutare la mia definizione: Pepper Town non era di certo considerabile come una grande città, ma di certo non era un paesino.

Come si mi avesse letto nel pensiero, mio padre disse: «A volte un cambio di prospettiva è necessario, per rivalutare noi stessi e gli altri. Scommetto che è la prima volta che venite qua, vero?» Annuimmo entrambi. «Lo immaginavo. Beh, sappiate che passeremo molto tempo qua, molto più di quello che passeremo nel bosco. E non solo perché qui le condizioni sono migliori per un allenamento più intenso, ma anche perché possiate essere sempre messi a confronto con questa visione.» disse, indicando il paesaggio sottostante.

«Soprattutto alla vostra età tutto sembra gigantesco e irraggiungibile. Ma fidatevi, se vi dico che anche il più grande tra gli uomini si troverà sempre ad avere a che fare con qualcosa di più grande di lui, in un modo o nell’altro. E spesso finiamo per sentirci inferiori, inadeguati: perché siamo troppo legati alla nostra prospettiva sulle cose. Dobbiamo invece comprendere che tutto ciò che ci circonda ha da sentirsi piccolo se visto da un’altra prospettiva. Avessi potuto portarvi in cielo, avreste visto che anche la montagna, che tutto guarda dall’alto, è minuscola al confronto.»

«Vi starete chiedendo perché vi sto raccontando questa cosa.» continuò «Il concetto è semplice: quando avrete a che fare con cose come il pensiero di essere inadeguati, o il senso di colpa per aver deluso qualcuno, o qualunque altra cosa vi faccia sentire minuscoli di fronte ad ostacoli insormontabili, ricordatevi sempre che è inutile arrendersi di fronte ad essi, poiché non sono insuperabili, non lo sono e non lo saranno mai. Ci saranno sfide sempre più grandi ma comunque non invincibili. Come nemmeno voi sarete mai invincibili. Praticare le arti marziali è anche questo: costanza nell’allenarsi ed impegno nel farlo, sempre pronti ad imparare e migliorarsi. L’allenamento dura per tutta la vita del guerriero, ricordatevelo sempre.»

«È proprio quello che mi ha detto anche il mio papà!» disse Pamela, evidentemente eccitata «Beh, non proprio la stessa cosa, ma non era così diverso eh-eh…»

«E la filosofia che ci fu insegnata quando abbiamo iniziato ad allenarci.» gli rispose mio padre «E che ora voglio insegnare a voi.»

In quel momento mi sentivo orgoglioso: di mio padre, della sua dedizione e della sua passione. Ci diede uno sguardo pieno d’affetto.

«Bene, dopo questa parentesi, sarà il caso di rimettersi all’opera!» disse all’improvviso, con un tono più deciso: «Ora fate un po’ di stretching, vi servirà…»

Mentre ci scioglievamo un po’ la muscolatura, io e Pamela ci scambiammo uno sguardo turbato. Poi mi tornò in mente ogni parola del discorso di mio padre, e all’improvviso mi sentii più carico. Pamela aveva notato questo mio cambio di atteggiamento, e vidi che anche lei sembrava più decisa mentre svolgeva lo stretching.

«Direi che può bastare.» ci interruppe la voce di papà «Questo, che stiamo per fare, sarà solo il primo di tanti altri esercizi, quindi spero vi siate scaldati a dovere.» disse, aggiungendo un tono che, spero, suonasse sadico solo per gioco.

«Vedete questa parete di roccia? Bene, poco più in alto c’è uno spiazzo simile a questo, solo un po’ più piccolo.»

La sentenza giunse tagliente: «5 volte avanti e indietro, e ad un ritmo accettabile.»

Guardai lungo la parete: se avevo visto bene dove era lo spiazzo, erano più o meno una ventina di metri. Non pareva troppo complicato.

«VIA!» sia io che Pamela scattammo verso la parete, e subito dovemmo riscontrare il primo problema: quella parete di roccia era praticamente liscia, i possibili appigli erano quasi introvabili.

Poco prima di raggiungerla individuai con la coda dell’occhio una piccola sporgenza alla quale mi sarei potuto aggrappare: mi lancia verso essa, grazie allo slancio dello scatto che avevo fatto. Riuscii ad aggrapparmici, ma non ressi per molto e scivolai, facendomi un male tremendo al fondoschiena.

«Avanti Daniel! Non hai fatto neanche un metro! FORZA!» incitò da dietro mio padre.

Volsi lo sguardo verso Pamela: al contrario di me, sembrava cavarsela piuttosto bene.

Mi lanciai nuovamente verso la sporgenza: questa volta riuscii a rimanere appeso. Ci misi comunque qualche secondo a trovare un altro appiglio.

«Pamela, stai andando benissimo! Daniel, tu invece sei troppo lento! Dai, forza! Questo esercizio è fatto apposta per migliorare la coordinazione tra la mente e il vostro corpo: più velocemente riuscirete a scalare una parete come questa, trovando l’appiglio più adatto il più velocemente possibile, più rapidi diventerete in ogni situazione!»
La faceva facile, lui. In quel momento sentivo già i palmi farmi male. Fu allora che le parole di mio padre tornarono nuovamente in mio aiuto. Ripresi a scalare con ardore, ma mi ero comunque reso conto, che sarebbe stata una lunga giornata.

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«Ciao Daniel… buona serata signor Ryder… a domani…» ci salutò, stremata Pamela.

Io riuscii a malapena a farle un gesto di saluto: ero anche io allo stremo.

«Ciao Pamela, buona serata anche a te. Salutami tuo padre!» la salutò papà. La guardammo prendere un altro sentiero, una scorciatoia che l’avrebbe portata più vicino a casa. Camminava piano, si vedeva che stava facendo fatica: dopo la scalata, la giornata era proseguita tra flessioni, addominali e altre corse, con una pausa breve per la meditazione. Per il pranzo, qualche frutto che mio padre aveva recuperato nel bosco.

«Stanco, eh?» mi girai, ricambiando il suo sguardo. Io annuii, lentamente.

«Beh, questo era solo il primo di tanti piccoli passi.» mi disse, con un sorriso.

Proseguimmo per qualche metro, poi mio padre si bloccò: «Fermiamoci qua per un secondo, Daniel.» Io obbedii, incuriosito.

«Figlio mio, tu per me sei tutto, non c’è niente che non farei per te. Come tua madre e tua sorella, sei la cosa più importante che ho. Sei un bambino molto intelligente e questo mi rende orgoglioso: e per questo credo tu sia perfettamente in grado di conoscere la verità, sul perché rifiutassi l’idea di addestrarti nelle arti marziali, almeno fino ad oggi. Quando nascesti, il Supremo notò che dentro di te c’era… un enorme potenziale. Ma il suo timore è quello che tu non sia in grado, ecco, di sfruttarlo… per questo mi ha consigliato di non addestrarti. Ora però mi ha dato questo permesso e un giorno, quando lo riterrà opportuno, ti prenderà come allievo. Ma c’è dell’altro.» Lo guardai, sempre più incuriosito.

«Anche il maestro Muten, prima che Bulma ci riportasse a casa, mi ha chiesto se potevi diventare un suo allievo, il che è un grande privilegio. Non mi sono sentito di rifiutare: quindi tra un anno andrai a vivere con lui e fidati, imparerai con lui molto di più in qualche anno di quello che posso insegnarti io in una vita.»

Provai sensazioni miste: da un lato mi sentii eccitato all’idea di andare ad allenarmi con uno dei più grandi maestri di arti marziali al mondo, dall’altro rimasi scioccato all’idea di dovermi trasferire, e quindi di separarmi dalla mia famiglia.

«Posso benissimo immaginare come tu ti senta in questo momento, non stai facendo nulla per nascondere che hai paura.»

Ecco, così si poteva descrivere il miscuglio di quelle differenti sensazioni.

«Temi di fallire con il maestro, di fallire nell’addestramento, di non reggere la lontananza dalla tua famiglia. Non te ne rendi conto, ma mi rendi solamente più orgoglioso: hai appena compiuto cinque anni, eppure hai già queste preoccupazioni. Sappi che il solo fatto di provarle, ti deve dimostrare che tu sei in grado di superarle. Voglio poi che tu ti renda conto che io crederò sempre in te: ho in te una fiducia incondizionata. Anche oggi mi hai dimostrato di essere speciale: sono sicuro che diventerai un combattente fortissimo. E se non ti basta questo a farti sentire la mia fiducia, voglio che tu prenda questo.»

A quel punto, si slacciò dal polso un piccolo braccialetto d’argento, che conoscevo molto bene, e, per mia grande sorpresa, me lo porse.

«Questo è il braccialetto che mi fu dato da tuo nonno Suhn. È la nostra eredità famigliare. Il simbolo della nostra storia. Tuo nonno lo diede a me il giorno che iniziò ad addestrarmi, perché portassi avanti la nostra tradizione. Ed oggi è il giorno in cui questo compito passa a te.»

Mi vennero le lacrime agli occhi.

«E io sono convinto che sarai quello che lo svolgerà meglio di tutti.»

A quel punto non riuscii a trattenere le lacrime e lo abbracciai forte. Mi accorsi che stavamo piangendo entrambi. Rimanemmo così per qualche minuto, gli ultimi raggi del sole filtrati dalle fronde degli alberi ad illuminare questo momento. Fu lì che mi resi ancora più conto, di avere una famiglia meravigliosa, dalla quale, per il bene del mio addestramento, ero ora costretto a separarmi.

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Quella sera la famiglia Ryder cenò silenziosamente. Daniel seppe che nemmeno sua madre Lynda era all’oscuro della cosa, ma che faceva ancora fatica ad accettarlo: nel momento in cui Damon le confermò che ora anche Daniel sapeva, scoppiò a piangere abbracciando forte il figlio, tenendolo stretto per qualche secondo. Kira invece, che non sapeva, sembrò quasi invidiosa, ma fece comunque i complimenti al fratello. Dopo aver consumato velocemente la cena, i Ryder andarono tutti a dormire. Tutti, tranne uno.
Damon Ryder era in giardino: fumava un sigaro seduto in veranda, fissando il vuoto davanti a lui. Stava rimuginando sugli eventi della giornata.

«Non dovresti fumare, Damon.» sentenziò una voce, in tono quasi sarcastico.

«E tu sai benissimo quanto me, che non mi fa alcun male. L’organismo della nostra razza si è evoluto in perfetta armonia con la natura. Quindi anche il fumo, poiché bruciatura di una pianta, non ci danneggia.» disse Damon, volgendo lo sguardo alla sua destra.

«Ma questo a tuo figlio non lo hai detto. Come non gli hai detto che le sfere del drago non possono riportare in vita quelli della vostra razza, che moriate per cause naturali o per mano altrui.» Dalle ombre emerse la figura del Supremo.

“Touchè” pensò Damon.

«Non scendi spesso dal tuo palazzo, eh? Questa volta deve essere importante.» gli disse, prima di fare uscire una nuvoletta di fumo dalle labbra.

«Lo è Damon. Vi ho visto, oggi. Non puoi permetterti di raccontare a tuo figlio mezze verità: non puoi nascondere l’eredità di una razza dietro ad un semplice passagio di consegne tra famigliari. Non puoi parlare di “potenziale”, per riferirti a ciò che si porta dentro. È anche vero, che se è potenzialmente molto forte è anche grazie a quello, ma sfruttare un potere insito non è avere potenziale.»

«Credevo che tu potessi percepire ogni aura e comprenderne tutto il potenziale.» disse Damon, alzandosi dalla panchina della veranda e posizionandosi di fronte al Supremo: «Ora sono convinto di essermi sbagliato.»

«Come osi?!»

«Hai sempre parlato di quello che lui ha dentro, ma mai dell’aura di mio figlio, come se lui non esistesse. Ti posso garantire che non è vero: lui è molto forte, determinato, curioso ed intelligente, e queste non credo siano qualità di un’entità malvagia.»

Il Supremo lo fissò con uno sguardo raggelante. «Ancora una volta mi sorprende la tua sfrontatezza: si, l’aura di tuo figlio è forte, ma, come ti ho già detto, non credo sia abbastanza forte da reggere ciò che si porta dentro. Come non lo è ancora per sapere la verità sulla sua vera natura di Hatwa.»

«Un giorno dovrà comunque sapere, è un suo diritto! Quel braccialetto è tutto ciò che resta alla nostra famiglia per ricordarci delle nostre origini, per ricordarci di Hamon.» ribatté Damon, con decisione.

«Non è comunque ancora abbastanza grande per fare i conti con una cosa simile. Se lo turbi eccessivamente, corriamo il rischio che la malvagità dentro di lui possa prendere il sopravvento: e da guardiano di questo pianeta, è un rischio che non voglio correre. E che nemmeno tu, da padre, dovresti correre.»

Damon Ryder rimase in silenzio. Il Supremo aveva ragione ancora una volta.

«Avresti fatto meglio a non dirgli nulla: ora, quando arriverà il momento per lui di sapere la verità, dovrai guardarlo negli occhi e dirgli che gli hai mentito.»

«Non mentivo mentre gli dicevo che credo in lui, e questo, lui lo sa.» disse. Ma dietro di lui non c’era già più nessuno. Come fosse sparito così velocemente, Damon non se lo chiese. Si sedette nuovamente, tornando al suo sigaro: dai suoi occhi scese una piccola lacrima, mentre il fumo si disperdeva nell’aria della notte, che a Damon ora sembrava più buia che mai.


NOTE DELL'AUTORE

Sorpresa! Nuovo capitolo di martedì sera! Se vi state chiedendo il perchè, semplicemente perchè sto scrivendo a tutto spiano in questo periodo quindi ho pensato di fare questo unico, piccolo strappo alla regola! Noto solo ora che questo capitolo, per quanto lentuccio, possa essere decisivo per l'intera comprensione della storia: il mio consiglio è di tenervi a mente le rivelazioni di questo capitolo (tranne quella sul fumo, a meno che non siate dei tabagisti rosiconi: diciamocelo insieme, se tra voi c'è qualche fumatore come me, sarebbe proprio il caso di smettere...) perché torneranno! Ed alcune di esse saranno anche decisive per lo sviluppo della storia di Daniel! Spero che vi sia anche piaciuto (che credo sia più importante, lol), ribadisco che se avete delle critiche siete più che benvenuti, (come chi intende lasciare anche una recensione positiva) non fatevi alcun problema, purchè siano utili anche a me per capire dove devo migliorare!

Serve anche ribadire che Dragon Ball è proprietà di Akira Toriyama, io sono solo un povero fan con un computer e una fervida immaginazione.

Alla prossima!
   
 
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