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Autore: Francine    20/03/2015    4 recensioni
Toutes les grandes personnes ont d'abord été des enfants. (Mais peu d'entre elles s'en souviennent.)
(Antoine de Saint-Exupéry,
Le Petit Prince, dedica a Léon Werth, 1943)
[Note:Baby!Saint]
Genere: Avventura, Commedia, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Caleidoscopio'
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IV.
El que en buen hora cinxo su espada
(Capricorn Shura)


18 Gennaio 1972


Ruy dorme.
Stanco, la testa alla deriva sulla federa che sa di sole ed erba e sapone di Marsiglia, Ruy sogna, le spalle a pezzi, le mani fasciate, le palpebre pesanti.
C’è una strada, davanti a lui, che si snoda nel buio. Una strada bianca, luminosa, come polvere di stelle che attraversa una città. Burgos. Casa sua. Non è la cattedrale, quella che si erge aguzza verso il cielo? Sì. E lui lì, a piedi nudi, una vecchia camicia di Javier come pigiama che gli arriva appena alle ginocchia, fissa quell’immensità di sfumature d’ombra e onice che minacciano di cadergli addosso. Tagliandolo.

Ruy si volta. Un uomo cammina sull’acciottolato dalla porta di Santa Maria fino alla Cattedrale, ma non emette alcun suono. Il cavaliere veste un’armatura, luminosa, che spicca in quell’oscurità avviluppante. Lo guarda, lo fissa, un accenno di sorriso ad addolcire l’angolo degli occhi affilati. Un lago viola scuro di acciaio liquido.
«Vieni», sussurra appena. E si volta, sfilando per le strade deserte, puntando a nord, verso Porta San Esteban, verso Vivar, l’orlo del mantello che danza come a salutare – come ad omaggiare – la Cattedrale di Santa Maria la Maggiore.
Ruy lo segue, a piedi nudi, trotterellandogli dietro sull’acciottolato nero, ché il suo passo è svelto e ampio. E non lo aspetta. Anche se lui è solo un bambino.
«No, che non lo sei», dice il cavaliere, la voce che trancia l’aria immobile.

E superata la porta di pietra sbozzata qualcosa cambia. Burgos sparisce, la strada stessa sparisce, ed appaiono le spade. Una marea di spade conficcate nel terreno. Come in un cimitero che si allarga a perdita d’occhio. Ruy ha paura, ma il cavaliere cammina spedito e lui lo segue, ad un passo dal suo mantello candido come la neve.
Le spade sono lì. Nere. A meno di un braccio da lui. Può sfiorarle con la punta delle dita, ma Ruy ha paura di tagliarsi. Sembrano così affilate. Così pericolose. Così arrabbiate. Così morte.

Il cavaliere prosegue nel suo cammino, e lui lo segue. Ma poi gli occhi di Ruy – confusi, impauriti e sgranati – vedono qualcosa brillare in mezzo a quel roseto di spade, a quel cimitero di lame interrate a metà. Una luce, calda, dorata, splendente come l’armatura del cavaliere. Una luce che lo chiama. Che pulsa, mano a mano che i piedi di Ruy si avvicinano, che la sua mano destra si allunga a sfiorarla, come a cogliere un fiore che cresce sul ciglio di un burrone.
Un fiore fatto di luce. Lama, guardia, taglio ed elsa.

Ruy abbraccia la lama. È calda, sulla pelle. Gli è di conforto. Non ha più paura, adesso, in mezzo a quel cimitero di ruggine nera. Se la stringe al petto, estraendola dal terreno. Perduta e ritrovata, pensa.
Il cavaliere si avvicina. Gli sorride. La spada si chiazza di ombra. E si fa pesante e leggera allo stesso tempo. Ruy non la lascia andare, mentre la luce gli inonda il corpo.
Perduta e ritrovata, pensa, la spada tra le braccia come l’orsacchiotto di quand’era piccolo.

«Perché brillava così forte, questa spada?», chiede, ed è un sorriso gentile – tenero, quasi – quello che incurva le labbra del cavaliere.
«Perché ti stava chiamando», dice il cavaliere, con la voce profonda e inflessibile che contrasta con la luce che gli schiarisce gli occhi. Viola, come un campo smarginato di lavanda.
«Quella», prosegue indicando la spada che Ruy stringe tra le braccia, «un tempo fu mia.»
«E perché non lo è più?»
«Perché io fui», risponde il cavaliere, quasi senza muovere le labbra, «mentre tu sarai.».
«Sarò cosa?», chiede Ruy, mentre la luce sorge alle sue spalle, e il cavaliere sfuma nell’ombra e le sagome nere delle spade svaniscono come incubi trafitti da un raggio di sole.
«El que en buen hora cinxo su espada», sussurra nel vento la voce del Cavaliere, come se fosse il ritornello di una vecchia canzone, mentre Ruy apre gli occhi. Nel suo letto, nella mansarda in casa di Javier, ad Orreaga, ai piedi dei Pirenei. Sbatte le palpebre, si passa un braccio sulla fronte – sudata – e si mette a sedere in un fruscio di coperte ruvide.

Che razza di sogno, si dice, guardandosi il palmo della mano destra. È calda, adesso, calda e pesante, come se ci fosse qualcosa ad attraversargli il braccio fino al petto. Fino al cuore, dove batte una consapevolezza nuova: la certezza di non essere più solo. Di avere una luce, dentro di lui, a bilanciargli meglio braccio e polso e dita.
Ruy si alza, sulle lenzuola sfatte, la camicia incollata alla schiena magra. Il sonno è oramai un ricordo e c’è qualcosa che deve assolutamente fare. Ad ogni costo. Così si alza – Javier è in paese a giocare a scacchi con don Julio – si infila gli scarponi, il giaccone ed esce. Corre verso il bosco alle spalle della baita, il cuore in tumulto per la paura e la gioia, facendosi strada tra gli aghi di pino e la neve fresca, fino su alle rocce aguzze e bianche del Picco del Capricorno.
Sulla sua testa, Deneb Algedi brilla, come a infondergli coraggio.

Ruy sospira.
Perduta e ritrovata, pensa, e il taglio della sua mano si colora di una calda luce dorata. Assottiglia lo sguardo. Il braccio si solleva, prolungandosi oltre la spalla, verso quel cielo ingemmato di stelle. Sì, la sente. Adesso la sente pulsare dentro di lui, quella luce che lo chiamava, che brillava per lui nel cimitero delle spade. Calda, forte, invincibile. E il braccio si abbassa, e il cosmo esplode e Deneb Algedi entra in risonanza. Ed Excalibur cala, fendendo in due l’aria, abbattendo ogni ostacolo mentre in cielo il Capricorno brilla di furore, scaldando la notte ed allontanando la paura. E la spada sacra cala. Una, due, tre volte. Ancora e ancora e ancora. Danzando con Ruy, nel suo braccio, nel suo cuore, nel suo respiro. Lasciandolo senza fiato. Cantando la sua canzone. Incidendogliela nell'anima. Perduta. E alla fine ritrovata.
 



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
Confessione #1: stavo gironzolando su Pinterest quando sono incappata in questo fumettino. E sono scattati dodicimila campanelli ed è nata questa storia.

Confessione #2: io ho un debole smodato (e squilibrato) per Rodrigo Diaz de Vivar, alias El Cid Campeador, ed il suo Cantar. Per me Shura si chiama Ruy per lui, per il Cid, ben prima dall'apparizione in scena di El Cid (cnfr. Gold, 2002). Scelta banalotta, me ne rendo conto; ma so di non essere sola (Teshirogi anyone?).

Confessione #3: ho lasciato un pezzetto di cuore a Burgos. Se vi capita, fateci un salto. La sola Cattedrale di Santa Maria la Mayor merita una visita. Il fatto che lì vi siano anche sepolte le spoglie del Cid e di Donna Jimena è un valore aggiunto. Davvero.

Confessione #4: El que en buen hora cinxo su espada (trad. Che in buon ora fu armato cavaliere) è uno dei classici epiteti epici con cui ci si rivolge al Cid nel Cantar. Ha sia valenza esplicativa (ne ricorda il valore cavalleresco) che esornativa (spesso lo si utilizza come sinonimo per indicare il protagonista).
   
 
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