C’erano una volta le convenzioni, le regole, le prigioni.
E poi c’era lei, che era tutto e niente.
C’era lei, che era fatta di memoria e di sogni.
C’è chi dice che ognuno abbia il proprio colore; Desirée, lei li aveva tutti. Era l’arcobaleno delirante dei suoi capelli lunghissimi e intrecciati, che a pettinarli ci si sarebbe ritrovati in mano nidi di rondini e milioni di storie; era il rosso delle sue guance e delle labbra che sussurravano la verità nel vento, e quegli occhi enormi, blu, troppo grandi per essere umani, ma abbastanza per contenere tutti i cieli e tutti gli universi.
Desirée viaggiava sola, per poter udire il suono del mondo.
Desirée camminava scalza, per poter sentire la vita sulla pelle.
Attraversava città e campagne con quel passo veloce, sicuro, e le braccia attorno al petto, come per tenersi unita; camminava con la chitarra in spalla, la chitarra che restava muta: Desirée era la poetessa del silenzio, ma le piaceva sapere di poter avere un proprio suono, se solo l’avesse voluto.
Sulle colline e sulle scogliere poi si fermava, con lo sguardo un po’ perso nell’orizzonte, seguiva il volo degli uccelli, perché lei vedeva oltre. Lì, in quella linea sottile in cui cielo e terra coincidevano per un attimo, vedeva le idee farsi materia nello spazio di un istante.
Allora restava a contemplarle immobile, il vestito che danzava nel vento e la rendeva ancora di più una bandiera.
Era uno stendardo, una statua, un monumento.
Era la Memoria e la Speranza, il Passato e il Futuro.
Era un eterno non-dove e non-quando.
Con i suoi fiori al collo e ai polsi, aveva un ciuffo di palloncini legato al dito: se si fosse accorta di essere troppo folle o troppo fragile per quel mondo, le sarebbe bastato sollevare un braccio per volare via.
Desirée era la poetessa dei sogni.
Era in ogni tempo e in ogni luogo e in nessuno; ed era l’unica libera.
L’unica davvero.