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Autore: Blood Candy    28/03/2015    0 recensioni
Un avvenente ricco avvocato, giovanissimo, per una questione d'affari si trova a bere con un cliente in un bar. Qui rimane colpito dallo stile audace e speciale di un cameriere, e decide, per sfida personale, che riuscirà a conoscerlo e nel migliore dei casi stringere amicizia con lui...
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 2 – L’incantesimo delle mani d’avorio

“Nuovo giorno, nuova avventura” fu il primo pensiero che ebbi quando aprii gli occhi quel dì novello.
Mi alzai quindi come facevo sempre, trascinandomi lentamente sino al bagno.
Avevo saltato la mia abituale tappa alla cucina dove usualmente assumevo voracemente la mia colazione: quella mattina avevo deciso che avrei fatto colazione al bar.
Mi pettinai minuziosamente e svolsi la mia toeletta quotidiana con una particolare precisione, felice di quel piccolo cambio d'abitudine.
Per pura comodità, mi vestii proprio come ero vestito il giorno precedente, e indossata la mia calda amata giacca e il cilindro mio prediletto, uscii.  
Il clima non poteva vantare di una grande purezza, essendo nebbioso e spettrale, ma speravo in un miglioramento pomeridiano: detestavo quando il clima non rispettava il mio stato d'animo, e mi infastidisce tutt’ora. 
Arrivato sulla soglia del bar, indugiai qualche secondo: avevo fatto bene a tornare? Da solo, per di più? E se lui non ci fosse stato? O se non mi avesse riconosciuto? E, questione più importante: mi ero pettinato adeguatamente?
Scossi la testa, sentendomi uno sciocco: che problemi inutili, mi ponevo! Dopotutto quel ragazzo era solamente un semplice cameriere come tanti altri ma con uno stile particolare che mi aveva colpito! Lo stile, non il ragazzo! Ovvio che non era stato il ragazzo ad attrarmi nuovamente là! 
Anche se, pensandoci bene e in maniera oggettiva, aveva un viso davvero grazioso, con quei caldi occhi innocenti, dalla forma di mandorla e il colore del mogano più pregiato, grandi come pianeti, con quella bocca tanto piena e ben definita che pareva disegnata, quel nasino così equilibrato che avrei giurato fosse stato forgiato dalle mani del miglior artigiano... Ma cosa andavo pensando! Stavo divagando!
Mi rimproverai mentalmente per le mie riflessioni insensate e, prendendo il coraggio a due mani (a cosa mi sarebbe servito, poi? Era soltanto un bar con relativo cameriere!) spalancai la porta a vetri e passai oltre. 
Il locale si presentò accogliente come l'ultima volta, ma il mio sguardo ignorò i tavolini minuziosamente apparecchiati e gli scintillanti lampadari di vetro cesellato in minuscole gocce che rifrangevano la luce, e corse direttamente al bancone, dove scorsi il movimento fulmineo di due mani sottili coperte da guanti a mezza nocca e di una inconfondibile sciarpa beige annodata con maestria!
Un sorriso tanto immotivato quanto genuino mi si allargò sul volto e mi diressi come se neppure sfiorassi il pavimento verso quel celere ed efficiente barman, senza degnare di uno sguardo le persone che superavo.
A metà del mio percorso, che allora pareva durare quanto l'odissea di Ulisse, lo speciale cameriere intercettò il mio sguardo e mi accompagnò con esso fin in fronte a lui, senza mai smettere di sorridere. Quando mi fermai, ormai arrivato al bancone, lui mi offrì una visuale ancora più completa dei suoi bianchissimi denti, mentre appoggiava il mento sulle nocche delle mani, a loro volta sostenute dalle braccia puntellanti coi gomiti sul piano di marmo verde smeraldo (una posa tipica dei barman londinesi, ma che, addosso a lui, risultava terribilmente raffinata e innocente! Per non dire femminile!), e con voce un po' impacciata ma vissuta, come se avesse ripetuto quella frase centinaia di volte, disse: «Cosa le porto, Capo?»
A quelle parole, così spigliate e popolari, non potrei fare a meno di lasciare che un risolino sbieco si facesse strada sulle mie labbra: «Gradirei un french toast, grazie. Oh, e anche un tè, per favore!»
Subito lui annuì con un lieve cenno del capo, e con un grido tentò di attirare l’attenzione di un collega, il quale era intento a dialogare interessato con un terzo: «Gee!! Smettila di chiacchierare e portami un tè!». 
L’altro però, prontamente rispose, chiedendo che tipo di tè serviva.
Si voltò perciò, cosciente della misera figura appena fatta, nella mia direzione, mentre un forte rossore gli s’apriva in volto per l’imbarazzo.
«Quasi dimenticavo…come lo vuole il tè, Capo? Un Earl Grey? Un the nero? Un…» il nome dell’ultima tipologia di tè gli morì in gola, e ancora una volta mi sfuggì una risatina indesiderata: tanto era imbarazzato e rosso in viso che quasi pareva un bambino scoperto dal maestro senza i compiti, e in quell’istante pensai che fosse morbosamente adorabile. Certo, pensandoci ora mi sorge spontaneo domandarmi perché tanta vergogna, ma in quel momento tutto ciò che avevo in testa riguardava la tenerezza di quel cameriere.
«Un Earl Grey va benissimo» sorrisi calmo.
Speravo, scioccamente, di potergli contagiare la mia tranquillità: ma come, se ero in fermento come non mai?
Nella mia mente vuota tentavo invano di trovare ragioni valide per iniziare una conversazione, scrutando le cose attorno a me con grande perizia, ma sempre, SEMPRE, il mio sguardo tornava a posarsi sulle mani precise e delicate che esperte lavoravano dietro al bancone.
Sarebbe risultato stupido chiedere dove avesse acquistato la sciarpa che indossava?  Sì, certamente.
Avrei fatto la figura dell'idiota, anche perché probabilmente non l'aveva comprata lui ma sua domestica, o la governante, o la fidanzata... o la moglie! 
Era abbastanza adulto per essere sposato?
Il suo viso dimostrava non più di sedici anni, quindi non potevo rispondere a questa domanda (dato che per motivi logici ne aveva più di sedici: se così non fosse stato, come avrebbe fatto ad ottenere il lavoro?), ma sarebbe comunque potuto essere fidanzato.
L'idea mi parve così strana che un brivido mi percorse la nuca: sembrava un ragazzino (quasi rammentava una ragazzina per la sua grazia) e qualunque donna sarebbe stata troppo volgare per lui! Ma, d’altro canto, chi ero io per giudicare?
Decisi così di tacere, ed attendere paziente sino a che la mia ordinazione non fosse pronta: allora e solo allora avrei potuto decidere se sfidare la sorte e aprire la bocca oppure ingoiare qualunque assurda frase mi si fosse affacciata alla mente, facendo finta di niente. 
Sì, tutto questo sempre se fossi riuscito a distogliere lo sguardo da quelle mani affusolate che facevano avanti e indietro da un incarico all’altro: non so che potere esercitassero su di me, ma ero totalmente assorto nell’osservare quelle dieci dita lunghe e sottili, pallide ma segnate da minuscole cicatrici (probabilmente procurate tra un bicchiere infranto e una tazza troppo calda). 
Erano mani grandi e lunghe, come se ne vedevano addosso molti uomini, ma erano dotate di una grazia sottile nei movimenti, che le rendeva tutt’altro che rozze e mascoline, anzi (sebbene fossero nascoste per metà da grezzi guanti a mezza nocca di lana nera, che avevo notato anche il giorno precedente).
Si muovevano regalmente da un’occupazione all’altra: prima versavano l’acqua in un bollitore in seguito messo a scaldare sopra la fiamma di un fornello, poi infilavano espertamente e con fare sicuro il pane nella crema d’uovo, poi poggiavano il toast caldo e profumato su un piatto coperto da un tovagliolo, poi spingevano il suddetto piatto sul bancone… 
Finite le loro mansioni, le belle mani d’avorio tornavano a stingersi l’un l’altra, in una posizione un po’ impacciata e fanciullesca, ma decisamente adorabile. 
E io le guardavo, le guardavo riempendomene gli occhi, e non sapevo neanche il perché: insomma, erano solo un paio di mani! 
Ma si muovevano con una certa insofferenza, una certa svogliatezza, che contrastava enormemente con quelle degli altri camerieri: loro facevano movimenti secchi precisi, senza lasciar passare emozioni. Ma i movimenti di quel ragazzo dicevano tutto: lui non voleva essere lì. 
Ero ancora perso nel miraggio di quelle delicate mani quando queste si avvicinarono a me, porgendomi la tazza di the e il french toast richiesto.
Ma lì per lì non me ne resi conto, dovette infatti il ragazzo schioccare giocoso le dita a qualche centimetro dal mio naso per attirare la mia attenzione a lui.
Ero ancora perso nel miraggio di quelle delicate mani quando queste... cosa accadeva!? Per quale ragione le belle mani si si avvicinavano? E perché ora schioccavano quelle dita, poco distanti dal mio naso?
Mi riscossi, così, dal mio stato di trance, con il suono sordo di quello schiocco, e distolsi finalmente lo sguardo dalle dita ancora intrecciate che galleggiavano davanti al mio viso; con movimento fulmineo alzai lo sguardo, sino ad incrociare quello luccicante del cameriere, il cui volto sospeso in fronte al mio passava rapidamente dalla seccatura, poiché l’ordine che aveva preparato era stato ignorato, al divertimento, a causa della faccia spaesata che dovevo all’imbarazzo, alla vergogna, dato che egli era cosciente di quel gesto villano che aveva appena fatto ad un cliente, per infine arrivare ad un timido compiacimento di sé, dato che si era accorto che la mia distrazione era dovuta al fatto che mi ero incantato a contemplarlo. O meglio, a contemplare le sue mani, ma di certo non avrei puntualizzato vista la situazione.
Il suo sorriso obliquo gli accese un baluginio malandrino nelle pupille, e con un tono che tentava di mascherare il divertimento si rivolese a me: «Capo, è ancora qui?»
Sbattei più volte le palpebre e assemblai un sorriso imbarazzato, farfugliando qualcosa di non molto intelligente che probabilmente riguardava il fatto che mai me ne sarei andato senza la compagnia del toast appena ricevuto. 
Ripresi quindi controllo di me ed iniziai a sbocconcellare la mia colazione, cercando in ogni modo di ignorare il sorrisetto divertito nonché insolente del ragazzo. 
Cosa mai mi aveva fatto, per assorbirmi a tal punto che non ero riuscito ad evitare una figuraccia del genere?
Probabilmente tutto questo era dovuto al sonno mattutino che, non avendo ancora bevuto il thè ricco di teina pronta a rinvigorire le mie sinapsi, mi faceva vedere il mondo attorno a me rallentato.
Nonostante la fame tentai di cibarmi in modo decoroso, seguendo le regole base dell’etichetta a me da sempre cara.
Sentii il fischio della teiera, che per un attimo coprì i miei fitti pensieri, e rimasi solo con il mio grande imbarazzo.
Non alzai lo sguardo e neppure ringraziai quando arrivò il mio tè caldo, tanta era la vergogna e la paura dell'essere ancora una rapito alla vista delle graziose mani.
Tenni quindi il mignolo alzato mentre silenzioso sorseggiavo la bevanda ustionate, la schiena era ritta, poggiata sullo schienale e tutto attorno a me era ordinato.
Accanto a me i passi veloci del cameriere percorrevano avanti e indietro il bancone per tutta la sua lunghezza, e con il solo ausilio dell’udito seguivo ogni suo movimento: non volevo incontrare il suo sguardo più, almeno per quella giornata.
Sentivo ancora residui del grande vento caldo che s’era sprigionato da dentro il colletto, e che poi s’era proteso lungo tutto il mio busto sino a raggiungere le gote e la fronte. Temevo di sciogliermi, ma poco dopo avrei capito che forse se mi fossi sciolto sarebbe stato meglio: avrei evitato quell’imbarazzante a dir poco situazione di attesa.
Fui calmo poi solo quando sentii lontano il suono dello sportello che divideva il famigerato bancone dalla sala, e con la coda dell’occhio riuscii a scorgere l’uscita del cameriere dalla bella sciarpa.
Potevo andare quindi, e così alzai lo sguardo alla ricerca di un altro cameriere a cui pagare il conto, che nel rispetto del mio silenzio imbarazzato il ragazzo aveva lasciato accanto a me senza aprir bocca, pagai ed uscii, trascinandomi per il locale come un fantasma.
Non ero riuscito nel mio intento, quindi, ma il giorno seguente ce l’avrei fatta, ne ero speranzoso.
E la mia visione positivista del mondo mi costrinse ad immaginare questa sconfitta come un aiuto: avevo potuto studiare il carattere del soggetto per aver la possibilità di evitare gran parte delle future figuracce, mentre tornavo solitario a casa.
   
 
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