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Autore: Christa Mason    29/03/2015    3 recensioni
Julian Casablancas è uno studente del Le Rosey e fa tremendamente freddo quando incontra Gil.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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  Julian parla di tante cose prima che io lo porti al Quarto Potere, squallido e unico bar del quartiere delle case popolari. Ogni tanto ci suona qualche band mai sentita nominare, la musica è così pessima che si preferirebbe l’imbarazzo del silenzio. Mi dice che non tornerà a New York per le vacanze, è newyorkese doc e il suo accento non è camuffato, perché suo padre è non so dove a fare non so cosa e sua madre è in viaggio per salvare gli orfani di non so quale paese. Ha due fratellastri e una sorellastra e vorrebbe essere il più figo della famiglia, facendo qualcosa di più che scegliere un campo dove investire i soldi. Parla di un mondo che non mi appartiene e che non capisco, mi limito ad annuire e segretamente spero che passeremo il resto della serata a baciarci timidamente su un tavolo in un angolo buio, perchè non saprei tenere una conversazione con lui, di nessun tipo. Mi domando se lui ne sia consapevole. Non fa commenti sul bar deserto e malinconico, lo apprezzo. Un paio di operai concludono la loro giornata silenziosi sul bancone, un paio di studenti, nati nelle case popolari ma aspiranti a qualcosa di meglio, che sono tornati a casa per Natale commentano su quanto sia fantastico il mondo fuori da quel bar. Tendo un’orecchio alle loro conversazioni. 
  “Allora questo è il tuo famoso quartiere.” dice Julian interrompendo i miei pensieri. 
  “Il lato povero del lago, non c’è niente di più che le palazzine popolari e questo bar.”
  “E ci sei anche tu.” ha già finito la sua prima birra, e non conto quelle che vengono dopo. 
  “E ci sono anche io.” confermo. 
  “Cosa fai nella vita, Gillian Gessner?” riesce a mala pena a pronunciare il mio nome. Gli sorrido perchè credo sinceramente che stia facendo di tutto per sembrare gentile, vorrei dirgli che non deve, può lasciarmi andare, che il nostro incontro non deve essere per forza memorabile.
  “Lavoro dove mi hai incontrato, a volte pulisco le stanze degli alberghi.” 
  “Mi piacciono gli alberghi.”
  “Che vuoi dire?”
  “Vivo in un albergo, quindi direi che mi piacciono.”
  Lo guardai come si guarda una scena madre di un thriller, aspettando il primo colpo di una sparatoria. Vorrei chiedergli delle spiegazioni, ma rimango a guardare mentre beve la sua birra. Sul nostro tavolo si accumulano i bicchieri che svuota ad una velocità incredibile. “Almeno…” precisa, “… vivo in un albergo quando sono in Svizzera. A mio padre non piacciono i campus, pensa io possa mandarli a fuoco, uccidere qualcuno perché non mi fa dormire, cose del genere.”
  “In che albergo vivi?”
  “Al Westfield, dalla parte opposta del lago.”
  “Potrei aver pulito la tua camera. L’estate scorsa ho lavorato lì.”
  “Ti auguro di no.”
  Scoppio a ridere, la birra mi scalda lievemente e comincio a sciogliermi e lasciarmi andare all’allegro ritmo tutto americano che Julian porta con sè, mi sorride spesso e quando arrivo al fondo del mio bicchiere finisco per ricambiare, qualche volta. 
  “Mio padre è così, capisci? Si aspetta da un momento all’altro che combini un casino. Per questo sono qui, letteralmente dall’altra parte del mondo. Il Le Rosey è fatto per questo, è una prigione per teppisti ricchi, mascherato da college prestigioso. Ieri sera dovevi sentirlo. Julian, ti prego, dimmi che non l’hai buttato tu quel ragazzo nel lago, ti prego giurami che non è così. Ed io che cercavo di dirgli che non aveva capito proprio un cazzo. No, papà! Non ho buttato nel lago quel ragazzo, tutt’altro cazzo, sarebbe morto congelato se non fossi rimasto.
  In qualche modo tutti sembravano credere che Gary fosse finito nel lago per uno scherzo finito male e non perchè si fosse comportato in modo completamente stupido. 
  “Perchè siete rimasti solo tu e Alex?”
  “Se Gary fosse morto, il nome dei ragazzi presenti avrebbe fatto il giro del mondo e sarebbe stato un bel casino per tutti. Vuoi un’altra birra?” non aspetta neanche una mia risposta che è già andato a prenderla. Torna trionfante con due birre scure, ondeggiando con il suo passo ubriaco. Ha già cominciato a blaterare, straparlare. Conduce da solo una conversazione altalenate, rivela i pensieri annebbiati di chi sta per svenire sbattendo la testa sul pavimento. Agita le mani quando parla, ride a sproposito e ci sono attimi in cui s’oscura e sembra sparire. 
 “E insomma, forse sarei dovuto andare via anche io, lasciare che fosse Alex a tirare fuori Gary. Ma se l’avessi fatto oggi non sarei qui con te. In questo bar meraviglioso.” dice lasciando le birre sul tavolo, una per me e una sè. Preferisco le birre chiare, ma non è questo che voglio dirgli. 
  “Non devi fingere che ti piaccia il bar o che ti piaccia io.”
  “Ma mi piace il bar.” ci stiamo trasformando in una di quelle patetiche coppie che si ritrovano in tutti i film americani: lui fa gli occhi dolci a lei, lei l’asseconda, lui comincia a bere troppo ma proprio perchè ha bevuto troppo dice qualcosa di magico, che non potrebbe dire da sobrio. Prego perchè non faccia niente del genere quando si sporge verso di me. “E mi piaci anche tu.” 
  Sarebbe il momento in cui lui bacia lei, immagino quel bacio e ci vedo tristi e senza la passione cinematografica che Casablancas porta invece con sè senza fingere. Non sono la ragazza per lui, e non potrebbe essere il momento migliore per dimostrarlo. Aspetto che lui mi baci, ma non lo fa. Cade invece per terra con un tonfo, completamente ubriaco, gli occhi profondi e persi nei vortici alcolici che si trascina dietro da stamattina. E poi sarei io ad avere un problema con l’alcol. Scoppia ridere come un selvaggio, attirando lo sguardo del barista, il povero signor Waltz, e dei pochi presenti. Julian Casablancas attira sempre tutti gli sguardi. Fa per rialzarsi ma non ci riesce. Mi chino verso di lui. 
  “Cazzo…” dice. 
  “Alzati, Julian… Usciamo di qui, ci guardano tutti.”
  “Sì, è che mi gira la testa.” appoggia una mano sul tavolo, ondeggia appena. 
  “Gil…” questo è il signor Waltz che mi chiama dal bancone, sta pulendo i suoi bicchieri. Mi conosce da sempre, e mi ha visto diventare un’assidua frequentatrice del Quarto Potere quando ero una quindicenne e sapevo apprezzare la compagnia degli altri ragazzi delle case popolari, così come la musica scadente. “Non vogliamo ubriachi qui, lo sai.”
  “Lo so, lo so. Ce ne stiamo andando.” prendo Julian, lasciando che il suo braccio s’appoggi alle mie spalle, mi rendo di quanto ridicoli sembriamo. Julian sbatte contro una sedia facendola cadere. Socchiudo gli occhi sperando che non dica niente di troppo stupido, di quella stupidità donata dall’alcol che è irritante più che divertente. Per fortuna, rimane in silenzio. Siamo quasi fuori quando entrano tre ragazzi nel bar. Uno di loro è Hans, gli altri di quelli che si conoscono dalle elementari e che si continuano a salutare educatamente per strada, senza ricordarne il nome. Naturale che sia Hans, non c’era altra persona che potessi incontrare in questa situazione. Cazzo. E siamo troppo vicini per non riconoscerci, troppo perchè io possa abbassare lo sguardo e sfuggire come al solito.
  “Gil…” dice lui. Muore dalla voglia di chiedermi chi è lo stravagante individuo che sto trascinando fuori dal bar, il nostro bar, ma non vuole sembrare geloso. 
  “Ciao, Hans.” dico io. Muoio dalla voglia di mostrare Julian Casablancas come un trofeo, la prova che posso avere un compagno, un amante, che non sia Hans, il fidanzatino che secondo i vicini, mia madre e quella di Hans avrei dovuto sposare a vent’anni. E sarebbe meraviglioso se solo Julian non si presentasse come un caso disperato e patetico. Julian è ancora appoggiato su di me, a stento lo sorreggo, la sua altezza mi è di intralcio e i suoi passi sono lenti e incerti.
  Appena fuori dal bar cadiamo nella neve. 
  “Cazzo, cazzo…” continua a ripetere lui. Ci guardiamo per un attimo, assicurandoci che non ci siamo fatti male. Julian Idiota Casablancas, alzati penso mentre lo tiro per il braccio, cercando di rialzarlo. 
  “Aspetta, Gil, aspetta.” mi ferma. 
  “Cosa?”
  “Sto per vomitare.” la sua faccia non lascia dubbi.
  “Fantastico.” gli lascio il braccio, lasciando che provi a rialzarsi scivolando nella neve, per poi rinunciarci del tutto. 
  “Lasciami qui.” è la sua sentenza.
  “Ho già impedito ieri sera a un ragazzo di Le Rosey di morire congelato, sta diventando un’abitudine. Coraggio, alzati.” lo aiuto a rialzarsi di nuovo. “Ti porto alla fermata dell’autobus. Riesci a contare fino a cinque? Devi fare cinque fermate. Julian, ascoltami.” non mi ascolta. 
  “Quando passa l’ultimo autobus?”
  Guardo l’orologio. Cazzo. 
  “Mezz’ora fa.”
  “Grandioso.” 
  “Non hai una macchina? Sei ricco sfondato, come fai a non avere una macchina?”
  “Ce l’ho una macchina, ma è ancora al lago.” la sua voce è una sequenza di lamenti ubriachi, e non lo sopporto. Mi rivedo com’ero con Hans, mano nella mano a passeggiare guardando il tramonto riflesso nell’acqua e baciandoci al chiaro di luna dopo un concerto al bar. Non funzionava più perchè tutto era diventato monotono, cristallizzato, in una maledetta routine. Mia madre ingrassava ed io mi costringevo a diventare la moglie di Hans, ma ero troppo giovane, sono troppo giovane, e ancora spero di poter girare il mondo con uno stipendio da cameriera e una madre obesa chiusa in casa. Adesso vorrei che Hans fosse uscito dal bar per aiutarmi con Julian, ma non l’avrebbe fatto perchè sono stata piuttosto stronza con lui ultimamente. 
  “Ce l’hai un divano per me?” chiede infine Julian, interrompendo i miei pensieri. 


  
  
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