Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    29/03/2015    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
---
[On going: dicembre 1941]
---
[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

30. La realtà del mortale e L’illusione dell’immortale

 

 

28 maggio 1940, L’Aia

 

Belgio tese le braccia. Allungò i documenti pinzati portandoli davanti al petto dell’ufficiale e abbassò la fronte. Le dita tremarono lievemente, le unghie scalfirono la carta.

“Mi dispiace.” Sollevò i fogli senza alzare gli occhi da terra. “Spero che Francia e Inghilterra capiscano che ormai non ci sarebbe stato più niente da fare.” Mosse i pollici piegati ai bordi dei documenti e fece frusciare la carta. Si pizzicò un labbro. “Preferisco evitare altri sacrifici inutili e mantenere la posizione che mi ero prefissata fin dall’inizio. Ormai le truppe tedesche sono passate e...” Belgio sollevò il capo. Socchiuse le palpebre per nascondere il sottile velo lucido che avvolgeva gli occhi, e piegò un piccolo ma sincero sorriso. “Mi dispiace di non essere stata in grado di respingerle.”

L’ufficiale esitò. Sciolse una mano dalla presa stretta dietro la schiena e raccolse i documenti che traballavano tra le dita di Belgio.

“Nessuno le attribuisce la colpa, signora.” Scosse il capo e batté la mano sul fianco dei documenti per pareggiare le carte. “È stato un duro colpo per tutti. Anche facendo del nostro meglio, l’avversario non è mai stato alla nostra portata.” Chiuse gli occhi e piegò un piccolo inchino. “Grazie per esserci stata affianco fino alla fine.”

Il sorriso di Belgio tremò. Tornò fermo, schiarendole il viso. Belgio annuì e si passò il fianco della mano sulle guance, sotto le ciglia che scintillavano delle prime goccioline di pianto. Gli occhi ancora nascosti dalle dita umide ruotarono sul fianco, si posarono sull’ombra che nasceva sotto la colonna marmo. Il fumo color cenere levitò dalla punta luminosa della sigaretta, volteggiò arricciandosi in piccoli sbuffi davanti al viso di Olanda, e si espanse seguendo il profilo della colonna che si univa al soffitto. Olanda avvicinò la mano alla bocca e strinse la sigaretta tra indice e medio. Gli occhi si girarono di lato, puntarono un angolino vuoto sulla parete e stettero freddi e immobili dietro al velo di fumo.

L’ufficiale tornò a rivolgersi a Belgio. “Se vuole la scorto da...”

Un cinguettio interruppe la frase.

L’ufficiale storse un sopracciglio e guardò oltre la spalla di Belgio, forzando la vista fin dietro la barriera di fumo sollevata dalla sigaretta. Anche lo sguardo di Olanda si abbassò, chinandosi alla base della colonna, sul cornicione di granito che dava sulla vetrata. Prussia richiamò il ginocchio vicino al petto, avvolgendosi la gamba con il braccio. Gilbird fece frullare le ali, zampettò sul ginocchio e volse il beccuccio verso l’alto. L’indice scese dalla testolina all’attaccatura delle ali, strofinando sul piumaggio. Gli occhi di Prussia ruotarono alle sue spalle. La luce che entrava dalla finestra, filtrava attraverso la nebbia di fumo e si posava sulla sua guancia, splendette sul riflesso dell’iride. Gli sguardi di Prussia e dell’ufficiale si incrociarono, e l’uomo sobbalzò per un istante. Gli occhi tornarono su Belgio.

“Forse è meglio se mando il generale da lei,” disse. La voce più debole e intimidita.

Belgio annuì. “Sì, grazie.”

L’ufficiale fece un piccolo inchino e andò alla porta. La serratura scattò, i suoi passi ovattati vennero risucchiati dall’intenso silenzio della stanza.

Le ali di Gilbird frullarono due volte, Prussia stese la gamba che non lo sorreggeva lungo il cornicione, fino a toccare la parete con la punta del piede. La suola dello stivale che scivolava in avanti spalmò un suono insabbiato sulla superficie di granito. Olanda tolse le spalle dalla colonna, si avvicinò di due passi a Belgio lasciandosi la scia di fumo alle spalle, contro la debole luce della vetrata. Una mano di Belgio gli sfiorò il braccio. Le dita si aggrapparono alla manica della giacca e strinsero, attirandolo a sé. Belgio posò la fronte sulla sua spalla. Il primo singhiozzo fece tremare anche Olanda.

“Mi dispiace,” disse lei.

La sigaretta smise di fumare. Il lumino arancione sulla punta si scolorì.

Olanda abbassò gli occhi, ma le linee del viso restarono fredde e rigide.

Il pianto di Belgio si ruppe, risucchiato da un singhiozzo più profondo. Belgio sollevò il capo tenendo la mano stretta alla manica di Olanda. “Credi...” Si asciugò le guance e sbatté le palpebre. Due piccolissime lacrime le bagnarono le ciglia. “Credi che li abbia delusi?”

Un piccolo sbuffo uscì dalla sigaretta fumante. Lo sguardo di Olanda si ammorbidì, la voce usciva lievemente impastata dal rotolo di tabacco stretto nell’angolo delle labbra. “Hai evitato perdite, hai combattuto quando è stato necessario farlo.” Scrollò le spalle. “Non hai nulla da rimproverarti.”

“Sì,” squillò la vocina strozzata di Belgio. Le dita lasciarono lentamente il braccio dell’altro, lo sguardo cadde sul pavimento. “Forse, però, se all’inizio non fossi stata neutrale, noi avremmo potuto fare di più.”

“Chiedo scusa.” Il cigolio della porta che si apriva accompagnò la voce che si intrufolò nella stanza.

Una gamba si intromise nello spazio dell’anta socchiusa, un passo svelò dall’ombra il viso del generale Leroy che si immergeva nella luce della vetrata. Le dita ancora serrate sulla maniglia.

“Mi voleva ricevere, signora?”

Belgio giunse le mani ancora lucide di pianto davanti al viso. Lacrime di gioia brillarono tra le palpebre, splendettero sulle guance imporporate. Sorrise, saltando verso l’entrata.

“Generale!”

Leroy richiuse la porta, restando girato di profilo. La spalla aderì all’anta.

Belgio corse davanti a lui. “È vivo, grazie al cielo, non –” L’immagine del generale scivolò dentro la penombra. La mano che stringeva sulla maniglia scese sul fianco, andò a nascondersi dietro la schiena. Le spalle di Leroy tornarono dritte, il fascio di luce corse sul petto, superò le scintille emanate dalle medaglie sotto il colletto, e si raccolse nel brillio del bottone che teneva la manica destra piegata in due sotto la spalla. La luce dorata colpì gli occhi di Belgio, e lei impallidì. Il sorriso morì così com’era nato. “Il suo braccio...” La voce tremò in un piccolo sussurro.

Leroy sollevò le sopracciglia. “Uh?” Sbatté le palpebre, abbassò gli occhi guardandosi la manica ripiegata come se il braccio fosse stato ancora lì. Emise un piccolo sbuffo con una vena divertita, e sollevò la spalla. “Oh, bazzecole.” Posò la mano sopra le fascette dei gradi sulla spallina. Lo sguardo si allontanò da quello di Belgio, rimase basso, e il generale soffiò un debole sospiro. “Mi costerà il ritiro, temo.” Una luce stanca attraversò le palpebre scure e sciupate, tirate da una sottile ragnatela di rughe. Quel lieve accenno di tensione contrasse due profonde cicatrici rossicce che si incrociavano sotto l’attaccatura dei capelli.

Belgio tenne una mano ferma sul cuore. Prese un respiro, raccolse le forze nel petto, e la luce che le carezzava il viso tornò a rasserenarle gli occhi.

“So quanto ha fatto per me e per il mio esercito. Si è fatto onore, generale.” Chinò il capo, i capelli le finirono attorno alle guance. “La ringrazio.”

La mano di Leroy scese lentamente dalle fascette dorate, il palmo carezzò la stoffa e si fermò sulla bandiera olandese rattoppata sul tessuto. Due cuciture erano sfilacciate in punta.

Leroy strinse il pugno, il solito sguardo paterno restò dentro la penombra che gli divideva il viso in due. “Per il mio paese questo e altro.” Un fioco sorriso gli infossò le guance. La pelle scura e rovinata si contrasse fino agli zigomi.

Belgio intrecciò le dita sul grembo. Non sollevò gli occhi, guardandosi le unghie che ticchettavano tra di loro. “Io vi ho...” Raccolse un lembo dell’abito e sciupò la stoffa ingarbugliandola tra le dita. “Per l’armistizio... mi dispiace per avervi deluso. Dopo tutto quello che avete fatto, ora mi ritiro come...” Si morse il labbro.

I passi di Olanda che si avvicinavano e la grande ombra che inglobò la sua le impedirono di scoppiare di nuovo a piangere. Il familiare profumo di tabacco ricacciò le lacrime tra le palpebre.

Leroy scosse il capo con un gesto deciso. “Non c’è nulla da scusarsi.” Raddrizzò la schiena. Il petto rigonfio lasciò uscire un tono di voce fermo ma gentile. Parlava più piano del solito. “La forza che ci ha permesso di combattere a Eben-Emael proveniva da lei.” I loro sguardi tornarono a incrociarsi e Leroy accennò una riverenza. “Siamo noi a ringraziarla, signora.”

Belgio piegò le sopracciglia in un’espressione intristita, poco convinta. Annuì con un debole gesto del capo. Leroy tornò a voltarsi verso la porta. Il passo più soffuso e trascinato, le suole quasi non emettevano suono contro il pavimento. La mano di Belgio si sciolse dalla presa rovente che teneva intrecciate le dita, scese stirando la stoffa della gonna e sfiorò il rigonfiamento della tasca. La colse come una scossa improvvisa.

“Ah, generale, quasi mi dimenticavo!”

La porta restò socchiusa. L’ombra del generale scivolò fuori dallo spiraglio, una gamba dentro e una fuori. Leroy voltò il capo all’indietro, inarcando un sopracciglio.

Belgio sfilò la mano dalla tasca. Aprì il palmo, svelando la stoffa bianca ricamata sui bordi. La luce si posò sul filo che componeva le iniziali N.D.B. Il braccio si tese verso il generale.

“Ho ancora il fazzoletto del maggiore De Backer.”

Uno spasmo fece sbiancare il viso di Leroy. Le guance e la fronte si tesero, aggrottando le rughe attorno alle palpebre come fosse invecchiato di colpo. Una luce grigia gli appannò gli occhi. Restò fermo, con la mano stretta al pomello, senza fiatare.

Belgio passò due dita tra i capelli, portandoli dietro l’orecchio, e fece un passo avanti. I polpastrelli stesero la stoffa sugli angoli. “Immagino che ora sarà alla base, ma volevo...” Si strinse le spalle. Il piccolo sorriso le inarcò le labbra. “Ci tenevo a consegnarglielo di persona.”

Lo sbattere delle ali e il piccolo cinguettio scossero lo sguardo di Leroy come una sberla sulla guancia. Gli occhi del generale, opachi e spenti anche in pieno abbaglio solare, scattarono verso Gilbird, si sollevarono – lo sguardo di Prussia nascosto dietro la colonna – e incontrarono quelli di Olanda velati dal muro di fumo. Li evitarono.

“Non...” Leroy lasciò andare la maniglia. Un sottile cigolio accompagnò il movimento del pomello. La gamba rientrò dentro la stanza, il piede si unì a quello già tuffato nella lama di luce. Il generale abbassò la fronte, trattenne il respiro, le labbra si mossero a vuoto. Sbatté piano le palpebre e sollevò gli occhi. “Non gliel’hanno detto?”

“Eh?” Belgio strinse la mano. Le dita che si raccolsero nel palmo erano già fredde, il sangue già ghiacciato nelle vene. “Detto...” Tremò. Ingollò un boccone di saliva amara che bruciò la gola. “Detto cosa?” Il tiepido sorriso rimase fossilizzato, quasi si rifiutasse di credere allo sguardo stravolto del generale.

Leroy sospirò. Voltò il capo di lato, e il velo d’ombra nascose completamente la sua espressione.

“Il maggiore De Backer è caduto, signora.”

Le deboli e calme parole arrivarono con la violenza di uno sparo.

Belgio arretrò. “Oh.” Avvicinò il pugno che stringeva il panno di stoffa alle labbra. Guardava per terra. Le ombre erano due macchie sfocate e indistinte che si allungavano nel bianco del pavimento. La luce della finestra si spense, il buio grigio spazzò via le sagome, scurendo l’intera stanza. “Come...” Un brivido di freddo le scosse le spalle. “Quando...”

Il passo di Olanda che si avvicinò al fianco fece vibrare l’aria. La nuvola si tolse dal sole, la luce schiarì il pavimento.

“Una granata, temo.” La voce del generale di nuovo chiara e limpida. “Prima che i tedeschi entrassero direttamente nelle gallerie del forte. Molti di noi sono rimasti uccisi durante l’assalto.”

Belgio socchiuse le dita. Le iniziali che comparvero tra le pieghe di stoffa le strinsero un laccio al cuore. Belgio distolse gli occhi, quando sollevò lo sguardo, fu Leroy ad abbassare le palpebre.

“Mi dispiace,” disse il generale.

Lei non pianse. Un denso e silenzioso groppo al petto la rese immobile. Solo le mani giunte sul panno di stoffa si scossero in una vibrazione che chiuse la presa delle unghie tra gli intrecci dei fili.

L’ombra del braccio di Leroy si tese verso Belgio, entrando nella luce. “Se vuole, posso assicurarmi io di farlo avere alla sua famiglia.”

“No.” Belgio portò le mani al petto. Il groppo di ghiaccio si sciolse. “No, è una mia responsabilità e la porterò avanti fino in fondo.” Gli occhi tornarono a splendere. La paura si sciolse scoprendo la luce nelle pupille. “Lo consegnerò io.” Strinse la mano, posando il fazzoletto sul petto come per dimostrarlo a se stessa. “Quando sarà tutto finito, sarò a riportarglielo.”

Leroy non disse altro. Le rivolse un ultimo avvilito sguardo di gratitudine, e uscì in silenzio dalla stanza.

La mano di Belgio tornò a immergersi nella tasca. Le dita rimasero avvolte dal tessuto intiepidito, lo stropicciarono contro il palmo chiuso in un pugno. Belgio si chiuse nelle spalle e si allontanò dalla luce della vetrata. I raggi di sole che sbattevano direttamente contro le palpebre le bruciavano gli occhi.

“Perché ti sei lasciata coinvolgere?” La voce di Olanda non la fece voltare. Olanda emise un sospiro di fumo. Sollevò la fronte al soffitto, tenne la sigaretta chiusa tra due dita davanti alle labbra, e seguì il volteggiare dei riccioli color cenere. “Non ci si affeziona agli esseri umani, dovresti saperlo.”

“Non...” Belgio si chiuse in un abbraccio. Il bruciore al petto si espanse come un’onda. Si voltò di scatto. “Non parlarne come fossero animali.” Il rivolo di fumo deformava la sagoma scura di Olanda, in piedi davanti alla finestra, una mano in tasca, una stretta sulla sigaretta davanti alla bocca, e la schiena dritta. Era rigido come una seconda colonna.

Belgio scosse il capo. “Lui era...” Tornò a sentire il respiro pesante del maggiore che tremava per la corsa, la forza della sua stretta che le avvolgeva le spalle, il suono e l’odore delle esplosioni che si faceva più lontano. “È stato lui a portarmi in salvo fuori dal forte ed era...” L’ultimo saluto. Un rapido e frettoloso gesto militare da dentro l’abitacolo dell’autocarro. “Era così giovane e insicuro, lui non...” Non finì la frase. Occhi e gola tornarono a pungere.

Olanda si voltò di fianco. Guardò fuori dal vetro. Gli occhi lontani, senza espressione. “Muoiono molto facilmente.”

“Anche noi potremmo scomparire da un giorno all’altro.” Belgio si avvicinò. Non tremava più. “Le nostre vite sono fragili tanto quanto le loro, ma non per questo ci asteniamo dall’amare qualcuno.” Gli sollevò un braccio, la mano di Olanda uscì dalla tasca e restò chiusa tra i palmi di Belgio. Si guardarono negli occhi. Lei gli sorrise. “Se non ci concedessimo anche solo questi piccoli sentimenti...” Abbassò gli occhi sulle dita che carezzavano le nocche del fratello con piccoli movimenti delicati. Il sorriso tornò a fiorire, più piccolo e tiepido. Malinconico. “Le nostre vite sarebbero fin troppo miserabili.”

Il respiro di Olanda fece uscire altri due fiotti di fumo. Gli occhi tornarono sul cielo, come catturati dalla luce. “No, non credo.”

Belgio sbatté le palpebre. Un piccolo gesto di incredulità che le accese lo sguardo. I palmi scivolarono via dalla mano del fratello, lasciarono che Olanda prendesse la sigaretta tra indice e medio, scrollasse una punta di cenere, e la lasciasse fumare tra le labbra.

“Sono comunque vani e fragili sentimenti,” disse Olanda. “Svaniscono esattamente come le loro e le nostre vite, senza lasciare impronte.”

Il fumo si elevò, sciogliendosi contro il vetro come quelle parole.

Belgio socchiuse le labbra.

“Il tatto non te l’hanno mai insegnato, eh?”

Si guardò la sua stessa bocca rimasta muta. Lo sguardo sorpreso, quasi avesse visto quella voce aspra e tagliente uscire direttamente dal suo petto.

Olanda e Belgio si voltarono seguendo la direzione della voce di Prussia. L’indice corse un’altra volta dalla testolina alla schiena di Gilbird, carezzandogli le piume. Il canarino chiuse gli occhietti e sollevò il becco, accoccolandosi sul ginocchio. Prussia inclinò il collo di lato e scoccò un’occhiata ai due.

“Non siete esattamente in una bella posizione, l’ultima cosa di cui avete bisogno è che vi spargiate a vicenda sale sulle ferite.”

Le labbra di Olanda si storsero lievemente. Un ricciolo di fumo gli toccò la fronte, scurendogli il viso. “Se sono io ad avere la mano sporca di sale, sei tu che stringi il coltello insanguinato.”

Belgio rabbrividì. Lo sguardo apprensivo passò da uno all’altro. Quando incrociò quello di Olanda, assunse una leggera piega di rimprovero.

Prussia fece roteare gli occhi. “Questo è un altro discorso.” Lasciò cadere le gambe dal cornicione di granito e saltò in piedi. Gilbird svolazzò giù dal ginocchio, lasciando piovere a terra una piuma color limone. Prussia raddrizzò la schiena, mettendosi controluce, e cinse le mani sui fianchi. “Ma vorrei ricordarti che anche ora ti trovi esattamente davanti alla punta della lama.” Gilbird planò sulla spalla. Sollevò un’ala e passò il becco tra le penne. Prussia aggrottò le sopracciglia, la voce tagliava come il filo di un rasoio. “E io non sono in vena di questo genere di giochetti, quindi non costringermi a rigirare il braccio ancora una volta.”

Un fitto ramo di elettricità si tese tra gli sguardi dei due. La cenere accesa sulla punta della sigaretta brillava come le braci che avevano inghiottito Rotterdam. Il fumo saliva, scuriva l’aria della stanza, fece calare la notte schiarita solo dal riflesso delle fiamme contro la coltre cinerea.

Olanda si voltò. Sciarpa e fumo lo avvolsero in un abbraccio che lo guidò attirandolo verso l’uscita.

Il braccio di Belgio gli sfiorò la spalla. “Fra...” Scivolò via dalla presa. Olanda si chiuse la porta alle spalle portandosi dietro la scia e l’aroma del tabacco.

Belgio si voltò. Una sincera espressione interrogativa a piegarle le sopracciglia. “Perché mi hai difesa?”

Prussia sollevò le pupille al soffitto. Affondò le dita tra i capelli dietro la nuca e si sfregò il capo. “Non farti strane idee.”

“Volevo solo...” Belgio fece un passo in avanti. Strinse le mani sul grembo, di nuovo a stropicciare la stoffa. “Ecco,” le unghie insistettero sull’orlo dell’abito, “ringraziarti.” Gli sorrise.

Prussia fece roteare gli occhi. Le passò di fianco senza scollare lo sguardo dal soffitto. “Hai già ringraziato fin troppa gente, oggi.” Fece scivolare la mano dalla nuca e la strinse sull’altro braccio dietro la schiena. “Risparmiati le parole per quando dovrai spiegare al tuo popolo il motivo dell’armistizio.”

Belgio soppresse il nodo al cuore e tenne lo sguardo alto verso di lui. “Non hai risposto alla domanda.”

Prussia fermò il passo. Gilbird sollevò il musetto, saltellò di lato stringendo le zampette sull’estremità della spalla. Lo guardò come stesse aspettando anche lui la risposta.

“Dovresti dar retta a lui, comunque,” disse Prussia. Il tono si abbassò, sempre aspro e pungente. “Non affezionarti troppo agli umani.” Sollevò un indice e si voltò a guardarla. Occhi accesi e vivi. Una luce scarlatta che lasciò Belgio senza fiato. “Il problema però non è il fatto che si portano dietro sentimenti evanescenti e inutili.” Sulle sue labbra si estese un sottile ghigno. Prussia socchiuse lievemente le palpebre, sopprimendo l’abbaglio delle iridi. “È proprio perché alcuni ci lasciano addosso delle cicatrici indelebili, che devi starne alla larga.”

Belgio prese un sospiro. “A...” Restò ferma su quello sguardo così fermo e consapevole. Quella luce spenta e viva allo stesso tempo che splendeva sotto la luce del sole riflessa dal vetro. “Anche tu hai...” mormorò. La voce si perse come un soffio.

Prussia si voltò con una piroetta. La mano sollevata sventolò come a rimestare l’aria. “Primo e ultimo consiglio.” Ultima rapida occhiata scoccata da sopra la spalla. “Nemici come prima, intesi?” E anche lui la lasciò sola.

 

♦♦♦

 

“Romano!”

Italia gettò le braccia attorno al collo di Romano, lo strinse facendolo ondeggiare all’indietro. Le mani annodate dietro le spalle si chiusero, serrarono la presa sulla stoffa della maglia e vibrarono sotto i primi singhiozzi. Forti fremiti passarono dal corpo tremante di Italia a quello rigido e immobile di Romano. Italia nascose il viso nel suo incavo del collo e gli bagnò la pelle di lacrime. “Sei vivo! Sei vivo, grazie al cielo.” Uno spasmo di singhiozzo risucchiò il respiro rotto dal pianto. Le mani di Italia premettero contro il suo corpo, lo trattennero con un gesto avido. “Non sai quanta paura ho avuto. Credevo...” Singhiozzò. Le lacrime iniziarono a inondargli le labbra premute contro il collo del fratello. Salì sulle punte dei piedi. La maglia era già calda e zuppa di pianto. “Credevo...” La voce di Italia stridette. Tirò su col naso senza scollare il viso dal collo dell’altro. Ingollò una boccata di saliva, e il tono divenne più basso e profondo. “Quando mi hanno chiamato e mi hanno detto che ti avevano rapito... ho...” Le mani si artigliarono al corpo di Romano, lo fecero tremare assieme al suo. Piccole e tristi vibrazioni che pulsavano da un petto all’altro, risuonando in quel respiro soffocato. Le mani di Italia salirono dietro la nuca, si immersero tra i capelli e premettero la fredda guancia di Romano contro la sua. “Ho creduto che...” Italia si morse un labbro. Non terminò la frase, le parole intimorite finirono risucchiate in fondo alla gola.

Le dita scivolarono lentamente giù dal capo, le braccia scesero e si appoggiarono sulle spalle di Romano. Le guance si scollarono. Italia sollevò lo sguardo in cerca del viso nascosto del fratello. Il capo voltato di lato, i capelli davanti agli occhi, la guancia umida e lucida delle lacrime di Italia, e la bocca piatta. L’espressione immobile.

La luce acquosa negli occhi di Italia traballò. Italia emise un altro singhiozzo che fece sobbalzare il petto, e le labbra tremarono. Scosse il capo scrollando via i pensieri che gli annebbiavano la mente.

“Tu...” Stese i palmi, le mani si chiusero sulle spalle di Romano in una presa più lenta, ma che si chiudeva fino alle ossa. Italia tornò sulle punte dei piedi, avvicinando lo sguardo all’ombra stesa sul viso del fratello. “Tu stai bene?” La voce quasi implorante.

Romano volse il capo di lato. Una ciocca di capelli scivolò dalla fronte e rimase incollata alla guancia inumidita del pianto di Italia. Gli occhi di Romano stettero nel buio, le labbra mute, il viso rigido senza una piega. Italia era abbracciato a un blocco di pietra.

Una prima sottilissima ruga traballò sul volto di Romano, un angolo della bocca scattò verso il basso, tornò piatto, e lui arricciò la punta del naso.

“Sì,” rispose.

Italia chinò lo sguardo. Abbassò la fronte, posandola sul suo sterno, e il mento di Romano gli premette sopra il capo. Una mano di Italia scese dalla spalla, percorse il petto e si fermò dove il cuore pulsava.

“Non...” Altro singhiozzo. Italia strinse le dita raccogliendo il battito del cuore. “Non ti hanno fatto del male?”

Romano sbuffò. Una scossa di tensione gli attraversò il corpo. “Ti ho detto che sto bene.” Fece un passo all’indietro, si immerse nella luce della vetrata che attraversava la stanza, e allargò le braccia. Il viso imbronciato si stropicciò sotto l’ombra della frangia. “Non mi vedi?” Batté due volte i palmi sul petto e inasprì la voce. Le sopracciglia aggrottate oscurarono la luce degli occhi. “Sto bene,” abbaiò.

“Ma cosa...” Italia strinse un pugno e lo strofinò contro una palpebra come un bambino. Asciugò le lacrime dal viso passando il fianco della mano sulle guance e sotto il naso, e sollevò gli occhi. Erano lucidi, gonfi e arrossati. “Cos’è successo?”

Il viso di Romano tornò un blocco di granito. Un velo di panico coprì la maschera di rabbia.

Italia fece un passo avanti, immergendosi anche lui sotto la luce polverosa. “Chi ti ha rapito?” squittì. “Come hanno fatto a...”

“Brutto errore da parte nostra, signore.”

Italia volse lo sguardo a uno dei due tedeschi fermi nell’angolo della sala. L’ufficiale con la mano sollevata camminò verso di lui, il secco rumore dei tacchi degli stivali sul pavimento di marmo fece vibrare l’aria, i capelli biondi immersi nella luce della finestra assunsero sfumature platino, una rapida scintilla illuminò la croce di ferro puntata sotto il collo. L’uomo si fermò a gambe unite davanti ai due fratelli, giunse le mani dietro la schiena ed esibì il petto rigonfio. Il mento alto, gli occhi bassi pungenti come aghi e pesanti come macigni.

Italia non si rese nemmeno conto di aver fatto un timido passo indietro. La mano ancora tremante sfiorò il polso immobile di Romano, pollice e indice si strinsero sulla manica della maglia.

L’ufficiale tedesco prese un piccolo respiro. “Evidentemente la sicurezza che riserviamo nei vostri confronti non è sufficiente per i tempi che corrono.” Le sopracciglia piegarono la fronte in un’espressione di scuse. “Adesso che i rapporti politici tra nazioni si stanno facendo più complessi, credo che sarà necessaria una maggiore protezione.” L’uomo sbatté le palpebre. Gli occhi ruotarono lentamente da Italia a Romano. Una strana e fredda luce gli attraversò le pupille, una lieve piega gli storse le labbra in un piccolo sorriso. “Per evitare che capitino nuovamente incidenti del genere, promettiamo che la sorveglianza da parte nostra sarà ferrea.” Chinò la fronte in segno di riverenza. Gli occhi fermi su Romano, il tono di voce più basso e profondo. “D’ora in avanti.”

Italia ebbe un brivido. Deglutì un boccone amaro, le dita strinsero sulla manica del fratello attirandolo al suo fianco.

Romano girò il viso guardando alle sue spalle. Emise un lungo e profondo sospiro – Italia sentì il suo corpo vibrare come una corda di violino – e tornò di marmo. Lo sguardo distante.

Le dita di Italia smisero di tremare. La presa si sciolse, gli lasciò andare la manica e Romano ritirò il braccio incollandolo al fianco. Italia intrecciò le mani sul grembo, giochicchiò con le unghie e fece un piccolo passo in avanti, entrando nell’ombra dell’ufficiale tedesco. Un altro brivido gli solleticò la spina dorsale. Italia lo scrollò via.

“Ho capito.” Strinse le mani, trattenne il respiro, e piegò le spalle in avanti. “Grazie per averlo riportato a casa sano e salvo.”

L’ufficiale annuì con un gesto del capo più profondo. “Nostro dovere, signore.” I suoi occhi ruotarono alle sue spalle, verso l’ombra dell’angolo, e incontrarono lo sguardo del collega. L’altro ufficiale sollevò le sopracciglia, inclinò il capo indicando la porta rimasta socchiusa. L’uomo gli annuì. Scivolò un passo all’indietro togliendosi dalla luce, e si diresse all’uscita. “Se volete scusarci, la aspettiamo di fuori.”

Italia strofinò una nocca tra gli spazi degli occhi, raschiò via le ultime lacrime che pizzicavano le palpebre, e seguì le figure dei due che si allontanavano.

“Uhm,” annuì. Lanciò un rapido sguardo a Romano, e gli occhi tornarono sui due. Le ombre degli ufficiali che si allungavano fuori dalla porta soffiarono via un piccolo peso dal cuore. “Sì.”

L’ufficiale rivolse l’ultimo cenno di riverenza. Strinse il pugno sulla maniglia e accompagnò la porta facendo scattare la chiusura con uno schiocco.

L’aria nella stanza era ferma. Sottili vortici mescolavano i grani di polvere dentro il raggio di luce, creavano piccoli mulinelli dorati che splendevano come le cornici delle finestre. Italia sospirò. Il pesante eco del suo respiro fece vibrare la nube di polvere, il denso silenzio lo tenne stretto in un abbraccio che gli mozzava il fiato, premendo sul petto.

Italia trattenne il respiro e si voltò di scatto. Due piccole lacrime sgorgarono dalle palpebre e si infransero sulle guance, gli occhi umidi e tremanti cercarono Romano ancora voltato di fianco.

“Fratellone.”

Romano non si mosse. Pugni chiusi sui fianchi, fronte bassa, spalle ingobbite.

Italia fece un passo avanti. Il suono della suola che scricchiolava calpestando il pavimento spaccò il silenzio.

“Cos’è successo davvero?” Altro passo. Italia tese le mani verso un braccio di Romano e gli toccò il pugno. Le dita strofinarono il dorso contratto, passarono sulle ossa in tensione e sulle vene che pulsavano in rilievo. La mano di Italia gli spinse ad aprire il palmo, anche l’altro braccio scese e raccolse il pugno di Romano, sciogliendolo dalla presa. La pelle di Romano bruciava. Italia fece correre le dita infreddolite dalla paura lungo le sue mani, i pollici carezzarono gli spazi tra le nocche con movimenti circolari. “Ti prego...” La sua voce riprese a tremare. Italia sollevò le mani di entrambi, avvicinandole alle labbra. Le due lacrime piovute di getto sulle guance caddero sulle dita di Romano, corsero lungo la pelle segnando due righe fino ai polsi. “Se c’è qualcosa che vuoi dirmi, di me puoi fidarti.”

Romano sospirò. Un respiro lento e calmo. La tensione sui muscoli si sciolse, le mani avvolte dalle carezze di Italia si schiusero e scivolarono lentamente via dalla presa.

“No.” Romano si chiuse nelle spalle. Sollevò la fronte e la luce della finestra gli colorò le iridi. Le palpebre stanche e sciupate, gonfie di nero, erano infossate nelle guance. “Non mi va.”

Gli occhi di Italia ripresero ad annacquarsi. “Romano, ti prego. A me non...” Italia tornò a stringergli un braccio, sollevandolo verso il suo petto. I palmi giunti che racchiudevano la sua mano sembravano fermi in preghiera. “Non hanno detto molto di quello che è successo, io credo che lo abbiano fatto per non spaventarmi.” Abbassò lo sguardo. Il labbro inferiore si scosse in un veloce tremito. “Mi hanno solo detto che un soldato ti ha rapito e che voleva...” La voce di Italia si ruppe in un forte singhiozzo. Tremò di nuovo, premette una mano sulle labbra nascondendo il rossore delle guance che ritornarono paonazze. “Se ti fosse successo qualcosa dopo che...”

Romano ruotò le pupille. Un primo accenno di cedimento gli fece storcere un sopracciglio.

Gli occhi di Italia si sciolsero in un pianto che annaffiò la mano ferma sulla bocca. “Dopo che avevamo litigato, io...” Strizzò le palpebre lasciando sgorgare le lacrime che filtrarono tra gli spazi delle dita, bagnandogli le labbra. Il respiro tremante e singhiozzante gli scuoteva la schiena in una pioggia di brividi.

Romano fece roteare gli occhi al soffitto. Tolse la mano dalla sua stretta e sollevò il palmo verso il viso di Italia. “Dai.” Fece correre le dita tra i capelli e richiamò vicino il capo, facendogli poggiare la fronte sulla sua spalla. Italia si aggrappò a Romano, seppellì il viso contro il suo petto, facendosi piccolo sotto la piega del braccio che gli cingeva la schiena. Romano sollevò lo sguardo e gli sfregò le dita dietro la nuca. “Ora piantala.”

Italia emise l’ultimo ovattato piagnucolio. Si sciolse dalla stretta e passò tutto il braccio sul viso, asciugandosi gli occhi e le guance. Un ultimo singhiozzo tremolante si portò via la voce scossa.

“Dov’era il fratellone Spagna?”

Romano raggelò.

Di nuovo il silenzio, interrotto solo dallo sfregare della stoffa sulla faccia di Italia.

Romano spalancò le palpebre. Le pupille vuote assorbirono la luce della finestra, ma gli occhi restarono spenti. Il viso sbiancò, le labbra socchiuse vibrarono e tornarono immobili. Il corpo rigido come una statua.

Italia piegò il capo, lo sguardo s’intristì. “Eri con lui, no? Prima...” Si guardò i piedi. La punta di una scarpa andò a sfregarsi sulla caviglia. “Prima che ti prendessero eri andato da lui,” disse con un mormorio.

Lo sguardo di Romano tornò basso. Chinò il capo con un gesto secco, facendosi ricadere la frangia sugli occhi. Contrasse le labbra, gli angoli si piegarono verso il basso, si storsero facendo stridere i denti, e risucchiarono un sottile filo d’aria.

Romano rilassò le spalle. Il respiro quasi impercettibile. “Dimenticatelo.”

Italia sbatté le palpebre. Un’aria confusa gli annebbiò il viso. “Eh?”

I pugni tornarono a serrarsi. Romano tese le braccia sui fianchi, gettò il capo di lato e si voltò. “Dimenticati di quello che è successo.” Un sottile tremolio attraversò il tono secco e duro.

Il passo di Italia che si avvicinava emise un flebile suono felpato.

“Romano...”

Altro passo. Romano tremò come scosso da un vento gelido.

“Mi stai...” La voce di Italia si fermò alle sue spalle. Cedette di nuovo in quel tono triste e spezzato. “Nascondendo qualcosa?”

Romano serrò la mandibola. Le vene che si arrampicavano sui pugni pulsarono. “Ti ho detto di lasciar perdere.” Sollevò lo sguardo di profilo, trafisse Italia con la luce di un solo occhio. “Hai sentito anche quelli là, no? Non succederà più una cosa del genere, fine della storia.”

“Oh, è vero.” Italia sgranò gli occhi in uno sguardo sorpreso. Si voltò verso la porta. “Ci sono ancora i soldati fuori.”

Romano fece schioccare la lingua. Annodò le braccia al petto e tornò a dargli le spalle. Una mano di Italia lo trattenne nella piega del gomito.

“Vieni,” lo tirò dietro di sé, “non li abbiamo ancora ringraziati come si deve per averti salvato.”

“Vacci tu.” Romano si strattonò via dalla presa e rimase voltato. Di nuovo gobbo con le braccia conserte al petto. “Per oggi ne ho abbastanza,” sbottò con tono più basso.

Italia abbassò gli occhi. Un’espressione di delusione gli segnò il viso. “Uh, va... va bene.” Camminò verso la porta e impugnò la maniglia. La presa esitò, prima di voltarla. Italia lanciò un’ultima speranzosa occhiata alle sue spalle. “Se c’è qualcosa di cui vorresti pa –”

“Va’ via, Veneziano!”

Il sobbalzo fece scattare la serratura. Italia si chiuse nelle spalle e sgattaiolò via. La serratura della porta scattò in uno schiocco metallico.

Silenzio. Solo il soffice scalpitio dei passi di Italia che si allontanavano.

Romano trascinò i piedi verso il muro. Si fermò nell’ombra, sfiorando la parete con la fronte. Quando respirava, sentiva il muro inumidirsi e scaldarsi del suo stesso fiato che tornava indietro e intiepidiva le guance. Romano strinse i denti, strizzò le palpebre fino a sentire il dolore premergli sugli occhi affogati nel buio. Aprì una mano sul muro, chiuse il pugno graffiando l’intonaco, e diede una testata alla parete.

 

.

 

La mano di Italia spinse la porticina socchiusa, lasciò uscire lo spiraglio di luce della stanza e sbirciò nella fessura. La voce dell’ufficiale tedesco biondo arrivò prima della sua immagine eretta davanti a quella del collega.

“... che c’era qualcosa che non quadrava.”

Un sospiro gli mozzò il fiato. Italia si ritirò dalla luce con uno scatto, lasciando la porta socchiusa. Scivolò di lato, e schiacciò la schiena contro la parete. L’orecchio teso verso lo spazio aperto della stanza, la guancia premuta sul muro e le mani spalancate sulla parete.

I passi dell’uomo si fermarono.

Italia socchiuse le palpebre e assottigliò la vista dentro lo spiraglio.

Il biondo si era fermato di fianco all’altro ufficiale appoggiato con le spalle al muro. “Una sceneggiata del genere, andiamo.” Scrollò le spalle, sollevò due dita e le picchiettò sopra la tempia. Lo sguardo tagliente volò sull’altro ufficiale come se stessero accusando lui. “Quale idiota si sarebbe mai buttato da solo in mezzo a centinaia di panzer corazzati riempiti di un esercito armato fino ai denti?”

“Be’, ma...” L’altro uomo fece sventolare la mano. Lo sguardo a metà tra l’annoiato e il distratto. “Considerando chi era l’ostaggio...”

“Balle!” La voce arrivò come uno sparo. “Non hai saputo della fine del rapitore?”

L’altro uomo inarcò un sopracciglio.

Italia sentì un fremito al cuore e trascinò il piede più vicino alla porta, sfiorando il fascio di luce che usciva dalla stanza strisciando sul pavimento. L’occhio teso e l’orecchio attento. Sentì il suo stesso fiato sibilare e smise di respirare. Il rimbombo del cuore che batteva martellò nelle orecchie.

“Pensavo lo avessero imprigionato,” disse l’altro. “Ormai il processo sarà...”

“Ma quale processo.” Il soldato biondo riprese a camminare avanti e indietro per la stanza. Incrociò le braccia sul petto rigonfio, un sorriso storto gli infossò le labbra nelle guance. “Vuoi sapere chi era davvero?”

Italia strinse la mano sul muro, le unghie stridettero. Si tenne incollato alla parete come per sorreggerla e trattenne il fiato. Non sbatté nemmeno le palpebre.

L’altro ufficiale aggrottò anche l’altro sopracciglio. “Eh?” Un lampo di confusione balenò tra le palpebre.

Il soldato biondo lanciò un’occhiata a destra, a sinistra, e lo sguardo volò alle sue spalle.

Italia si ritirò con uno scatto. Schiacciò una mano sulla bocca per trattenere il piccolo gemito e restò pietrificato. Il respiro soffiava pesante, ribollendo tra le dita, il cuore galoppava martellando contro le costole. Scampata per un pelo.

“Che non si sappia all’infuori di noi due però, intesi?” sussurrò la voce del soldato.

“Va... va bene.”

Silenzio.

Italia prese un respiro di coraggio, il battito del cuore rallentò e il sangue riprese a fluire. Voltò il capo senza spostare i talloni dallo stipite del muro. Tese l’occhio più vicino alla porta e vide l’immagine dei due soldati tagliata in due. Quello biondo era chino verso l’altro, la mano aperta di fianco alla guancia. Gli stava sussurrando all’orecchio.

L’ufficiale spalancò le palpebre. Italia riuscì a vedere ogni singola venuzza rossa nel bianco dell’occhio. “No!”

“Sì,” annuì il biondo.

“Ma come...” L’altro scosse la testa. Abbassò gli occhi e si sfregò la nuca, continuando a scuotere il capo. “No, impossibile.” Lanciò un’occhiata fulminea al compagno. Il viso ancora rosso di incredulità. “Da chi diavolo l’hai saputo?”

Il soldato sogghignò. Giunse le mani dietro la schiena, si guardò intorno e si mise sulle punte dei piedi. “Ho i miei giri.” Tornò con i piedi a terra. “Fonte sicura, garantita al cento percento.”

“Ma se...” Gli occhi dell’altro vacillarono, fissarono il pavimento. “Se fosse davvero così, allora...”

“Esatto.” L’ufficiale biondo sollevò la punta dell’indice. “Ci sarebbero un bel po’ di dettagli da discutere, non credi?”

Italia socchiuse una palpebra, stropicciò lo sguardo in una smorfia confusa. Non ci stava capendo nulla.

“E sai cos’altro?” continuò. Il soldato si avvicinò di un passo all’altro. L’indice sempre alto. “Hai presente che gli avevano fatto gettare la pistola, no?”

L’altro scrollò le spalle e tornò ad appoggiarsi con la schiena al muro. “Pensavo fosse sotto sequestro.”

“Infatti. C’è solo un problema.” L’uomo si guardò di nuovo alle spalle – Italia rimase fermo nel buio – abbassò la voce e si mise vicino al compagno. “Quel revolver non era in dotazione all’esercito francese, e per di più il caricatore era vuoto. Neanche l’ombra di un proiettile.”

Italia sollevò un sopracciglio. Sbatté le palpebre un paio di volte, continuando a non capire. Fece un minuscolo passetto in avanti senza toccare la luce che passava dalla porta e avvicinò l’orecchio allo spiraglio.

“Fidati,” continuò il biondo. “C’è molta puzza di marcio dietro a questa faccenda.”

“Sì, ma...” L’altro balbettò. Si carezzò il mento impastando le parole tra le labbra. “Se l’hanno lasciata correre, significa che –”

“Un corno.” Di nuovo quella parola sputata fece sobbalzare Italia. Il biondo aggravò il tono irrigidendo l’indice puntato al collega. “Il fatto è questo: se si fosse indagato meglio, allora le relazioni tra i nostri due paesi sarebbero andate in malora, ecco cosa.”

Una morsa al cuore gli fece mancare il fiato. Italia tornò a schiacciarsi al muro, con la mano premuta alle labbra per trattenere i gridolini. Un soffio di paura gli morse il collo. Sottili artigli ghiacciati scesero lungo la spina dorsale, scalfirono ogni singola vertebra, grattando sottili schegge d’osso che pungevano la carne. Italia rabbrividì di freddo e di terrore.

“Lascia stare i francesi e gli spagnoli,” continuò la voce dalla stanza.

Italia ruotò lentamente gli occhi. Riuscì a vedere solo il gesto di capo del biondo che indicava la porta.

“Nessuno si è davvero chiesto cosa ci facesse lui di là?”

Italia sgranò le palpebre. Romano?

Un ronzio gli fece girare la testa, fischiò nelle orecchie, i pensieri annegarono nella confusione.

Italia restò incollato alla parete, guardandosi i piedi che reggevano le ginocchia tremolanti.

“Dammi retta, di questi italiani non ci si può fidare.” La voce del biondo era più ottusa e lontana, ma le parole pugnalavano il cuore di Italia con la stessa intensità. “Pensavo che... lui avesse imparato qualcosa dalla prima volta, ma a quanto pare deve avere un debole per questo dannato paese.”

La vista si appannò.

Lacrime bollenti rotolarono sulle guance prima che Italia si rendesse conto del bruciore alle palpebre. Un pianto lento e silenzioso, che si portava dietro il dolore che premeva sul petto.

“Italiani...” Il gorgoglio di voce tornò a suonare come uno sputo. “Se ne stanno spaparanzati mentre noi ci sporchiamo le mani e mandiamo i nostri uomini a combattere, e in più ne vengono fuori con questi giochetti.”

Italia si morse un labbro. Il sapore tiepido e salmastro delle lacrime che continuavano a grondare gli entrò in bocca.

“Ci faranno affondare di nuovo, fidati.”

Italia scosse il capo. Strinse la mano sopra il cuore come sperando di strozzare il dolore.

No, no, non è vero, non è vero. Ti prego, non –

“Se non ci daremo una svegliata...” Il tono del biondo assunse una piega di amarezza. “Questi saranno pronti a piantarci il coltello nella spalla alla prima occasione buona.”

Italia sospirò. Lasciò uscire tutto il dolore in quell’unico profondo respiro. La mano che stringeva sul cuore aspettò il battito pulsare sul palmo, le dita tornarono a stringere, i denti affondarono nella carne del labbro. Italia strizzò gli occhi, fermando le lacrime a forza.

 

La sensazione della pioggia gelata che batteva sul viso, pungeva sulle guance e grondava lungo il mento, serpeggiava sulla pelle del collo fino a entrare nella divisa, incollandola al petto. Le mani umide e gelate ciondolanti sui fianchi, il fucile immerso nel livello del fango che gli arrivava alle caviglie. Italia sollevava la fronte, sbatteva le palpebre sotto il peso delle gocce di pioggia incastrate davanti agli occhi, e guardava attraverso la grigia nebbiolina che aleggiava sulla superficie del fiume. Due intensi occhi azzurri lo fissarono dall’altro lato della sponda.

“Io lotto per l’integrità del mio onore. Se tu non comprendi questa motivazione è perché a te manca.”

 

La mano di Italia corse lungo il petto. Sorvolò il battito del cuore, e si arrampicò sulla spalla. Le dita scesero, premettero sulla scapola. Il dolore arrivò come una pugnalata che si rigirava nell’osso. Italia strinse i denti, trattenne il lamento.  Gli sembrò di sentire il lieve movimento del proiettile ancora conficcato nella carne.

 

L’acqua che scrosciava in mezzo alle gambe sollevava schizzi gelidi che si confondevano con le raffiche della pioggia portata dal vento.

Italia muoveva due ingessati passi in avanti. Gli scarponi si trascinavano nel ghiaieto e nel fango, come bloccati da un ammasso di colla. Il sangue che scendeva caldo dal viso, dalle braccia, tingeva di rosso l’uniforme già sporca di terra, zuppa della fredda acqua del fiume.    

La voce dall'altra sponda proseguì. “Se sei troppo debole per realizzarlo e accettarne le conseguenze, questa è la fine che meriti.”

Calde lacrime si sciolsero sulle guance di ghiaccio. Il pianto scese lento assieme al sangue e alla pioggia.

 

Italia sollevò gli occhi, fece scivolare la nuca contro il muro. Restò fermo, a occhi spalancati, tenendosi stretta la spalla e fissando il soffitto appannato. Un grumo di lacrime rimase sospeso vacillando tra le palpebre.

 

La bocca nera del fucile era aperta verso di lui. La pioggia grondava lungo la circonferenza della canna e stillava piccole goccioline metalliche che cadevano nell’acqua del fiume. Il fucile vibrò. Le braccia che sorreggevano l’arma tremarono per un istante. Tornarono salde, l’apertura del fucile puntò sul suo petto, e il foro nero si allargò. La voce tuonò più potente dello scroscio del fiume.   

“E allora combatti. Dimostra a te stesso che puoi rimediare.”

 

Italia strinse i pugni. Smise di piangere e prese la sua decisione.

 

.

 

Diari di Italia

 

Il giorno in cui Romano è ritornato a casa è stato il primo momento in cui ho pianto tantissimo. Poi sono successe anche... tutte le altre cose, e in quelle occasioni ho versato ancora più lacrime, però in quel pomeriggio ho subito capito che anche per noi sarebbe iniziato un lungo periodo doloroso. Quando poi ci ripensai e realizzai che era tutto nato dalla decisione che presi quel giorno, stetti ancora più male.

Avevo cominciato a preoccuparmi per Romano già quando era iniziato l’attacco al fratellone Francia. Ero molto in pensiero anche per Germania, ma lui è sempre stato il più forte di tutti ai miei occhi e sapevo che non si sarebbe mai lasciato sconfiggere. Romano stava lentamente iniziando ad allontanarsi da me, e questo mi spaventava molto. Il giorno prima del suo ritorno a casa, i soldati tedeschi mi avevano chiamato raccontandomi quello che era successo. Anche se mi avevano tranquillizzato, dicendomi che Romano stava bene e che sarebbe tornato presto a casa, mi ero comunque spaventato moltissimo. Ma credo sia normale, voglio dire, lui è il mio fratellone.

Quando Romano tornò si comportava in modo molto strano. Non voleva parlarmi di quello che era successo, se ne stava da solo, senza dire niente. Io però continuavo a non capire come fosse potuta succedere una cosa tanto brutta e spaventosa.

Ho pensato che Romano non ne volesse parlare perché era ancora sconvolto e distrutto per la storia del rapimento, e così provai ad andare a parlarne con i soldati che lo avevano riportato a casa. Allora iniziai ad avere paura per altre ragioni.

Sentii i due soldati discutere di quello che era successo, che c’era qualcosa che non andava e che non riuscivano a capire come e perché fosse potuto succedere quell’incidente nella foresta. Nemmeno io capivo. Poi dissero quelle cose su di noi, e allora ritornai ad avere paura.

Non volevo essere un peso per Germania, e così all’inizio avevo seguito il suo consiglio e non ero entrato in guerra, anche perché non ero preparato ad affrontare dei conflitti diretti, il mio esercito e i miei armamenti non erano pronti e sarebbe stato troppo rischioso. Mi accorsi però che il pensiero di essere ritenuto inutile da lui era ancora più doloroso e spaventoso dell’idea di affrontare delle battaglie. Mi trovavo davanti a una scelta: o ubbidire a Germania e rimanere al sicuro fuori dalla guerra, rischiando però di perdere fiducia e forse essere un giorno escluso dall’alleanza, oppure decidere da solo di prendere parte al conflitto e dimostrare che anche io valevo qualcosa. Era una scelta difficile. Avevo paura di confessare a Germania che sarei voluto entrare in guerra, perché sapevo che mi avrebbe detto subito di no e che si sarebbe arrabbiato. Ma il pensiero di perderlo proprio per non aver fatto niente mi spaventava ancora di più. Avevo paura. Avevo moltissima paura. Ed è stata proprio la paura ad accecarmi, spingendomi a prendere quella decisione.

Non ero forte, non ero preparato, non ero minimamente consapevole di cosa stessi per affrontare, ma mi sentivo pronto a tutto pur di rendere Germania fiero di me.

A Romano dissi: “Voglio solo cercare di essere coraggioso, voglio farlo felice.” Romano si arrabbiò e mi disse: “Questo non è coraggio. Questa è solo stupidità.”

Ancora oggi non riesco a capire come distinguere le due cose.

 

.

 

N.d.A. La prossima settimana, “Il Miele sul Bicchiere” si prende una piccola pausa in occasione delle vacanze pasquali! Ne approfitterò per un rapidissimo lavoro di editing sui capitoli già postati. Ci rivediamo tra due settimane per la ripresa della pubblicazione!

Buona Pasqua a tutti voi! ^_^

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_