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Autore: _Frame_    11/04/2015    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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31. Dunkerque e Caporetto

 

 

30 maggio 1940, Dunkerque

 

Una venatura rossa attraversò il frammento di ferro carbonizzato, lo spacco splendette di una luce bianca e si divise in due. Lo squarcio illuminò il fianco della carcassa, raggiunse la punta liquefatta della mitraglia annerita, e spaccò in due l’arma abbrustolita. Uno scoppio la ruppe, e la mitraglia si sbriciolò come un ceppo carbonizzato. I frammenti si squagliarono sulla montagnetta fumante che anneriva la spiaggia, la cenere sbuffò soffici nuvolette nere che sporcarono la sabbia inumidita dall’acqua marina.

Inghilterra infilò la punta del piede sotto una dunetta di sabbia umida, e calciò lo schizzo dentro il mucchio spento dell’artiglieria data alle fiamme. Al contatto della sabbia bagnata, una carcassa accartocciata sfrigolò, e la luce che attraversava la sua sagoma annerita si spense. Un ultimo sbuffo di fumo grigio segnò la morte dell’ammasso di armi.

“E con questi dovrebbero essere gli ultimi pezzi.” Inghilterra tuffò le mani nelle tasche. Diede le spalle agli accumuli carbonizzati, alle gonfie colonne di fumo che salivano al cielo, e rivolse lo sguardo al porto. “Se ti sei deciso a distruggere l’intera artiglieria, significa che ormai hai davvero perso la forza di lottare.”

La brezza marina soffiò di profilo, agitò i capelli di Francia sopra le spalle, e fece sventolare le bandiere navali attraccate al porto.

Una nave a vapore sbuffò un getto bianco dalla cima dello scafo, il fumo salì gonfiandosi in una densa nuvola che macchiava il cielo ingrigito. La prua dell’imbarcazione increspò il mare, piegandone la superficie come un lenzuolo, e prese il largo. File di soldati seduti sulla spiaggia si perdevano in lontananza, gruppi di loro erano fermi sulla banchina, guardavano il mare tenendo i palmi aperti sulle fronti, ancora con i fucili e gli zaini sottobraccio. Altri salivano sui pontili già uniti alle imbarcazioni, porgevano le mani a quelli che attendevano a terra e li issavano sulle chiatte, sui pescherecci, sui battelli a vapore. Altri si gettavano dentro le scialuppe e nelle zattere traballanti, si aggrappavano alle cime che pendevano dai natanti più grossi, e si lasciavano trascinare nel flusso.

Francia mostrava la schiena a Inghilterra, guardava le scene del porto. Scosse le spalle. “Almeno così sono sicuro che nulla cadrà in mano ai tedeschi.” Si voltò di profilo. Una bava di vento salmastro gli fece sventolare due ciocche di capelli sul viso. Piegò gli angoli delle labbra verso l’alto, mostrò gli occhi al cielo e il colore grigiastro delle nubi si riflesse nelle iridi. Francia sollevò una mano di fianco al viso, ruotò il polso con un movimento lento e delicato. Una rosa sbocciò dalla manica, i petali rossi sfiorarono la bocca. “Puoi bruciare le mie armi ma non il mio spirito combattivo.”

Inghilterra fece roteare gli occhi. Si allontanò dalle carcasse dell’artiglieria lasciando profonde impronte sulla sabbia inumidita. Il suolo, in un punto più farinoso, cedette sotto la pressione della gamba. Inghilterra piegò il ginocchio, zoppicò, e trattenne un sibilo tra i denti. Sollevò il piede ferito ancora dolorante e lo tenne alzato in punta per due passi. Riprese fiato, il viso riacquistò colorito, e camminò senza sforzo. 

Due gabbiani che volavano sopra il porto stridettero. Planarono in direzione di uno dei pescherecci e formarono un cerchio attorno alla cima dell’albero. ‘Nataline’, a caratteri corsivi blu, era scritto sulla parte di pontile sotto la prua, su vernice bianca. I soldati appena saliti sulla barca alzarono gli occhi al cielo. Uno di loro tese il braccio verso i gabbiani, strattonò la manica del compagno e indicò gli uccelli con un gesto del mento. Lui scrollò le spalle e lasciò cadere lo zaino assieme agli altri, vicino alle reti aggrovigliate sul pontile. Altre due navi salparono, lasciando il porto. Un mercantile e una chiatta si immersero nella scia bianca lasciata dal passaggio del peschereccio.

Francia e Inghilterra camminarono verso il porto. Il leggero e tiepido vento fischiava nelle orecchie, scompigliava i capelli sulla fronte. L’odore del fumo eruttato dalle montagnette di piombo e metallo incenerito si mescolò a quello acre del carburante, e a quello salmastro di alghe e sabbia bagnata.

Francia tenne la rosa con due dita in uno spazio libero dalle spine. L’espressione tornò seria, pallida come le nuvole che macchiavano il cielo. “A che punto è l’evacuazione?” Inclinò il polso e porse il fiore a Inghilterra.

Inghilterra prese la rosa con pollice e indice sullo spazio rigonfio dove nascevano i petali. “Lenta.” La lasciò cadere sulla spiaggia e tornò a tuffare le mani nelle tasche. “Per la Dynamo ho preferito fargli seguire un percorso marino più lungo ma sicuro.” Assottigliò la vista, aggrottando la fronte. La voce divenne un gorgoglio grave. “Però, se non ci velocizziamo, almeno trentamila soldati non riusciranno a imbarcarsi prima dell’arrivo di Germania e delle sue armate.”

“Non possiamo radunare più navi?” Francia schivò un ceppo di legno marcito, infilzato per metà nella sabbia. I rami fuoriuscivano dal suolo come grossi artigli in decomposizione.

Inghilterra fece schioccare la lingua tra i denti. “Ringrazia che sono riuscito a mettere insieme quelle settecento che ci sono.”

Altre tre navi lasciarono il porto. Due natanti e un secondo peschereccio che si chiamava ‘Odille’. Il mucchio di soldati ammassati sulla spiaggia sollevò un brusio di voci nascosto dal rimbombo dei motori e dal soffio dei getti a vapore.

Inghilterra diede un piccolo calcio a una duna di sabbia con il piede sano. “Ho anche fatto appello e radunato tutti quelli che possiedono semplici imbarcazioni private, oltre che a quelle delle forze militari.”

Francia arricciò il naso e gli scoccò un’occhiata storta. “Infatti non ti sto –”

L’eco della sirena zittì i rumori del porto. Il grido dall’allarme si propagò nell’aria, facendo sbandare il volo dei gabbiani.

Francia e Inghilterra alzarono gli occhi alle nuvole, si voltarono all’indietro lasciando due solchi nella sabbia, guardarono oltre i pennacchi di fumo nero che coprivano i tetti del porto. L’urlo della sirena saliva e scendeva come un’onda, un suono intenso e profondo che faceva vibrare lo stomaco.

Francia storse un angolo della bocca in una smorfia contrariata. “Ancora?”

“Staranno evacuando tutte le città sulla costa.” Inghilterra tolse il palmo da davanti la fronte.

Lo squillo della sirena continuava. Su e giù, come la risacca del mare.

Francia alzò la voce, aprì una mano di fianco alle labbra avvicinandole all’orecchio di Inghilterra. “Quanto saranno vicini?” esclamò.

Inghilterra tenne il braccio alzato davanti alla fronte per parare una raffica di vento. Socchiuse una palpebra e urlò a sua volta con la mano a coppa sull’angolo della bocca. “Stanno chiudendo la sacca in una tenaglia!”

Il grido della sirena si spense lentamente. Tornò il suono dello schiumare delle onde che si infrangevano sotto il passaggio delle imbarcazioni, il rombo dei motori, il brusio di voci dei soldati ammassati sulla spiaggia e sul porto, lo stridere dei gabbiani e il clangore delle catene che scivolavano via dagli attracchi sulla banchina. La sirena tacque.

Inghilterra si strofinò il palmo sull’orecchio e affondò la mano nella giacca. Rumore di carta stropicciata. Estrasse un foglio spiegazzato e lo stese sugli angoli.

“Negli ultimi spostamenti hanno avvistato i tedeschi a Ca-Calais,” si accigliò avvicinando il naso alle pieghe della pagina, “Os... Ost...” Corrugò un sopracciglio in una piega di stizza, sbuffò, e premette il foglio tra le mani di Francia. Lo sguardo lontano. “Maledizione ai vostri dannati nomi.”

Francia prese la pagina con entrambe le mani.

Linee tratteggiate in una forma rettangolare racchiudevano lo spazio di costa a partire da Lille e Béthune. Uno dei due lati corti si apriva sul mare. Quattro frecce nere nascevano dalla sezione inferiore del rettangolo e puntavano verso il semicerchio rosso che si chiudeva sul canale della Manica. Le insegne Dunkerque e La Panne fiorivano all’interno della semicirconferenza.

Francia spostò il polpastrello verso l’angolo a sinistra, scavalcò il lato lungo del rettangolo e scivolò lungo altre due città sulla costa.

“A Calais e a Boulogne abbiamo le altre due postazioni di imbarco.” Due croci rosse marchiavano i pallini che fiancheggiavano le insegne. Francia socchiuse le palpebre. “Sono vicini.”

“Non troppo.” Inghilterra sollevò un indice al cielo seguendo con gli occhi la traiettoria del dito che puntava le nuvole. “Ho trentadue squadriglie di Hurricanes pronte a far fuoco se i loro aerei dovessero avvicinarsi ai porti.” Affondò entrambe le mani nelle tasche. Abbassò la fronte e diede un piccolo calcio al suolo, sollevando una nuvoletta di sabbia. “Tuttavia rimane pur sempre una battaglia aerea,” strinse le spalle, “nemmeno io posso garantirne l’esito.”

Francia accartocciò il foglio e cacciò la palla di carta nella tasca. Accennò un sorrisetto. “Ti fidi più del mare?”

Inghilterra stese un ghigno d’orgoglio, posandosi la mano sul petto. Gli occhi brillarono nonostante il cielo annuvolato. “Ehi, stai pur sempre parlando con un ex pirata.” Fece un passo verso la parte più scura e umida della spiaggia. Un’onda spumò sulla costa, la schiuma verdognola rotolò sul bagnasciuga, sfiorò i piedi di Inghilterra, e si ritirò nell’acqua. Inghilterra puntò lo sguardo sul canale. Il vento scosse la frangia sulla fronte. “Il mare non mi ha mai tradito.”

La sabbia bagnata assorbì il suono dei passi di Francia. Lui diede la schiena al porto di Dunkerque, seguì il fumo che fluttuava dalle montagnette carbonizzate, le nuvole nere che nascondevano le case dei villaggi. La sirena di una nave squillò alle sue spalle, si sentì il getto del vapore che sbuffava dallo scafo. Dei soldati urlarono grida di incitamento.

“Forse io dovrei tornare indietro.”

Inghilterra si voltò di profilo, lanciandogli un’occhiata confusa. “Cosa?”

Francia sospirò. Intrecciò le dita ai capelli e sfregò la nuca. “Se i tedeschi ormai sono entrati, non dovrei starmene qui. Dovrei andare a difendere Parigi prima che raggiungano anche lei.” Sciolse l’intreccio dalle ciocche, lasciandole fluire sulle spalle. “L’ideale sarebbe aprire volontariamente le porte della città per evitare che passino con la forza.”

“E come speri di passare attraverso le sue armate?” Inghilterra si mise di fianco a lui. Inasprì il tono, lo sguardo divenne scuro come il mare. “Non sfidare di nuovo la sorte, non andare a gettarti dritto tra le braccia di Germania.”

Francia stese un candido sorriso. Si passò il dorso della mano sulla guancia arrossata e fece sventolare i capelli.

“Gettarmi tra le braccia di qualcuno è il mio mestiere.” Ruotò gli occhi su Inghilterra, scrollando le spalle. “Perché ti preoccupi?”

“Perché questa volta Germania potrebbe mirare nel posto giusto.”

Francia sentì di nuovo il rumore dello sparo che scoppiava nelle orecchie.

La mano scese, passò sul petto, il palmo sfregò tra le pieghe della giacca. Il peso di piombo tornò a premere tra le costole, gli strinse i polmoni, accorciandogli il fiato. Francia scosse il capo scrollando via le vertigini, e camminò lontano dalle onde che strisciavano sotto le suole. Il lento suono scrosciante del mare sciacquò via il tuono dello sparo.

“Va’ con loro.”

Inghilterra gli guardò la schiena che si allontanava. Sbatté due volte le palpebre. “Eh?”

Francia sventolò una mano. “Completa la Dynamo e tornatene a casa. Ormai questo affare riguarda solo me.”

Inghilterra scattò in avanti. Agguantò Francia per la spalla, voltandolo verso di lui. “A-aspetta, non vorrai...”

Francia sollevò le sopracciglia. Il sorriso sempre disteso in un’espressione serena. Gli occhi erano grigi, già vuoti e spenti. “Credi davvero che avrei acconsentito a farmi portare in salvo così? Scappando?”

Inghilterra aggrottò la fronte. Sobbalzò come se gli fossero rimaste incastrate le parole in gola, e gli lasciò andare la spalla.

Francia volse gli occhi in lontananza. I capelli fluirono da dietro l’orecchia e caddero sulla guancia, nascondendogli lo sguardo. Le labbra rimasero piegate in quel piccolo e rassegnato sorriso.

“Se devo morire, lo farò nella mia terra.” Camminò lontano dal porto e sventolò il braccio sopra la testa. “Torna a casa.”

Uno sbuffo di vapore fischiò dallo sbocco di scarico di un peschereccio. Le navi continuarono a salpare da Dunkerque.

 

♦♦♦

 

4 giugno 1940

 

Germania camminò di fianco al panzer in cima all’armata, fermo sotto il tetto di boscaglia. L’ombra scaglionata sulla vernice del carro frastagliava la croce bianca e nera tatuata sopra il rullo dentato della ruota. Germania levò lo sguardo al cielo, socchiuse una palpebra per ripararsi dalle scintille di sole che si aprivano tra gli spazi delle foglie, stendendosi nell’aria come rapide pennellate d’oro.

Pesanti passi scricchiolarono sul suolo dietro di lui. Germania abbassò lo sguardo, posandolo sul generale, rigido sull’attenti.

“I porti di Calais e di Boulogne sono sotto tiro, signore. La RAF continua a insistere, ma non potrà fare molto, anche gli inglesi sono in ritirata.”

Un brivido gelido corse lungo la schiena, soffiandogli sul collo. Germania si voltò di scatto verso la parte più fitta e buia della boscaglia, dove le spire di ghiaccio si erano ritirate dalla sua pelle. I rami neri si mossero, le foglie si scossero spargendo scintille verdi nel buio. Il vento soffiò di nuovo, le mani ghiacciate gli carezzarono le guance, facendo correre i brividi su tutto il viso. Germania tenne gli occhi sull’angolo nascosto della foresta.

La voce del generale si fece più ovattata e lontana. “Continuando l’avanzata a tenaglia riusciremo a chiudere il sacco a Dunkerque in un giorno solo.”

Un’ombra passò attraverso gli alberi. Camminò lentamente, come fluttuando, dentro la sottile nebbia nera che spumava tra le radici. Una mano si sollevò dal fianco della sagoma, ruotò il polso in un movimento lento e delicato, spostandosi i capelli biondi dal viso. Lo sguardo si accese, una scintilla azzurra splendette nel bosco.

“Signore?”

Quello sguardo lo trafisse come un dardo infuocato.

Le immagini vorticarono a spirale attorno ai suoi occhi, rimestandosi come agitate da un cucchiaino.

La bolla di fumo nero, la pistola stretta sul fianco, il suono delle esplosioni in lontananza, ovattate dalla foresta...

È la solitudine a uccidere, vero?

I due spari alle ginocchia, il rumore delle ossa che si sbriciolavano, il corpo di Francia che si piegava a terra...

Un po’ mi dispiace per te.

Il piede spingeva sulla spalla, la pistola che finiva in mezzo agli occhi, la rabbia caricata sul grilletto...

La guerra è il tuo unico pretesto...

Germania si strinse le tempie premendo le dita sulla fronte. Le vertigini lo pugnalarono al cranio, facendogli mancare il fiato.

La nebbia lo avvolse.

 

.

 

24 ottobre 1917, Caporetto


Il fucile cadde nel letto del fiume. Le onde grigie si infransero contro il corpo dell’arma, schiumarono una spuma fangosa che affondò all’interno della canna, impregnò le parti di legno che divennero nere e zuppe. La punta  metallica emerse dalla fanghiglia. Lo scrosciare del torrente scagliava manciate di sassolini trasportati dal corso dell’acqua, il ghiaieto tintinnava contro il metallo unendosi allo scrosciare delle onde e al suono della pioggerella battente sul fiume e sui sassi.

Italia fece un passo avanti. Gli stivali pregni d’acqua avanzarono con un lento e goffo movimento tra la fanghiglia, scivolarono tra due massi aguzzi che sbucavano dall’acqua e urtarono il calcio del fucile impalato nel tappeto di pantano. L’Isonzo gli arrivava ai polpacci. Onde più grosse crescevano, si gonfiavano entrandogli nell’orlo degli stivali. Rivoli d’acqua gelata scivolavano lungo le gambe, andando a inzuppare i piedi sommersi dal fiume. Italia sollevò gli occhi dalla pastella grigia in cui era immerso. Una ventata di pioggerella ghiacciata lo colpì in faccia come una soffiata di spilli. L’umida sensazione della nebbia gli rimaneva incollata alla pelle come una sottile pellicola che penetrava fin dentro le ossa, stringendole in una guaina. Italia sbatté le palpebre. Una raffica di vento abbassò la foschia, schiarì la vista appannata deviando il corso delle goccioline.

La nebbia scese dal foro nero aperto contro di lui. L’acqua che imperlava la superficie di metallo grondò in sottili rivoli che si univano sulla punta della canna, scivolavano lungo la circonferenza per unirsi in un’unica goccia sulla cima del fucile. La lacrima di pioggia precipitò nell’Isonzo.

Italia seguì il movimento della canna di fucile che si alzava, mirando al suo petto. Le dita strinsero sul grilletto. Il braccio piegato strinse il calcio, facendolo aderire al fianco. Il suono profondo di una voce familiare interruppe lo scroscio della pioggia.

“Togliti, Italia.”

Italia sbatté le palpebre. La pioggia incastrata tra le ciglia scese lungo le guance, passò sopra le ferite brucianti, mescolandosi al sangue, e corse fino al mento. Le labbra tremarono. Italia strinse gli occhi e scosse il capo. Pioggia e fango schizzarono dalle ciocche sporche, incollate al viso da sangue e terriccio.

Due occhi azzurri si strinsero dietro al mirino del fucile. Germania aggrottò la fronte, strinse la presa sull’arma, facendo scricchiolare l’indice nel grilletto, e ingrossò la voce.

“Levati di mezzo o giuro che premo il grilletto!”

Italia scosse di nuovo il capo. I grandi occhi impauriti guardarono oltre la foschia, si sollevarono dalla bocca di fuoco mirata contro di lui. Un sottile velo di gocce di pioggia gli imperlava le guance. Sottili scie di sangue scuro scendevano dall’attaccatura dei capelli, sporcavano le palpebre e correvano lungo il viso, fino alle labbra. Lo sguardo di Italia vacillò. Gli occhi lucidi tremanti nella nebbia.

“Non voglio scappare da te.”

Un’onda più violenta si infranse tra le sue caviglie. Lo scroscio dell’Isonzo e gli spruzzi ghiacciati contro il viso lo fecero sobbalzare.

Germania rimase immobile. Braccia ferme, strette sul fucile calato sul petto di Italia. La voce ferma e profonda rintronava come il rimbombo del fiume contro le rocce.

“Allora raccogli il fucile.”

Italia esitò. Mosse una gamba in avanti, il ginocchio traballò. Le braccia ciondolanti verso il basso restarono rigide. Piccoli spruzzi d’acqua bagnavano le dita che sfioravano il calcio di legno che emergeva dal letto del fiume.

La voce di Germania si ingrossò. “Se non hai il coraggio di abbandonare il campo, assumiti le tue responsabilità e affrontami.”

Un’onda travolse le gambe di Italia, arrivandogli alle ginocchia. Tentennò. Il getto gelido era come il morso di una tagliola che lacerava i polpacci, nonostante la pelle degli stivali. Italia incrociò i piedi in mezzo all’acqua e rimase in equilibrio. Tornò a sollevare gli occhi. Ignorò il nero della canna, incontrando l’azzurro degli occhi che lo fissavano da dentro il grigio della nebbia. Mosse un passo. Scollò il piede dalla distesa di fango e ghiaia, strascinò la gamba senza far emergere lo stivale dall’acqua, e si avvicinò. I piedi affondati nei vortici di acqua e briciole di sassi si muovevano come in un tappeto di pece.

Il fucile di Germania tremò. Il suo corpo si tese, come attraversato da una scossa. Una scintilla brillò sulla cima della canna.

“Non te lo ripeto più, combattimi o vattene via.” Il dito si mosse sul grilletto. Il pollice impennato sulla punta del cane si flesse, sollevando la nocca. La molla cigolò. “Altrimenti sarò io a decidere.”

I rivoli d’acqua rotolarono come lacrime lungo le guance impallidite. Italia sollevò le sopracciglia, snudò gli occhi lucidi e scuri, vacillanti nelle pieghe del viso stanco e sciupato.

“Io non...” Strascicò un altro passo nel fiume, rimestando manciate di ghiaia e fango scrosciante. Sollevò lo sguardo. Due linee di sangue scesero dalle tempie, accerchiarono le palpebre e corsero sulle guance. “Non voglio farti male.” I rivoli rossi toccarono gli angoli delle labbra.

Le due fiamme azzurre che lo osservavano da dietro il fucile si abbassarono. Lo sguardo di Germania divenne buio, scuro sotto l’ombra stesa sul viso.

La voce di Italia traballò. “Ti...” Un brivido di freddo gli fece tremare la gola. “Ti prego, non...” Trascinò un altro passo nel fiume. Il fucile di Germania non si mosse. “Non voglio più combattere.” Il petto di Italia sfiorò la cima della canna. La punta metallica lasciò piovere a terra due goccioline grigie che si tuffarono nella spuma delle onde. Italia guardò in basso. Le ciocche umide e scurite della frangia si incollarono alla fronte. Le braccia ciondolarono, gli orli delle maniche arrivarono fino alle nocche. “Perché stiamo lottando, Germania?”

Un lieve spasmo contrasse il viso di Germania. Gli occhi ripresero ad ardere tra il nero delle palpebre.

Italia scosse la testa lasciando gocciolare i capelli. L’acqua che arrivava dall’alto e dal basso aveva reso l’uniforme scura, fredda e pesante. Bruciava a contatto con la pelle. “Io non voglio combattere contro di te.”

Germania strinse i denti. Prese un avido respiro, gonfiandosi il petto, e le dita tornarono a stringere sulla sua arma.

“Io lotto per l’integrità del mio onore.”

Italia sollevò il capo. Sbatté le palpebre. Un’espressione confusa e intontita gli annebbiava lo sguardo.

Germania inarcò le sopracciglia. La presa sul fucile si fece più secca e violenta. Le dita gemettero contro il corpo dell’arma. “Se tu non comprendi questa motivazione è perché a te manca.”

L’Isonzo scrosciava, le onde si spaccavano contro le rocce, il fango si rimestava con la ghiaia, riempiva il silenzio.

Italia tornò a guardare in basso. Le labbra si mossero piano, la voce uscì lenta e soffusa. “Onore?” Ultimo, piccolo passo in avanti. La canna del fucile premette sul suo petto, si incastrò nella prima apertura della giacca, sopra lo sterno. L’indice di Germania tremò, sollevandosi dal grilletto.

Italia alzò il braccio, posò le dita coperte dalla manica dell’uniforme sul fucile, tenendolo premuto contro di sé.

“L’onore è...” Sollevò la fronte. Un rivolo di pioggia grondò dal ciuffo arricciato, bagnando la spallina della giacca. Due grosse lacrime rotonde fiorirono dagli occhi, scesero sulle guance tracciando una pallida scia nello strato di sangue e fango. Si fermarono agli angoli delle labbra piegate in piccolo e triste sorriso tremolante. “Più importante di me?”

Un lampo di luce bianca contrasse il volto di Germania, accecandogli la vista. Un peso premette sul cuore, centrò il petto come un pugno alle costole.

 

Il telegramma veniva inghiottito dalla stretta della mano, le frecce che trapassavano il confine francese si ingrossavano, allungandosi come artigli sopra la scritta ‘Fall Gelb’. La croce teutonica sventolava in lontananza, il profilo svaniva, appannato dalla luce rossa del tramonto e dal colore delle nuvole sulla valle. Le braccia della croce si ingrossavano, accorciandosi verso il centro e scintillando sugli angoli. Lasciavano spazio a una pesante croce di ferro.

 

Italia singhiozzò. La stretta della sua mano sul fucile fece arrivare la vibrazione fino a Germania.

“Quando ci eravamo promessi di proteggerci a vicenda...” Italia rialzò anche l’altro braccio, agguantando la canna del fucile con entrambe le mani. Le dita strinsero, premettero forte la cima dell’arma sulle costole. Italia sollevò gli occhi annacquati. Altre lacrime piovvero sul viso, mescolandosi a pioggia, fanghiglia e sangue. “Non era anche quella promessa una parte del tuo onore?”

Germania irrigidì. La voce uscì come uno sparo. “Tu l’hai infranta per primo.” Le braccia si strinsero, il fucile spinse sul petto di Italia.

“Non...” Italia tremò. Si tenne aggrappato alla canna, le dita scivolarono sullo spazio metallico e si arpionarono alle sporgenze sui fianchi. Il pianto esplose fuori dalle palpebre. Le guance e gli occhi divennero gonfi e rossi. “Io non volevo fare quelle cose. Non pensavo che –”

“Cosa credevi che avrebbe comportato l’alleanza?” L’esclamazione di Germania arrestò il pianto.

Germania incrociò lo sguardo smarrito di Italia, aggrottò la fronte e incupì il tono.

“La guerra non è un gioco.”

Il vento li colpì di lato con una raffica. Sollevò spruzzi d’acqua dal fiume che li frustarono sul petto e sulla faccia. Italia tremò, piegandosi contro il fucile come un gattino bagnato. Germania non mosse una piega. La voce bassa e profonda.

“Se tu sei troppo debole per realizzarlo e accettarne le conseguenze, questa è la fine che meriti.”

Italia chinò lo sguardo. Le pupille si strinsero, inghiottite dal bianco dell’occhio. Le dita tremanti che emergevano dall’orlo della manica si arrampicarono lungo il profilo del fucile, arrivarono al rivestimento di legno e si aggrapparono con le unghie. Un profondo e rapido singhiozzo gli fece sobbalzare le spalle.

“Vuoi...”

Italia strinse le mani.

Quando sollevò la fronte, le lacrime si mescolarono alla pioggia che scivolava lungo il viso. Gli occhi ristretti e vacillanti, infossati nelle palpebre scurite dalla paura. Gli angoli delle labbra si sollevarono in un sorriso triste.

“Vuoi uccidermi?” Uno spasmo di dolore lo fece sbiancare.

Germania esitò. Una piega di rabbia, confusione e spavento, sciolse il viso contratto. Chinò la fronte. L’acqua gocciolò anche dai suoi capelli scompigliati, bagnandogli il viso freddo e rigido come pietra. Un’ombra si stese davanti agli occhi.

“Togliti.”

Italia sobbalzò.

Le dita tornarono a stringersi sul cane e sul grilletto. Germania fece stridere i denti.

“È il mio ultimo avvertimento, Italia.”

Italia abbassò gli occhi, fissando il fiume color cemento che correva tra i suoi polpacci. L’ombra del suo fucile ancora conficcato nella fanghiglia arrivava a toccare la punta di una roccia che emergeva vicino alla sua gamba. Italia voltò lo sguardo. Crateri di roccia esplosa nel Carso erano rotolati fino alle pendici del fiume, grovigli arrotolati di filo spinato si arrampicavano lungo le pareti di pietra, affondavano gli spuntoni nelle rientranze e salivano verso le cime delle montagne avvolte dalla foschia della nebbia. Carcasse di cannoni sventrati ribaltati su un fianco, laceri di metallo sciolto e annerito che ancora fumava, sacchi strappati che spargevano sabbia dentro i crateri delle trincee, e mucchi di armi seppelliti dalle acque e dal fango, coronavano il paesaggio.

Italia si strinse le spalle. “Forse...” Tenne il fucile stretto tra le mani, schiacciato contro il suo petto. Socchiuse le palpebre, gli occhi tornarono ad appannarsi. “Forse è davvero colpa mia, quello che è successo.”

Germania diede una piccola spinta al fucile. “E allora combatti.” Sollevò gli occhi, incrociandoli con quelli di Italia. “Dimostra a te stesso che puoi rimediare.” Acqua e fango grondarono dalle punte della frangia scompigliata, piovvero sulle sue guance.

Le labbra di Italia tremarono. “Non voglio.” Scosse il capo, facendo gocciolare altri schizzi dai capelli. La voce divenne un sibilo strozzato. “Perché devo colpirti? Io non ti voglio uccidere.” Piegò le spalle in avanti. Una mano scese lentamente dal fucile, rimase appesa alla canna con le punte delle dita. “Io volevo...” Italia singhiozzò. Poggiò la fronte sul metallo. “Volevo solo che tu fossi fiero di me.”

Lo sguardo di Germania vibrò in uno spasmo. La morsa sul petto si strinse, chiudendo un laccio attorno al cuore. Il fiato si fermò.

Le mani di Italia spinsero il fucile più in alto, premendolo sul pettorale sinistro. La punta metallica tintinnò contro una delle targhette cucite sulla giacca.

“Se non ce l’ho fatta...” Italia tremò. La voce vacillante divenne più forte. “Allora mi va bene che sia tu a uccidermi.” Ingollò un groppo di lacrime amare. Strinse le palpebre lasciando sgorgare il pianto. “Ma non odiarmi.” Sollevò gli occhi. Due larghi pozzi lucidi che riflettevano il colore del cielo, grigio e sporco come il fiume. Le palpebre tremarono, le lacrime si ingrossarono e scesero lungo le guance. “Ti prego.” Spinse un passo in avanti, schiacciandosi contro la bocca appuntita del fucile. “Uccidimi ma non odiarmi.”

Un soffio di vento sbatté contro il viso di Germania, lo fece rabbrividire. Le ciocche bionde piegate dal peso della pioggia si abbassarono verso la fronte. Una goccia rimase in bilico davanti a un occhio, appannò la vista. La goccia d’acqua precipitò sulla guancia, dandogli una piccola scossa.

“Smettila di fare il debole!” Il fucile vibrò sotto il suo urlo.

Italia si strinse le spalle, senza mollare l’arma, e abbassò la fronte.

Germania ingrossò la voce. Zittì lo scroscio del fiume, il soffio del vento e i lontani rimbombi nelle montagne.

“Sei tu quello che si arrende.”

Italia non rispose. Restò piegato, immobile sotto l’accusa. L’Isonzo lo bagnò fino alle ginocchia.

Una piega scura irrigidì il volto di Germania, l’acqua scivolò dalla fronte, scese sulle guance e grondò fino al mento. Gli occhi neri di rabbia tremarono, velati da una vena di paura.

“Fanno bene a darti del debole, perché non sai fare altro che scappare dalle responsabilità.” Prese due profondi respiri. Il fucile si alzava e si abbassava a ritmo del suo petto. “Ucciderti?” disse d’un colpo.

Italia strizzò le palpebre e stette fermo.

“Vigliacco.”

Riaprì gli occhi.

Lo sguardo scuro di Germania lo accusava da dentro la nebbia grigia. “Anche quello sarebbe un modo per scappare da parte tua.”

Italia deglutì. Lo sguardo non cedette. “Preferisco scappare. Se devo passare la mia vita a fare queste cose...” Prese un forte respiro che gli allargò le spalle. “Preferisco scappare.”

Germania lo fulminò. Un lampo azzurro che tagliò in due la nebbia.

Stupido! Perché devi essere sempre così debole? Perché...

L’indice si irrigidì sul grilletto. Germania mosse il dito, la falange scricchiolò, il polpastrello rimase sospeso a uno sfioro dalla levetta.

Perché mi devi costringere...

L’indice non toccò il grilletto.

Il corpo di Italia si irrigidì. Italia trattenne il respiro nel petto, premendolo contro la punta del fucile. Abbassò le mani, la canna scivolò dal suo busto, toccandogli il fianco. Italia sollevò un ginocchio, spinse il passo senza togliere il piede dall’acqua, ribaltando un grumo di fango e sassi. Si avvicinò.

Germania sobbalzò. Scattò all’indietro.

“Fermati.”

Il fucile di nuovo alto. La bocca circolare spalancata contro il petto di Italia, il metallo fermo a un sospiro dal suo cuore.

Germania tornò ad alzare la voce. “Vattene, Italia!” L’indice tremò, attraversato da un formicolio, e spinse sul grilletto. “O giuro che faccio fuoco!” Il dito restò immobile.

Italia trascinò in avanti il peso, le braccia spinsero il fucile verso il basso con un movimento molle. La canna sfiorò l’acqua, un’onda s’increspò, schizzando goccioline grigie dentro il foro circolare. Germania irrigidì. Fece un passo indietro, il fiume si insaccò dietro le ginocchia, facendolo traballare. Gli stivali si incollarono al letto fangoso, Germania sollevò un piede e l’ammasso di sassi lo risucchiò verso il basso.

Lo sguardo vacillante seguiva la lenta camminata di Italia. Il corpicino scuro, bagnato di acqua, sangue e fango, si avvicinò. Italia sollevò gli occhi. Non piangevano. Erano gonfi, lucidi, due specchi cristallini nella maschera di sporco che gli imbrattava il viso sfregiato. L’acqua che colava dai capelli incollati a grumi scuri sulla fronte si mescolava al pianto, entrava nei laceri della pelle e faceva scorrere il sangue sulle guance. Un lampo di luce triste gli attraversò le pupille.

Il cuore gli cadde nello stomaco. Germania sibilò, non sentendo più arrivare i battiti. “Vattene...” Il fucile fermo sul fianco, la canna rivolta verso il basso, l’indice irrigidito sul grilletto. Il braccio tremava, il peso dell’arma tirava la mano verso il basso, il prurito alle dita faceva gemere l’indice piegato sulla levetta.

Perché ti avvicini? Scappa, maledizione! Non vedi che ho il fucile in mano? Non capisci che ti posso sparare da –

Le braccia gli cinsero i fianchi, si allacciarono alla schiena.

Le dita di Germania si schiusero, lasciando cadere il fucile. Il fiume inghiottì l’arma, le onde s’infransero contro la parte rigonfia del calcio, trascinandolo a riva. Giacque immobile in una pozza di fango scavata tra i ciottoli.

Italia strinse l’abbraccio. Le sottili mani che premevano da sotto le maniche dell’uniforme si arpionarono alla giacca fredda, appesantita dall’acqua che imbeveva il tessuto. Appoggiò la fronte sul petto di Germania, nascose il viso tra le pieghe della divisa. Le braccia salirono, si intrecciarono sulla sua schiena, allacciandosi in mezzo alle scapole.

Germania raggelò. Gli mancò il fiato.

 

Il respiro di Italia soffiava lento e caldo vicino al suo orecchio, il petto si muoveva contro il suo, il corpo pressato che lo aveva fatto barcollare, le gambe intrecciate che lo tenevano vicino. L’abbraccio di Berlino, sotto il palazzo del Reichstag, tornò a inebriargli la testa, stringendolo nel tepore che sciolse i muscoli. Il cuore riprendeva a battere contro quello di Italia.

 

La pioggerella che cadeva nel fiume sollevava le nubi di nebbia che li avvolgevano fino alle ginocchia. L’acqua era fredda, penetrava nelle ossa delle gambe riducendole a blocchi di ghiaccio incastrati nel pantano di ghiaia.

Germania sentiva solo il calore del corpo di Italia premuto contro il suo.

Italia strinse forte le braccia, voltò il viso, premendo la guancia sopra il cuore di Germania. Quando ridacchiò, Germania sentì il petto vibrare. E i battiti fermarsi.

“Eh eh, vedi?” Italia sollevò la fronte. Chiuse gli occhi, stendendo il sorriso. Sotto la maschera di fango e sangue, le guance erano arrossate. “Sapevo che non mi sparavi.”

Una scossa trafisse il petto di Germania. Confusione, smarrimento e paura lo paralizzarono sotto la presa di quell’abbraccio che lo stava sottraendo alla tempesta. Il corpo rigido e freddo, fasciato da quello morbido e tiepido di Italia che pulsava contro il suo.

Italia tornò ad appoggiare il viso sul suo petto, sfregando la guancia sulla giacca. Spinse le gambe più vicino, accoccolandosi come un cucciolo infreddolito.

“Perché non possiamo rimanere così e basta?” La voce era tornata a intristirsi. “A me starebbe bene... essere solo vicino a te, correrti incontro quando torni a casa e abbracciarti.” Una piccola risata lo fece sussultare. “Questo mi basterebbe per sentirmi felice.”

Germania strinse le palpebre. Violenti tremori tornarono a scuotergli il corpo.

No, tu non capisci. Non è così semplice, le cose non possono andare in questa maniera, non è la nostra natura, non è il nostro destino. Serrò i pugni, ancora rigidi sui fianchi. Perché devi essere sempre così ingenuo? Perché ti rifiuti di capire e rendi le cose così dannatamente difficili!

Come gli avesse letto nella mente, Italia chiuse la stretta, le braccia allacciate al busto tirarono Germania contro di lui con una presa avida. Germania sussultò. Sentì il suo cuore rimbombare contro la fronte di Italia affondata nel suo petto.

“Io scappo sempre da quello che mi fa paura.” La voce di Italia era soffocata dalla stoffa. “E non voglio scappare da te.” Sollevò lo sguardo. Gli occhi non piangevano, ma erano lucidi, stanchi, bordati da palpebre scure e affaticate. “Perché ci deve essere sempre una guerra di mezzo tra noi due?”

Germania socchiuse le labbra. Tremarono, e non uscirono parole.

 

Gli occhi di Francia accesi dentro l’ambiente della bolla nera, lo sguardo che lo osservava dal fianco, attento e penetrante. La bocca che si muoveva lentamente, e la frase che lo trapassava più di un colpo di pistola.

“La guerra è il tuo unico pretesto... l’unico motivo che conosci per avere qualcuno che ami al tuo fianco.”

La rabbia che si scaricava nella ginocchiata, il piede che premeva sulla sua spalla, lo forzava a guardare in alto, e la pistola puntata dritta in faccia che spingeva in mezzo agli occhi per frenare quelle parole che arrivavano come una mitragliata al cuore. L’indice si abbassava, ritirava il grilletto, la canna della pistola brillava e...

 

Lo sparo fece sobbalzare entrambi.

Germania strinse Italia contro di sé senza rendersene conto. Gli passò un braccio dietro le spalle, una mano si aprì dietro la nuca, e lo nascose sotto la sua presa.

Guardò a destra, a sinistra. Solo l’Isonzo che scorreva tra le gambe, la nebbiolina che aleggiava sul pelo dell’acqua, e le montagne carsiche sbriciolate in ciottoli bianchi che seppellivano i rovi di filo spinato. L’eco dello scoppio si perse tra le rocce.

“Uh?” Italia sollevò la fronte. Sbatté le palpebre facendo scivolare via l’espressione intontita. “Dove...” Guardò dietro di sé, senza togliersi dall’abbraccio. “Chi ha sparato?”

Germania premette la mano dietro il suo capo. Non pensò, ignorò il calcio del fucile riportato dalla corrente che batteva sulla sua gamba, e lo tenne stretto contro di sé.

Un braccio emerse dalla foschia. La manica dell’uniforme era strappata ai bordi, chiazze di terra e sabbia tappezzavano la stoffa identica all’uniforme di Italia. La mano agguantò Italia per un lembo della camicia e lo tirò dietro di sé, strappandolo da Germania.

“Togliti, Veneziano!”

Italia rimbalzò. I piedi sguazzarono nel fiume lasciandosi trasportare a riva.

“Fra-fratellone...”

Rivolse lo sguardo stropicciato all’indietro, verso la schiena di Romano che lo tirava fuori dall’Isonzo, fino alla riva di rocce bianche.

Romano lo strattonò, trattenendolo dietro di sé, e aprì un braccio sul suo petto, sbarrandogli la strada. L’altro rimase piegato sul fianco, sorreggendo il fucile. Romano fece un passo all’indietro e puntò la mira verso Germania. Gli occhi anneriti dalla rabbia lo fulminarono da dietro il mirino.

“Che cazzo gli hai fatto, bastardo?”

“No, fratellone, aspetta!” Italia sgusciò via dalla presa e si appese alla giacca di Romano, tirandolo verso il basso. “Non colpirlo!”

Il braccio di Romano si tese, spinse sul petto di Italia tenendolo lontano. Romano fece un altro passo all’indietro, il fucile imbracciato tremò contro il fianco, la punta mirata al petto di Germania vibrò, abbassando la mira. Il nero negli occhi divenne un vortice di rabbia e paura.

“Stai lontano da lui, hai capito?” esclamò. La sua voce tremava. I rivoli d’acqua grigia che scendevano dai capelli lungo la fronte gli entravano in bocca.

Germania aggrottò la fronte. Scosse il capo come si fosse appena risvegliato. Il calcio del fucile batté di nuovo sullo stivale, un’onda più grossa schizzò fino al ginocchio. Germania guardò l’arma allagata che emergeva dal pelo del fiume. Il braccio immobile sul fianco non si mosse, le dita tornarono a pizzicare.

“Romano, fermo!”

Il grido di Italia tornò a scuoterlo.

Romano lasciò cadere il fucile sul fianco, la cinghia pendente dalla spalla. Si voltò verso il fratello. “Ti ha colpito?”

“Uh?” Italia sbatté le palpebre, confuso. “No, lui...”

“Fammi vedere!” Romano lo avvicinò con uno strattone e si abbassò, tastandogli il petto dalla gola ai fianchi, passando le dita nelle aperture della giacca.

Italia si scansò, trattenuto dalle sue mani. Diede la schiena a Germania. “Aspetta, non –”

Il secondo sparo fu più secco e vicino, non c’era la nebbia a ovattarlo. L’eco rimbalzò sulle montagne, assordando lo scrosciare del fiume, e svanì lentamente come un soffio di polvere.

Italia si paralizzò come avesse ricevuto una scossa. Lo sguardo confuso restò su Romano, immobile anche lui, con ancora i palmi stretti sui polsi del fratello. Italia sbatté le palpebre e una vena di allarme gli fece sbarrare gli occhi. Fece un passo in avanti, il ginocchio traballò, il piede affondò tra i ciottoli. Cadde in avanti, trattenuto dalle braccia di Romano. Una macchia più scura si allargò sotto la spalla, inzuppando l’uniforme già bagnata di pioggia e fango. Romano gli strinse le braccia sui fianchi. Abbassò gli occhi sulla ferita, le palpebre si allargarono lentamente, le pupille si restrinsero e il labbro inferiore si socchiuse, cominciando a tremare. Lo sguardo annegò nel panico.

“Veneziano!”

Germania sbarrò gli occhi. Gli mancò il fiato, il dolore trafisse il petto come fosse stato lui a ricevere il proiettile. Scattò sul posto, chinò lo sguardo. Il fucile era ancora immerso nel fiume. Le sue mani aperte, immobili, paralizzate lungo i fianchi.

“Perché non lo hai colpito?”

Germania si voltò facendo scrosciare il letto di sassi che gli teneva i piedi imprigionati. Una sagoma nera si ingrandì in mezzo alla foschia, la nebbia calò, lasciò passare la canna di fucile ancora fumante che tagliò in due la barriera grigia. La figura uscì dalla nebbia, le suole degli stivali scricchiolarono sui sassi inumiditi dall’acqua di fiume, il braccio libero dall’arma si sollevò, la mano si aprì sul viso e spinse gli occhiali alla radice del naso. Gli occhi di Austria fissarono Germania da dietro le lenti, le sopracciglia si aggrottarono lievemente.

“Ti eri incantato?”

Germania ammutolì. Un lungo e sottile fischio iniziò a ronzargli nel cranio, i suoni del fiume, dei passi di Austria, della sua calda e tenue voce, divennero un brusio confuso.

La voce di Romano alle sue spalle arrivò come uno schioppo di tuono. “Tieni gli occhi aperti, guardami!”

Germania sbatté le palpebre. Si voltò verso il grido.

Italia era steso a terra. Romano lo teneva sorretto dietro le spalle, lo scuoteva. Il viso basso vicino al suo. I rivoli di pioggia che gocciolavano dai capelli di Romano si depositavano sulle guance di Italia, correvano lungo la pelle e scivolavano al suolo. Le braccia di Italia ciondolavano a terra, le dita inermi e insanguinate affondavano nei ciottoli bianchi.

“Era a un passo da te, per di più disarmato.”

Germania tornò a voltarsi verso Austria.

Austria camminò lento verso la riva, abbassò il fucile sul fianco, lasciandolo penzolare dalla cinghia di cuoio, e tenne le dita ferme sulla montatura degli occhiali. Gli occhi violacei divennero più scuri sotto l’ombra.

“Perché non hai sparato?” insistette.

Il ronzio alla testa tornò. La nebbia divenne più fitta, risalì le gambe, avvolse sia lui che Austria. Le figure di Italia e Romano vennero racchiuse in un ovale appannato. Romano continuava a urlare, chino sulle ginocchia, a scuotere Italia, e cominciò a piangere. Una sottile colata di sangue tinse i ciottoli di rosso.

A Germania si appannò la vista. Il viso pallido e addormentato di Italia restò limpido.

“L’ho mancato.”

Le dita di Romano tolsero i capelli dalla fronte di Italia, via dalle palpebre tremanti. Le ciocche umide e appiccicose si incollarono alle guance, e caddero ai lati del viso. Italia socchiuse le labbra.

“Non l’ho ucciso.” Il fischio, come il rumore bianco che esce dai pori di una radio, ovattò la voce di Austria. “Sarà solo indebolito, e con questo supereremo la frontiera in meno di tre giorni.”

Italia socchiuse un occhio. Ruotò lentamente la pupilla, il suo sguardo si incontrò con quello di Germania. Gli sorrise, tornando ad abbassare la palpebra, e la nebbia lo inghiottì.

 

.

 

“... ore? Signore?”

Una zaffata di vento soffiò via il muro di nebbia. Un raggio di luce trapassò la foschia, strisciò sul fianco del panzer e si riflesse su una delle medagliette sul petto del generale. Il fumo che si dissolveva scoprì la sua espressione interrogativa.

Germania scosse il capo. Affondò una mano tra i capelli, sopra la tempia, e chiuse gli occhi, soffocando il ronzio nel cranio. Le dita premettero sulla fronte, i polpastrelli scesero frizionando sulle palpebre chiuse.

“Chiudiamo la sacca, signore?” insistette la voce del generale. “Ormai basta ripiegare sulla costa di Dunkerque e i francesi non avranno scampo.”

Germania sospirò attraverso gli spazi delle dita.

La mano scivolò dal viso, i palmi si aprirono, raccogliendo il tepore del sole che passava attraverso le foglie. Le mani tremarono. Braccia e gambe raggelarono come si trovassero ancora a mollo nelle acque dell’Isonzo, imprigionate nella fredda trappola di fango e sassi.

Ma cosa sto facendo?

Germania strinse i pugni. Mani e braccia smisero di tremare.

Le vibrazioni corsero lungo il petto, strinsero il cuore in una morsa di ferro.

Cosa sono diventato?

Sollevò il capo con uno scatto, lo sguardo volò in direzione della foresta, dove uno dei raggi di sole verdognoli batteva sulle rocce. Francia era sparito.

“In quanti sono arrivati fino ai porti dove si stanno imbarcando?” chiese Germania.

Il generale sobbalzò come lo avesse appena scosso. “Uhm...” Sollevò una mano, ripiegando l’indice e il medio. “Abbiamo la Quarta Armata del Gruppo B, più il Gruppo A.”

Germania annuì. “Bastano.” Passò davanti all’espressione stropicciata del generale, camminando verso la punta di cannone del panzer. Sollevò un braccio, fece correre il tocco lungo il fianco, tra i bulloni, sulla croce bianca e nera, e il palmo risalì la base del cannone. Si fermò sul foro circolare.

“Ripieghiamoci,” disse. “Fate avanzare solo la fanteria verso i porti e ritirate i panzer. Raggiungiamo Parigi e chiudiamola qua.”

“Cosa?” I passi del generale scricchiolarono sul suolo di foglie, si avvicinarono alle sue spalle. “Ma... signore.” Il generale si mise di fianco a Germania e sollevò un palmo al cielo. “Così corriamo il rischio che mettano in salvo anche le armate inglesi, e considerando che –”

“Appunto per questo.” Germania abbassò gli occhi. L’ombra del bosco celò un lato del viso, scurendogli la guancia e la fronte. “I rapporti con Inghilterra devono restare pacifici in vista di possibili trattative. Inoltre, queste armate sono la nostra punta di diamante, non devono subire ulteriori danni nell’eventualità che i patti falliscano e si renda necessaria una battaglia su suolo inglese.” Tornò a guardare davanti a sé. La mano scivolò dal cannone del carro. “Non sprechiamo altro tempo e forze qui, ormai è vinta.” Fece due pesanti passi in avanti, stringendo le mani dietro la schiena. “Richiami le truppe e ritiriamoci a Parigi, generale.” Voltò il capo all’indietro. Un lampo azzurro si tese nell’aria fino a incrociarsi con lo sguardo dellufficiale. “È un ordine.”

Il generale si irrigidì sull’attenti. Batté i tacchi a terra e gonfiò il petto, allargando le spalle. “Sissignore.”

   
 
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