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Autore: allonsy_sk    30/03/2015    4 recensioni
Un diverso 'lieto fine' per ognuno dei capitoli di Protect me from what I want o in altre parole, come la storia sarebbe finita se una certa decisione fondamentale fosse stata presa in ognuno dei capitoli iniziali.
Ognuno di questi capitoli è un diverso possibile finale della storia che sto scrivendo. Non vanno trattati come una storia continuativa (anche perché non avrebbero senso come tale).
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Come Home'
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4 - Giovedì 4 Giugno 2016 (versione alternativa)

 

Ho portato la cena,” inizia John, a mo' di saluto, facendo dondolare il sacchetto del take-away. Viene direttamente da Angelo's, e Sherlock archivia senza un solo rimpianto l'idea di quel risotto che aveva intenzione di preparare. Può sempre giocarselo in casi estremi, se a John dovesse nuovamente passare l'appetito, o magari conservare la ricetta per una giornata bisognosa di consolazione.

Certo, non aiuta molto che, da un po' di tempo a questa parte, si senta sempre più spesso come se dovesse essere lui a dover ricevere conforto, e non John.

“Oh,” ribatte Sherlock, riponendo svelto il violino. Non ha finito con Bach, non ha proprio finito. Non è neanche all'inizio, ma per ora può bastare. Dopotutto, è un ottimo attore, e gli basterà usare il proprio talento per fingersi tranquillo. John non se ne accorgerà.

Mangiamo qui? Cosa dobbiamo vedere oggi?” domanda Sherlock, raccattando gli spartiti da dove si sono infilati sotto il tavolo. Spera che sia qualcosa di meno emotivo e con meno canzoni dell'episodio di ieri. Stranamente godibile comunque, non fosse altro per la scena del mercato che senza dubbio ha esaurito l'intero budget per gli effetti speciali della zia Beeb per l'intero anno 2013. O così ha suggerito John, ridacchiando tra sé e sé e riuscendo comunque a commuoversi un po'. Sherlock non avrebbe saputo il nomignolo affettuoso e familiare per l'emittente di stato, tanto per cominciare.

“Sì, se vuoi. Credo sia la volta di... ah, è 'Hide',” continua John, spostando il laptop sul tavolino mentre Sherlock va a recuperare quella bottiglia di rosso che ha comprato l'altro giorno, bicchieri, forchette. Il suo comportamento deve sembrare molto strano, a chiunque sia abituato al suo normale modo di essere. Presuntuoso, infantile e urticante (oltre che geniale e affascinante, ovviamente).

Ma prova una ridicola soddisfazione alle reazioni di John ogni volta che si comporta in modo umano e premuroso, e pazienza se ha colto più di una volta un brillio commosso nello sguardo di Mrs. Hudson, quella volta o due che è capitata al piano di sopra con John fuori casa e Sherlock da solo, immerso nei propri pensieri.

L'episodio sarebbe anche abbastanza godibile, per una volta, una buona storia di fantasmi col giusto livello di tensione che nemmeno gli sproloqui del Dottore riescono a disperdere del tutto.

Tuttavia, Sherlock non riesce più a concentrarsi sullo spettacolo.

Accanto a lui, John ha deposto piatto e posate e sta pensando con un'intensità da risultare quasi rumorosa e tangibile.

Sherlock non vuole disturbarlo. Inghiotte senza fare rumore anche il sospiro che stava per sfuggirgli, sconfitto, un po' frustrato, scontento per il fatto di non poter far nulla di concreto per John – salvo trovargli la bambina, e quello è ancora un work in progress senza una data di fine prevista – né per se stesso. Si sente in trappola, e la cosa ha il potere di stringergli lo stomaco nelle prime avvisaglie di ansia.

Meglio cercare di non pensarci, e lasciare a John lo spazio di sbrogliare i propri pensieri in tutta tranquillità.

John non sembra essere dello stesso avviso, però. È lui a trarre quel sospiro profondo che Sherlock ha soppresso, ed è lui a raddrizzarsi sul divano, mettendosi a sedere più composto, sporgendosi poi un po' in avanti con le mani sulle ginocchia, come se fosse pronto a sottrarsi all'abbraccio soffice del divano e a cercare sollievo in qualunque altra attività. Neanche il suo dannato show preferito riesce più a consolarlo, dunque?

Sherlock finge di essere interessatissimo alle faccende dei personaggi sullo schermo, riesce comunque a voltarsi quanto basta per osservare John con la coda dell'occhio.

Lo vede annuire tra sé e sé, concentrato e accigliato come se stesse seguendo il filo aggrovigliato dei propri pensieri angoscianti.

O forse no, perché dopo un istante John sorride e si rischiara, perdendo improvvisamente tutti gli anni di troppo causati dal dolore. Annuisce ancora, e quando inizia a voltarsi Sherlock finge di non esser stato a guardare tutto il tempo.

Sherlock non capisce. Non si tratta del sorriso fragile e pericoloso di quando John è in preda ad una collera omicida. Quel suo sorriso implica la sua ferrea volontà di spezzare ossa e strangolare qualcuno a mani nude, ridurre tutto ad una strage fumante dalla quale uscire sporco ma illeso e con una risata sanguinosa sulle labbra.

Suo malgrado, Sherlock è scosso da un sottile brivido, tanto più allarmante perché non sa distinguere se si tratti di inquietudine o eccitazione. Forse sono entrambe le cose.

“Sherlock,” lo chiama piano John. C'è qualcosa nella sua voce che costringe Sherlock a voltarsi, anche se una strana ansia gli ha chiuso la gola e ha liberato gli sciami di dannate farfalle nel suo stomaco. È tutto un fremito, è una goccia d'acqua appesa ad una foglia, troppo pesante per restare in bilico ancora a lungo, prima di precipitare ancora una volta nel vuoto.

Si volta, incapace persino di deglutire o respirare, figurarsi di pensare o – assurdo – teorizzare qualsiasi cosa.

John gli sorride di nuovo, sorride proprio per lui, con tutto il calore e la luce di un pomeriggio di sole, una pioggia di raggi dorati che invade di traverso le finestre e riscalda il pulviscolo sospeso in aria e la polvere sugli scaffali infiammandola d'oro.

“J-” squittisce Sherlock, attraverso il blocco nella sua gola chiusa, quando John si sporge più avanti e allunga una mano e gli accarezza il viso con leggera reverenza. Gli sorride e poi aspetta.

Sherlock non è in grado di parlare.

Tutto e il contrario di tutto sta avvenendo nello stesso tempo all'interno della sua mente. Tutti gli schermi di controllo del sistema a circuito chiuso nella sua mente, tutti gli schermi cinematografici nell'immenso multisala mentale, tutte le stanze e tutti i corridoi del palazzo contengono soltanto infinite variazioni di John, e dell'ideale continuazione del suo gesto.

Cosa deve fare? Deve dire qualcosa?

Impossibile. È paralizzato con la bocca appena schiusa e gli occhi enormi. Gli scotta la faccia, ma la sua gola è secca come il deserto. In quanto al suo cuore, sta prendendo a colpi di ariete da sfondamento la sua cassa toracica e tra non molto spiccherà un grottesco volo, esplodendogli dal petto.

John aspetta ancora un attimo, senza distogliere lo sguardo. Il suo sorriso si è attenuato, ma non è scomparso, si è persino tinto della stessa dolcezza che gli colora gli occhi, e che guida la sua mano a stringersi subito dopo sulla stoffa della vestaglia di Sherlock, attirandolo a sé.

Davvero? Può baciarlo? Può farsi baciare? Quali sono i protocolli da osservare in questi casi? Dove dovrebbe cacciare le mani? Cristo perché sta sragionando? Perchè si sta lasciando cogliere dal panico? Non è mai stato pauroso, anzi, ha la fama di essere fin troppo impulsivo e spericolato.

(Non essere sciocco, Sherlock, dice una voce imperiosa e fredda che ultima tra tutte vorrebbe sentire ora, attirato nel calore dorato di John Watson, un millisecondo prima di essere baciato. Hai sempre avuto paura delle relazioni umane.)

L'ultima volta che ha baciato qualcuno è stato un imbroglio, un ruolo recitato per il bene di un caso. Così tutte le volte precedenti che ha avuto cura di ricordare. Non sono molte, tanto per cominciare, e non hanno mai avuto senso una volta scoperto quello che si prefiggeva di scoprire calandosi nelle vesti di improbabile seduttore.

Non si ricorda se ha mai dato un peso ad un gesto allo stesso tempo così banale e persino disgustoso ma anche tremendamente intimo e importante.

Quanto tempo ha trascorso ad immaginare questa scena?

“Sherlock, non sai da quanto tempo voglio farlo,” sussurra John, troppo vicino. Bisognerebbe chiudere gli occhi, giusto? Ma John non li ha chiusi e Sherlock non vuole perdersi una sola pagliuzza dei suoi occhi, una sola sfumatura nella sua espressione.

Ci pensa l'istinto, quando la presa di John si stringe ancora sul tessuto della vestaglia. Il bacio è gentile ma non incerto. John ha preso una decisione, nel momento in cui Sherlock l'ha visto raddrizzare le spalle con fare marziale (altro piccolo brivido lungo la spina dorsale. Ma forse è per via dell'altra mano di John, che gli sfiora la spalla e poi seppellisce le dita nei riccioli sulla sua nuca), e la sua certezza inossidabile traspare.

Probabilmente non c'è alcuna finezza o tecnica nel modo in cui Sherlock inizia a ricambiare, senza poter sopprimere in alcun modo un piccolo suono bisognoso che gli sfugge dalla gola. Non c'è nessuna grazia, ma non gli manca l'entusiasmo, prontamente recepito da John, che smozzica un verso che fa rimescolare tutto il sangue di Sherlock e si avventa su di lui dimenticandosi della precedente dolcezza.

È perfetto. Anni di tensione e impossibile speranza non possono sopportare il peso imbarazzante della tenerezza e della pazienza.

“John-” balbetta senza fiato quando riesce a staccarsi per respirare. Respirare è noioso, ne farebbe volentieri a meno, quando l'alternativa è talmente attraente da essere semplicemente impossibile.

Ha bisogno di dirlo, ha bisogno di dirlo subito, perché c'è ancora la spaventosa, nauseante possibilità che quello che John intende sia qualcosa che Sherlock non ha mai considerato desiderabile.

Ha bisogno di sputare quelle tre parole che hanno impiegato anni a prendere consistenza dentro di lui fino a pesare troppo dense sul suo cuore, minuscole stelle nane incapaci di proiettare luce appena più in là.

“John-” ripete, ma John scuote pianissimo la testa e lo zittisce con un altro bacio troppo breve, al termine del quale Sherlock si ritrova comunque già ubriaco ad annaspare alla ricerca d'aria.

“No,” sussurra John, “lascialo dire a me per primo. Ho bisogno di dirtelo, Sherlock, anche se non è una cosa che- non è una cosa facile per me.”

Non riesce più a parlare né a respirare, l'unica cosa che attrae la sua attenzione sono le labbra di John, dalle quali ora attende una condanna o un'assoluzione.

“Cosa,” mormora, contro ogni sua volontà. Non vuole saperlo. Vuole saperlo più di ogni altra cosa. Non sa cosa desidera, o forse ne è fin troppo consapevole. Vuole che John riprenda a baciarlo e spinga qualsiasi pensiero distruttivo e sminuente che Sherlock abbia rivolto a se stesso nell'ultima manciata di minuti.

“Non so come avrei fatto senza di te, Sherlock, non so come farei,” sta dicendo John, con espressione aperta e occhi carichi di calore. È troppo vicino e Sherlock continua a distrarsi per via delle sue dita che gli accarezzano il viso e continuano a tuffarsi nei riccioli teneri sulla sua nuca.

“E sono stato un cretino a non accorgemene prima,” prosegue John, “mi sento proprio un idiota, perché sei la persona più importante per me. E io- e io ti amo così tanto, Sherlock.”

No, non può essere vero. È troppo bello e perfetto, un momento da conservare per sempre. Non potrebbe cancellarlo neanche se volesse, non c'è speranza, è marchiato a fuoco nella sua memoria, quest'attimo di spasimante attesa sciolto nel più incredulo sollievo.

“John,” balbetta di nuovo, allungando finalmente un'inutile mano per sfiorare il viso di John. Cambia idea e afferra una manciata di maglietta a strisce, attira John a sé. È un gesto sperimentale, ma il risultato è più che sufficiente, è addirittura troppo piacevole. John sbuffa a sua volta, di sollievo e perché trascinato da Sherlock finisce per crollargli adosso, spingendolo col proprio peso tra i cuscini del divano. Si lascia trascinare, con un sospetto di risata quando l'avidità di Sherlock sorpassa anche le sue aspettative.

Il bacio questa volta è aggressivo e profondo, inizia con qualcosa di più simile a un morso. A Sherlock occorrono tre tentativi prima di trovare l'angolo giusto, quello che gli permette di rispondere con una ferocia che non pensava di possedere in questo ambito, che forse ha sempre avuto, ma che è stata risvegliata soltanto adesso.

Baciare John sembrava impossibile fino a pochi momenti fa, adesso è l'unica cosa che il cervello di Sherlock è in grado di comprendere e ricordare, l'unica cosa che ognuno dei suoi sensi è in grado di registrare.

E già non basta più. Con ogni bacio Sherlock diventa un po' più sicuro – l'inesperienza bilanciata dal fatto che impara ad una velocità impossibile per una persona qualsiasi – e un po' più impaziente, e la meraviglia immensa del peso concreto e caldo di John su di sé è già passata in secondo piano, per essere esaminata dopo con calma, cedendo il passo all'idea insistente, inebriante di avere il permesso di toccarlo, di stringerlo, di premerselo indosso.

Può toccarlo? Sì? Prova ad accarezzargli la schiena con un tocco delicato, pronto a tirarsi indietro se John dovesse reagire nel modo sbagliato. Ma John non lo allontana, e se termina il bacio per il momento è per poter tirare il respiro. Non lo lascia al freddo però, e continua a riscaldargli la pelle sottile della gola, l'incavo alla base del collo, le attaccature delle clavicole che sporgono dalla scollatura della maglietta grigia, con piccoli baci e morsi non troppo gentili.

“John-” riesce a balbettare Sherlock, accarezzandogli la schiena con maggiore convinzione. Riesce a sentire il calore della sua pelle attraverso gli abiti, la sua corporatura solida e forte.

“Cosa, cosa,” domanda John, rialzandosi quanto basta per spiare l'espressione di Sherlock. Deve essere talmente stravolto, rosso e sconvolto da costringere John ad accigliarsi, improvvisamente dubbioso.
“Sherlock, va bene...? Va tutto bene? Tu... vuoi? Vero? Non ho- non ho frainteso, vero?” continua John, con una gentilezza che trema e rischia di frantumarsi sull'ultima domanda. “Ti prego, dimmi che va bene.”

Ah, sollievo. Sollievo immenso, sospinto e incendiato dal desiderio. John gli grava indosso pesante e compatto e maschio e magnifico. È tutto ciò che ha mai voluto, anche se prima di ora non ha mai desiderato niente. Lo vuole così tanto da non riuscire a pensare, parlare o muoversi. Tutto il suo corpo è caldo, pesa mezza tonnellata, ma non c'è più sangue o aria nel suo cervello, e i suoi pensieri sono leggeri e fuggevoli come bolle di sapone.

Sherlock cerca di annuire, incapace di giudicare se ha compiuto il movimento corretto.

Il messaggio non deve essere chiaro, perché John si acciglia ancora di più e tenta di sollevarsi un po', di mettere una distanza inconcepibile e sbagliata tra i loro corpi.

“Sherlock,” ripete, con un tono di supplica, “ti prego, dimmi che- dimmi che non ho sbagliato tutto. Dimmi che non sei etero. Dimmi che non sei, che ne so, asessuale. Ti prego.”

Ci vuole qualche secondo perché Sherlock, di norma così veloce, riesca a comprendere le parole di John, e il loro tono teso e speranzoso. John lo schiaccia, premendosi su di lui in maniera talmente deliziosa e intossicante da impedirgli di connettere e formare parole. Sherlock annaspa, alla ricerca di un paio di sillabe striminzite da offrire in cambio, ma non può e istintivamente attira John più vicino, se lo preme addosso con un sospiro sollevato, lasciando scattare le anche contro le sue e ottenendo in cambio uno sbuffo accaldato di John.

“J-”

Sherlock cerca di schiarirsi la gola e le idee, fallisce miseramente, aggredito da John che prima di potersi trattenere e attendere la risposta alla domanda, si china a divorargli la bocca per un lungo attimo, strappandogli un lungo verso avido.

“John,” sputa fuori Sherlock dopo un secondo e mezzo respiro sforzato, “ti voglio da morire.”

Cristo l'ha detto veramente, era sua la voce impossibilmente profonda e ansimante e carica di voglia. L'ha detto veramente, non l'ha soltanto pensato, sognato, desiderato.

Si sporge per farsi dare un altro bacio, che John gli consegna con entusiasmo colmo di sollievo.

“Non sono mai- non ho mai-” sussurra John, coprendogli il viso di baci, allungando le mani per accarezzargli i capelli.

È come se non riuscisse a saziarsi di toccare Sherlock, di essere in grado di avvicinarsi e toccarlo in questo modo. Il solo fatto che palesemente John sia spinto da questo desiderio è abbastanza da spostare l'attenzione di Sherlock dalle sue carezze alle sue parole.

“Cosa vuoi dire,” mormora, bloccato a metà dell'ultima parola da un bacio che accoglie con gioia ma che non prolunga.

“Non sono mai stato con un uomo, Sherlock,” sussurra John, quasi al suo orecchio. “È la prima volta per me.”

Istintivamente, Sherlock vorrebbe sottrarsi al discorso. Vorrebbe che John smettesse di parlare, una buona volta, e tornasse a stringerlo e baciarlo con tutte le intenzioni di consumarlo lì e subito con il proprio ardore. Gli piacerebbe, crede, gli piacerebbe essere bruciato dal suo sole personale.

Ma quello che John tenta di articolare, goffo e esitante almeno quanto lo stesso Sherlock si sente, è importante, è fondamentale e non si può proprio tralasciare.

Nelle parole di John c'è soltanto un'onestà scoperta e persino timida. Ha taciuto troppo a lungo, e adesso sta deponendo tutto quello che ha ai piedi di Sherlock, nel caso questi decida di accettare il suo umile dono. Sherlock non può rifiutarsi, e non può neanche pensare con cattiveria che le parole di John contengano un tranello, un modo sottile e subdolo di costringerlo a scoprirsi.

“Neanche io,” balbetta, “anche per me è- la prima volta.”

È costretto a distogliere lo sguardo per aggiungere, “in generale,” anche se poi sbircia l'espressione di John con la coda dell'occhio, già pronto a raccogliere perplessità dolorosa e persino scherno per la sua ammissione.

Non c'è niente di sgradevole o insultante nel modo in cui John l'osserva, però, anche se un po' di sorpresa fa capolino nel suo sguardo e nel modo in cui schiude la bocca come per dire qualcosa, che poi prontamente si rimangia.

È sempre abbastanza da imbarazzarsi e chiudersi a riccio, sollevando tutte le barriere e perdendo gran parte dell'eccitazione e dell'ebbrezza che l'hanno trascinato fin qui, schiacciato nel divano da John che ora l'osserva con occhi carichi di- aspetta un momento, carichi di infinita tenerezza e senza ombra di compassione o malizia.

“Davvero, Sherlock?” mormora John, allungando una mano per accarezzargli di nuovo la guancia, lo stesso gesto di poco prima, quando tutto è cambiato. Sherlock non è del tutto convinto, ma si permette comunque di strusciare il viso in quella carezza offerta con tanta tenerezza e annuisce, senza guardare John in faccia.

“Sherlock,” la voce di John, ridotta ad un sussurro bassissimo proprio vicino al suo orecchio, lo sorprende abbastanza da farlo sussultare, “non ho abbastanza parole per dirti... quanto mi sento fortunato. Tu sei... quel miracolo che avevo chiesto.”

Forse può crederci. Forse può voltarsi e affrontare il calore persino commosso con cui John l'osserva, lasciarsi stringere e accarezzare e infine baciare con abbandono molto più dolce e completo.

A quanto pare non c'è nessuna fretta, nessun bisogno di prendere quello che può, nel timore di non avere una seconda possibilità.

Ha tutto il tempo del mondo.

 

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