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Autore: Ivola    31/03/2015    1 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Do re mi fa sol la si- scusate, dovevo scrivere qualcosa di demenziale. Che dire, dopo due mesi di ritardo non so davvero come scusarmi per i mancati aggiornamenti. Questa volta la scusante non sono stati gli impegni, ma la mia scarsissima voglia di scrivere... e preferisco scrivere i capitoli quando sono ispirata piuttosto che scriverli male.
Tra poco Blur compie due anni (a fine aprile) e per allora/massimo maggio vorrei finirla, così potrò dedicarmi anche ad altri lavori che ho in mente - purtroppo riesco a scrivere solo una long per volta, infatti per finire Blur avevo anche momentaneamente sospeso la mia long nel fandom di Game of Thrones (autopubblicità neanche tanto occulta, bene).
Allora, molte persone mi odieranno, credo, dopo questo capitolo, ma le cose erano programmate per andare così sin dall'inizio - e a tutto c'è un perché, ogni cosa in Blur tecnicamente dovrebbe avere un senso, ho cercato di essere abbastanza attenta sotto questo punto di vista. Anche semplici elementi come una sciarpa bianca (vedi cap. 16) ritornano per scopi più alti(?). Anyway, anche la psicologia dei personaggi è, diciamo, piuttosto elaborata, e anche qui c'è un perché se fanno delle scelte piuttosto che delle altre.
Questo, giuro, non era nato come capitolo chilometrico, non so che cavolo è successo. Anche perché tra la parte iniziale dal pov di Klaus e quella dal pov di Benjamin c'è stato all'incirca un mese di nulla, prima non avevo per nulla voglia di scrivere, poi sulle ultime scene sono esplosa... sì, quindi scusate il mio essere logorroica (anche nelle note ahhaha che bello)

Come sempre, pagina facebook QUI, gruppo scambio recensioni QUIaccount Ask! qui, e blog tumblr qui. Solita lista della spesa.

Buona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene dall'omonima e tristissima "Let her go" di Passenger.

Questo nuovo banner appartiene a me, ©Ivola.
















 










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Blur

(Tied to a Railroad)






030. Thirtieth Chapter – Let her go.


 
Si svegliò in un luogo freddo. Era steso su un fianco, e le coperte sembravano non riuscire a trasmettergli neanche un po’ di calore. 
Sbatté le palpebre nel buio, cercando di capire dove si trovasse. Non era la stanza delle torture, quella, e nemmeno la semplice cella in cui l’avevano gettato dopo l’esecuzione. Quello su cui era steso era un letto matrimoniale. Lo capì girandosi di poco e allungando un braccio alla sua sinistra. La sua mano toccò qualcosa di freddo, per cui la ritirò immediatamente, spaventato. Tutto il gelo della stanza sembrava provenire da quell’angolino.
Klaus riusciva a vedere poco e, quando la vista si abituò di più al buio, comprese che quella stesa accanto a lui era una persona. Qualcosa gli avvolse le viscere in una morsa dolorosa.
Allungò la mano una seconda volta, toccando quel lembo di pelle congelato che doveva appartenere al braccio dell’altro. Lo scosse piano, ma quello non si mosse, voltato dall’altro lato esattamente come lui era steso su un fianco qualche istante prima.
Lo scosse di nuovo, questa volta con maggior vigore, alzandosi persino a sedere e prendendo a smuoverlo anche con l’altra mano. Nulla.
Klaus voltò con decisione il corpo verso di lui, a denti stretti. Sapeva chi era, non aveva dubbi.
Nonostante l’oscurità, infatti, il volto di London entrò nel suo campo visivo squarciandogli il petto. 
Ma... No, no,
no. Non poteva essere davvero lei. 
Una maschera di dolore e orrore gli si dipinse in viso. Quella non poteva essere London. 

No...
Anche se nel buio si distingueva poco, la donna era mortalmente pallida, le palpebre abbassate, i capelli flosci e le labbra schiuse in qualche muto sussurro. 
« London… » mormorò Klaus, stringendole la mano in un riflesso involontario. Anche quella era inumanamente fredda. « London! »  esclamò, di nuovo, scuotendola ancora un’altra volta come per farla svegliare. Strinse le dita intorno alle sue braccia esili, invocando ancora e ancora il suo nome. Ma lei era immobile, non respirava, non parlava, non reagiva, non faceva nulla che potesse far pensare che fosse ancora in vita. Eppure Klaus la chiamava.
Era lì, davanti a lui, dopotutto. Era lì, maledizione, avrebbe dovuto salvarla!
« No » gridò, attirando verso di sé il suo corpo gelido. «
No! » urlò, poggiando una mano dietro la nuca di lei per appoggiare il suo viso contro la propria spalla. Cominciò a piangere. 
Klaus, una volta, non piangeva mai. 
Prese a singhiozzare, come un bambino, cullando debolmente la moglie tra le sue braccia tremanti, soffocando imprecazioni e altre urla di dolore. Dolore che avrebbe definito ben più infinito di quello inflittogli dagli aguzzini di Capitol City, un dolore che non si poteva spiegare a parole né poteva essere immaginato. 
Cosa avrebbe dato, in quel momento, pur di farla tornare indietro…


Qualcosa lo svegliò. Forse fu il cinguettio di qualche uccellino solitario, oppure quel colpo di tosse che lo colse alle prime luci dell'alba. Aprì le palpebre lentamente, come se fossero incollate, e guardò il vuoto della propria stanza per qualche momento, come se potesse trovarvi una soluzione a tutti i problemi. 
Nulla, il vuoto rimase soltanto vuoto.
Si mise a sedere sul bordo del materasso, spostandosi le coperte di dosso bruscamente, e si stropicciò gli occhi ancora stanchi. Provò a motivarsi, come faceva tutti i giorni, e alla fine - senza esserci davvero riuscito - si alzò.
Dei gesti meccanici segnavano il suo quotidiano: apriva le tende, si faceva una doccia, preparava la colazione per sé e per Klaudia, ripuliva tutto. Spesso restava nel letto tutto il giorno.
Quella mattina, però, Klaus sentiva di essersi alzato con uno spirito diverso. Aprì un'anta dell'armadio per recuperare gli abiti che avrebbe indossato e per la prima volta in quelli che sembravano secoli - mesi, lunghi mesi - si ritrovò a guardarsi allo specchio. Si trattava di uno di quelli incorporati nell'armadio, lungo e sottile. Klaus sapeva che era sempre stato lì, ma aveva sistematicamente evitato il proprio riflesso da quando era tornato a vivere in quella casa. Gli specchi e la sola idea di quello che vi avrebbe trovato riflesso lo terrorizzavano.
Per qualche strano motivo, però, quella mattina non aveva paura di guardarsi. Anzi, era quasi... curioso. Si tolse la maglia del pigiama e rimase lì, a torso nudo, davanti allo specchio, nel più totale silenzio.
Si scrutò a lungo e intensamente, esaminando ogni lembo della propria pelle scoperta. Non si riconosceva. 
Era davvero lui quello scheletro nel riflesso?
Un'enorme tristezza  cominciò rapidamente a impadronirsi di lui. Odiava i cambiamenti e odiava vedersi così, debole, inerme e vecchio, in qualche modo. Magrissimo, con le spalle ricurve e le ossa sporgenti, le braccia penzolanti e ogni centimetro ricoperto da tagli e cicatrici. I capelli gli erano cresciuti molto, ben oltre il collo, e la barba sfatta gli dava un'aria trasandata, insieme alle occhiaie nere sotto gli occhi e l'espressione cupa.
Egli stesso era lo specchio di tutto ciò che gli avevano fatto, di tutto il dolore che gli avevano causato, e di tutti gli errori commessi nell'arco di una vita.
Si fissò ancora a lungo, mentre pensieri di varia natura gli serpeggiavano nel cervello. Doveva rimettersi in sesto, non poteva continuare a degradarsi così.
London non avrebbe mai voluto che lui si riducesse in questo stato. Il solo pensiero di lei che, se fosse stata ancora viva, avrebbe potuto vederlo in quel momento gli fece venire la nausea. E fu questo a riscuoterlo. 
Prese una maglietta pulita, a maniche lunghe e a girocollo perché non voleva che Klaudia scoprisse più cicatrici di quante già ne conosceva, dei boxer e un jeans, e con quel bottino si diresse in bagno. 
Lì prese il proprio rasoio e, dopo averlo fissato per qualche minuto come per sfidarlo a commettere suicidio piuttosto che una semplice rasatura, cominciò a eliminare la barba completamente. La mano sinistra, ancora in via di guarigione, gli diede qualche problema, ma alla fine riuscì a radersi del tutto, non senza qualche graffio sulle guance.
Poi prese delle forbici e passò ai capelli. Li voleva corti, corti come non li aveva mai portati. Voleva essere una persona diversa. O almeno sembrarlo.
Alla fine, quando numerose ciocche furono nel lavandino, Klaus posò le forbici e s'infilò nella doccia.

« Klaudia? » Sapeva che non poteva ascoltarlo, ma quello era l'unico momento in cui lui poteva parlare con qualcuno. L'unico momento in cui poteva - e voleva - sentire la propria voce. Scosse la bambina piano, sedendosi sul letto accanto a lei. Klaudia ci mise qualche minuto per ridestarsi e lo salutò con un sorriso un po' spento, accennando al suo nuovo taglio di capelli.
Klaus le posò un bacio sulla fronte e continuò ad accarezzare i suoi, di capelli, per qualche minuto, mentre lei gli stringeva l'altra mano. 
« Vuoi venire con me? » le chiese all'improvviso. Un'idea gli era balzata di colpo in mente, e non sapeva neanche per quale motivo. Forse non era una buona idea, ma sentiva di doverlo fare.
Klaudia mostrò un'espressione interrogativa, dopo aver capito il senso della domanda grazie alla lettura del labiale. Klaus ancora si stupiva di quanto fosse diventata brava - ma lei, dopotutto, era sempre stata una bambina intelligente. 
« Nella nostra vecchia casa, ricordi? » rispose lui, continuando a sfiorarle i capelli albini. « Devo cercare una cosa. »
Klaudia annuì e subito si tirò in piedi. 
Klaus, nel guardarla infilarsi il suo maglioncino di lana rosso, sperò soltanto che la visione della loro casa completamente trafugata non li avrebbe distrutti.

La prima cosa che sconvolse Klaus quando rimise piede nella propria vecchia casa fu la totale assenza di odori.
Quella villa non aveva conservato neanche uno dei profumi che ricordava. Tutti cancellati, brutalmente. Di colpo si dimenticò anche del profumo di legno che aveva sempre invaso la sala da pranzo. Sparito.
Le finestre erano distrutte, il pavimento disseminato di vetri rotti come le conchiglie di una spiaggia. La porta era aperta, lui e Klaudia erano entrati senza alcun bisogno di forzarla. 
La polvere regnava sovrana in quella scena tristissima: una villa abbandonata, come tante altre, era ciò che risultava adesso quel posto.
La luce opaca di fine autunno faceva capolino da drappi di stoffa stracciati appesi alle finestre - Klaus credeva che una volta quelle fossero state delle brutte tende, ma non le avrebbe mai ridotte in quello stato.
A che scopo ridurre la loro casa così? Era questo che si domandava, camminando lentamente tra i frammenti di vetro, ceramica, porcellana, legno. Un groppo gli si formò in gola e non riuscì a mandarlo giù. Erano riusciti a distruggere anche quella parte della sua vita. Forse l'avevano svuotato talmente tanto che alla fine non sarebbe più stato capace di provare dolore. Non sarebbe stato capace di provare più nulla.
E non sapeva a chi dare la colpa di tutto quello. Certo, i diretti interessati erano quelli di Capitol City - e ovviamente Benjamin -, ma era lui stesso, in prima persona, a provare gran parte del rimorso. 
Sentiva, nel profondo, che in realtà la colpa di tutto era soltanto sua. E non riusciva a scacciare quella terribile sensazione di frustrazione mista a malinconia in nessun modo. Per placarla, si disse che se ne sarebbe andata da sola. Forse, un giorno.
Klaus continuò a tenere Klaudia per mano e insieme salirono al piano di sopra. 

Non sentì neanche la botta contro il pavimento quando cadde in ginocchio, nella sua vecchia stanza matrimoniale. Era resistito all'incirca dieci secondi, ma poi il respiro gli si era bloccato e i polmoni avevano smesso di pompargli ossigeno nel sangue. E il dolore era esploso, ancora una volta, violento, come un ordigno che si sarebbe sempre riattivato all'infinito.
Quella era la loro camera.
Fu un misto di ricordi a farlo cadere in ginocchio, un misto di risate, lacrime, grida, baci, sorrisi lontani. Era tutto concentrato in quella stanza: gran parte della sua vita convergeva in quel letto, in quei mobili, in quelle mura ormai decadenti e dall'intonaco rovinato. La sfumatura glicine della pittura si era estinta, l'armadio era stato sfondato, ogni cornice o cimelio era stato rubato. 
Fu quel degrado, insieme ai ricordi, a devastarlo del tutto.
Klaudia gli si avvicinò, preoccupata, e gli poggiò una mano sulla spalla, scuotendola leggermente. Klaus rimase ancora fermo in quella posizione per qualche secondo, mentre il suo sguardo vagava in cerca di anche un solo, singolo dettaglio positivo a cui appigliarsi, ma alla fine si alzò e si strofinò le palpebre.
E' solo una stanza, tentò di imporsi, lanciando un'occhiata a Klaudia, che lo fissava di rimando con i suoi grandi occhi grigioverdi. Solo una stanza, Klaus.
« Klaudia » disse, abbassandosi un po' alla sua altezza e prendendola leggermente per le spalle. « Mi aiuti a cercare un anello? »
La bambina fece un'espressione confusa, poi Klaus indicò la base del proprio dito anulare e allora capì, annuendo vigorosamente. Avrebbe fatto di tutto per Klaus, in quel momento. Lui sapeva che non c'era alcuna speranza di ritrovare la propria fede - la casa era stata completamente trafugata molto tempo prima del proprio ritorno al Distretto - ma un tentativo non gli costava nulla.
Mentre Klaudia curiosava nei comodini e nel comò, Klaus si dedicò all'armadio distrutto. Aveva ben poche speranze, ma qualsiasi oggetto avesse ritrovato sarebbe stato per lui un tesoro da custodire avidamente. 
Spostò la prima anta di legno penzolante e frugò all'interno, rovistando tra i pochi vecchi abiti che erano rimasti: un suo cappotto nero, delle cinture, delle canotte di cotone, una sciarpa bianca. Klaus quasi si bloccò, nel riconoscerla. Era la sciarpa che aveva regalato a London per il suo ventiduesimo compleanno - uno dei pochi regali che le avesse mai fatto. La prese tra le mani quasi tremando, avvicinandosela al viso e inspirandone l'odore. Con sua grande sorpresa, profumava ancora di buono, di lei. Era il profumo più bello che avesse mai sentito in tutta la sua vita, l'unico profumo che quella casa aveva conservato, l'unico profumo immortale e incancellabile. Chiuse gli occhi e la rivide davanti a sé, la rivide sorridergli e parlargli, sembrò persino che quella sciarpa fosse la sua mano che gli accarezzava una guancia. 
Riaprì gli occhi e si voltò verso Klaudia, che aveva preso a cercare sotto il materasso, infilandosi persino sotto il letto. Gli scappò un sorriso e le si avvicinò, con l'intenzione di regalarle la sciarpa della madre; dopotutto era nata proprio il mese dopo il compleanno di London e quella sciarpa era una delle poche cose che le sarebbero rimaste di lei. Ma quando Klaudia spuntò nuovamente da sotto il letto, fu con un'espressione vittoriosa che mostrò a Klaus un piccolo e opaco anello dorato.

 

*


Benjamin non dormiva da molto tempo. Aveva dimenticato persino cosa volesse dire cadere in un sonno profondo e dimenticare il mondo circostante. Era una sensazione lontana e ormai sconosciuta, quasi impossibile da ricordare.
Le sue notti consistevano in un ripetuto groviglio di pensieri e rimorsi. Soprattutto rimorsi. Sensi di colpa. A volte cadeva in dormiveglia, ma ogni minimo rumore o spostamento lo riportava bruscamente alla realtà, senza concedergli tregua.
Sogni e incubi erano spariti da molto tempo, lasciando spazio a un frustrante ed infinito vuoto cosmico. Il buio che lo abbracciava quando chiudeva le palpebre per provare a riposare era diventato il suo migliore amico e confidente. Ma il suono del suo stesso respiro lo disturbava e poi le mani cominciavano a prudergli e le dita sembravano incollate. Ed ecco come Benjamin non riusciva più a dormire; le poche ore di sonno che il suo corpo gli concedeva sembravano soltanto una mera e perfida illusione.
Quella notte, Ben aveva deciso di svuotare un'intera boccetta di sonniferi. Il suo corpo era debole e stanco, la mente provata e i suoi nervi non avrebbero retto a lungo di quel passo. Doveva ricominciare a prendere le pillole, le medicine, i farmaci, perché solo in questo modo forse le cose sarebbero ritornate al proprio posto. 
Solo in questo modo Emil se ne sarebbe definitivamente andato.
Ben fece un sorriso amaro nel riempirsi un bicchiere d'acqua: alla fine aveva vinto lui. L'aveva sopraffatto, l'aveva annientato, gli aveva portato via tutto ciò che amava. 
La colpa non è tua, Benjamin, gli sussurrava a volte la sua voce impertinente, che compariva dal nulla, nei momenti in cui il rimorso per aver lasciato morire sua sorella si faceva così grande da spingerlo a tentare il suicidio ancora una volta - magari era la volta buona, magari quella volta sarebbe riuscito a sparire da quel mondo pieno di sofferenza, si diceva. Ma c'era qualcosa che lo bloccava. Come un elastico che lo tratteneva: lui tentava di spingersi sempre più avanti, forzando quella molla, ma alla fine tornava sempre indietro, al punto di partenza. Al punto in cui tutto gli era crollato addosso, al punto in cui lo specchio della sua vita piena di menzogne e dolore andava in frantumi, lasciando dietro di sé soltanto il nulla.
Ben pensava che fosse Emil a trattenerlo, ma non riusciva ancora a capire se lo facesse per vedere fin dove si sarebbe riuscito a spingere prima della fine o per obbligarlo a una dura sopravvivenza. Emil gli diceva che non aveva colpe per quello che aveva fatto, Emil attribuiva tutto il merito di quel dolore a Klaus e London, Emil avrebbe tanto voluto uccidere Klaus e riprendersi London, ma alla fine le cose erano andate diversamente. E adesso la sua presenza stava svanendo, lentamente, come se la morte di London avesse catalizzato la sua progressiva distruzione.
Sarebbe rimasto, per la prima volta nella sua vita, davvero solo con se stesso. E nonostante tutto, nonostante avesse odiato Emil dal profondo della propria anima, ne era terrorizzato. 
La solitudine, del resto, era sempre stata la sua più grande fobia. Quando anche Erzsébet sarebbe morta, quando Klaus e Klaudia sarebbero scappati lontano da lui... cosa avrebbe fatto, cosa sarebbe successo?
Ben evitò di rispondere a quella domanda e si preparò a ingerire le pillole, quando improvvisamente qualcuno bussò alla porta del maniero. Sobbalzò leggermente, lasciando cadere la prima pillola che aveva preso in mano a terra. 
Posò il bicchiere ancora pieno sul tavolo e andò ad aprire, non voleva che sua madre si svegliasse. La porta cigolò leggermente e un forte vento autunnale investì l'atrio, facendolo rabbrividire. Ma fu nel riconoscere il proprio ospite che il respiro gli incespicò per la gola.
« Klaus? » Non si aspettava di vederlo, lì, sull'uscio di casa, di nuovo faccia a faccia con lui. Non dopo così poco tempo, almeno. C'era qualcosa di diverso in lui, non aveva neanche più la barba e i capelli lunghi.
Klaus si appoggiò allo stipite della porta e, per qualche assurdo motivo, gli fece un grande sorriso, anche se un po' spento. « Ciao, Ben, posso entrare? »
Ben perse qualche secondo ad osservare il suo viso, spiazzato da quella scena, ma poi comprese cos'era accaduto quando si soffermò sull'odore pungente di alcool che emanava il ragazzo. « Sei ubriaco » constatò semplicemente, anche se una minuscola parte di lui aveva sperato che quel sorriso che gli aveva rivolto fosse sincero. 
« Non sono ubriaco » protestò l'altro, con un tono strascicato che rivelava l'esatto contrario. « Dov'è London? Fammi entrare. »
Ben rimase con la mano sulla maniglia della porta, bloccato, e gli disse freddamente: « Vai a casa, qui non c'è nessuno. »
Klaus sbuffò e incrociò le braccia. « Avanti, Ben, non farti pregare. »
Un lampo attraversò la mente dell'albino. « Dov'è Klaudia? L'hai lasciata a casa... da sola? » chiese, realizzando che la sua bambina adesso si trovava isolata dal mondo, nel suo letto a dormire. Ma se si fosse svegliata... 
Senza neanche indugiare, afferrò il proprio giubotto dall'attaccapanni nell'angolo - fortunatamente indossava ancora gli abiti di quel pomeriggio piuttosto che il pigiama - e prese Klaus per un braccio, sbattendo la porta.
« Cosa ti prende? » domandò il moro, dimenandosi.
Ben riuscì a trascinarlo per qualche metro, ma poi l'altro si liberò. « Senti, puoi andare dove vuoi, ma io vado da Klaudia. »
Klaus si fermò e lo fissò per qualche secondo, poi riprese a camminare dietro di lui, preso dal senso di colpa per aver lasciato la figlia sola in casa nel cuore della notte. Ma la sua mente era ancora annebbiata dall'alcool e da quel momentaneo senso di liberazione, Ben riusciva a vederlo perfettamente nei suoi occhi. Riusciva a leggere ogni suo contraddittorio sentimento, in quel momento, come se Klaus fosse un libro aperto e rovinato. 
Benjamin si incamminò verso il vecchio maniero dei Wreisht a passo spedito e Klaus lo seguiva, ora stranamente in silenzio. 
Il vento continuava a soffiare, forte, e il Distretto - deserto e buio a quell'ora - aveva un'aria spettrale. Carte, foglie e polveri volavano e vorticavano raso terra sull'asfalto, creando un triste contrasto con la tipica staticità di quel luogo che, in fondo, era sempre rimasto uguale a se stesso, anche dopo la rivolta. 
All'improvviso, durante il tragitto, Klaus parlò di nuovo. « Come mai non dormivi? »  
Ben voltò il viso verso di lui e gli lanciò un'occhiata penetrante. Era probabile che Klaus avesse momentaneamente dimenticato gli avvenimenti degli ultimi mesi dopo la sbronza di quella notte, ma non riusciva a giustificarlo per aver lasciato Klaudia da sola. Klaudia non meritava la solitudine, Klaudia non avrebbe fatto la sua stessa fine, mai.
Figuriamoci però se Klaus riesce a giustificare me per tutto ciò che ho fatto, pensava intanto, tornando a guardarsi la punta delle scarpe e procedendo più velocemente.
« Dì la verità, ti stavi divertendo con qualcuno, eh? » ammiccò il moro, dandogli una leggera spallata.
Per tutto il tragitto non si erano neanche sfiorati e Ben, a quel contatto improvviso e inaspettato, si sentì del tutto inerme e sentì l'irrefrenabile impulso di difendersi. « Sei in vena di scherzare? » gridò, spingendo Klaus con tutta la forza che aveva; il ragazzo perse l'equilibrio e cadde sull'asfalto, frastornato. « Beh, perché io no! »
Klaus sembrò rendersi conto solo in quel momento della persona con cui stava parlando - la persona che per settimane l'aveva torturato. Spalancò gli occhi e cominciò a indietreggiare, senza neanche alzarsi, come se Benjamin avesse ancora pieno controllo di lui e della sua libertà.
Ben, d'altro canto, si rese conto solo in quel momento della sua reazione fin troppo istintiva. Nel guardare Klaus di nuovo a terra, di nuovo terrorizzato, di nuovo strisciante... qualcosa dentro di lui si risvegliò. Si guardò i palmi delle mani, che avevano preso a tremare come ogni volta che i sensi di colpa lo assalivano violentemente, e balbettò qualche parola che lui stesso non riuscì a sentire.
Non poteva permettere a Emil di risalire a galla, non poteva permettergli di distruggere ancora le persone che amava. 
« Klaus... » mormorò, con un tono basso e sottile, quasi fosse lui quello terrorizzato e non l'altro. Si passò una mano sulla fronte e poi gli tese l'altra per aiutarlo a rialzarsi.
« N-no... tu non sei Ben... » sussurrò Klaus, fissandolo con sguardo pieno di rabbia e paura al contempo. « Tu... tu sei... »
« Io non sono nessuno » tentò di rassicurarlo l'albino. « Ti giuro che non ti toccherò mai più, ma ora alzati, ti prego... »
Klaus restò a fissarlo per qualche secondo, ma poi afferrò la sua mano e si tirò su, pur barcollando ancora. « Tu non sei Ben » ripeté, stavolta con tono più convinto, anche se meno duro. 
« Sarei dovuto esserlo » rispose Benjamin mestamente. « Sarei dovuto essere tutt'altro. Hai ragione. »
Klaus distolse lo sguardo da lui e quel luccichio divertito nei suoi occhi venne sostituito da un'ombra nostalgica. Mentre si incamminavano nuovamente, prese a giocherellare con una catenina che portava al collo e che catturò l'attenzione di Ben. Era semplice e d'acciaio, corta, si poteva nascondere facilmente sotto la maglietta. Alla sua estremità era appeso un anello d'oro, che Ben identificò come la fede nunziale di London - era troppo stretta per poter essere di Klaus. Si domandò brevemente dove l'avesse trovata, ma poi, nell'elaborare quel dettaglio, scoprì che non gli importava. Apparteneva a lui, poteva farne ciò che voleva. Era sua.
Immaginò i loro nomi scritti e intrecciati all'interno dell'anello e una fitta allo stomaco per poco non lo bloccò sul posto; e allo stesso modo, la sua immaginazione vagò ben oltre, figurandosi i loro sguardi e le loro mani e i loro corpi intrecciati, indivisibili. Ma in un modo diverso da come lo erano stati lui e sua sorella, in un modo estraneo che non riusciva quasi a concepire. In un modo che lui aveva sempre bramato e per cui aveva sempre sofferto. 
Ben avrebbe dato la vita per ricevere lo stessto trattamento che aveva ricevuto London, sempre amata e protetta da Klaus, come se lei fosse stata l'unica dea da dover onorare, l'unica persona per cui morire senza indugio.
E un pensiero lo colpì, allora. London sarebbe per sempre stata intrecciata a loro. Nonostante tutto, nonostante la sua morte, non li avrebbe mai davvero abbandonati. Nonostante tutto lei sarebbe stata sempre il muro invalicabile tra loro due.
Klaus si portò la fede tra le labbra e poi la lasciò ricadere sul proprio petto. Allora si voltò verso di lui e lo guardò profondamente, come se lo stesse analizzando. E Ben si sentì disarmato del tutto da quello sguardo, si sentì piccolo e insignificante. 
« Mi manca, Benjamin » disse infine, semplicemente, ora abbassando gli occhi sull'asfalto. « Mi manca da morire. »
Benjamin fu scosso da tanta improvvisa e straziante sincerità, ma sapeva che Klaus da ubriaco tendeva a dire tutto ciò che gli passava per la mente, indipendentemente da quanto tristi o insensati fossero i suoi pensieri. « Anche a me, Klaus » rispose con voce lieve. Anche a me. Ed era la verità. London gli mancava ferocemente, come una parte di lui che gli era stata strappata via e che non poteva essere più colmata.
« Vorrei tanto che fosse qui a rimproverarmi per essermi ubriacato, o a provocarmi per vedermi perdere le staffe, o ad abbracciarmi per dirmi che va tutto bene » continuò il moro, con un'espressione affranta. « Non è giusto. »
Da quando London era morta, Ben si era sempre domandato se avesse fatto la scelta giusta, se avesse fatto il possibile per proteggere sua sorella e Klaus dalla furia di Emil. La risposta era no, chiaramente. Non era giusto, né sensato, né concepibile che London si fosse dovuta sacrificare per lasciare in vita loro due.
London che spesso era stata egoista, bugiarda, negligente e orgogliosa, pur portando il bambino di Klaus in grembo, alla fine aveva deciso di morire. Era stata una sua decisione, una a cui non poteva sottrarsi. Se lui fosse stato nei panni di lei, avrebbe voluto che la richiesta del proprio gemello - ancora quel maledetto e meraviglioso legame tra loro due che li aveva portati al baratro - venisse esaudita. E Ben si rammaricava di non aver potuto fare altro, di non aver potuto dare un futuro a quel bambino, di non aver potuto lasciare London libera, di non aver dato la possibilità a Klaus di riabbracciare la moglie che aveva amato per una vita intera. 
Ma era stata una decisione di London, quella di morire. E questo, purtroppo, Klaus non l'avrebbe mai capito, né accettato. Non avrebbe mai avuto la facoltà di comprendere cosa volesse dire lasciar morire la propria sorella gemella per lasciare in vita la persona che lei aveva più amato. Per il suo bene. 
Se essere stato risparmiato dall'esecuzione, se essere amato così profondamente da due persone allo stesso tempo che avevano mandato all'aria tutto per renderlo felice, se accettare di comprendere la malattia di Ben non gli andava bene... cos'era giusto, dunque, per lui?
Come se stesse leggendo i suoi pensieri, Klaus aggiunse a bassa voce: « Mi hai salvato la vita. » E Ben pensò che quella frase non avesse mai avuto significato più negativo. Capì che qualsiasi cosa fosse accaduta, qualsiasi spiegazione gli avesse dato, Klaus lo avrebbe sempre incolpato, disprezzato, biasimato. 
Ne aveva tutto il diritto, del resto.
La consapevolezza che non l'avrebbe mai perdonato lo accompagnò per tutto il tragitto rimanente verso il maniero dei Wreisht.

Salì personalmente a controllare che Klaudia non si fosse mossa dal proprio lettino, e per fortuna era così. Riposava abbastanza tranquillamente, rannicchiata in posizione fetale e con un braccio sotto il cuscino rivestito con una federa rosa. Ben tirò un sospiro di sollievo e rimase per qualche minuto ad osservarla mentre dormiva, soffermandosi su ogni dettaglio che potesse fargli pensare che qualcosa fosse fuori posto.
Klaudia aveva la fronte leggermente corrugata e le labbra socchiuse, come se nel sonno avesse un'espressione imbronciata perché qualcuno la stava infastidendo. Le rimboccò le coperte, le augurò in silenzio di fare dei bei sogni e si apprestò a spegnere la luce della piccola lampada sul comodino accanto al letto, ma poi si ricordò che lei aveva paura del buio e quindi la lasciò accesa. 
Uscì dalla stanza e chiuse la porta, scendendo nuovamente al piano di sotto, dove Klaus era ancora sveglio e in piedi. 
« Adesso vai via? » chiese infatti lui, appoggiato con le spalle contro il muro. Ben non poté fare a meno di notare che, anche in quello stato, pur essendo ubriaco e stanco, Klaus manteneva sempre quel suo atteggiamento un po' sciatto e ammiccante che da sempre lo caratterizzava. Lo stava fissando dal basso verso l'alto, con le braccia incrociate e una gamba un po' piegata. E lo trovava dannatamente attraente e dannatamente invitante, ma non poteva permettersi di fare pensieri del genere in quel momento.
Notò che quella stanza era proprio quella in cui si erano incontrati per la prima volta, quando Frantz Wreisht li aveva presentati l'uno all'altro. Quanti anni avevano allora, otto? Ne erano davvero passati all'incirca venti da quel giorno? 
Era cambiato tutto. Se magari quel giorno non fosse esistito, se magari loro non si fossero mai conosciuti, forse adesso le cose sarebbero state migliori per tutti e tre.
« Sì, vado via » rispose, avvicinandosi alla porta d'ingresso. « Ma tu non lasciare più Klaudia da sola, resta in casa. »
Klaus sospirò. Sembrava già aver accantonato il dialogo avuto prima di giungere a destinazione, perché gli fece un nuovo sorriso, questa volta un po' sghembo. « Se vuoi puoi restare. »
Ben quasi stentò a credere alle proprie orecchie. « Vuoi che resti? »
« Perché no? » ribatté il moro, staccandosi dal muro e avvicinandosi a lui. « Mi sento solo e questa casa è così vuota... »
L'albino alzò un sopracciglio. « C'è tua figlia, di sopra. »
« Ma con lei non posso parlare, né posso ascoltarla » replicò Klaus, avvicinandosi ancora di qualche passo. A Ben per qualche istante quella breve distanza fece paura, come se i ruoli tra di loro si fossero nuovamente invertiti: chi teneva il coltello dalla parte del manico era ancora ignoto. « Te l'ho detto, Ben. London mi manca. Mi manca. Sono solo adesso, non è ciò che volevi? »
Adesso capisci cosa vuol dire essere soli, vero, Klaus?, Emil avrebbe risposto, ma Ben mormorò soltanto: « No, Klaus, non è ciò che volevo. Io volevo soltanto... sparire. »
L'altro scosse la testa e lo guardò dritto negli occhi. « No, non sparire, Benjamin. Non adesso. »
E fu soltano caos, dopo, perché Klaus gli afferrò la nuca e lo baciò. Il mondo sembrò crollare per l'ennesima volta quella notte, sembrò andare in mille pezzi e poi ricomporsi da solo alla velocità della luce, perché Ben fino a qualche istante prima credeva che non avrebbe mai più provato quella meravigliosa sensazione in tutta la sua vita. Ma quel bacio sembrava soltanto un pretesto per sopperire alla mancanza fisica di London; era falso, in qualche modo, falso e vorace, perché Klaus era come affamato di qualcosa che non avrebbe mai più ritrovato in nessun altro, neanche in lui.
Si staccò bruscamente, con gli occhi spalancati e il respiro velocizzato. « No, Klaus, no, no, ti prego... » sussurrò, quasi  supplicandolo di lasciarlo in pace. Perché lui sarebbe dovuto morire in solitudine e in agonia, con solo i ricordi di quelle sensazioni e di quell'amore così doloroso e al contempo e inebriante che l'aveva distrutto per gradi. Non meritava una seconda possibilità, non meritava neanche un briciolo della sofferenza di Klaus - o della sua passione.
E poi... lui era ubriaco, esattamente come la loro prima e ultima volta insieme in quello squallido ostello della zona ovest. Non voleva che quella notte finisse così, voleva andarsene semplicemente a casa e imbottirsi di sonniferi finché il suo stomaco non sarebbe collassato.
Doveva restare solo, solo, solo
Klaus lo inchiodò improvvisamente al muro dietro di lui, come se non accettasse il fatto di poter essere rifiutato. Il suo era un comportamento irrazionale e confuso, ma al momento sembrava non importargli altro.
« Supplicami. Ricordi? » gli disse a un orecchio, premendo contro il suo petto e facendo scorrere le labbra sul suo collo esposto. 
Non hanno lo stesso collo, non hanno lo stesso profumo, non hanno la stessa pelle, Ben era siuro che Klaus stesse pensando questo in quel momento. Eppure continuava a baciarlo, senza ascoltare le sue blande proteste, senza lasciarlo andare.
London gliel'aveva detto che, una volta che lei sarebbe morta, ci sarebbe stata una possibilità in più per loro due.
Ma non era vero. Certo che non era vero. Klaus non l'avrebbe mai amato o voluto. Adesso lo desiderava soltanto perché si sentiva solo e perché voleva sfogarsi. Se fosse stato lucido l'avrebbe trattato in tutt'altro modo.
« Klaus... » provò a dissuaderlo ancora, perché le parole erano la sua unica arma in quel momento. Niente più fruste, graffi e ferite, solo stupidissime parole. Non riusciva a respingerlo, non riusciva a scappare. Ed è risaputo che, per quanto esse possano essere dure, combattere con le parole non serve assolutamente a nulla.
Infatti Klaus lo zittì immediatamente e continuò a baciarlo - e continuò a ucciderlo, lentamente.
Perché se da un lato Ben l'aveva distrutto con la violenza, Klaus lo stava facendo in quel modo ancora più brutale e dolce allo stesso tempo.
Gli sarebbe dovuto resistere, avrebbe dovuto respingerlo e rifiutarlo, avrebbe dovuto allontanarsi e scappare.
Tuttavia non ci riuscì.


 
*


« Klaus? »
Fu un richiamo lontano, quello che sentì. Non ricordava di preciso come fosse finito in quel posto: sembrava una semplice ma rigogliosa radura, piena di alberi, fiori e piante di un verde luminoso. Klaus capì subito che si trattava di un sogno, perché non ricordava di aver mai neanche immaginato un luogo così meraviglioso e tranquillo. 
Proseguì lentamente, a piedi nudi sull'erba bagnata di rugiada, respirando a pieni polmoni quell'aria fittizia. 
Sentiva delle voci, in lontananza, voci familiari e gioiose, voci che desiderava raggiungere disperatamente. E risate, risate di bambini.
Velocizzò il passo e si addentrò in quel labirinto di foglie e arbusti, finché non si riscoprì a correre a perdifiato, alla ricerca della fonte di quei suoni così melodiosi. A un certo punto fu così tanto vicino alle risate di quei bambini che cominciò a guardarsi intorno per cercare di capire dove si trovassero. 
Dal tronco di un albero spuntò un bambino all'incirca dell'età di Klaudia, che correva per non farsi prendere da una bambina più piccola dietro di lui. Non riusciva a definire l'età di quest'ultima, ma lei riuscì comunque a fargli spuntare un sorriso sulle labbra: era un po' paffuta, con la frangetta castana, e giocava ad acchiapparella con il maggiore. Entrambi non fecero caso a lui, ma continuarono a ridere e scherzare placidamente in quell'angolo di paradiso.
Klaus si sarebbe fermato ad osservarli per ore, ma fu di nuovo quel richiamo ad attirarlo, questa volta così nitido e vicino che sentì il proprio respiro bloccarsi e il cuore cominciare a battere molto più velocemente.
« Klaus. »
Klaus si voltò ancora una volta. Dove prima c'era il nulla, adesso aggrovigliata ai rami di un albero c'era un'altalena fatta di foglie e fiori, che si dondolava al ritmo della donna seduta su di essa. 
Eccola, eccola con i suoi bei capelli albini e il sorriso luminoso, eccola con i suoi occhi intriganti e l'espressione serena. 
« London. » La sua era una constatazione. Sì, era lei. Sì, era la prima volta che la sognava
viva. « Io... » cominciò a dire, ma perse presto le parole, quasi annullato da quella visione.
London gli rivolse un altro sorriso, oscillando ancora un po' sull'altalena, prima di scendere e avvicinarsi a lui. 
Klaus rimase immobile: avrebbe voluto piangere, ancora, ma anche la tristezza in quel momento era sopraffatta dal...
sollievo. Dal sollievo di poterla rivedere nei suoi sogni, esattamente come se fosse viva e vegeta. E, pur convivendo costantemente con la consapevolezza che il cadavere di London si trovasse in realtà a miglia e miglia da lui, il suo cuore non riuscì a non credere che sua moglie fosse veramente lì - anzi, si autoconvinse che non si sarebbe mai più risvegliato da quel sogno. 
Un violento brivido gli percorse la schiena quando London - o la sua riproduzione onirica - gli accarezzò con gentilezza una guancia. Gli sembrò quasi di sentirlo, quel contatto, come se la sua mano fosse reale. 
« Sei cambiato » sussurrò piano London, esaminandogli il viso con le dita sottili.
« London, io... » La verità era che Klaus non sapeva cosa dire. Non sapeva da dove
partire. La verità... era che le parole non servivano a nulla, gli bastava soltanto averla lì accanto a lui, tutto il resto non aveva importanza.
« Shh, va tutto bene, amore » lo interruppe lei, quasi come ascoltando i suoi pensieri. Lo baciò leggermente sulle labbra e Klaus la strinse a sé perché non voleva che se ne andasse, non voleva che morisse di nuovo. « Va tutto bene » ripeté London, continuando ad accarezzargli il viso. « Devi perdonarlo. »
La sensazione di pace nel suo petto, improvvisamente, si spense di botto. « Cosa? » chiese, interdetto.
« Perdonalo, Klaus. » L'espressione di London non lasciava dubbi sulla persona a cui lei si stava riferendo. 
Klaus non voleva parlare di Benjamin. Non con lei, non in quel momento. Non gli avrebbe permesso di rovinare anche quel sogno. « Posso restare? » domandò quindi, deviando la conversazione. 
« No, Klaus » rispose la moglie con un sorriso triste. « C'è ancora bisogno di te dall'altra parte. Non permetterò che Ben e Klaudia rimangano soli. Non se lo meritano. »
Klaus restò quasi spiazzato e abbassò lo sguardo a terra, non sapendo cosa replicare. Una lacrima caparbia sfuggì al suo controllo. London gliela asciugò con il pollice, dopodiché scomparve.
Scomparve tutto.
Come in una fotografia che si sfoca sempre di più, fino a lasciare soltanto un vuoto grigio.


Klaus riaprì gli occhi e la prima cosa a cui pensò fu quanto gli sarebbe piaciuto morire. Morire per rivederla e sentirsi vivo.
L'amarezza di aver avuto ragione sul fatto che fosse soltanto un sogno lo investì in un'ondata violenta. Rimase fermo, steso su un fianco nel letto, fissando un punto imprecisato della stanza, solo con la propria tristezza e un gran mal di testa a fargli compagnia.
Soltanto dopo qualche minuto di assoluto silenzio, però, si accorse del respiro lieve alle sue spalle. 
Klaus si congelò e non osò muoversi. Era un respito lento e calmo, quasi impercettibile. Il cuore cominciò a martellargli nel petto. Forse era stato davvero tutto un orribile incubo, forse London era lì e...
No, non era possibile. Questa non è casa nostra, questo non è il respiro di London, pensò. 
Non aveva il coraggio di voltarsi, specialmente dopo aver notato i propri vestiti buttati sul pavimento e dopo aver constatato di aver dormito nudo, facendogli escludere la possibilità che fosse Klaudia ad essersi infilata nel letto. 
Era davvero stato con una puttana? L'aveva davvero tradita... così?
L'amarezza venne sostituita da uno straziante e doloroso senso di colpa. Si alzò su un gomito e si voltò piano, deciso ad allontanare e pagare quella donna perché se ne andasse il prima possibile. Non poteva credere di essersi concesso ad un'altra persona in quel modo, facendole vedere tutte le proprie cicatrici e sfogandosi per placare la mancanza di London, solo perché la sera prima aveva bevuto qualche alcolico di troppo. Si sentì così male a quel pensiero che sarebbe volentieri corso in un angolo a nascondersi dal mondo intero per sempre.
Ma ciò che vide, una volta girato dall'altro lato del letto, lo lasciò ancora più sconvolto, atterrito, scioccato. 
Era Benjamin Bridge quello steso accanto a lui. 
 

 














 
   
 
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