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Autore: Francine    01/04/2015    4 recensioni
Tutti abbiamo degli scheletri nell'armadio, segreti che non vorremmo che mai e poi mai fossero rivelati, giusto? Bene. Anche Milo di Scorpio ne ha uno. E bello grosso, pure. Che proviene dritto dritto dal suo passato. E che salta fuori, all'improvviso, da un anonimo quaderno con la copertina bordeaux...
[Baby!Gold Saint!]
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aquarius Camus, Aries Shion, Scorpion Milo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Scripta Manent'
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Ingannare chi inganna è un piacere doppio.
(Jean de La Fontaine, Favole, 1668/79)

 
 
 


Ad ogni angolo di strada il sentimento dell'assurdità potrebbe colpire un uomo in faccia. L’ha scritto Albert Camus, tanto tempo prima. Milo non conosce questo Albert Camus, ma è pronto a scommettere che deve essere un tizio antipatico tanto quanto il Camus che conosce lui; quello che ha guadagnato le vestigia dell’Acquario e che l’ha convinto – non sa nemmeno lui come – a seguire quella strada assurda. La via più breve per finire schiantato sulle rocce, altro che consegnare la missiva a Saga!
«Manca ancora molto?», gli chiede arrampicandosi sull’ennesimo sperone a picco sul mare.
«Non saprei…»
Non saprei?! «Come, prego?»
Camus produce un suono a metà tra lo sbuffo spazientito ed il sospiro. «Saga è in una caletta poco distante. Una caletta da cui si domina l’accesso ad Atlantide E che non può essere visitata dai turisti.»
«Quindi?»
Camus gli sventola sotto al naso una mappa. Ci sono una mezza dozzina di X che flagellano il litorale di Capo Sounion.
«Non capisco», dice Milo.
«Ho segnato le insenature. Quelle in cui è possibile che si trovi Saga, intendo.»
«Quindi stiamo andando a casaccio?»
Milo sorride, ma è uno scintillio pericoloso quello che gli attraversa gli occhi, simile, molto simile al sorriso che Rémy mette su quando qualcuno fa qualcosa di molto, molto stupido.
«No», replica Camus restando calmissimo e distaccato, «stiamo procedendo con metodo.»
«Con metodo», ripete Milo. Come un bravo pappagallino ammaestrato che ha imparato a ripetere il suo nome – Polly o Loreto che sia. «E quale sarebbe, questo metodo, di grazia?»
«Per esclusione.»
Se gli sguardi potessero uccidere, Etienne adesso sarebbe polvere. Atomizzato in un battito di ciglia, forse anche meno. Milo si volta, le mani nelle tasche e la schiena appoggiata ad uno scoglio. Il sole batte sulle loro teste con tutto il furore che solo Luglio sa regalare. Lo sciabordio delle onde, una cinquantina di metri più sotto, è un richiamo cui si fa fatica a resistere e se non fosse per la brezza che soffia da Levante, starebbero sudando ancor di più. Lo Scorpione tace. Come se a lui, tutto quel caldo non desse poi così fastidio. Anzi…
«Hai un’idea migliore?», gli domanda Camus. Attaccare, questa è la soluzione. Sferrare il primo colpo e costringerlo a rispondere.
Ma Milo lo spiazza. Si stacca dallo scoglio e viene verso di lui, le mani in tasca e l’espressione atarassica da far dubitare a Camus che sia davvero il suo compagno, quello. Devono averlo rapito gli alieni e lui non deve essersene accorto.
«Visto che conosci la strada...»
«Io non conosco la strada, io…»
«…perché non vai avanti tu?»
Etienne lo fissa, chiedendosi dove sia la fregatura. Vuole spintonarmi di sotto e farmi sfracellare contro le rocce, pensa il francese, guardando di sottecchi il compagno. Ma poi si dice che sta iniziando a pensare come Milo. Male. Coi piedi. Lasciandosi prendere dall’impulsività, senza seguire la logica. Sono compagni, giusto? Giusto. Camus fissa il blu acceso degli occhi di Milo. Non lo attaccherà. Non sarebbe corretto. Non sarebbe leale. A lui piace il gioco pulito. Faccia a faccia. E gli piace da matti guardare negli occhi il proprio avversario nel momento decisivo, quello in cui cala Antares. Non è forse la pappardella che Milo ha raccontato sino allo sfinimento – altrui – dal momento in cui sono arrivati al Santuario.
Sì, che lo è, si dice Camus, asciugandosi il sudore dalla fronte.
«Va bene», e oltrepassa Milo, cartina alla mano, gli occhi dello Scorpione puntati sulla schiena che gli regalano un senso di fastidio e disagio e pericolo lungo tutto il percorso.



Uno come Saga di Gemini non passa inosservato nemmeno ricoperto di fango. C’è una potenza intrinseca nello sguardo fermo e deciso ad ammirare l’orizzonte, un physique du rôle che te lo fa inscrivere all’istante nell’empireo delle persone speciali, quelle che spiccano tra la folla come un papavero rosso in mezzo all’erba verde. Il mento saldo, le spalle larghe, tra i capelli la stessa aria che accarezza le chiome degli angeli vendicatori, quelli che il Signore Onnipotente inviava sulla Terra per amministrare – «per imporre», avrebbe detto Rémy – la Sua Giustizia. Gli manca solo la Spada Fiammeggiante al fianco, pensa Etienne, restando un passo indietro; ma se quel che si racconta sulla forza di Saga di Gemini corrisponde anche solo per un decimo alla verità, le sue mani grandi sono ben più pericolose di una qualsiasi spada dalla lama in fiamme, per quanto benedetta essa sia.
Deglutisce.
Adesso che sono arrivati, mentre il sole del primo pomeriggio indugia ancora alto nel cielo, Etienne non è più così certo che sia stata una buona idea lasciare a Milo l’onere e l’onore di parlare con Saga, ma che altro poteva fare? Lo Scorpione è madrelingua e lui no. E solo un madrelingua può cogliere quelle particolari sfumature, quelle particolari intonazioni che lui derubricherebbe ad inflessioni dialettali o cali di voce. Deve fidarsi di Milo, sperando che il cervello dello Scorpione registri tutte le parole di Saga e non si incammini per sentieri tutti suoi, rincorrendo quei pensieri che lo attraversano con la stessa luminosità di uno sciame di stelle cadenti che solca il cielo di Agosto.
Etienne sorride. Etienne si sforza di sorridere all’indirizzo di Saga, che fissa il mare Egeo come a volerlo sfidare, con la stessa espressione di chi pensa I miei occhi sono più blu di te. E Camus non si stupirebbe affatto se Saga mettesse a tacere l’incessante sciabordio delle onde con un solo, singolo sguardo.
 
Milo si fa avanti. Baldanzoso. Sta aspettando questo momento da quando si sono accordati sulla strategia – da quando Etienne gliel’ha promesso – e avanza verso Gemini intenzionato a fare bella figura e a mostrare all’Acquario come si tratta con uno dei grandi. Da pari a pari, da collega a collega, anche se attorno a Saga di Gemini aleggia un senso di latente pericolo. È qualcuno con cui non è saggio scherzare, qualcuno con cui occorre misurare le parole e ponderarle molto bene. E poi tacere. Come se si avesse a che fare con l’angelo vendicatore di cui sopra.
Stiamo facendo una pazzia, si dice Camus, prima di ricordarsi che Milo ha tirato il freno così tante volte durante il viaggio che è un miracolo che non si sia strozzato con le proprie mani. Forse Milo non è la persona più adatta per fare da ambasciatore. Sicuramente non lo è. Ma oramai il dado è tratto. E se proprio Milo dovesse far saltare la mosca al naso di Saga, beh, allora Camus spera – prega – che Athena sia così magnanima da inviare loro un altro Scorpione. Uno meno isterico. Uno meno impulsivo. Uno meno rancoroso. Non è chiedere troppo, no?
 
«Salve!», trilla Milo. Saga si volta in quell’istante, come se si fosse accorto solo adesso della loro presenza, e quel bastardo dello Scorpione inizia a parlare a briglia sciolta, fitto fitto, attaccando le parole le une alle altre, senza prendere fiato nel mezzo. Lo sta facendo apposta, si dice Etienne, che ha l’ordine di ascoltare cosa si dice in quella caletta. Come testimone. Stringe la mascella. Saga scocca uno sguardo perplesso prima e stralunato poi a quel soldo di cacio cui s’è inceppato il disco, e gli dice – gli intima – «Frena!», stendendo una mano davanti a sé, come a voler frenare la marea incombente che rischia di travolgerlo e portarselo a spasso sulle onde spumose dell’Egeo.
Milo si interrompe a metà di qualcosa che le orecchie di Camus registrano come aprolaapro la? – e regala al Santo dei Gemelli un’occhiata dubbiosa. Etienne sa cosa stanno pensando entrambi. Che diamine hai detto?!, da parte di Saga; Come osi interrompermi?!, nel cervello di Milo.
«Non ho capito niente», dice il Santo dei Gemelli, le mani sui fianchi e l’espressione titubante di chi suo malgrado deve avere a che fare coi matti. «Riavvia il nastro e ricomincia daccapo. Lentamente
Etienne trattiene un sorriso, ché non sta bene ridere delle disavventure altrui – anche quando se le sono andate a cercare col lanternino, pensa.
Il viso di Milo è rosso come una fragola matura. Stringe i pugni, le braccia distese lungo il busto, e poi ripete: «Salve, Saga di Gemini.» Pausa. «Il Sommo Sion, Sacerdote di Atene» pausa più breve «ci invia per avere notizie circa ciò che tu sai.» Pausa. Definitiva.
«Ciò che io so?» Saga di Gemini sbatte le palpebre. «Sentite, mocciosi», e a quella parola Milo freme, «chi siete voi due, esattamente?».
«Camus dell’Acquario e Milo dello Scorpione.» È Etienne a parlare, ché le labbra di Milo sono incastrate tra i denti. «Siamo venuti…»
«Momento», dice Gemini, facendo un passo avanti e chinandosi verso di loro. Li scruta, da capo a piedi, come a sincerarsi che gli stiano dicendo la verità. «Le domande le faccio io. Cosa siete venuti a fare?», chiede.
«A raccogliere i dati da te raccolti nell’osservazione dei movimenti del Signore dei Cavalli.»
«Hai usato due volte il verbo raccogliere», dice Saga. «Chi è che li vorrebbe, di grazia?»
«Il Sacerdote», sbotta Milo. Poi fruga nello zaino e ne estrae una pergamena stropicciata che sventola di mala grazia sotto al suo naso. «Ecco qui, Nobile Saga», gli dice. Saga gliela strappa di mano, si volta e si siede su uno scoglio, come se quella roccia aguzza fosse il posto più comodo al mondo dove mettere le chiappe. La civetta di ceralacca salta. La pergamena fruscia tra le sue dita. Milo freme all’idea di bucherellarlo con la sua cuspide. Camus attende.
 
Gli occhi di Saga corrono sulla carta inseguendo la grafia spigolosa del Sacerdote. Le sopracciglia si incupiscono man a mano che si addentra in quelle poche righe. Rilegge la missiva una, due, tre volte. Poi abbassa il foglio e regala loro uno sguardo perplesso. Quindi si volta ed osserva il mare.
Milo e Camus si gettano l’un l’altro un’occhiata dubbiosa, ma non hanno il tempo di esprimere a parole i loro timori che Saga mormora qualcosa.
«La bassa marea è vicina», dice. E basta. Restano a guardarlo come un oracolo particolarmente criptico. Un oracolo criptico e rigido come una statua di sale. Un gigante di pietra dallo sguardo corrucciato che senza dire una sola parola si alza, in un movimento fluido. Fa loro un cenno con la mano e si avventura per un sentiero ripido ripido alle sue spalle, tra i ciuffi di scopa marina che sbucano tra gli scogli. I due si regalano l’un l’altro un’occhiata ancora più perplessa, ma lo seguono. Sono in missione e per quanto strampalato sia il comportamento di Saga, il Sacerdote ripone in lui la massima fiducia. A stare da soli si ammattisce, pensa Milo saltando da uno scoglio all’altro. Camus chiude la fila.
 

È una casupola diroccata quella che li aspetta alla fine della strada. Una porta che si apre verso l’esterno, una ragnatela di vetri all’angolo della finestra che guarda verso la parete rocciosa dalla quale sono giunti, il tetto a spiovente massacrato dalla salsedine. Saga infila la porta senza far rumore. Lo seguono. Si avvicinano furtivi, come se stessero prendendo parte ad un qualche mistero che impone il massimo riserbo ed il massimo segreto, e si affacciano all’interno. Un pavimento di assi vetuste, uno scrittoio, una sedia, un canterano, un letto addossato alla parete.
Saga sta armeggiando con della carta ed una penna biro male in arnese di cui resta solo il tubicino con l’inchiostro, mordicchiato all’estremità. Milo si guarda intorno, come se fosse deluso dall’ambiente, ma in un certo senso affascinato da quello che sta vedendo e toccando quasi con mano. Quella è la casa di un uomo – e passi che Saga abbia appena una manciata di anni più di loro – un uomo in missione. Una sorta di 007 in salsa tzatziki uscito dalle pagine di un libro di mitologia che si rifugia in un nascondiglio che odora di salsedine e di chiuso. È così che diventerò anch’io un giorno?, si chiedono gli occhi dello Scorpione, spalancati di azzurra meraviglia sulle pareti spoglie ed i piatti accatastati nell’acquaio.
Camus si guarda alle spalle. C’è fretta nei gesti di Saga. Vuole mandarli via, è chiaro e palese; resta da capire il perché. Non li vuole attorno ma non perché teme la logorrea di Milo; non solo, almeno. Ha parlato di bassa marea. Possibile che in quel momento escano dalle acque i seguaci di Poseidone, come tanti marinai affogati che non trovano pace e tornano ad infestare gli incubi dei viventi?
Etienne non sa dove si trovi con esattezza il Santuario di Poseidone. «Ad Atlantide», gli ha risposto una volta Aiolos, distrattamente, mentre armeggiava con i vestiti strappati di Aiolia. Ma Atlantide dov’è? Nel cuore dell’Atlantico, oltre lo Stretto di Gibilterra, oppure da qualche parte in quella specie di lago che è il Mediterraneo?
Vorrebbe chiederlo a Saga, forse l’unico dei presenti a saperlo, ma si rende conto che ogni momento è prezioso e che le sue parole rallenterebbero la penna a sfera che corre sul foglio con già non poche difficoltà.

«Dove ho messo la ceralacca?»
Saga digrigna i denti. Apre e chiude un paio di cassetti nello scrittoio posto sotto alla finestra, con una cacofonia di oggetti che rotolano all’interno. Si dirige a grandi passi – due – verso il canterano, spalanca i cassetti fin quasi a farli cadere sulle assi sbeccate del pavimento, vi rovista all’interno e poi ne riemerge stringendo tra le dita timbro e ceralacca rosso sangue.
«Eureka!», esclama, con un accento diverso e da quello di Aiolos, e da quello di Milo.
«Di dov’è, secondo te?», bisbiglia allo Scorpione. Il quale riemerge dai suoi sogni ad occhi aperti con un «Eh?». Scocciato ed infastidito, come al solito. Camus scuote la testa. «Niente», dice, tornando a tenere d’occhio la situazione alle sue spalle. Se proprio devono arrivare i seguaci di Poseidone, lui farà loro la cortesia di attenderli.
Saga è tornato allo scrittoio. Scalda la ceralacca con una candela, la fa colare sul nastro che chiude la pergamena e poi vi preme sopra il sigillo. Soffia sulla civetta, brucia la missiva del Sacerdote usando la candela, poi afferra il plico e lo porge a Camus.
«Portatelo al Sacerdote. Di corsa.»
«È… È così grave?», chiede Camus, sbocconcellando le parole. Milo si guarda intorno circospetto.
Saga annuisce. «Non abbiamo molto tempo», dice – sussurra – e Camus deglutisce a vuoto. «Sta per tornare. Sarebbe un vero pasticcio se vi trovasse qui.»
«Ma chi sta per tornare?», domanda Milo.
Saga sorride.
«Atlantide, tu lo sai dov’è?»
No, brillano gli occhi di Milo. «Sotto il mare», risponde la sua voce.
«Sì e no. C’è un accesso da questo punto, una sorta di canale sotterraneo da cui è possibile scendere ad Atlantide senza incappare in correnti pericolose.» I due annuiscono. «Io mi tuffo regolarmente, ma laggiù c’è fermento in questi giorni, ed è difficile per me avvicinarmi quanto prima. Non so cosa stia accadendo. Per questo ho bisogno di un informatore…»
«Informatore?», chiede Milo. Dubbioso. Il sorriso di Saga risponde alla sua domanda. «Ahh…», dice. Come se capisse solo in quel momento la reale portata di ciò che sta confidando loro Saga.
«E… il Sacerdote lo sa?», domanda Camus. Ancora dubbioso.
«Certo che sì», ribatte Saga. «Quando tutta questa storia sarà finita verrà con noi. Perderà la sua coda da pesce e…»
«Una sirena!», esclama Milo, con un trillo così acuto che l’avranno sentito fino al Santuario. «Una. Sirena!!»
«Sì, è una sirena. Una sirena che vuole vivere sulla terraferma…»
«Come nella favola?», insiste lo Scorpione.
«Come nella favola. Ma se la sirena vi trova qui, potrebbe sentirsi tradita. Sapete come sono le donne, no? E potrebbe saltare tutta l’operazione. Quindi adesso filate via per quel sentiero tra gli scogli e correte al Santuario. Consegnate quelle righe al Sacerdote e a nessun altro. Nemmeno ad Aiolos. Intesi?»
«Perché nemmeno ad Aiolos?», domanda Camus, memore di come la favola della sirena che diventa umana non sia finita poi tanto bene. Anzi.
Saga gli scocca un’occhiata capace di incenerire anche la banchisa polare. Poi sospira e dice: «Perché non voglio che questo compito gravi sulle spalle di un amico», con un tono di voce dolce e sereno ed un sorriso splendente per cui la testa di Camus va su e giù un paio di volte senza che l’Acquario se ne renda conto.
«Perfetto. Andate, ora. Dite al Sacerdote che la situazione è sotto controllo e che la prossima volta mi farò vivo io.» Pausa. «Ah, e state attenti.»
«A cosa?», chiede Milo uscendo di casa.
«Si mormora che girino strani personaggi, da queste parti. Ecate e Dioniso si stanno risvegliando, ma sono solo voci. Chiacchiere raccolte tendendo le orecchie. Voi, però, tenete gli occhi aperti. Intesi?»
«Intesi.»
«Conosci te stesso.»
«E niente in eccesso», e Scorpione ed Acquario risalgono lungo il camminamento sugli scogli piatti, tra i ciuffi di tamerici e qualche granchio che attraversa loro il cammino per poi nascondersi timoroso tra gli anfratti oscuri.
Saga resta accanto alla casa, a salutarli con la mano per molte, molte volte, fino a quando le loro teste non scompaiono oltre il crinale. Solo allora abbassa il braccio e rilassa i muscoli del viso. Si volta, la faccia a sfidare il mare che lambisce senza posa la piccola caletta dalla sabbia bianchissima e ridacchia tra sé e sé. Ci sono cascati. Hanno creduto che lui sia Saga. E questo è un bene. Il Sacerdote non ha divulgato il segreto che riguarda i Gemelli – «Ce ne sono sempre due. Per sopportare meglio un così pesante fardello», mormorava il vecchio Sion da dietro la maschera nei pigri pomeriggi d’autunno, quando solo Kanon e Saga e Aiolos lo seguivano per i camminamenti del Santuario. Sorride, una smorfia malvagia che gli inarca le labbra. Deve ancora studiare il piano nei minimi dettagli prima di proporlo a quel trombone di suo fratello; ma oggi ha avuto la conferma che nessuno dei ragazzini, al Santuario, è conscio dell’esistenza di un altro Gemelli. Kanon. O quei mocciosi non avrebbero continuato a chiamarlo Saga.
Sogghigna.
Oramai ci siamo. Tra poco suo fratello uscirà dall’acqua e dirà che no, ad Atlantide non s’è mossa una foglia. Come sempre. Eppure s’intestardisce ad immergersi ogni giorno, come se potesse cambiare qualcosa, nel frattempo. Saga, Saga, non ti capirò mai, si dice, sedendosi all'ombra ad aspettare che suo fratello – il suo gemello – riemerga dall’azzurra immensità marina.  




Davate questa storia per dispersa, vero?
Male! Eccoci qui con un altro capitoletto. Che volete farci, per me la Pasqua implica la prima passeggiata sul lungomare a riempirci i polmoni di salubre iodio in attesa dell'estate. *sospira*

Il quiconce è una rappresentazione del numero cinque. Avete presente come sono disposti i puntini del 5 sulla faccia del dado (quello a sei facce, che usate per giocare a Monopoli)? Ecco, quello è il quiconce, che è anche una precisa distanza astrologica di 150° tra due oggetti celesti (Gemelli - Scorpione, ad esempio). Siccome il quiconce era caro al mio compaesano alla lontana Pitagora, gli ho dedicato il capitolo. Il quiconce altro non era che la rappresentazione dei quattro elementi naturali (fuoco, terra, aria e acqua) con al centro l'uomo. È dunque un simbolo di vita e forza, considerato che il 5 era un numero magico per eccellenza tra i Pitagorici (rappresentava la coppia Maschile-Femminile). In questo caso, il quiconce è rappresentato da Kanon, che si mette in mezzo tra Sion, Saga, Camus e Milo. E fa un po' quel cavolo che gli pare, com'è suo costume.

La scopa marina altro non è che uno dei nomi con cui è conosciuta la tamerice (ovviamente, salmastra e arsa, sennò non sta bene!)

Sì, al Santuario hanno il vezzo di chiudere le missive riservate con un sigillo di ceralacca. A forma di civetta, ovvio.

Sion, così come Aiolos, è a conoscenza dell'esistenza di Kanon. Non rammento se Kurumada avesse detto qualcosa in proposito, né cosa avesse detto di preciso; ma siccome quell'omino lì cambia le carte in tavola con una nonchalance pazzesca, tiro dritta per la mia strada e amen.

La formula greca γνῶθι σεαυτόν (gnothi s'autòn, conosci te stesso) si ritrova incisa sulle pareti del tempio di Apollo a Delfi, ed è un'esortazione per l' uomo a riconoscere i propri limiti, evitando in tal modo di peccare di ὕβϱις (ubris, traducibile con tracotanza, anche se il ventaglio semantico di questa parola è molto, molto ampio).
La locuzione μηδὲν ἄγαν (meden aghan, nulla in eccesso), attribuita a Solone di Atene, uno dei Sette Saggi, è un'altra incisione che si trova all'interno del tempio di Apollo a Delfi, e che, come la precedente, esorta a vivere con moderazione.
Come ho avuto modo di accennare durante La Lanterna Magica (storia LXIV), nel mio headcanon queste due formule sono usate in un botta e risposta tra chi saluta qualcuno che sta per partire per una missione («Conosci te stesso»), e colui che parte («Niente in eccesso»). In questo caso, Kanon che si spaccia impudentemente per suo fratello Saga, e l'improbabile coppia formata da Milo e Camus.

Come ho avuto modo di spiegare in Misteri Eleusini, nel mio mondo esistono anche altri Santuari dedicati agli altri dei olimpici, che funzionano a prescindere dal fatto che la divinità in questione possa essere ancora addormentata - come Demetra tirata in ballo proprio in Misteri Eleusini, o Ecate o Dioniso qui nominati. O lo stesso Poseidone. - oppure non sia interessata alle beghe dell'Attica. Come Demetra, Ecate o Dioniso. Un giorno vi farò l'elenco, promesso!

In soldoni, il succo di questo capitolo potrebbe essere «Diffidate delle imitazioni!», ché una copia è solo una scialba riproduzione, per quanto ben fatta essa possa essere (e nel caso di Kanon è dura assai distinguere). E con questi due spiccioli di saggezza, vi auguro una Buona Pasqua e vi do appuntamento a prestissimo. Giuro. Croce sul cuore.
   
 
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