Anime & Manga > Kuroko no Basket
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Autore: Ortensia_    02/04/2015    3 recensioni
«Ricordi sbiaditi, luci soffuse, amori spezzati e ombre evanescenti. Il tempo si porta via tutto: anche le nostre storie.» — Dal Capitolo IV
Sono passati alcuni mesi dalla fine delle scuole superiori, e ogni membro dell'ex Generazione dei Miracoli ha ormai intrapreso una strada diversa.
Kuroko è rimasto solo, non fa altro che pensare ai chilometri di distanza fra lui e Kagami, tornato negli Stati Uniti.
Tuttavia, incontrato uno dei suoi vecchi compagni di squadra della Teiko, Kuroko comincia una crociata per poter ripristinare la vecchia Gerazione dei Miracoli, con l'aggiunta di nuovi membri, scoprendo, attraverso un lungo e tortuoso percorso, realtà diverse e impensabili.
«La Zone era uno spazio riservato solo ai giocatori più portentosi e agli amanti più sinceri del basket, era, in poche parole, la Hall of Fame dei Miracoli.» — Dal Capitolo VII
[Coppie: KagaKuro; AoKise; MuraHimu; MidoTaka; NijiAka; MomoRiko; forse se ne aggiungeranno altre nel corso della fanfiction.
Accenni: AkaKuro; KiseKuro; MiyaTaka; KiMomo; KuroMomo; KagaHimu.
Il rating potrebbe salire.]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Yuri | Personaggi: Altri, Ryouta Kise, Satsuki Momoi, Taiga Kagami, Tetsuya Kuroko
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hall of Fame'
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Capitolo XL





Sei il tempo che squarcia le mura, sei la fiamma che divora il sole.

Kagami smise di spremere con forza la tasca da pasticciere solamente quando fu sicuro di aver udito qualcosa oltre le porte della cucina.
Diede un'occhiata ai riccioli di panna che aveva appena finito di sistemare lungo tutto il perimetro della torta e alle meringhe, che dovevano essere ancora caramellate con il cannello e per questo si estendevano in un manto morbido e tremolante sulla cima, quindi si scostò, sospirò rumorosamente con le mani poste sotto il getto freddo dell'acqua e infine, girata la manopola del rubinetto, uscì dalla cucina con un canovaccio bianco stretto fra le dita umide.
«Mhn?» Aomine inarcò un sopracciglio e gli rivolse un'occhiata interrogativa; Kagami, dal canto suo, se ne rimase con la schiena aderente alle ante sprangate e i denti stretti in un ringhio sommesso.
«C'è qualche problema?»
«Non è venuto.»
Aomine sfiatò appena e increspò le labbra in un sorriso vagamente divertito.
«Sai che novità! Ma cosa ti aspettavi? Quanto è durato? Una settimana?»
Kagami non rispose ed estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni con un gesto concitato e nervoso, cominciando a premere i tasti con forza.
«Credo che sia perfino troppo per i suoi standard.» Daiki, nonostante l'evidente nervosismo dell'altro, continuò ad interferire.
«Sarà la quarta volta che lo chiamo.» ma Kagami lo ignorò e ringhiò, con il cellulare premuto contro l'orecchio «merda! Ancora la segreteria!»
«Starà dormendo.» Aomine si strinse nelle spalle e prese posto in cassa «non prenderla così tanto a cuore, idiota: alla fine ce la caviamo benissimo anche in due.»
Taiga restò a fissarlo in silenzio e dopo qualche istante di esitazione si decise a riporre il cellulare in tasca.
Anche lui era perfettamente conscio del fatto che non avrebbe avuto problemi a gestire il locale con Aomine - escluse le continue provocazioni, i battibecchi e la fatica di ritrovarsi a decorare almeno tre o quattro torte alle sei del mattino -, ma in cuor suo aveva creduto che Murasakibara avesse cominciato a vedere le cose con occhi diversi, era convinto che si stesse per avvicinare ad un cambiamento radicale e non poteva negare di aver riposto in lui almeno una dose minima di fiducia e di speranza. Ecco cosa lo imbestialiva: aveva concesso fiducia ad una persona che fino a pochi giorni prima detestava e, ingenuamente, aveva pensato che questa potesse abbandonare una volta per tutte la sua indole fanciullesca e imparare dai propri errori.
«Kise?» Kagami pensò fosse meglio cambiare argomento e quindi chiese dello stato di salute dell'ex asso del Kaijou.
«Ha ancora la febbre, ma almeno non ha più mal di testa.» Aomine rispose senza battere ciglio, probabilmente perché anche lui credeva fosse più saggio lasciar perdere Murasakibara e i suoi capricci di bambino.
Kagami annuì appena, per poi increspare le labbra in un ghigno vagamente divertito.
«Si può sapere come avete fatto, tu e Kuroko, a farvi battere da Akashi e Nijimura?»
Aomine sobbalzò e si voltò verso di lui con i denti digrignati.
«Ohi! Fatti gli affari tuoi!» Daiki gli strepitò contro, e dopo qualche istante di silenzio alzò ulteriormente la voce «e togliti quel ghigno idiota dalla faccia!»


Murasakibara si rigirò il cellulare spento fra le mani e si guardò intorno senza fiatare, strusciando il capo contro il sedile di pelle: avrebbe voluto sapere che ora era, ma non aveva intenzione di accendere il telefonino e rischiare di ricevere qualche chiamata indesiderata o di interpellare i due anziani che gli stavano di fronte.
Perché non si muovevano ancora? Tutta quella attesa gli stava facendo perdere la pazienza, cominciava a sentirsi in trappola, voleva scendere e arrivare alla meta con i propri piedi, tuttavia era perfettamente conscio del fatto che ci sarebbe voluto troppo tempo - in fin dei conti aveva studiato a memoria tutti i numeri, che si trattasse di minuti, ore, metri o chilometri, che lo separavano da tutte le cose più importanti -.
Si sentì scuotere da un tremito e socchiuse gli occhi per un istante, inspirando appena, poi, improvvisamente scosso da quel lento e traballante movimento tanto atteso, si ritrovò a frugare nel borsone e ad osservare con una piccola smorfia colma di disappunto le carte di merendina malamente ammucchiate al suo interno - ne aveva già mangiare un bel po', e continuando così era certo che le avrebbe finite nel giro di un'ora -.
Richiuse il borsone e serrò gli occhi, sforzandosi di dimenticare almeno per un istante le merendine, ma il suo stomaco continuò a brontolare imperterrito e scatenò le risate sguaiate della bambina che gli era seduta accanto.
«Guarda, nonna!»
Murasakibara riaprì gli occhi e vide la bambina colpire con un movimento continuo e rapido del dito lo strato di vetro spesso.
«Partiamo!» era completamente su di giri, ma Atsushi cercò di ignorarla e tornò ad osservare con aria sconsolata i propri piedi, sfiatando nervosamente all'idea che quella bambina rumorosa avesse occupato il posto accanto al finestrino - che Himuro, al contrario di lei, gli avrebbe sicuramente concesso -.
Il silenzio che calò pochi istanti dopo fu improvvisamente interrotto da un crepitio rumoroso, quindi Atsushi rivolse la propria attenzione alla bambina e, in particolare, al pacchetto di patatine fra le sue mani.
La bambina, forse sentendosi osservata, si voltò verso di lui e cominciò a dondolare sul sedile senza togliergli gli occhi di dosso.
«Perché hai i capelli viola?»
«Mei, non disturbare il signore.» la nonna intervenne immediatamente, ma la bambina continuò ad osservare Murasakibara, come incantata dal colore dei suoi capelli.
«Anche io voglio i capelli così!»
La nonna rise e lo sguardo di Murasakibara sembrò rabbonirsi e si illuminò non appena la bambina gli porse il pacchetto di patatine.
«Ti do un po' delle mie patatine se mi lasci toccare i tuoi capelli!»
Murasakibara la osservò, poi si soffermò sui nonni, che non sembravano turbati, quindi, seppur dopo un istante di esitazione, infilò la mano nel pacchetto e afferrò una manciata di patatine, per poi inclinare il viso in modo che la bambina, molto più bassa di lui, potesse toccargli i capelli.
«Oh!» la bambina sorrise non appena intrecciò le dita ai suoi capelli «sono davvero morbidi!»
«Quanto sei alto, ragazzo?» il nonno interpellò Murasakibara e gli rivolse un sorriso affabile.
«Due metri e otto.»
«Sei altissimo!» la bambina strepitò e scalciò per l'eccitazione, e il nonno scoppiò a ridere, per poi riprendere a parlare.
«Credo di averti già visto da qualche parte. Per caso... giochi a basket?»
Atsushi fece per rispondere, ma la bambina gli porse una seconda volta il pacchetto di patatine e catturò la sua completa attenzione: dopotutto i suoi compagni di viaggio non erano poi tanto male, non importava che Mei gli avesse rubato il sedile accanto al finestrino, per avere la sua benedizione era sufficiente che continuasse a rimpinzarlo di patatine.


Aomine sfiatò sommessamente e rigirò la chiave nella serratura finché non sentì uno scatto distinto, rafforzando la stretta della mano sinistra sul pacchetto di carta bianca con al centro il logo della pasticceria.
La porta cigolò appena e Aomine non la spalancò, piuttosto decise di aprire uno spiraglio abbastanza grande perché potesse insinuarsi all'interno dell'appartamento, e non appena ebbe varcato la soglia la richiuse lentamente.
Gli occhi stanchi si abituarono quasi immediatamente all'oscurità che riempiva l'ingresso e pareva traboccare in ombre nere lungo le pareti e sul soffitto, ma Aomine sembrò prestare più attenzione all'udito che alla vista e, trattenendo il respiro, restò in ascolto del silenzio con la schiena aderente alla porta chiusa.
Si mosse soltanto qualche istante dopo, quando pensò che svegliare Kise non sarebbe stato un problema visto che, molto probabilmente, aveva dormito quasi tutto il giorno - altrimenti non riusciva a spiegarsi perché gli avesse inviato così pochi sms -.
Si diresse in cucina a passo rapido, riuscendo a calcolare perfettamente le distanze nonostante il buio della sera avesse già contaminato l'ambiente, quindi adagiò il borsone sul tavolo e si avviò placidamente verso la camera da letto, trascinando i piedi sotto il peso della stanchezza e socchiudendo gli occhi nel pregustare l'idea che presto avrebbe potuto infilarsi sotto le coperte e dormire fino all'indomani mattina.
Daiki non riservò alla porta della camera da letto la stessa gentilezza mostrata nei confronti di quella dell'ingresso e la spalancò, alzando la voce non appena vide un ammasso di coperte informi al centro del letto.
«Ohi, Kise! Svegliati!»
Accese la luce e restò a fissare l'ammasso di coperte immobile. Per qualche istante non volò una mosca, quindi adagiò il pacchetto sul comodino e affondò un dito in quell'ammasso confuso di tessuti.
«Sei morto?»
All'improvviso, un mugolio di protesta si sollevò da sotto le coperte e Aomine accennò un sorriso sollevato - dopotutto, a pensarci bene, quando Kise smetteva di inviare sms c'erano buone possibilità che potesse essere morto per davvero -.
Finalmente Kise si mosse e le coperte scivolarono appena, quindi il suo viso vagamente arrossato fece capolino.
«Come stai?» Aomine parlò non appena incrociò gli occhi vagamente arrossati dell'altro.
«Ho di nuovo mal di testa.» Kise tese il braccio e afferrò il pacchetto bianco, per poi mettersi a sedere «ma domani ho un servizio fotografico e quindi non mi rimane altro che sopportare.»
Aomine sospirò rumorosamente e gli si sedette accanto.
«Che palle con questa moda.» borbottò osservando di sottecchi Kise, che si prodigava per estrarre uno dei due cornetti al cioccolato bianco dal pacchetto.
«Che cos'altro potrei fare, Aominecchi?» Kise gli porse il cornetto e gli rivolse un sorriso forzato.
Aomine restò immobile e rivolse il proprio sguardo alle coperte ammassate, che nascondevano alla sua vista le gambe nude di Kise.
«Ma non...» Daiki deglutì: Ryouta alludeva al dolore che affliggeva la sua gamba sinistra ogni volta che la sottoponeva a sforzi eccessivi e che si portava appresso dal primo anno delle superiori, subito dopo la partita tra Kaijou e Touou.
Kise gli sventolò il cornetto sotto il naso come se non avesse voluto parlarne, ma Aomine non aveva intenzione di reprimere per l'ennesima volta la domanda che da troppo tempo gli ronzava in testa.
«Non ti fa più tanto male, vero?»
Kise lo guardò e ampliò appena il sorriso, ritirando la mano e infilando il cornetto nel pacchetto in segno di resa.
«È migliorata tanto, certo, ma se ricominciassi seriamente con il basket mi sarebbe di intralcio.»
«Forse fra un anno o due–»
«Sarebbe troppo tardi.»
Aomine lo guardò in silenzio, per poi colpirgli la spalla con un pugno non molto delicato.
«Ahia!»
«Per noi Miracoli non sarà mai troppo tardi.»
Kise si massaggiò la spalla e schiuse le labbra, contemplando l'espressione seria dell'altro con occhi brillanti.
«Aominecchi, anche tu...» Ryouta sussurrò appena, ma non riuscì a dire altro e sorrise, immediatamente ricambiato dall'altro: in fin dei conti il basket era tutto ciò che avevano amato prima di incontrarsi, era ciò che aveva permesso loro di conoscersi, che li aveva separati e, successivamente, riuniti.


Appena i raggi brillanti del sole sfumavano all'orizzonte, ricucendo le nuvole rosate con sottili fili di pulviscolo arancione, lì dove avevano aperto squarci per tutto il resto della giornata, Tetsuya si sentiva improvvisamente più leggero e felice.
Il suo momento preferito della giornata era proprio quello, quando la luce scompariva e il cielo cupo gettava ombre scure sulla strada.
Trascorreva gran parte della giornata da solo - considerando che Kagami si alzava molto presto la mattina, quando lui dormiva ancora, e rimaneva tutto il pomeriggio al locale -, ma la sera aveva la possibilità di giocare a basket o di lavorare, e quindi di stare in compagnia e tenere la propria mente occupata.
Durante il lavoro, in particolare, Tetsuya non faceva altro che pensare al momento in cui, finito il turno, Taiga sarebbe passato a prenderlo e avrebbero camminato mano nella mano lungo la strada illuminata dalla luce giallognola dei lampioni, fino a casa.
Kuroko non poteva negare che Kagami gli mancasse, che quelle giornate cominciassero a sembrargli tutte fastidiosamente uguali, ma era conscio del fatto che si trattasse di un periodo passeggero, che l'idea delle torte su ordinazione fosse una misura momentanea per rilanciare il locale dopo le perdite subite in seguito alla partenza di Himuro e ai capricci di Murasakibara, quindi si era ripromesso più volte di pazientare.
«Ehi!»
Tetsuya mosse un paio di passi, allontanandosi dall'entrata della pizzeria e rivolgendo il proprio sguardo al viso di Taiga, illuminato dalle luci rossastre dell'insegna al neon.
«Ehi.» si fermò proprio di fronte a lui e gli sorrise, senza scostare il viso quando l'altro si chinò e, anzi, ricambiando immediatamente il rapido bacio a stampo.
Per quanto fosse breve, quello era senza dubbio il momento che preferiva, perché lui e Kagami erano finalmente insieme e soli, perché potevano parlarsi, baciarsi, sfiorarsi, e si creava un'intimità che la notte aveva ormai perduto - visto che l'altro era sempre così stanco che, una volta infilatosi sotto le coperte, non riusciva a restare sveglio per più di un'ora -.
«Kagami-kun, sei riuscito a contattare Murasakibara-kun?» nonostante passassero la maggior parte della giornata separati, si tenevano spesso in contatto, per cui Kuroko era molto più informato di altri su ciò che accadeva al locale e sulla vicenda che vedeva i due ex assi dello Yousen come protagonisti.
Kagami sfiatò appena e si strinse nelle spalle, allargando le dita della mano sinistra non appena sentì i polpastrelli lisci di Kuroko sfiorargli il palmo.
«L'ho chiamato un'ora fa, ma aveva ancora la segreteria telefonica.»
Kuroko intrecciò le dita a quelle di Kagami e gli rivolse un'occhiata repentina, per poi inspirare appena e riempirsi le narici dell'aria fresca della notte, riprendendo a parlare a voce bassa, dopo qualche istante di esitazione.
«Quindi il suo cellulare è rimasto spento per tutto il giorno...»
«Pare proprio di sì.»
«E Himuro-san? Lo hai chiamato?» Tetsuya tornò a guadarlo.
«Sì, ma di certo non posso dirgli che Murasakibara è scomparso.» e Kagami, dal canto suo, annuì appena, senza distogliere lo sguardo dalla strada illuminata.
«Come sta?»
«Sai, credo...» Taiga accennò un sorriso vagamente divertito e Kuroko, forse per poterlo osservare meglio, si protese un poco in avanti «credo che sua madre lo abbia sgridato, o qualcosa del genere.»
«Sgridato
«Sì, te l'ho detto: sono certo che Tatsuya sia tornato a Los Angeles per sfogarsi, quindi avrà combinato qualche guaio e sua madre non deve averla presa troppo bene.»
«Cosa te lo fa pensare?»
«A giudicare dal suo tono di voce mi sembrava molto più sereno.»
«Forse si sta solo abituando.» Kuroko azzardò e tornò a guardare davanti a sé, rafforzando un poco di più l'intreccio delle loro dita.
«Forse.» Kagami fece eco, sospirando pesantemente «oppure si è reso conto che mettere così tanti chilometri di distanza fra lui e Murasakibara non serve a cancellare ciò che provano l'uno per l'altro.»
«Kagami-kun.» Kuroko sbatté le palpebre e si fermò all'improvviso, restando ad osservarlo con le labbra leggermente protese in avanti e la fronte aggrottata in un piccolo cruccio «come sei profondo.»
«Ah!» Kagami, dal canto suo, sobbalzò e sentì il viso andare in fiamme, quindi guardò a destra e a sinistra, cercando disperatamente di evitare lo sguardo dell'altro «non... non è vero!»
«Sì, invece.» Kuroko continuò a fissarlo e parlò senza battere ciglio.
«Io ho soltanto detto...» aveva detto quello che pensava, quello che aveva imparato alcuni mesi prima, quando era incappato nello stesso errore di Himuro e alla fine si era reso conto che restare lontani significava semplicemente accrescere il dubbio e la sofferenza derivanti dalla mancanza.
Kagami deglutì a fatica, e finalmente riuscì a riprendere a parlare - anzi, in questo caso a strepitare -.
«Kuroko! La pianti di fissarmi?!»
«Lo hai pensato anche tu?»
«Che cosa?!» Kagami alzò ulteriormente la voce, esasperato dallo sguardo insistente e dal tono imperturbabile dell'altro.
«Quando eri a Los Angeles hai pensato che restare lontano da Tokyo non fosse la soluzione giusta?»
Taiga si passò le dita della mano destra sul viso e sospirò rumorosamente, imbarazzato dalla domanda insidiosa del fidanzato.
«Potrei...» borbottò, con le labbra increspate in una piccola smorfia e la fronte aggrottata «potrei averlo pensato, sì.»
Kuroko restò a fissarlo in silenzio e, quasi senza rendersene conto, gli sorrise: non valeva la pena dare così tanto peso al fatto che sulle loro giornate cominciasse a gravare la monotonia, né sentirsi solo o indesiderato perché Kagami passava molte ore al locale e tornava a casa troppo stanco per fare l'amore o per dargli quella carezza in più che lo soddisfacesse completamente; piuttosto occorreva tendere l'orecchio a quelle parole un po' buffe, - più che altro se si considerava il loro divulgatore -, ma permeate di significato e, soprattutto, di sincero affetto.
«A proposito...» Taiga sfiatò sommessamente e gli rivolse un'occhiata repentina, evidentemente deciso a cambiare discorso e a fargli dimenticare quanto detto in precedenza «domani mattina niente torte su ordinazione, quindi possiamo fare colazione insieme, se ti va.»
Tetsuya ampliò il sorriso e l'azzurro dei suoi occhi brillò così intensamente che intorno alla pupilla buia parve specchiarsi un cielo estivo infiammato dai raggi caldi del sole.
«Certo che mi va, Kagami-kun.» e non appena ebbe risposto ripresero a camminare, con le dita ancora saldamente intrecciate.


Murasakibara schiuse le labbra in un sospiro sommesso e si passò le dita fra i capelli, rimpiangendo di aver dimenticato il nastro a casa: faceva caldo, tanto che sulle auto ferme ai semafori l'aria si faceva più densa e pesante, tremolava, raccolta in spessi strati di afa umida e soffocante.
Le suole delle scarpe producevano un attrito secco e stridulo lungo la strada asfaltata, il borsone oscillava contro l'anca e la cinghia aveva cominciavo a triturargli la spalla sinistra con insopportabile insistenza.
Murasakibara non ricordava né la via né il numero dell'appartamento, ma conosceva ugualmente la strada per giungere a destinazione.
Ricordava i giardini spogli e quelli rigogliosi, quella manciata di abitazioni a tre piani e, accanto, i due appartamenti con i tetti di tegole rosse e le pareti bianche, e sapeva che ad una decina di metri da essi faceva angolo una grossa gelateria, allora si doveva girare a destra e, in fondo alla strada, si innalzava una casetta a due piani di un rosa slavato, con le finestre bianche e un grosso cedro sul lato sinistro.
Appena giunto all'angolo rallentò e si fermò ad assaporare il profumo dolciastro e fresco proveniente dalla gelateria e ad osservare i colori accesi che riempivano le vaschette metalliche incastonate lungo il bancone, ma nonostante la tentazione di entrare decise di riprendere a camminare - dopotutto aveva qualcosa di molto più importante da fare e, anche volendo, non sarebbe mai riuscito a farsi capire dalle due proprietarie che gestivano quel locale tanto carino che, a suo tempo, lo aveva ispirato e lo aveva aiutato a capire cosa volesse fare “da grande” -.
Schiuse le labbra e prese una grande boccata d'aria, per poi sospirare rumorosamente e rafforzare la stretta sul borsone: non vedeva l'ora di potersi fermare per riprendere fiato, magari all'ombra del grande cedro che si innalzava accanto alla casa rosa pallido, ma non era ancora il momento e sapeva che avrebbe dovuto aspettare ancora un bel po', quindi continuò a camminare e, anzi, accelerò il passo senza mai distogliere lo sguardo dalla sua meta.
In un paio di minuti riuscì finalmente a giungere a destinazione, ma indugiò non appena la porta scattò e la maniglia si abbassò all'improvviso.
Quando la vide uscire in giardino e avviarsi verso il basso cancello dipinto di bianco, si sentì mancare il respiro e non poté fare a meno di retrocedere di un paio di passi: era così simile a lui da lasciarlo senza parole ogni volta che incrociava il suo sguardo, e in quel momento, quando i loro occhi si incatenarono, Atsushi si sentì annichilire, annientare da quella languida dolcezza.
La donna continuò a guardarlo e spalancò il cancello senza richiuderlo, increspando le labbra in un piccolo sorriso non appena l'altro abbassò il capo come a volersi silenziosamente scusare con lei.
«Lo sapevo che saresti venuto.»
Murasakibara continuò a guardare a terra: era così simile a lui che a guardarla troppo avrebbe rischiato di scoppiare a piangere come un bambino e, privo di lucidità, con la buona volontà repressa dai sensi di colpa, non sarebbe mai riuscito a portare a termine l'obbiettivo per cui si trovava lì.
«Sono davvero felice di vederti, Atsushi.» la donna si scostò e continuò a tenere il cancello spalancato con la mano destra «ti prego, mio figlio non sta bene.»
Murasakibara continuò a guardare a terra e affondò i denti nel labbro inferiore: gli avrebbe chiesto di andarsene? Dopo dieci ore di viaggio - di cui sette passate senza cibo - gli avrebbe chiesto di tornare indietro e di non farsi più vedere?
Atsushi sussultò non appena un tintinnio metallico gli sfiorò le orecchie, quindi sollevò il capo e sbarrò gli occhi nel vedere la madre di Himuro porgergli le chiavi con le labbra increspate in un sorriso gentile.
«Riportalo a casa.»
Murasakibara sbatté appena le palpebre e si avvicinò con passo titubante alla donna, per poi afferrare le chiavi e, finalmente, trovare la forza di guardarla negli occhi.
«Grazie, mamma di Muro-chin.»
La donna ampliò il sorriso e annuì appena, per poi accarezzargli affettuosamente il braccio, quasi a volergli comunicare il suo sostegno, infine gli transitò accanto e sì allontanò a passo rapido, evidentemente diretta verso il posto di lavoro.
Murasakibara, dal canto suo, si ritrovò a fissare in silenzio le finestre chiuse del secondo piano e strinse le chiavi nella mano destra, lasciando che le punte metalliche affondassero nel palmo e lo graffiassero.
Inspirò appena e chiuse il cancello, quindi attraversò a passo lento il vialetto ricoperto di grossi ciottoli bianchi e si fermò proprio di fronte alla porta chiusa della casa.
Bastava inserire la chiave nella serratura, avvolgere la maniglia con le dita e avanzare di qualche passo. Finalmente bastava così poco per eliminare la distanza fra lui e Himuro.
La chiave scivolò nella serratura e Murasakibara lasciò aderire la fronte alla superficie tiepida della porta, emise un sospiro sommesso e vagamente tremante e chiuse gli occhi: aveva profondamente paura, il solo pensiero che Himuro potesse rifiutarlo lo terrorizzava e lo atterriva con così tanta forza che per un istante, non riuscendo a staccare nessuno dei due piedi da terra, pensò di avere due macigni al posto delle gambe.
La stretta che le dita esercitarono attorno alla maniglia si allentò subito e la porta sembrò quasi scivolare in avanti, come se non avesse aspettato altro che il suo arrivo e lo stesse invitando ad entrare.
Murasakibara rimase fermo, ancora paralizzato e quasi senza fiato, e osservò in silenzio l'ingresso luminoso e confortevole della casa.
Non avrebbe dovuto permettergli di andare via.
Prese una grande boccata d'aria e finalmente mosse un paio di passi titubanti verso l'entrata, trattenendo il fiato non appena varcò la soglia e anche quando, con le dita salde attorno alla maniglia della porta, la richiuse con un movimento lento, cauto, per non fare rumore.
Avrebbe dovuto restargli accanto sia durante la notte, sia durante il giorno.
Atsushi si mosse piano e diede una rapida occhiata in cucina, ma trovandola vuota deglutì a fatica e si portò una mano al petto, stranito da quel battito così forte e doloroso che aveva appena cominciato a percuotere la sua cassa toracica: possibile che l'altro non fosse a casa? In tal caso, perché sua madre non lo aveva avvisato e gli aveva permesso di entrare? E se Himuro stesse per tornare? Magari in compagnia di qualcun altro?
Murasakibara scosse il capo con un movimento veloce e lasciò scivolare il borsone a terra - questa volta non preoccupandosi del tonfo sordo che produsse -, quindi si prese il viso fra le mani e si strofinò gli occhi, come se fosse appena riemerso dagli abissi e stesse cercando di liberare le ciglia fini da fastidiose perle d'acqua.
Appena il battito del cuore rallentò, raggiunse l'entrata del salotto, e allora la sua cassa toracica fu scossa ancor più bruscamente, il dolore al petto e il bruciore agli occhi si fecero improvvisamente più intensi.
Himuro gli dava le spalle, era seduto sul divano, con le gambe piegate contro il torace, la schiena leggermente incurvata e il capo chino, e Murasakibara si sentì pervadere da un'immensa tristezza: lo aveva abbandonato, era stato crudele e insensibile, e per un'istante ebbe la terrificante impressione che fosse troppo tardi, che la tristezza e la rabbia dell'altro fossero tali da annullare tutto il resto, tutto l'amore che era rimasto ancora vivo in lui.
Avrebbe dovuto comportarsi da uomo adulto.
«Che c'è? Hai dimenticato qualcosa, vero?» Himuro parlò a voce bassa, ma Murasakibara lo sentì chiaramente e si morse il labbro con forza, inclinando appena il viso nel tentativo di ricacciare indietro le lacrime.
«Di cosa hai bisogno?»
Atsushi soffocò un singhiozzò e schiuse le labbra in un sospiro tremante.
«Di te, Muro-chin...» la sua voce fu percossa da un fremito e alle sue orecchie suonò confusa e troppo bassa, ma Himuro lo sentì chiaramente.
Quando Tatsuya si voltò e i loro occhi si incontrarono, Atsushi riuscì a leggere nel suo sguardo ogni singola sensazione che doveva aver provato nei giorni precedenti e si ritrovò a gemere a denti stretti, con il viso rigato da lacrime copiose.
«Atsushi...» Himuro non riuscì nemmeno ad alzarsi, pronunciare il suo nome fu uno sforzo così grande che si sentì percuotere da uno spasmo e restò senza respiro, con gli occhi velati dal pianto imminente.
«Muro-chin, io... io‒» Murasakibara singhiozzò, ma non si diede per vinto: sapeva esattamente che cosa voleva dirgli e doveva farlo, non avrebbe permesso che quel pianto sguaiato glielo impedisse «Muro-chin, io sono venuto a prenderti!»
«Atsushi...» Himuro sfiatò appena e rivolse il proprio sguardo al pavimento, serrando le labbra in un fremito: non era giusto che anche lui si sentisse in colpa nei confronti dell'altro, ma era proprio così.
Sarebbe dovuto restare.
«Muro-chin, torniamo a casa!»
«Io...» Tatsuya prese una grande boccata d'aria e cercò di ricacciare indietro le lacrime, deglutendo a fatica «Atsushi, io ho fatto delle cose e... e non credo che vorrai tornare a casa con me quand‒»
«Non importa, Muro-chin.» Atsushi, dal canto suo, sembrava stesse finalmente riuscendo a controllare il proprio pianto e si avvicinò a lui «è colpa mia.»
«Ma io‒»
«Se avrai voglia mi racconterai tutto una volta che saremo tornati a casa.»
Quando Himuro sollevò il viso incontrò nuovamente gli occhi di Murasakibara e si scoprì improvvisamente felice di poter ammirare un'altra volta quel viola intenso e tanto particolare, anche se in quel momento era alterato dalle sclere arrossate e dalle palpebre gonfie di tristezza e rimpianto.
Quando Murasakibara gli porse la mano, Himuro gli chiese scusa sussurrando e scoppiò a piangere, gettandogli le braccia al collo non appena l'altro si chinò di fronte a lui.
«Mi basta che restiamo insieme, Muro-chin.» Murasakibara gli accarezzò la testa e lo strinse a sé, chiudendo gli occhi e lasciando che altre lacrime gli rigassero il viso «non andare più via...»
«No, non andrò più via...»
«Quindi torniamo a casa?»
«Sì, torniamo a casa.»

Sei tutto quello di cui ho bisogno per restare.




Licenza Creative Commons
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L'angolino invisibile dell'autrice:

Siccome ieri ho messo in atto un pesce d'aprile un po' cattivello sulla mia pagina Facebook, eccomi qui con un aggiornamento per farmi perdonare! ;u;
Se ve lo state chiedendo: sì, finalmente mi sono ricordata che Kuroko ha un lavoro (ma come avevo detto alcuni capitoli fa, mi pare, lavora due/tre sere la settimana); la scelta di Aomine che porta i cornetti al cioccolato bianco a Kise non è casuale, bensì è dedicata ad una mia vecchia fanfiction appartenente ad un altro fandom (quindi lo so che non vi frega); invece, a titolo informativo, per quanto riguarda il nostro amico fuso orario: Murasakibara parte intorno alle sedici (che a Los Angeles sono le ventitré del giorno prima) e arriva dopo circa dieci ore, quindi per le nove del mattino (anche se dall'aeroporto a casa di Himuro ci vuole circa un'ora, quindi per le dieci).
Non ho molto da dire a parte che sono piuttosto soddisfatta e che scrivere l'ultima parte ascoltando “Stay” di Rihanna mi ha fatto quasi annegare nelle lacrime D:
Visto che di sicuro non riuscirò ad aggiornare per Pasqua ne approfitto per porgervi già i miei auguri! Godetevi le vacanze, bimbi belli! uwu Alla prossima!
   
 
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