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Autore: edoardo811    05/04/2015    1 recensioni
[Anarchia: La notte del giudizio]
America 2025
La disoccupazione è ridotta al 3%, la criminalità è quasi inesistente e ogni anno sempre meno persone vivono sotto la soglia di povertà
[...]
"Questo non è un test. E’ attivo il vostro programma di emergenza che annuncia l’inizio dello Sfogo annuale sancito dal nostro governo. Possono essere utilizzate tutte le armi di classe 4 o inferiore, le altre sono proibite. Ai funzionari amministrativi di livello 10 viene concessa l’immunità. Al suono della sirena, ogni crimine, incluso l’omicidio, sarà legale per le successive dodici ore. Tutti i servizi di emergenza saranno sospesi. Il governo vi ringrazia per la vostra partecipazione."
La notte dello Sfogo, un'occasione annuale per potersi liberare di ciò che ci opprime e purificare le nostre anime. Quattro persone si ritroveranno nel posto sbagliato al momento sbagliato, riusciranno a sopravvivere?
Fic ispirata all' omonimo film.
[SOSPESA][MORTA]
Genere: Azione, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Violenza
Capitoli:
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Capitolo

 

 

VII

Purificazioni

 

Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 11 ore

Intorno a lei c’era solamente buio. Non riusciva a vedere altro. Solamente un’enorme distesa scura, che si diramava in ogni direzione a perdita d’occhio. Riusciva a percepire quel buio, ma nient’altro, nemmeno il suo stesso corpo. Le sembrava di essere diventata un fantasma.

La sua mente era un turbinio confuso di ricordi e pensieri. Un sacco di frasi parole le rimbombavano dentro, sembravano una tempesta. Non riusciva neanche a metterne insieme due, di questi pensieri. Non riusciva più a ragionare, a riflettere.

Tutto questo continuò finché non sentì, sempre tra i suoi ricordi, delle urla spaventate, provenienti da una voce dolce ed esile molto famigliare. La stavano chiamando. Urlavano il suo nome disperatamente. Altre voci frapposero, si sentì uno strano rumore e le urla cessarono, rimpiazzate da un pianto. Non appena sentì quei singulti, il suo cervello ricevette un impulso. Non sapeva perché, ma non poteva permettere a chiunque fosse quella persona di piangere. Non quando c’era lei in sua compagnia. Doveva proteggerla.

Finalmente riuscì a percepire altre sensazioni. Riuscì a percepire la brezza fredda che le attraversò tutta la spina dorsale, facendola trasalire. Riuscì ad avvertire il proprio battito cardiaco. Perfino il tremolio delle sue palpebre.

Sentì altre voci, ma questa volta non erano dei ricordi. Erano lì, a poca distanza da lei. Erano molto offuscate e metà delle parole che sentì risuonarono distorte, ma ciò le permise comunque di realizzare di essere ancora viva, di squarciare quell’oscurità che la stava avvolgendo.

«Dannazione...» cominciò una voce. «...tu e il tuo dannato esplosivo artigianale! Hai visto che cosa le hai fatto alla faccia?»

«Smettila, sono solo un po’ di graffi e qualche ustione...» brontolò una seconda voce, molto più rilassata della prima.

«Un po’ di graffi?!» protestò ancora più accigliata l’altra voce. «Guardala! L’hai rovinata!»

«Ma chissenefrega! Il suo corpo è ancora immacolato! E se non ti piace puoi sempre prenderti la biondina!»

«Te lo scordi...»

Finalmente riuscì ad aprire gli occhi e a percepire anche cos’aveva intorno. La prima cosa che realizzò, fu il dolore pazzesco che provava alla faccia, più il gusto metallico del sangue in bocca. Le sue guancie erano umidicce, bagnate da qualcosa di caldo e viscoso, mentre i suoi lunghi capelli erano premuti sul suo volto in più punti, gli stessi che sentiva bagnati. Probabilmente si erano incollati alla sostanza viscosa.

I suoi occhi focalizzarono due macchie indistinte di fronte a lei, che andarono pian piano a mettersi a fuoco. Dopo un lungo momento, riuscì perfettamente a distinguere due sedili, con seduti sopra due uomini, un parabrezza, un volante, leva del cambio, finestrini. Una macchina, con lei e altri due uomini a bordo.

Ancora troppo intontita, non seppe cosa pensare. Fino a quando non sentì un gemito strozzato di fianco a lei. A quel punto si girò lentamente, provocandosi un’enorme fitta di dolore al collo, e vide da chi era provenuto quel verso. Seduta accanto a lei, c’era una ragazzina giovane e minuta, con i capelli biondi e corti, una benda davanti alla bocca e mani e piedi legati da altre bende. Aveva il volto e gli occhi arrossati, le guancie ancora con i segni lasciati dal passaggio di numerose lacrime.

Non ci mise un secondo di troppo per riconoscerla. La ragazza che avrebbe difeso al costo della vita. La sua nuova famiglia, la sua bambina.

Aprì la bocca per chiamarla, ma da essa non fuoriuscì alcuna parola, neanche un verso strozzato. Niente di niente. L’unica cosa che accadde fu che sentì l’ennesima fitta di dolore, questa volta alle labbra, sicuramente spaccate.

Allora cercò di muoversi per raggiungerla, per abbracciarla e rincuorarla in quel suo momento di debolezza, ma si rese conto a sua volta di avere mani e piedi bloccati. Spostò lo sguardo sui suoi polsi e vide le fasce che li tenevano intrecciati fra loro. Erano state legate in una maniera così stretta che le sentiva penetrarle nella carne. I polsi le bruciavano terribilmente.

Sentì un altro gemito soffocato e volse di nuovo lo sguardo verso la ragazzina. Aveva la testa sepolta fra le spalle e diverse lacrime, questa volta fresche, che le rigavano quel volto bello, ma allo stesso tempo così fragile che sarebbe bastato un po’ di vento per spezzarlo in più punti. La sua bambina. Stava piangendo di fronte a lei. Era troppo. Il suo affetto materno fu più potente di qualsiasi altra cosa e le permise di trovare la forza per superare il dolore e riuscire a parlare. Dalla sua bocca uscì finalmente una parola, che disse molto flebilmente, con un tono che sembrava starsi per spegnere da un momento all’altro: «T-Thia...»

La ragazzina sobbalzò e si voltò verso di lei, con gli occhi talmente spalancati che sembravano schizzare fuori dalle orbite. Lo stupore che fuoriusciva dalle iridi azzurre cristalline della sua bambina si poteva notare anche ad un chilometro di distanza. Ma nel giro di pochi attimi si trasformò in sollievo. Cominciò ad emettere altri versi strozzati, probabilmente per chiamarla, ma la fascia le offuscava la voce.

Quando gli uomini seduti davanti si accorsero del comportamento anomalo di Thia si voltarono. Individuarono immediatamente la causa di tutto quello, ovvero la loro ospite, dapprima addormentata, finalmente sveglia.

«Ben tornata fra noi, cara Mary!» la schernì quello al voltante. Aveva il volto coperto da un passamontagna e uno spesso giaccone nero, chiuso. Marianne non riuscì a riconoscerlo.

«Concentrati sulla strada, idiota!» lo rimproverò l’altro, anche lui con il volto coperto da uno scalda collo mimetico e un cappuccio alzato. Questa volta, però, alla donna parve di riconoscere la sua voce.

Il guidatore cominciò a muovere una mano a mo’ di una bocca che si apriva e chiudeva e blaterò: «Bla bla bla...» poi rivolse la sua attenzione di nuovo davanti a sé.

«Cosa...chi siete?» mormorò di nuovo Marianne, ancora stordita dal dolore.

Quello seduto sul sedile del passeggero rimase a guardarla e rispose, cercando di usare un tono più rassicurante possibile: «Non ha importanza...non vi faremo alcun male, ve lo prometto...»

Improvvisamente Marianne realizzò tutto quanto. Lei e Thia erano state rapite da quei due, per motivi che ancora non capiva, ma non ci voleva nemmeno molto per arrivarci. Thia era una bella ragazza, lei una bella donna, malgrado cercasse di nasconderlo pettinandosi sempre i capelli davanti al volto, e quelli erano due uomini. Di certo non le stavano portando ad una cenetta romantica.

«Parla per te!» tuonò intanto quello al volante sogghignando. «Io ho intenzione di darci dentro alla grande!»

«Ma vuoi stare zitto?!» esclamò l’altro guardandolo male, permettendo a Marianne di inquadrare perfettamente il suo tono di voce.

Quasi non credette a ciò che disse quando parlò di nuovo. «D-David?»

Sperò di essersi sbagliata. Sperò  che quell’uomo scoppiasse a ridere e le dicesse di aver fatto un enorme buco nell’acqua. Avrebbe di gran lunga preferito che così fosse. Che fosse solo un folle. Invece quello spalancò gli occhi, chiaro segno che era sorpreso. Sorpreso di essere stato riconosciuto.

«Sei tu, David?» insistette Marianne, quando si accorse che la risposta tardava ad arrivare.

Sperò fino all’ultimo che quello confutasse la sua tesi, ma così non fu. Con suo enorme orrore, l’uomo abbassò la testa. Fece per parlare, ma il guidatore lo interruppe bruscamente: «Ehi, bambola, perché non stai un po’ zitta? O vuoi che ti tappiamo la bocca come abbiamo fatto con la tua amichetta, che non ha smesso di urlare per un solo secondo?»

«Finiscila Greg...» brontolò l’altro.

Il guidatore si accigliò parecchio quando sentì il suo nome fuoriuscire dalla bocca del complice. «Che cazzo fai coglione?! Solo perché ti ha beccato non significa che devi far sgamare anche me! Vuoi anche dargli il mio cazzo di indirizzo?!»

David, ormai era chiaro che fosse lui, sbuffò e non rispose.

Marianne non credeva alle proprie orecchie. Non poteva concepire quella cosa. Non avrebbe mai pensato che David potesse fare una cosa del genere. Lei stessa aveva promesso a Thia che quell’uomo le avrebbe lasciate in pace. Non solo le aveva mentito quando le aveva detto che quella notte sarebbero state al sicuro, ma lo aveva pure fatto quando aveva parlato di quell’uomo. Aveva detto un sacco di menzogne alla sua povera bambina, che ora più di tutti ne pagava le conseguenze.

Intanto Thia, come volevasi dimostrare, fissava incredula prima David, poi Marianne, chiaramente sconvolta dalla verità.

Marianne si voltò verso di lei e i loro occhi si incrociarono. Davanti a quelle iridi azzurre, così belle, così fragili e innocenti, Marianne volle sprofondare. Lei non meritava tutto quello. Aveva sofferto fin troppo in tutta la sua vita. E adesso perfino la donna di cui si fidava di più l’aveva ingannata. Il mondo doveva starle cadendo addosso.

La donna non riuscì più a reggere quello sguardo e si spostò di nuovo su David. Lo fissò implorante. Se davvero credeva di conoscerlo, allora forse poteva ancora salvare la situazione. «David...perché lo hai fatto? Credevo che tu fossi meglio di così...»

Non conosceva affatto quell’uomo. Non appena finì di parlare, quello esplose. Il suo sguardo si caricò di rabbia e Marianne si spaventò. «Perché?! Osi chiedermi perché?! Sono ANNI che lavoriamo insieme e tu non mi hai nemmeno mai guardato! Tutti i giorni mi passi davanti senza neanche considerarmi, sembra che io per te non esista nemmeno! Sembra che tu ti creda la regina di tutti e tutto, in grado di poter ignorare bellamente chiunque ti pare! Non mi hai mai dato un’occasione, in tutti questi anni! Mai una volta che accettassi anche solo di prenderti un caffè con me, per cinque fottuti minuti! Non mi hai mai concesso nulla! Credi che mi faccia piacere sentirmi una merda calpestata da te?! EH?!»

La donna indietreggiò con la testa, intimorita da quell’uomo che stava mostrando un lato di sé che non pensava potesse esistere. Non era una brava persona. Era un mostro come tutti gli altri. Lo sapeva benissimo che lei faceva così perché era rimasta vedova, ma non gli importava. In lei non vedeva una donna affranta, che non poteva stare con gli uomini perché le ricordavano il defunto marito, la cui morte dopo due anni ancora rimpiangeva. Vedeva solo un bel viso e un bel corpo. Come tutti quelli che aveva conosciuto. 

«Questa notte...sarai finalmente mia, Marianne...ma puoi stare tranquilla, non ti ucciderò. Voglio solo...approfittare un po’ di questo evento. Se si chiama Sfogo ci sarà un motivo, dopotutto.»

«Ah, allora la bionda me la prendo io?» domandò Greg.

David scrollò le spalle. «Va bene, vacci solo piano.»

Greg scoppiò in una fragorosa risata, prima di rispondere malizioso: «Decido io come andarci con lei, hai capito?!»

Thia emise un altro verso strozzato sentendo cosa stavano confabulando quei due. All’idea di restare con quel porco di Greg la paura si insinuò in ogni centimetro della sua pelle e cominciò a dimenarsi come un’ossessa per cercare di scappare.

Marianne cercò di richiamarla, di calmarla, ma fu tutto inutile. Thia non ascoltava più nessuno, se non quella voce nella sua testa che le imponeva di scappare da lì, prima di ritrovarsi con l’interno coscia sfondato da un maniaco. Con le mani ancora legate cercò di aprire la porta tirando la maniglia, ma l’autista doveva averle bloccate con l’apposito pulsante da davanti.

«Thia! Thia calmati ti prego!» implorava Marianne con le lacrime agli occhi, senza risultati.

«David, porca puttana calma quella troia o giuro che lo faccio io!» esclamò Greg schiumante di rabbia, vedendo la sua gallinella fare i capricci. Per lui le donne dovevano sottomettersi e basta, perché erano inferiori all’uomo. Il mondo funzionava così: l’uomo comanda, la donna obbedisce. Se la donna non obbedisce, allora l’uomo usa le maniere forti. Quella stronzetta non era esclusa da quella sua particolare corrente di pensiero.

David digrignò i denti e guardò Marianne, poi le ordinò: «Hai capito? Dalle una tranquillizzata. Io non ci perdo niente se Greg la fa calmare a suo modo, ma è meglio per il suo bene che lo faccia.»

Marianne riuscì a schiudere le mani dapprima premute fra loro. Sentendo i polsi dolerle terribilmente a causa del bruciore provocato da quella fascia strettissima. Avvolse le mani aperte a mo’ di preghiera intorno alle guancie di Thia e la costrinse a guardarla negli occhi. Sentendo quel contatto così affettuoso e apprensivo, Thia venne pervasa da una piacevole sensazione di calore, quel calore materno che solo Marianne riusciva a donarle. Quella sensazione riuscì a farla calmare ed estraniare dalla mente tutti i pensieri negativi. Incrociò le iridi smeraldo della sua nuova famiglia e smise di agitarsi.

La donna la fissò implorante, con le lacrime agli occhi. Si sentì malissimo al pensiero di doverle mentire di nuovo, ma non c’era altra soluzione. Non voleva che quel viscido di un Greg le facesse qualcosa davanti ai suoi occhi.  «Thia...ti prego, ascoltami...andrà...tutto bene. Ok? Te lo prometto. Non ci faranno nulla, fidati di me...»

Per rafforzare ulteriormente quella richiesta di fiducia, la donna si sporse verso di lei e le baciò la fronte com’era solita fare. Non appena le sue labbra spaccate, ma morbide allo stesso tempo, toccarono la fronte della ragazza, questa si sentì ulteriormente protetta. Quel bacio che solo una vera madre avrebbe potuto darle la convinse che Mary stesse dicendo la verità, che tutto sarebbe andato bene.

«Non permetterò a nessuno di farti del male...figlia mia.» terminò Marianne separandosi di nuovo da lei e guardandola con degli occhi che avrebbero fatto coraggio a chiunque.

Thia annuì lievemente, rincuorata. Una parte di lei sapeva che non avevano speranze e che quella notte loro sarebbero state oggetto di purificazione per quei due. Era ovvio. Nessuno poteva salvarle veramente. Ogni possibile salvatore, poteva rivelarsi un’altra potenziale minaccia, quella notte. Ma un’altra parte invece non appena vide quell’appiglio di speranza, ci si aggrappò all’istante, sperando di poter riuscire a salire fino in cima.

Sentendo quelle parole, in particolare le ultime due, David strabuzzò gli occhi e guardò basito Marianne. «F-"Figlia mia?»

Anche Greg era piuttosto sorpreso, dopotutto Marianne non poteva essere più vecchia di Thia di dieci anni, come poteva essere sua madre?

Marianne si voltò verso la causa di tutta quella situazione e sibilò a denti stretti: «Fatti i cazzi tuoi.»

David ammutolì, mentre Greg scoppiò a ridere.

«Accidenti...» cominciò a dire con ilarità. «...sei una gallinella volgare, eh? Mi fanno impazzire. Quasi mi dispiace non potermela prendere con te questa sera...»

Marianne digrignò i denti. Non sopportava più la presenza di quei due. All’inizio ne era intimorita, ma non appena aveva visto quanto stessero terrorizzando Thia, aveva messo da parte la paura e lasciato spazio alla rabbia. Nessuno poteva maltrattare la sua bambina in quel modo, oltretutto in sua presenza. Lei non si meritava tutto quello. Era una vittima innocente, una ragazzina d’oro, coinvolta in un mondo troppo crudele e ingiusto per lei. Improvvisamente non le sembrò più di averle mentito, quando le aveva detto che sarebbe andato tutto bene. Anzi, si ripromise di salvarla in un modo o nell’altro.

E lo avrebbe fatto. A quella ragazza non sarebbe stato torto un capello di troppo, quella notte.

Te lo prometto.

 

***

 

Tempo rimasto alla fine dello Sfogo annuale: 10 ore e 55 minuti.

Un parco. Quel posto sembrava in tutto e per tutto un parco. Tipo quelli delle città, con panchine, alberi, fontane, bambini che corrono spensierati, cagnolini che giocherellano tra loro e così via. Solo che quello era completamente buio, illuminato solo da quattro lampioni verdi e soprattutto non c’erano bambini o cagnolini. C’erano Dominick, l’uomo con i baffoni e gli altri sei ostaggi, soli, spaventati e infreddoliti.

Erano stati condotti in quel luogo misterioso dagli uomini eleganti armati. Li avevano spinti oltre una porta, poi l’avevano barricata dall’interno e gli otto erano rimasti intrappolati lì. A quel punto ognuno aveva preso la propria strada. Dominick era rimasto così concentrato dal posto in cui si trovava, che non si era nemmeno accorto di essere rimasto solo. A quel punto aveva guardato in ogni direzione per trovare almeno uno di loro, per non rimanere da solo, ma era stato tutto vano. La vastezza di quel luogo e il buio che ne ricopriva buona parte gli aveva impedito di vedere anche solo le loro ombre.

Così si era messo anche lui a vagare per quel posto. Più lo guardava, più si convinceva che assomigliava ad un parco, con il suolo, però, completamente in cemento, senza nemmeno uno spiraglio d’erba. Ovvio, erano pur sempre in un edificio. Attraversò un piccolo marciapiede delimitato da due muretti con dietro delle alte siepi e si ritrovò nella piazzola centrale, dove c’erano i quattro lampioni che fornivano la fioca luce e una fontana circolare vuota. Da quella piazzola, altri tre marciapiedi partivano e conducevano in altri sentieri delimitati da muretti e siepi. Dominick si infilò in uno di essi e proseguì, continuando la sua ricerca di uno qualsiasi degli ostaggi. Si ritrovò fuori dalla piazzola e continuò a camminare lungo marciapiedi e accanto a siepi, guardando in ogni direzione, ma il buio non era d’aiuto.

Approfittò anche di quel momento per raccogliere le idee.

Inutile dire che si stava letteralmente cagando addosso per la paura. Era stato rapito, portato ad un asta, venduto e condotto in quel luogo buio, con l’unica certezza che gli restavano quindici minuti di vita. Quei ricchi pazzi volevano purificarsi e per farlo avrebbero ucciso lui e gli altri ostaggi. A quel punto forse capì. Quella specie di parco, era una qualche sorta di terreno di caccia. Loro erano i cacciatori, lui la preda. In effetti, ripensando al discorso della donna bionda, a come diceva di possedere una vasta gamma di armi, quella sembrava essere l’unica soluzione. E ciò non fece che confermare le sue teorie. Aveva solo più quindici minuti di vita. Anzi, di meno, visto che ormai era già da un po’ che vagava lì dentro senza meta. Degli altri neanche l’ombra, c’era solamente più lui. Senza nemmeno rendersene conto si ritrovò ai margini del terreno, in un’altra piazzola, dotata di una ringhiera di cemento che si affacciava su qualcosa. Si avvicinò e fece per sporgersi, quasi sperando di aver trovato una via di fuga, ma non appena sbatté la testa contro la parete, capì che quella piazzola non si affacciava su nulla. Era tutto ricreato ad hoc.

Imprecando e massaggiandosi la testa, riprese a camminare allo stato brado, dandosi anche dello stupido per aver pensato di aver trovato una via di fuga. E ti pareva veramente che la mettessero così a portata di mano? Sicuramente lì da qualche parte c’era una porta nascosta, magari un’uscita d’emergenza. Trovarla era il problema. Proseguì per un altro marciapiede, rasente alla parete della stanza e ad un’altra siepe.

Mentre il suo sguardo guizzava in ogni direzione, incrociò un paio di finestre rialzate di almeno tre o quattro metri, che si affacciavano dalla parete accanto a lui. Dietro il vetro di queste, individuò chiaramente la donna bionda che aveva diretto l’asta e buona parte dei ricconi seduti ai tavoli. A quel punto fu sicuro al cento percento.  Lui era la preda, loro erano i cacciatori e tutto quanto era in diretta davanti agli occhi di quei folli che avevano deciso di non partecipare all’asta.

Non appena li vide guardarlo con quei sorrisi freddi e rigorosamente fuori di testa, con quella loro aria di superiorità, Dominick sentì il sangue ribollire nelle vene per la rabbia. Digrignò i denti e si piantò le unghie nei palmi, poi cominciò a cercare per terra qualcosa da tirare contro quella cazzo di finestra e far sparire quei sorrisetti da quelle facce da culo. Non trovò nulla per terra, ma d’altronde poteva aspettarselo. Una pietra avrebbe potuto essere usata come arma di difesa dagli ostaggi. Ma loro erano le vittime sacrificali, le prede. Dovevano, con la loro morte, purificare le anime di quei ricconi. Perché era a questo che esistevano i più poveri, purificare i più ricchi. Guai a cercare di difendersi. Dovevano subire e stare zitti.

Quel pensiero non fece che aumentare la rabbia del ragazzo, che a quel punto, non potendo fare altro, sollevò entrambi i medi e li puntò a quelle persone che lo guardavano dall’alto. Vide i loro sorrisi vacillare quando si accorsero di lui e del suo gesto. Probabilmente non erano abituati a vedere un povero uscire fuori dal suo posto e osare mandarli a quel paese. Dominick stava anche per passare alle parole e fare uso di tutti gli insulti peggiori che conoscesse, ma si bloccò di colpo quando sentì un’altra porta aprirsi. Ed era poco lontano da lui. Una candida luce bianca invase parte del parco mentre le sette persone che avevano comprato lui e gli altri ostaggi entravano. Ognuno di loro possedeva dei bizzarri occhiali con lenti verdi scure. Avevano indosso abiti semplici, pantaloni e giacche da cacciatori, e non più i vestiti eleganti. Ognuno di loro aveva quel sorriso folle stampato in faccia e un fucile per le mani.

Non appena Dominick li vide si sentì mancare. Con un impeto di forza riuscì a scappare via e nascondersi tra le tenebre. Da lì li vide prendersi tutti quanti per mano e chinare la testa, come in preghiera.

«Benedetti i nuovi padri fondatori, che ci hanno permesso di poterci sfogare e purificare le nostre anime. Benedetta l’America, una nazione risorta.» recitarono in coro, prima di sciogliere i legami tra lo loro mani.

Dominick sentì la pelle accapponarsi quando sentì quei versi. Soprattutto perché quello che avrebbe permesso loro di purificarsi era lui.

Intanto quelli, non appena finirono di parlare, si voltarono tutti, ma proprio tutti, nel punto esatto in cui era rintanato Dominick. Allargarono i loro falsi sorrisi e puntarono i fucili.

Dominick non riuscì a concepire come diavolo riuscirono a vederlo, ma ciò non fu esattamente il suo primo pensiero. Non appena si voltarono verso di lui, una sola parola fuoriuscì dalla voce nella sua testa.

CORRERE

E chi era lui per non ascoltare quella voce?

Non rimase lì nemmeno per vedere quei tizi avvicinare le dita al grilletto. Veloce come mai prima di allora, si lanciò in mezzo alla fitta rete di marciapiedi e siepi, esattamente un attimo prima che i proiettili esplodessero all’unisono e crivellassero il punto in cui si trovava lui.

Mentre correva a perdifiato lungo i sentieri, realizzò come avessero fatto a vederlo. Quelli non erano occhiali da sole, come aveva pensato all’inizio, ma visori notturni. Era l’unica spiegazione.

I minuti successivi furono tutti uguali tra loro. Dominick, rintanato nell’ennesimo pertugio, sentiva spari, urla, pianti, richieste di pietà, poi altri spari. E quasi sempre delle risate, oppure dei complimenti, del tipo "Bel colpo figliolo!".

Ogni sparo che sentiva, Dominick sobbalzava per lo spavento. I suoi sensi erano affinati al massimo, il suo sguardo vagava convulsivamente in ogni direzione, per potergli permettere di individuare eventuali minacce e fuggire di conseguenza. Se volevano proprio ucciderlo, allora gliela avrebbe fatta sudare a quei bastardi.

Ma mentre pensava a quello, non poteva certo non negare di trovarsi lì per colpa sua. Avrebbe potuto essere a casa di Hester, in un quartiere abbastanza tranquillo e fuori pericolo, in compagnia di lei. Avrebbe potuto essere al sicuro, con l’amore della sua vita. In quel momento avrebbe potuto sentire il calore e la morbidezza del suo corpo, le sue labbra umide e soffici intrecciarsi con le sue. Avrebbero potuto passare insieme la notte dello Sfogo, amandosi come usavano spesso fare. Invece era lì, a lottare tra la vita e la morte per colpa di una stupidissima vendetta. Che idiota che era stato. Credeva che avrebbe potuto sostenere una simile situazione, invece per lui era una cosa del tutto estranea. Era fottuto e lo sapeva. L’unica cosa che poteva fare era chiedere scusa mentalmente ad Hester e continuare a cambiare nascondiglio, per ritardare l’inevitabile.

Altri spari. Questa volta più vicini. Altre urla. Richieste di pietà. Spari.

Dominick riprese a correre all’impazzata. Ma non appena svoltò l’angolo andò a schiantarsi contro qualcuno. L’urto fu terribile, gli parve di essere finito contro un muro. Cadde a terra all’indietro, ritrovandosi con il sedere a terra. Si massaggiò la testa dolorante per l’impatto, poi alzò lo sguardo. Stava per rimettersi in piedi e correre di nuovo alla velocità della luce, ma nella penombra riuscì a distinguere chiaramente una figura famigliare, non ostile. Era l’omaccione con i baffi a manubrio. Dopo l’impatto quello aveva barcollato un attimo, ma grazie alla sua grossa stazza era rimasto in piedi senza difficoltà. La cosa particolare era che aveva un fucile in mano e i bizzarri occhiali addosso.

«Ragazzo!» sussurrò rivelando una stramba R moscia e un tono profondo, ma caldo e rassicurante allo steso tempo. «Almeno tu sei ancora vivo!»

«C-Cosa?» domandò Dominick impacciato.

L’uomo lo sollevò per la giacca come se fosse un peso piuma e lo rimise in piedi. «A dopo le spiegazioni, adesso stammi incollato, ok?»

Non che Dom volesse continuare ad andarsene a zonzo da solo. E adesso che aveva trovato un altro ostaggio, per di più armato, cosa voleva di più? «Ehm...ok...»

L’uomo annuì e cominciò a correre. Dominick non perse un secondo e lo seguì a ruota, mentre nella sua mente si accendeva un piccolo barlume di speranza. Forse...sarebbe riuscito a rivedere la sua luce del giorno dai capelli rossi. E ovviamente anche il mattino. Ma Hester era più importante. Il mattino poteva attendere.

 

***

 

Tempo rimasto alla fine dello Sfogo annuale: 10 ore e 47 minuti.

Kevin si risvegliò quando andò a sbattere con la testa contro una superficie dura. La prima cosa che pensò fu un’imprecazione, ma non appena aprì gli occhi il suo cervello cessò di funzionare.

Era seduto per terra, su quello che sembrava essere un pulmino scolastico a cui avevano levato tutti i sedili. Non appena vagò con lo sguardo intorno a sé, vide un esercito di uomini grandi, grossi e brutti, tutti armati fino ai denti. Tutti quanti lo osservavano sogghignando e con gli occhi sfavillanti di malizia. Kevin sentì il sangue gelarsi nelle vene sotto tutti quegli sguardi posati su di lui e si acquattò contro la parete alla quale era appoggiato. Improvvisamente ricordò tutto quello che era successo.

Un uomo appartenente ad una banda di tagliagole lo aveva portato al cospetto del suo capo, il quale gli aveva puntato contro una pistola. Solo che non l’aveva ucciso, ma l’aveva salvato. Aveva colpito il suo aguzzino e poi gli aveva imposto di sparargli. Kevin lo aveva fatto, colpendolo allo stomaco. Il solo pensiero di quell’uomo a terra dolorante per causa sua gli fece salire la bile. Poi cos’altro era successo?

Ah, sì. Il capo di quella banda aveva finito il lavoro con quell’uomo, uccidendolo con un colpo alla testa, poi si era presentato. Troy, aveva detto di chiamarsi.

Gli aveva stretto la mano e gli aveva chiesto il suo nome. Kevin si era presentato, poi Troy aveva annunciato l’ingresso del ragazzo nella sua banda. E se adesso era seduto su quel pulmino, insieme a tutti quegli uomini...

«Ragazzo, ti sei ripreso!» esclamò una voce proveniente da regioni ignote.

Kevin sobbalzò e guardò in tutte le direzioni, poi incrociò l’uomo che lo aveva chiamato. Era in piedi e gli stava porgendo una mano e sorridendo. Ogni tanto il suo equilibro vacillava, per via del restare in piedi su un mezzo in movimento, ma comunque rimase sempre al suo posto. Dai suoi occhi grigi non traspariva alcuna malizia o altre brutte emozioni. Sembrava tranquillo.

Kevin fissò imbambolato l’uomo, riconoscendolo. Era quel Troy. A quel punto, ciò che fino a quel momento aveva reputato un miraggio, una proiezione della sua mente, divenne più reale che mai.

Troy avvicinò la mano, invitandolo chiaramente a prendergliela, poi lo incitò con tono calmo. «Forza ragazzo, in piedi, su!»

Kevin, non avendo molta altra scelta, prese la mano dell’uomo e venne aiutato a rimettersi in piedi. Non appena si ritrovò in equilibrio sulle gambe, un violento scossone colpì il pulmino. Troy non sembrò farci caso, ma Kevin barcollò pericolosamente. Sarebbe finito con il culo a terra in un nanosecondo se Troy non lo avesse afferrato per una spalla e tenuto in piedi.

Tutti i presenti ridacchiarono quando lo videro quasi cadere in quel modo, Troy invece non si scompose. «Qualche scossone passeggero, vedrai, ti ci abituerai.»

Kevin lo guardò rimanendo in silenzio, non avendo la minima idea di cosa rispondere. Di solito era uno che non si faceva problemi a parlare e a dire le cose come stavano, ma in quell’ambiente, con tutti quegli uomini dall’aria di potergli piantare con coltello in gola da un momento all’altro, le parole erano l’ultima cosa che riusciva a trovare. Semplicemente, si ritrovò ad annuire.

Troy fece per parlare di nuovo, ma qualcuno lo chiamò dal posto del guidatore. «Capo, carne fresca!»

L’uomo si fece serio e andò ad affacciarsi al finestrino per verificare la veridicità di quelle parole. O meglio, chiamare finestrino quel vetro sbarrato in più punti da assi di legno e con pochissimi spiragli era un po’ inappropriato. Troy si avvicinò ad una delle fessure e scrutò il paesaggio fuori di sé, poi annuì e ordinò con quel suo fare autoritario: «Bene, fermiamoci qui!»

Tutti gli uomini esultarono agitando le armi, poi si misero in piedi e cominciarono ad armeggiare con esse per prepararsi.

Anche Kevin buttò l’occhio fuori dal finestrino. Qui vide due bande di pazzi armati che si davano battaglia fra loro in una strada cosparsa di auto in fiamme. Sgranò gli occhi e guardò Troy incredulo. Davvero volevano scendere in mezzo a quel casino?

L’uomo non fece caso a lui e diede ordini a nastro, poi il pulmino si arrestò all’improvviso. Kevin per poco cadde di nuovo, ma questa volta afferrò il primo appiglio che trovò e si mantenne sulle proprie gambe. Una volta fermo, Troy aprì lo portellone scorrevole del pulmino e fece scendere tutti gli uomini, che non appena furono fuori cominciarono letteralmente ad ululare e ad aprire il fuoco.

Nel giro di poco tempo solamente Kevin e Troy rimasero sul veicolo, in silenzio.

Non appena si trovò in quel breve momento di tranquillità, la mente di Kevin impazzì. Un sacco di domande cominciarono a spuntare come funghi. Perché era lì, su quel pulmino? Perché Troy lo aveva salvato? In che punto della città si trovava? Quanto mancava alla fine dello Sfogo?

Troy si accorse del suo sguardo sbigottito e perso nel vuoto. Sorrise al ragazzo. «Sta tranquillo, sei al sicuro adesso. Ho ordinato ai miei uomini di non torcerti un capello. Sono un po’ euforici, ma a me obbediscono quasi sempre. So come farmi rispettare.»

Quel "quasi" non piacque per niente a Kevin, ma, di nuovo, non trovò la forza per farglielo notare. Si sentiva incredibilmente piccolo ed insignificante al cospetto di quell’uomo, non solo perché quello era il doppio di lui anche solo fisicamente. Troy irradiava forza e autorità da tutti i pori. Non era un caso che fosse a capo di quella banda di scalmanati, che nel frattempo da fuori il pulmino continuavano ad urlare, ridere e sparare.

«Non sei di molte parole, eh? Ma capisco. Immagino che devi ancora riprenderti da tutto quello che ti è capitato. Chissà da quanto tempo eri fuori durante lo Sfogo. Devi averne viste delle belle.»

Di nuovo, Kevin non riuscì a fare altro che annuire. Era vero. Se respirava ancora era un miracolo.

«Allora, da quant’era che giravi per le strade?»

Quando realizzò che quella domanda era indirizzata a lui, Kevin fu costretto a farsi coraggio e rispondere. «Un...un’ora, credo...forse di meno...»

Troy si prese il mento e lo guardò pensieroso. «Beh...per un ragazzino come te non è male...»

«Ci sono quasi rimasto per due volte...» aggiunse Kevin, ritrovando un po’ di coraggio. «E non solo per la paura...»

L’uomo ridacchiò. «Mi sarei stupito del contrario...»

Kevin si prese un braccio e cominciò a massaggiarselo per l’imbarazzo, mentre il silenzio calava di nuovo tra loro due. Era davvero opprimente. Il ragazzo avrebbe voluto tempestarlo di domande, farsi spiegare perché lo aveva salvato, per non parlare del fatto che voleva tornarsene a casa, ma non ci riuscì. Le parole gli morirono di nuovo in gola. Non se la sentiva di parlare. Temeva che se lo avesse fatto a sproposito, quell’uomo si sarebbe infuriato.

«Ma comunque sei ancora vivo, il che la dice già lunga sul tuo conto...» riprese Troy avvicinandosi, per poi posargli una mano sulla spalla. «Sento che insieme potremo fare grandi cose, ragazzo.»

Kevin lo fissò perplesso, domandandosi cosa volesse dire. Attribuendo a tutte le sue energie, riuscì a parlare di nuovo: «Che...che intendi?»

«Intendo che sarai un ottimo componente della mia squadra.»

Kevin sgranò gli occhi. Allora era vero. Lo aveva veramente inserito in quella banda di psicopatici. Non poteva crederci. Perché lo aveva fatto? Cosa ci aveva visto in lui? Era solo un ragazzo! Uno come tanti!

Deglutendo, quasi sentendosi in procinto di camminare su un campo minato, dove il minimo passo falso lo avrebbe ridotto in mille pezzi, domandò, flebilmente: «Ma...perché mi hai salvato...e...inserito nella tua banda?»

L’uomo allargò il sorriso e posò anche l’altra mano sulla spalla di Kevin, poi lo osservò dall’alto della sua statura. «Ho visto in te...qualcosa. Un grande potenziale. Farai faville, vedrai.»

«Ma...sono solo un ragazzo!» protestò, sempre con un tono più mite possibile. «Io...come puoi dire che...»

«In te, vedo lui, ragazzo. Vedrai, io e te diventeremo inarrestabili!» lo interruppe l’uomo, guardandolo questa volta con un bagliore negli occhi che Kevin aveva imparato a conoscere fin troppo bene. Follia.

Sentendosi di nuovo sul punto di vomitare, Kevin domandò: «Ehm...lui chi?»

Lo sguardo di Troy si fece vitreo, ma la follia non svanì. «Gli...gli assomigli tantissimo...vedrai...andremo alla grande...Travis...»

Kevin per poco non soffocò con la propria saliva. Lo aveva chiamato Travis. Ma era abbastanza sicuro che quello lo sapesse il suo vero nome.

 «Chi...chi è Travis?» domandò di nuovo, ormai sentendosi sempre più sul punto di svenire di nuovo.

Da Troy non giunse altro che un sospiro. I suoi occhi inoltre si contornarono di un alone di tristezza. Non rispose. Rimase in silenzio a lungo, con l’aria di uno che sembrava in preda ai propri travagli interiori, poi si separò dal ragazzo e si allontanò da lui. Si mise sul bordo dello portellone, dando l’idea a Kevin di voler scendere. Ma Troy rimase in piedi, immobile, con le mani intrecciate dietro la schiena, a fissare la strada davanti a lui.

«Vedrai ragazzo...vedrai...» disse semplicemente, con tono incolore, tipico di quelle persone che quando ti parlano lo fanno pensando a tutt’altro, in genere a ricordi dolorosi. «Vedrai Travis...da te mi aspetto il meglio. E non ti lascerò mai più andare...»

Fu allora che Kevin realizzò come stavano le cose. Non era in salvo. Era semplicemente finito nell’ennesimo casino, in compagnia di uno storno di schizofrenici e del loro capo, che sembrava ancora più fuori di testa degli altri.

Era in trappola, in compagnia di un uomo che vedeva in lui chissà cosa, che si aspettava da lui chissà cosa e che per chissà quale motivo lo chiamava Travis.

Non sarebbe mai arrivato al giorno successivo. Non avrebbe mai più visto i suoi genitori. Non avrebbe fatto quelle cose che tanto sognava di poter fare.

Non era salvo. Era fottuto. Di nuovo.

 

 

 

Chiedo scusa per l'assenza immane, ma ho avuto (e ho tutt'ora) altri progetti per le mani. Perciò eccovi questa parte un po' più lunga delle altre, sperando che possa bastarvi fino a quando non riuscirò a scrivere la prossima (tra tempo indefinito).

Scusate il disagio.

   
 
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