Capitolo
VII
Purificazioni
Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 11
ore
Intorno a lei c’era solamente buio. Non riusciva a vedere altro. Solamente un’enorme distesa scura, che si diramava in ogni direzione a perdita d’occhio. Riusciva a percepire quel buio, ma nient’altro, nemmeno il suo stesso corpo. Le sembrava di essere diventata un fantasma.
La sua mente era un turbinio confuso di ricordi e pensieri. Un sacco di frasi parole le rimbombavano dentro, sembravano una tempesta. Non riusciva neanche a metterne insieme due, di questi pensieri. Non riusciva più a ragionare, a riflettere.
Tutto questo continuò finché non sentì, sempre tra i suoi ricordi, delle urla spaventate, provenienti da una voce dolce ed esile molto famigliare. La stavano chiamando. Urlavano il suo nome disperatamente. Altre voci frapposero, si sentì uno strano rumore e le urla cessarono, rimpiazzate da un pianto. Non appena sentì quei singulti, il suo cervello ricevette un impulso. Non sapeva perché, ma non poteva permettere a chiunque fosse quella persona di piangere. Non quando c’era lei in sua compagnia. Doveva proteggerla.
Finalmente riuscì a percepire altre sensazioni. Riuscì a percepire la brezza fredda che le attraversò tutta la spina dorsale, facendola trasalire. Riuscì ad avvertire il proprio battito cardiaco. Perfino il tremolio delle sue palpebre.
Sentì altre voci, ma questa volta non erano dei ricordi. Erano lì, a poca distanza da lei. Erano molto offuscate e metà delle parole che sentì risuonarono distorte, ma ciò le permise comunque di realizzare di essere ancora viva, di squarciare quell’oscurità che la stava avvolgendo.
«Dannazione...» cominciò
una voce. «...tu e il tuo dannato esplosivo artigianale! Hai
visto che cosa le
hai fatto alla faccia?»
«Smettila, sono solo un po’ di
graffi e
qualche ustione...» brontolò una seconda voce,
molto più rilassata della prima.
«Un po’ di graffi?!»
protestò ancora più
accigliata l’altra voce. «Guardala! L’hai
rovinata!»
«Ma chissenefrega! Il suo corpo
è ancora
immacolato! E se non ti piace puoi sempre prenderti la
biondina!»
«Te lo scordi...»
Finalmente riuscì ad aprire gli occhi e
a percepire anche cos’aveva intorno. La prima cosa che
realizzò, fu il dolore
pazzesco che provava alla faccia, più il gusto metallico del
sangue in bocca.
Le sue guancie erano umidicce, bagnate da qualcosa di caldo e viscoso,
mentre i
suoi lunghi capelli erano premuti sul suo volto in più
punti, gli stessi che
sentiva bagnati. Probabilmente si erano incollati alla sostanza
viscosa.
I suoi occhi focalizzarono due macchie
indistinte di fronte a lei, che andarono pian piano a mettersi a fuoco.
Dopo un
lungo momento, riuscì perfettamente a distinguere due
sedili, con seduti sopra
due uomini, un parabrezza, un volante, leva del cambio, finestrini. Una
macchina, con lei e altri due uomini a bordo.
Ancora troppo intontita, non seppe cosa
pensare. Fino a quando non sentì un gemito strozzato di
fianco a lei. A quel
punto si girò lentamente, provocandosi un’enorme
fitta di dolore al collo, e
vide da chi era provenuto quel verso. Seduta accanto a lei,
c’era una ragazzina
giovane e minuta, con i capelli biondi e corti, una benda davanti alla
bocca e
mani e piedi legati da altre bende. Aveva il volto e gli occhi
arrossati, le
guancie ancora con i segni lasciati dal passaggio di numerose lacrime.
Non ci mise un secondo di troppo per
riconoscerla. La ragazza che avrebbe difeso al costo della vita. La sua
nuova
famiglia, la sua bambina.
Aprì la bocca per chiamarla, ma da essa
non fuoriuscì alcuna parola, neanche un verso strozzato.
Niente di niente.
L’unica cosa che accadde fu che sentì
l’ennesima fitta di dolore, questa volta
alle labbra, sicuramente spaccate.
Allora cercò di muoversi per
raggiungerla, per abbracciarla e rincuorarla in quel suo momento di
debolezza,
ma si rese conto a sua volta di avere mani e piedi bloccati.
Spostò lo sguardo
sui suoi polsi e vide le fasce che li tenevano intrecciati fra loro.
Erano
state legate in una maniera così stretta che le sentiva
penetrarle nella carne.
I polsi le bruciavano terribilmente.
Sentì un altro gemito soffocato e volse
di nuovo lo sguardo verso la ragazzina. Aveva la testa sepolta fra le
spalle e
diverse lacrime, questa volta fresche, che le rigavano quel volto
bello, ma
allo stesso tempo così fragile che sarebbe bastato un
po’ di vento per
spezzarlo in più punti. La sua bambina. Stava piangendo di
fronte a lei. Era
troppo. Il suo affetto materno fu più potente di qualsiasi
altra cosa e le
permise di trovare la forza per superare il dolore e riuscire a
parlare. Dalla
sua bocca uscì finalmente una parola, che disse molto
flebilmente, con un tono
che sembrava starsi per spegnere da un momento all’altro:
«T-Thia...»
La ragazzina sobbalzò e si voltò verso di lei, con gli occhi talmente spalancati che sembravano schizzare fuori dalle orbite. Lo stupore che fuoriusciva dalle iridi azzurre cristalline della sua bambina si poteva notare anche ad un chilometro di distanza. Ma nel giro di pochi attimi si trasformò in sollievo. Cominciò ad emettere altri versi strozzati, probabilmente per chiamarla, ma la fascia le offuscava la voce.
Quando gli uomini seduti davanti si accorsero del comportamento anomalo di Thia si voltarono. Individuarono immediatamente la causa di tutto quello, ovvero la loro ospite, dapprima addormentata, finalmente sveglia.
«Ben tornata fra noi, cara
Mary!» la
schernì quello al voltante. Aveva il volto coperto da un
passamontagna e uno
spesso giaccone nero, chiuso. Marianne non riuscì a
riconoscerlo.
«Concentrati sulla strada,
idiota!» lo
rimproverò l’altro, anche lui con il volto coperto
da uno scalda collo mimetico
e un cappuccio alzato. Questa volta, però, alla donna parve
di riconoscere la
sua voce.
Il guidatore cominciò a muovere una mano
a mo’ di una bocca che si apriva e chiudeva e
blaterò: «Bla bla bla...» poi
rivolse la sua attenzione di nuovo davanti a sé.
«Cosa...chi siete?»
mormorò di nuovo
Marianne, ancora stordita dal dolore.
Quello seduto sul sedile del passeggero
rimase a guardarla e rispose, cercando di usare un tono più
rassicurante
possibile: «Non ha importanza...non vi faremo alcun male, ve
lo prometto...»
Improvvisamente Marianne realizzò tutto
quanto. Lei e Thia erano state rapite da quei due, per motivi che
ancora non
capiva, ma non ci voleva nemmeno molto per arrivarci. Thia era una
bella
ragazza, lei una bella donna, malgrado cercasse di nasconderlo
pettinandosi
sempre i capelli davanti al volto, e quelli erano due uomini. Di certo
non le
stavano portando ad una cenetta romantica.
«Parla per te!»
tuonò intanto quello al
volante sogghignando. «Io ho intenzione di darci dentro alla
grande!»
«Ma vuoi stare zitto?!»
esclamò l’altro
guardandolo male, permettendo a Marianne di inquadrare perfettamente il
suo
tono di voce.
Quasi non credette a ciò che disse
quando
parlò di nuovo. «D-David?»
Sperò di essersi sbagliata.
Sperò che
quell’uomo scoppiasse a ridere e le
dicesse di aver fatto un enorme buco nell’acqua. Avrebbe di
gran lunga
preferito che così fosse. Che fosse solo un folle. Invece
quello spalancò gli
occhi, chiaro segno che era sorpreso. Sorpreso di essere stato
riconosciuto.
«Sei tu, David?» insistette
Marianne,
quando si accorse che la risposta tardava ad arrivare.
Sperò fino all’ultimo che
quello
confutasse la sua tesi, ma così non fu. Con suo enorme
orrore, l’uomo abbassò
la testa. Fece per parlare, ma il guidatore lo interruppe bruscamente:
«Ehi,
bambola, perché non stai un po’ zitta? O vuoi che
ti tappiamo la bocca come
abbiamo fatto con la tua amichetta, che non ha smesso di urlare per un
solo
secondo?»
«Finiscila Greg...»
brontolò l’altro.
Il guidatore si accigliò parecchio
quando sentì il suo nome fuoriuscire dalla bocca del
complice. «Che cazzo fai
coglione?! Solo perché ti ha beccato non significa che devi
far sgamare anche
me! Vuoi anche dargli il mio cazzo di indirizzo?!»
David, ormai era chiaro che fosse lui,
sbuffò e non rispose.
Marianne non credeva alle proprie
orecchie. Non poteva concepire quella cosa. Non avrebbe mai pensato che
David
potesse fare una cosa del genere. Lei stessa aveva promesso a Thia che
quell’uomo le avrebbe lasciate in pace. Non solo le aveva
mentito quando le
aveva detto che quella notte sarebbero state al sicuro, ma lo aveva
pure fatto
quando aveva parlato di quell’uomo. Aveva detto un sacco di
menzogne alla sua
povera bambina, che ora più di tutti ne pagava le
conseguenze.
Intanto Thia, come volevasi dimostrare,
fissava incredula prima David, poi Marianne, chiaramente sconvolta
dalla
verità.
Marianne si voltò verso di lei e i loro
occhi si incrociarono. Davanti a quelle iridi azzurre, così
belle, così fragili
e innocenti, Marianne volle sprofondare. Lei non meritava tutto quello.
Aveva
sofferto fin troppo in tutta la sua vita. E adesso perfino la donna di
cui si
fidava di più l’aveva ingannata. Il mondo doveva
starle cadendo addosso.
La donna non riuscì più a
reggere quello
sguardo e si spostò di nuovo su David. Lo fissò
implorante. Se davvero credeva
di conoscerlo, allora forse poteva ancora salvare la situazione.
«David...perché
lo hai fatto? Credevo che tu fossi meglio di
così...»
Non conosceva affatto quell’uomo. Non
appena finì di parlare, quello esplose. Il suo sguardo si
caricò di rabbia e
Marianne si spaventò. «Perché?! Osi
chiedermi perché?! Sono ANNI che lavoriamo
insieme e tu non mi hai nemmeno mai guardato! Tutti i giorni mi passi
davanti
senza neanche considerarmi, sembra che io per te non esista nemmeno!
Sembra che
tu ti creda la regina di tutti e tutto, in grado di poter ignorare
bellamente
chiunque ti pare! Non mi hai mai dato un’occasione, in tutti
questi anni! Mai
una volta che accettassi anche solo di prenderti un caffè
con me, per cinque
fottuti minuti! Non mi hai mai concesso nulla! Credi che mi faccia
piacere
sentirmi una merda calpestata da te?! EH?!»
La donna indietreggiò con la testa,
intimorita da quell’uomo che stava mostrando un lato di
sé che non pensava
potesse esistere. Non era una brava persona. Era un mostro come tutti
gli
altri. Lo sapeva benissimo che lei faceva così
perché era rimasta vedova, ma
non gli importava. In lei non vedeva una donna affranta, che non poteva
stare
con gli uomini perché le ricordavano il defunto marito, la
cui morte dopo due
anni ancora rimpiangeva. Vedeva solo un bel viso e un bel corpo. Come
tutti quelli
che aveva conosciuto.
«Questa notte...sarai finalmente mia,
Marianne...ma puoi stare tranquilla, non ti ucciderò. Voglio
solo...approfittare
un po’ di questo evento. Se si chiama Sfogo ci
sarà un motivo, dopotutto.»
«Ah, allora la bionda me la prendo
io?»
domandò Greg.
David scrollò le spalle. «Va
bene, vacci
solo piano.»
Greg scoppiò in una fragorosa risata,
prima di rispondere malizioso: «Decido io come andarci con
lei, hai capito?!»
Thia emise un altro verso strozzato
sentendo cosa stavano confabulando quei due. All’idea di
restare con quel porco
di Greg la paura si insinuò in ogni centimetro della sua
pelle e cominciò a
dimenarsi come un’ossessa per cercare di scappare.
Marianne cercò di richiamarla, di
calmarla, ma fu tutto inutile. Thia non ascoltava più
nessuno, se non quella
voce nella sua testa che le imponeva di scappare da lì,
prima di ritrovarsi con
l’interno coscia sfondato da un maniaco. Con le mani ancora
legate cercò di
aprire la porta tirando la maniglia, ma l’autista doveva
averle bloccate con
l’apposito pulsante da davanti.
«Thia! Thia calmati ti prego!»
implorava
Marianne con le lacrime agli occhi, senza risultati.
«David, porca puttana calma quella troia
o giuro che lo faccio io!» esclamò Greg schiumante
di rabbia, vedendo la sua
gallinella fare i capricci. Per lui le donne dovevano sottomettersi e
basta,
perché erano inferiori all’uomo. Il mondo
funzionava così: l’uomo comanda, la
donna obbedisce. Se la donna non obbedisce, allora l’uomo usa
le maniere forti.
Quella stronzetta non era esclusa da quella sua particolare corrente di
pensiero.
David digrignò i denti e
guardò
Marianne, poi le ordinò: «Hai capito? Dalle una
tranquillizzata. Io non ci
perdo niente se Greg la fa calmare a suo modo, ma è meglio
per il suo bene che lo
faccia.»
Marianne riuscì a schiudere le mani
dapprima premute fra loro. Sentendo i polsi dolerle terribilmente a
causa del
bruciore provocato da quella fascia strettissima. Avvolse le mani
aperte a mo’
di preghiera intorno alle guancie di Thia e la costrinse a guardarla
negli
occhi. Sentendo quel contatto così affettuoso e apprensivo,
Thia venne pervasa
da una piacevole sensazione di calore, quel calore materno che solo
Marianne
riusciva a donarle. Quella sensazione riuscì a farla calmare
ed estraniare
dalla mente tutti i pensieri negativi. Incrociò le iridi
smeraldo della sua nuova
famiglia e smise di agitarsi.
La donna la fissò implorante, con le
lacrime agli occhi. Si sentì malissimo al pensiero di
doverle mentire di nuovo,
ma non c’era altra soluzione. Non voleva che quel viscido di
un Greg le facesse
qualcosa davanti ai suoi occhi. «Thia...ti
prego, ascoltami...andrà...tutto bene. Ok? Te lo prometto.
Non ci faranno
nulla, fidati di me...»
Per rafforzare ulteriormente quella
richiesta di fiducia, la donna si sporse verso di lei e le
baciò la fronte com’era
solita fare. Non appena le sue labbra spaccate, ma morbide allo stesso
tempo,
toccarono la fronte della ragazza, questa si sentì
ulteriormente protetta. Quel
bacio che solo una vera madre avrebbe potuto darle la convinse che Mary
stesse
dicendo la verità, che tutto sarebbe andato bene.
«Non permetterò a nessuno di
farti del
male...figlia mia.» terminò Marianne separandosi
di nuovo da lei e guardandola
con degli occhi che avrebbero fatto coraggio a chiunque.
Thia annuì lievemente, rincuorata. Una
parte di lei sapeva che non avevano speranze e che quella notte loro
sarebbero
state oggetto di purificazione per quei due. Era ovvio. Nessuno poteva
salvarle
veramente. Ogni possibile salvatore, poteva rivelarsi
un’altra potenziale
minaccia, quella notte. Ma un’altra parte invece non appena
vide quell’appiglio
di speranza, ci si aggrappò all’istante, sperando
di poter riuscire a salire
fino in cima.
Sentendo quelle parole, in particolare
le ultime due, David strabuzzò gli occhi e guardò
basito Marianne. «F-"Figlia
mia?»
Anche Greg era piuttosto sorpreso,
dopotutto Marianne non poteva essere più vecchia di Thia di
dieci anni, come
poteva essere sua madre?
Marianne si voltò verso la causa di
tutta quella situazione e sibilò a denti stretti:
«Fatti i cazzi tuoi.»
David ammutolì, mentre Greg
scoppiò a
ridere.
«Accidenti...»
cominciò a dire con
ilarità. «...sei una gallinella volgare, eh? Mi
fanno impazzire. Quasi mi
dispiace non potermela prendere con te questa sera...»
Marianne digrignò i denti. Non
sopportava
più la presenza di quei due. All’inizio ne era
intimorita, ma non appena aveva
visto quanto stessero terrorizzando Thia, aveva messo da parte la paura
e
lasciato spazio alla rabbia. Nessuno poteva maltrattare la sua bambina
in quel
modo, oltretutto in sua presenza. Lei non si meritava tutto quello. Era
una
vittima innocente, una ragazzina d’oro, coinvolta in un mondo
troppo crudele e
ingiusto per lei. Improvvisamente non le sembrò
più di averle mentito, quando
le aveva detto che sarebbe andato tutto bene. Anzi, si ripromise di
salvarla in
un modo o nell’altro.
E lo avrebbe fatto. A quella ragazza non
sarebbe stato torto un capello di troppo, quella notte.
Te
lo prometto.
***
Tempo
rimasto alla fine dello Sfogo annuale: 10 ore e 55 minuti.
Un parco. Quel posto sembrava in tutto e
per tutto un parco. Tipo quelli delle città, con panchine,
alberi, fontane,
bambini che corrono spensierati, cagnolini che giocherellano tra loro e
così
via. Solo che quello era completamente buio, illuminato solo da quattro
lampioni verdi e soprattutto non c’erano bambini o cagnolini.
C’erano Dominick,
l’uomo con i baffoni e gli altri sei ostaggi, soli,
spaventati e infreddoliti.
Erano stati condotti in quel luogo
misterioso dagli uomini eleganti armati. Li avevano spinti oltre una
porta, poi
l’avevano barricata dall’interno e gli otto erano
rimasti intrappolati lì. A
quel punto ognuno aveva preso la propria strada. Dominick era rimasto
così
concentrato dal posto in cui si trovava, che non si era nemmeno accorto
di
essere rimasto solo. A quel punto aveva guardato in ogni direzione per
trovare
almeno uno di loro, per non rimanere da solo, ma era stato tutto vano.
La vastezza
di quel luogo e il buio che ne ricopriva buona parte gli aveva impedito
di
vedere anche solo le loro ombre.
Così si era messo anche lui a vagare per
quel posto. Più lo guardava, più si convinceva
che assomigliava ad un parco,
con il suolo, però, completamente in cemento, senza nemmeno
uno spiraglio d’erba.
Ovvio, erano pur sempre in un edificio. Attraversò un
piccolo marciapiede delimitato
da due muretti con dietro delle alte siepi e si ritrovò
nella piazzola centrale,
dove c’erano i quattro lampioni che fornivano la fioca luce e
una fontana
circolare vuota. Da quella piazzola, altri tre marciapiedi partivano e
conducevano in altri sentieri delimitati da muretti e siepi. Dominick
si infilò
in uno di essi e proseguì, continuando la sua ricerca di uno
qualsiasi degli
ostaggi. Si ritrovò fuori dalla piazzola e
continuò a camminare lungo
marciapiedi e accanto a siepi, guardando in ogni direzione, ma il buio
non era
d’aiuto.
Approfittò anche di quel momento per
raccogliere le idee.
Inutile dire che si stava letteralmente cagando
addosso per la paura. Era stato rapito, portato ad un asta, venduto e
condotto
in quel luogo buio, con l’unica certezza che gli restavano
quindici minuti di
vita. Quei ricchi pazzi volevano purificarsi e per farlo avrebbero
ucciso lui e
gli altri ostaggi. A quel punto forse capì. Quella specie di
parco, era una
qualche sorta di terreno di caccia. Loro erano i cacciatori, lui la
preda. In
effetti, ripensando al discorso della donna bionda, a come diceva di
possedere
una vasta gamma di armi, quella sembrava essere l’unica
soluzione. E ciò non
fece che confermare le sue teorie. Aveva solo più quindici
minuti di vita. Anzi,
di meno, visto che ormai era già da un po’ che
vagava lì dentro senza meta. Degli
altri neanche l’ombra, c’era solamente
più lui. Senza nemmeno rendersene conto
si ritrovò ai margini del terreno, in un’altra
piazzola, dotata di una
ringhiera di cemento che si affacciava su qualcosa. Si
avvicinò e fece per
sporgersi, quasi sperando di aver trovato una via di fuga, ma non
appena sbatté
la testa contro la parete, capì che quella piazzola non si
affacciava su nulla.
Era tutto ricreato ad hoc.
Imprecando e massaggiandosi la testa,
riprese a camminare allo stato brado, dandosi anche dello stupido per
aver
pensato di aver trovato una via di fuga. E ti pareva veramente che la
mettessero così a portata di mano? Sicuramente lì
da qualche parte c’era una
porta nascosta, magari un’uscita d’emergenza.
Trovarla era il problema. Proseguì
per un altro marciapiede, rasente alla parete della stanza e ad
un’altra siepe.
Mentre il suo sguardo guizzava in ogni
direzione, incrociò un paio di finestre rialzate di almeno
tre o quattro metri,
che si affacciavano dalla parete accanto a lui. Dietro il vetro di
queste,
individuò chiaramente la donna bionda che aveva diretto
l’asta e buona parte
dei ricconi seduti ai tavoli. A quel punto fu sicuro al cento percento.
Lui era la preda,
loro erano i cacciatori e
tutto quanto era in diretta davanti agli occhi di quei folli che
avevano deciso
di non partecipare all’asta.
Non appena li vide guardarlo con quei
sorrisi freddi e rigorosamente fuori di testa, con quella loro aria di
superiorità,
Dominick sentì il sangue ribollire nelle vene per la rabbia.
Digrignò i denti e
si piantò le unghie nei palmi, poi cominciò a
cercare per terra qualcosa da
tirare contro quella cazzo di finestra e far sparire quei sorrisetti da
quelle
facce da culo. Non trovò nulla per terra, ma
d’altronde poteva aspettarselo. Una
pietra avrebbe potuto essere usata come arma di difesa dagli ostaggi.
Ma loro
erano le vittime sacrificali, le prede. Dovevano, con la loro morte,
purificare
le anime di quei ricconi. Perché era a questo che esistevano
i più poveri,
purificare i più ricchi. Guai a cercare di difendersi.
Dovevano subire e stare
zitti.
Quel pensiero non fece che aumentare la
rabbia del ragazzo, che a quel punto, non potendo fare altro,
sollevò entrambi
i medi e li puntò a quelle persone che lo guardavano
dall’alto. Vide i loro
sorrisi vacillare quando si accorsero di lui e del suo gesto.
Probabilmente non
erano abituati a vedere un povero uscire fuori dal suo posto e osare
mandarli a
quel paese. Dominick stava anche per passare alle parole e fare uso di
tutti
gli insulti peggiori che conoscesse, ma si bloccò di colpo
quando sentì un’altra
porta aprirsi. Ed era poco lontano da lui. Una candida luce bianca
invase parte
del parco mentre le sette persone che avevano comprato lui e gli altri
ostaggi
entravano. Ognuno di loro possedeva dei bizzarri occhiali con lenti
verdi scure.
Avevano indosso abiti semplici, pantaloni e giacche da cacciatori, e
non più i
vestiti eleganti. Ognuno di loro aveva quel sorriso folle stampato in
faccia e
un fucile per le mani.
Non appena Dominick li vide si sentì
mancare. Con un impeto di forza riuscì a scappare via e
nascondersi tra le
tenebre. Da lì li vide prendersi tutti quanti per mano e
chinare la testa, come
in preghiera.
«Benedetti
i nuovi padri fondatori, che ci hanno permesso di poterci sfogare e
purificare
le nostre anime. Benedetta l’America, una nazione risorta.»
recitarono in
coro, prima di sciogliere i legami tra lo loro mani.
Dominick sentì la pelle accapponarsi
quando sentì quei versi. Soprattutto perché
quello che avrebbe permesso loro di
purificarsi era lui.
Intanto quelli, non appena finirono di
parlare, si voltarono tutti, ma proprio tutti, nel punto esatto in cui
era rintanato
Dominick. Allargarono i loro falsi sorrisi e puntarono i fucili.
Dominick non riuscì a concepire come
diavolo riuscirono a vederlo, ma ciò non fu esattamente il
suo primo pensiero. Non
appena si voltarono verso di lui, una sola parola fuoriuscì
dalla voce nella
sua testa.
CORRERE
E chi era lui per non ascoltare quella
voce?
Non rimase lì nemmeno per vedere quei
tizi avvicinare le dita al grilletto. Veloce come mai prima di allora,
si
lanciò in mezzo alla fitta rete di marciapiedi e siepi,
esattamente un attimo
prima che i proiettili esplodessero all’unisono e
crivellassero il punto in cui
si trovava lui.
Mentre correva a perdifiato lungo i
sentieri, realizzò come avessero fatto a vederlo. Quelli non
erano occhiali da
sole, come aveva pensato all’inizio, ma visori notturni. Era
l’unica
spiegazione.
I minuti successivi furono tutti uguali
tra loro. Dominick, rintanato nell’ennesimo pertugio, sentiva
spari, urla,
pianti, richieste di pietà, poi altri spari. E quasi sempre
delle risate,
oppure dei complimenti, del tipo "Bel colpo figliolo!".
Ogni sparo che sentiva, Dominick
sobbalzava per lo spavento. I suoi sensi erano affinati al massimo, il
suo
sguardo vagava convulsivamente in ogni direzione, per potergli
permettere di
individuare eventuali minacce e fuggire di conseguenza. Se volevano
proprio
ucciderlo, allora gliela avrebbe fatta sudare a quei bastardi.
Ma mentre pensava a quello, non poteva
certo non negare di trovarsi lì per colpa sua. Avrebbe
potuto essere a casa di
Hester, in un quartiere abbastanza tranquillo e fuori pericolo, in
compagnia di
lei. Avrebbe potuto essere al sicuro, con l’amore della sua
vita. In quel
momento avrebbe potuto sentire il calore e la morbidezza del suo corpo,
le sue
labbra umide e soffici intrecciarsi con le sue. Avrebbero potuto
passare
insieme la notte dello Sfogo, amandosi come usavano spesso fare. Invece
era lì,
a lottare tra la vita e la morte per colpa di una stupidissima
vendetta. Che
idiota che era stato. Credeva che avrebbe potuto sostenere una simile
situazione, invece per lui era una cosa del tutto estranea. Era fottuto
e lo
sapeva. L’unica cosa che poteva fare era chiedere scusa
mentalmente ad Hester e
continuare a cambiare nascondiglio, per ritardare
l’inevitabile.
Altri spari. Questa volta più vicini.
Altre urla. Richieste di pietà. Spari.
Dominick riprese a correre all’impazzata.
Ma non appena svoltò l’angolo andò a
schiantarsi contro qualcuno. L’urto fu
terribile, gli parve di essere finito contro un muro. Cadde a terra
all’indietro,
ritrovandosi con il sedere a terra. Si massaggiò la testa
dolorante per l’impatto,
poi alzò lo sguardo. Stava per rimettersi in piedi e correre
di nuovo alla velocità
della luce, ma nella penombra riuscì a distinguere
chiaramente una figura
famigliare, non ostile. Era l’omaccione con i baffi a
manubrio. Dopo l’impatto
quello aveva barcollato un attimo, ma grazie alla sua grossa stazza era
rimasto
in piedi senza difficoltà. La cosa particolare era che aveva
un fucile in mano
e i bizzarri occhiali addosso.
«Ragazzo!»
sussurrò rivelando una stramba R moscia e un tono profondo,
ma caldo e
rassicurante allo steso tempo. «Almeno tu sei ancora
vivo!»
«C-Cosa?» domandò
Dominick impacciato.
L’uomo lo sollevò per la
giacca come se
fosse un peso piuma e lo rimise in piedi. «A dopo le
spiegazioni, adesso stammi
incollato, ok?»
Non che Dom volesse continuare ad
andarsene a zonzo da solo. E adesso che aveva trovato un altro
ostaggio, per di
più armato, cosa voleva di più?
«Ehm...ok...»
L’uomo annuì e
cominciò a correre.
Dominick non perse un secondo e lo seguì a ruota, mentre
nella sua mente si
accendeva un piccolo barlume di speranza. Forse...sarebbe riuscito a
rivedere
la sua luce del giorno dai capelli rossi. E ovviamente anche il
mattino. Ma
Hester era più importante. Il mattino poteva attendere.
***
Tempo
rimasto alla fine dello Sfogo annuale: 10 ore e 47 minuti.
Kevin si risvegliò quando
andò a
sbattere con la testa contro una superficie dura. La prima cosa che
pensò fu un’imprecazione,
ma non appena aprì gli occhi il suo cervello
cessò di funzionare.
Era seduto per terra, su quello che
sembrava essere un pulmino scolastico a cui avevano levato tutti i
sedili. Non appena
vagò con lo sguardo intorno a sé, vide un
esercito di uomini grandi, grossi e
brutti, tutti armati fino ai denti. Tutti quanti lo osservavano
sogghignando e
con gli occhi sfavillanti di malizia. Kevin sentì il sangue
gelarsi nelle vene
sotto tutti quegli sguardi posati su di lui e si acquattò
contro la parete alla
quale era appoggiato. Improvvisamente ricordò tutto quello
che era successo.
Un uomo appartenente ad una banda di
tagliagole lo aveva portato al cospetto del suo capo, il quale gli
aveva
puntato contro una pistola. Solo che non l’aveva ucciso, ma
l’aveva salvato. Aveva
colpito il suo aguzzino e poi gli aveva imposto di sparargli. Kevin lo
aveva fatto,
colpendolo allo stomaco. Il solo pensiero di quell’uomo a
terra dolorante per
causa sua gli fece salire la bile. Poi cos’altro era successo?
Ah, sì. Il capo di quella banda aveva
finito il lavoro con quell’uomo, uccidendolo con un colpo
alla testa, poi si
era presentato. Troy, aveva detto di chiamarsi.
Gli aveva stretto la mano e gli aveva
chiesto il suo nome. Kevin si era presentato, poi Troy aveva annunciato
l’ingresso
del ragazzo nella sua banda. E se adesso era seduto su quel pulmino,
insieme a
tutti quegli uomini...
«Ragazzo, ti sei ripreso!»
esclamò una
voce proveniente da regioni ignote.
Kevin sobbalzò e guardò in
tutte le
direzioni, poi incrociò l’uomo che lo aveva
chiamato. Era in piedi e gli stava
porgendo una mano e sorridendo. Ogni tanto il suo equilibro vacillava,
per via
del restare in piedi su un mezzo in movimento, ma comunque rimase
sempre al suo
posto. Dai suoi occhi grigi non traspariva alcuna malizia o altre
brutte
emozioni. Sembrava tranquillo.
Kevin fissò imbambolato
l’uomo,
riconoscendolo. Era quel Troy. A quel punto, ciò che fino a
quel momento aveva
reputato un miraggio, una proiezione della sua mente, divenne
più reale che
mai.
Troy avvicinò la mano, invitandolo
chiaramente a prendergliela, poi lo incitò con tono calmo.
«Forza ragazzo, in
piedi, su!»
Kevin, non avendo molta altra scelta,
prese la mano dell’uomo e venne aiutato a rimettersi in
piedi. Non appena si
ritrovò in equilibrio sulle gambe, un violento scossone
colpì il pulmino. Troy
non sembrò farci caso, ma Kevin barcollò
pericolosamente. Sarebbe finito con il
culo a terra in un nanosecondo se Troy non lo avesse afferrato per una
spalla e
tenuto in piedi.
Tutti i presenti ridacchiarono quando lo
videro quasi cadere in quel modo, Troy invece non si scompose.
«Qualche
scossone passeggero, vedrai, ti ci abituerai.»
Kevin lo guardò rimanendo in silenzio,
non avendo la minima idea di cosa rispondere. Di solito era uno che non
si
faceva problemi a parlare e a dire le cose come stavano, ma in
quell’ambiente,
con tutti quegli uomini dall’aria di potergli piantare con
coltello in gola da
un momento all’altro, le parole erano l’ultima cosa
che riusciva a trovare.
Semplicemente, si ritrovò ad annuire.
Troy fece per parlare di nuovo, ma
qualcuno lo chiamò dal posto del guidatore. «Capo,
carne fresca!»
L’uomo si fece serio e andò ad
affacciarsi al finestrino per verificare la veridicità di
quelle parole. O
meglio, chiamare finestrino quel vetro sbarrato in più punti
da assi di legno e
con pochissimi spiragli era un po’ inappropriato. Troy si
avvicinò ad una delle
fessure e scrutò il paesaggio fuori di sé, poi
annuì e ordinò con quel suo fare
autoritario: «Bene, fermiamoci qui!»
Tutti gli uomini esultarono agitando le
armi, poi si misero in piedi e cominciarono ad armeggiare con esse per
prepararsi.
Anche Kevin buttò l’occhio
fuori dal
finestrino. Qui vide due bande di pazzi armati che si davano battaglia
fra loro
in una strada cosparsa di auto in fiamme. Sgranò gli occhi e
guardò Troy incredulo.
Davvero volevano scendere in mezzo a quel casino?
L’uomo non fece caso a lui e diede
ordini a nastro, poi il pulmino si arrestò
all’improvviso. Kevin per poco cadde
di nuovo, ma questa volta afferrò il primo appiglio che
trovò e si mantenne
sulle proprie gambe. Una volta fermo, Troy aprì lo
portellone scorrevole del
pulmino e fece scendere tutti gli uomini, che non appena furono fuori
cominciarono letteralmente ad ululare e ad aprire il fuoco.
Nel giro di poco tempo solamente Kevin e
Troy rimasero sul veicolo, in silenzio.
Non appena si trovò in quel breve
momento di tranquillità, la mente di Kevin
impazzì. Un sacco di domande
cominciarono a spuntare come funghi. Perché era
lì, su quel pulmino? Perché Troy
lo aveva salvato? In che punto della città si trovava?
Quanto mancava alla fine
dello Sfogo?
Troy si accorse del suo sguardo
sbigottito e perso nel vuoto. Sorrise al ragazzo. «Sta
tranquillo, sei al
sicuro adesso. Ho ordinato ai miei uomini di non torcerti un capello.
Sono un
po’ euforici, ma a me obbediscono quasi sempre. So come farmi
rispettare.»
Quel "quasi" non piacque per
niente a Kevin, ma, di nuovo, non trovò la forza per
farglielo notare. Si
sentiva incredibilmente piccolo ed insignificante al cospetto di
quell’uomo,
non solo perché quello era il doppio di lui anche solo
fisicamente. Troy
irradiava forza e autorità da tutti i pori. Non era un caso
che fosse a capo di
quella banda di scalmanati, che nel frattempo da fuori il pulmino
continuavano
ad urlare, ridere e sparare.
«Non sei di molte parole, eh? Ma
capisco. Immagino che devi ancora riprenderti da tutto quello che ti
è
capitato. Chissà da quanto tempo eri fuori durante lo Sfogo.
Devi averne viste
delle belle.»
Di nuovo, Kevin non riuscì a fare altro
che annuire. Era vero. Se respirava ancora era un miracolo.
«Allora, da quant’era che
giravi per le
strade?»
Quando realizzò che quella domanda era
indirizzata a lui, Kevin fu costretto a farsi coraggio e rispondere.
«Un...un’ora,
credo...forse di meno...»
Troy si prese il mento e lo guardò
pensieroso. «Beh...per un ragazzino come te non è
male...»
«Ci sono quasi rimasto per due
volte...»
aggiunse Kevin, ritrovando un po’ di coraggio. «E
non solo per la paura...»
L’uomo ridacchiò.
«Mi sarei stupito del
contrario...»
Kevin si prese un braccio e cominciò a
massaggiarselo per l’imbarazzo, mentre il silenzio calava di
nuovo tra loro
due. Era davvero opprimente. Il ragazzo avrebbe voluto tempestarlo di
domande,
farsi spiegare perché lo aveva salvato, per non parlare del
fatto che voleva
tornarsene a casa, ma non ci riuscì. Le parole gli morirono
di nuovo in gola.
Non se la sentiva di parlare. Temeva che se lo avesse fatto a
sproposito, quell’uomo
si sarebbe infuriato.
«Ma comunque sei ancora vivo, il che la
dice già lunga sul tuo conto...» riprese Troy
avvicinandosi, per poi posargli
una mano sulla spalla. «Sento che insieme potremo fare grandi
cose, ragazzo.»
Kevin lo fissò perplesso, domandandosi
cosa volesse dire. Attribuendo a tutte le sue energie,
riuscì a parlare di
nuovo: «Che...che intendi?»
«Intendo che sarai un ottimo componente
della mia squadra.»
Kevin sgranò gli occhi. Allora era vero.
Lo aveva veramente inserito in quella banda di psicopatici. Non poteva
crederci. Perché lo aveva fatto? Cosa ci aveva visto in lui?
Era solo un
ragazzo! Uno come tanti!
Deglutendo, quasi sentendosi in procinto
di camminare su un campo minato, dove il minimo passo falso lo avrebbe
ridotto
in mille pezzi, domandò, flebilmente:
«Ma...perché mi hai salvato...e...inserito
nella tua banda?»
L’uomo allargò il sorriso e
posò anche l’altra
mano sulla spalla di Kevin, poi lo osservò
dall’alto della sua statura. «Ho
visto in te...qualcosa. Un grande potenziale. Farai faville,
vedrai.»
«Ma...sono solo un ragazzo!»
protestò,
sempre con un tono più mite possibile. «Io...come
puoi dire che...»
«In te, vedo lui, ragazzo. Vedrai, io e
te diventeremo inarrestabili!» lo interruppe
l’uomo, guardandolo questa volta
con un bagliore negli occhi che Kevin aveva imparato a conoscere fin
troppo
bene. Follia.
Sentendosi di nuovo sul punto di
vomitare, Kevin domandò: «Ehm...lui chi?»
Lo sguardo di Troy si fece vitreo, ma la
follia non svanì. «Gli...gli assomigli
tantissimo...vedrai...andremo alla
grande...Travis...»
Kevin per poco non soffocò con la
propria saliva. Lo aveva chiamato Travis. Ma era abbastanza sicuro che
quello
lo sapesse il suo vero nome.
«Chi...chi
è Travis?» domandò di nuovo, ormai
sentendosi sempre più sul punto di svenire
di nuovo.
Da Troy non giunse altro che un sospiro.
I suoi occhi inoltre si contornarono di un alone di tristezza. Non
rispose. Rimase
in silenzio a lungo, con l’aria di uno che sembrava in preda
ai propri travagli
interiori, poi si separò dal ragazzo e si
allontanò da lui. Si mise sul bordo
dello portellone, dando l’idea a Kevin di voler scendere. Ma
Troy rimase in
piedi, immobile, con le mani intrecciate dietro la schiena, a fissare
la strada
davanti a lui.
«Vedrai ragazzo...vedrai...»
disse
semplicemente, con tono incolore, tipico di quelle persone che quando
ti
parlano lo fanno pensando a tutt’altro, in genere a ricordi
dolorosi. «Vedrai
Travis...da te mi aspetto il meglio. E non ti lascerò mai
più andare...»
Fu allora che Kevin realizzò come
stavano le cose. Non era in salvo. Era semplicemente finito
nell’ennesimo
casino, in compagnia di uno storno di schizofrenici e del loro capo,
che
sembrava ancora più fuori di testa degli altri.
Era in trappola, in compagnia di un uomo
che vedeva in lui chissà cosa, che si aspettava da lui
chissà cosa e che per
chissà quale motivo lo chiamava Travis.
Non sarebbe mai arrivato al giorno
successivo. Non avrebbe mai più visto i suoi genitori. Non
avrebbe fatto quelle
cose che tanto sognava di poter fare.
Non era salvo. Era fottuto. Di nuovo.