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Autore: thecapitolFB    05/04/2015    1 recensioni
Raccolta di brevi flash-fictions create attraverso una sfida a turni proposta su un gruppo facebook.
O1. Il prompt • «Guardami negli occhi. No, PIÙ SU. Non sono quelli i miei occhi!»;
O2. La canzone • «Dream» degli Imagine Dragons;
O3. Bonus • Tutti i grandi sono stati bambini, una volta...
O4. Il genere • «Introspettivo»;
O5. Coppie improbabili • Coppie di personaggi scelte in maniera casuale;
O6. Le AU • I personaggi in un contesto differente, scelto dagli utenti;
O7. Io a te e tu a me • Sfida a coppie, in cui gli utenti dovevano scambiarsi i prompt;
O8. Prompt dati dagli utenti • «Do you remember how did you became who you are now? Do you remember how did it felt to breath without gasping with all your might?» Da "Live free or let me die" degli Skillet;
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Finnick Odair, Gale Hawthorne, Johanna Mason, Peeta Mellark, Un po' tutti
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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The Capitol Tales
 
 
Turno Bonus – Tutti i grandi sono stati bambini una volta…
In questo turno, i partecipanti dovevano scrivere in circa dodici minuti una storia ambientata durante l’infanzia di un personaggio sorteggiato casualmente. 

 
 
Alaska__

[Haymitch e sua madre]

 
Il Forno era tutto un brulicare di persone.
Haymitch entrò con fare sospettoso nell’enorme locale, guardandosi intorno; la sua mano era saldamente intrecciata a quella di sua madre.
Non era la prima volta che vi si recava. Già altre volte, la donna o suo marito erano andata lì per fare compere e baratti, portandosi dietro il bambino.
Haymitch, però, non amava molto il Forno. Tanto per cominciare, puzzava da morire. Non c’era un solo angolo in cui non si sentisse quel fastidioso tanfo, che lui nemmeno riusciva a decifrare. Era un misto di escrementi, alcool e del cibo improponibile che cucinava un’anziana signora, mescolando il contenuto di un enorme pentola con un cucchiaio in legno ormai tarlato.
Inoltre, le persone che trovava sempre erano strane e lanciavano delle occhiate curiose a sua mamma, come se fossero innamorati di lei.
Non gli piacevano, quegli sguardi. Nessuno poteva guardare così sua madre, solo lui e suo padre potevano permettersi di osservarla come un oggetto di rara bellezza. E quelli non erano né lui, né suo padre, per cui non dovevano toccarla neanche con un dito.
«Ciao, Robert!»
La donna si avvicinò ad un uomo seduto ad un bancone; in mano reggeva un bicchiere sbeccato che conteneva un liquido color ambra.
Haymitch guardò l’uomo con circospezione. Era grosso e aveva mani callose e sporche; mani da minatore. Erano gli stessi palmi del suo papà, quelli: rovinati dal troppo lavoro. Una barba ispida gli copriva le guance rubiconde e – tra i peli color pece – spuntavano le sue labbra, incurvate in un sorriso.
Il bambino si rilassò. Non sembrava tanto antipatico, quel Robert. E soprattutto, non guardava in modo strano la sua mamma.
«Haymitch, saluta Robert. Non fare il maleducato» lo rimproverò la donna, scompigliandogli i capelli scuri.
«Ciao» disse semplicemente il bambino, continuando a fissare il bicchiere che l’uomo non aveva mollato nemmeno per un istante. Lo incuriosiva il liquido che c’era dentro: non ne aveva mai visti, di simili.
«Ciao a te, giovane uomo!» lo salutò a sua volta Robert. Aveva una voce profonda e cavernosa, e anche molto alta, come se sentisse la costante necessità di urlare.
«Che cos’è questa roba?» Haymitch non riusciva più a trattenere la curiosità. Doveva sapere cosa stava bevendo quel signore.
Robert fece un’improvvisa risata; sembrava un tuono. «Liquore, mio caro ragazzo!»
«E che cos’è?»
«Una bevanda, tesoro» rispose sua madre, passandogli una mano tra i ricci. «Un po’ come l’acqua che bevi tu. Solo che ha un sapore di diverso».
«Posso assaggiarla?» domandò. Voleva sapere cosa intendesse sua madre per “sapore diverso”.
«Certo che no!»
«Ma dai!» tuonò Robert. «Bisogna svezzarli, questi giovani!»
«No, no e no! Non vorrai mica che diventi un ubriacone».
 


 
M4rt1

[Annie Cresta]
 
Annie si alza presto, il giovedì. E' ancora buio quando cammina fino alla cucina, i piedini scalzi e la camicia da notte svolazzante, e si siede al suo posto. La pelle d'oca le ricopre le caviglie esili, ma non le importa.
Il giovedì è un giorno speciale, per lei. Corre in bagno dopo aver bevuto il latte caldo e si veste di corsa, indossando quello che sua madre le ha preparato ai piedi del letto la sera precedente. Si pettina con calma, come le è stato insegnato, sciogliendo ogni nodo color fuoco e sistemandosi la frangia. Poi esce e siede sulle scale, in attesa.
Suo padre la segue. Sono le cinque quando camminano insieme, mano nella mano, fino al vecchio molo. Sono le cinque e dieci quando le barche ritornano e l'uomo, insieme a una decina d'altri, comincia a sgusciare i molluschi da inviare alla Capitale entro le undici.
 
E' un giorno speciale, il giovedì. Annie siede in silenzio accanto al padre, osserva le sue mani grandi e nodose farsi agili per lavorare il più in fretta possibile. Si aggiusta i capelli, ogni tanto. Poi comincia il suo, di lavoro: a quattro zampe, strisciando sulla sabbia ancora umida di ruggiada, raccoglie i gusci vuoti in una busta. Ne prende a manciate - devono mangiare molti molluschi, alla Capitale - e li custodisce come tesori. Ce ne sono di tutte le tinte: la maggior parte sono violacee o marroncine, ma ne trova di rosa, rosse, color prugna o bianco latte. Alcune, quando è fortunata, sono già bucate. Le altre le sistema lei come le ha fatto vedere il nonno.
 
Annie adora il giovedì, perché all'uscita da scuola corre a casa e comincia il suo lavoro. Prende un filo sottile e crea i suoi gioielli, con cura e attenzione. Bracciali, collane, ciondoli e piccoli orecchini prendono forma sotto le sue dita sottili e pallide, sotto il suo sguardo vigile e curioso. Adora creare le cose, Annie. Ha deciso che da grande aprirà una bottega come quella che hanno i genitori della sua migliore amica, Sarah.
Per fare esperienza, la domenica arriva presto in piazza, trascinandosi dietro una borsa e un vecchio telo da mare. Alle nove in punto sistema tutte le sue creazioni sulla stoffa, esponendole con cura e gusto, e aspetta. E' una venditrice nata, secondo il signor McLean - è lui a esortare i suoi clienti a passare dalla bambina. Qualche volta vende molte cose, altre volte torna a casa riportando tutta la mercanzia.
Un giorno, poi, le si avvicina un ragazzino: è più grande di lei e sta osservando un ciondolo.
"Quanto costa?" le chiede. Ascolta il prezzo e scuote i capelli dorati. "Non posso comprarlo, mi dispiace" sussurra poi. Abbassa il suo sguardo celeste, in disappunto. Lei gli sorride: sa che è vero, che non sta mentendo come fanno certe volte i bambini per costringerla a regalare le sue cose.
"Tieni, prendilo pure!" gli dice. Afferra il ciondolo (è una specie di grossa conghiglia creata con dei rametti intrecciati) e glielo porge. "E' tuo".
Lui le sorride, poi corre via. Il ciondolo gli penzola dal collo.


 
Giraffetta.

[Annie Cresta #2]

 
Una bambina di circa cinque anni camminava lentamente sul bagnasciuga. Ogni tanto si fermava sorridente a raccogliere un sasso o una piccola conchiglia, che poi gettava birichina nell'acqua, battendo le mani e rimanendo ad osservare la linea dell'orizzonte in lontananza.
Aveva sempre amato il mare, Annie, quella distesa salata ed immensa che sembrava non avere mai fine. Sarebbe rimasta ore a passeggiare sulla sabbia o a contemplare il frangersi delle onde sugli scogli, sotto lo sguardo vigile di sua madre.
Era una bambina strana, Annie, sempre solitaria ed immersa in un mondo tutto suo, un mondo che spesso lasciava fuori anche sua madre e persino se stessa.
Non poteva ancora comprenderlo, Annie, ma a volte la sua mente si smarriva, persa in pensieri turbinosi che appartenevano solo a lei. Fissava le onde e si perdeva, prigioniera della sua testa e spettatrice assente dei suoi sogni.
Era felice a modo suo, Annie, che premeva con forza i piedi sulla sabbia bagnata per lasciare le impronte, subito spazzate via dal mare, proprio come i suoi pensieri di bambina.
 
 
Kary91.

[Katniss Everdeen & suo padre]

 
Le urla straziate dell’uomo ferito riempirono la cucina, facendo rabbrividire la bambina.
Katniss si premette le mani sulle orecchie e strizzò gli occhi, cercando di concentrarsi su qualsiasi rumore al di fuori di quelle grida. Pensò alle mani delicate di sua madre, impegnate a sistemarle i capelli in due trecce e non a cercare di guarire un paziente. Pensò alla neve quando cadeva morbida sul prato dietro casa e alla lepre di legno che suo padre aveva intagliato per lei qualche giorno prima, per il suo quinto compleanno.
Si soffermò soprattutto sul pensiero del signor Everdeen; si raccontò in silenzio il suo sorriso gentile, l’odore pungente dei suoi vestiti, dei suoi abbracci.
Le urla del signore malato in cucina si attenuarono, quando Katniss incominciò ad accoccolarsi dentro al pensiero del padre.
Fu in quel momento che una presa robusta, ma docile, le sfilò le mani dalle orecchie. Qualcuno la prese in braccio, mentre una voce profonda e incantatrice canticchiava in un soffio, cancellando i gemiti addolorati sullo sfondo.
Katniss riaprì gli occhi e puntò esitante gli occhi in quelli altrettanto chiari ed espressivi del signor Everdeen. Il canto continuò a scivolare fuori dalle labbra dell’uomo, inarcate a formare un sorrisetto. La bambina si accoccolò al petto del padre e si lasciò cullare; le urla, tutto a un tratto, sembrarono meno cupe e minacciose. I rumori si fecero ovattati e danzarono intorno alla melodia di Caleb Everdeen, appoggiandosi alle sue note. Anche la paura di Katniss li seguì, schiava di quella nenia cadenzata.
Finalmente la bambina azzardò un sorriso e tornò a incrociare lo sguardo del padre.
"Va meglio?" domandò a quel punto l'uomo, sfiorandole i capelli con un bacio.
Katniss annuì; stava sempre meglio, quando arrivava suo padre a confondere i rumori brutti e la paura con un canto: la voce sapeva sempre come cacciarli via.
   
 
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