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Autore: RubyChubb    22/12/2008    6 recensioni
Aspettava da un’ora, seduta sulla sua valigia grigia e rigida, tutta graffiata. Intorno a lei migliaia di viaggiatori di ogni nazionalità, persone che esibivano cartelli con strani nomi neri di pennarello e famiglie che si ricongiungevano, tra baci ed abbracci.
Ma ancora nessuno per Joanna…
Seguito di "Four Guys in her Hair" - RubyChubb & McFly
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Four Guys in Her Hair & And That's How I Realize...'
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11. Love and Psyche

 
“Oh! Buongiorno!”, esclamò Arianna, “Il caffè è sempre caldo!”
Biascicò qualcosa e si sedette intorno al tavolo. Davanti a lei biscotti e latte fresco: ne versò un po’ su una tazza vuota, la sua tazza, e si mise a sgranocchiare.
“Caffè?”, le chiese ancora Arianna, infilandole la moka sotto il naso.
Le annuì e lei, con un sorriso, le versò del caffè. Arianna era strana: non era mai molto di buonumore alla mattina, si limitava ad essere un uragano in piena corsa. Non ci fece molto caso, e si limitò a fare colazione. La donna si sedette poi davanti a lei, con la faccia tra le mani, gomiti appoggiati alla tavola, e si mise a guardarla. Per qualche secondo, Joanna sopportò i suoi occhi, poi si ribellò.
“Che c’è?”, le chiese, mogia.
“Dormito bene?”, domandò Arianna.
“Non tanto.”, rispose, breve.
“Mi dispiace.”, disse l’altra.
Joanna la scrutò per qualche attimo, studiandola.
“Cosa vuoi dirmi, Arianna?”, le chiese.
“Che oggi devo sbattermi in giro per Firenze a cercare un buon cuoco che sostituisca tuo fratello.”, rispose lei, passandosi le mani dalle guance al collo, massaggiandolo perché forse indolenzito.
Joanna annuì.
“E che quindi starò via tutto il giorno.”, aggiunse Arianna.
Ma che bella prospettiva. Joanna tornò sulla tazza di latte e caffè, trovandola molto più interessante di una nuova giornata passata chiusa in camera , con  Danny che girava per casa. La sua casa.
“Giorno.”
Ecco, pensava al diavolo e lui spuntava.
“Buongiorno!”, esclamò Arianna, con il solito bizzarro buonumore.
“Giorno.”, gli disse lei, senza troppi fiocchi di abbellimento.
“Prego, Danny, siediti e fai pure colazione.”, fece Arianna, con molta più cortesia di lei, “C’è del latte, del caffè… Biscotti… Niente colazione all’inglese, solo italiana!”
Danny sorrise, ma lei non lo vide. Lo sentì sulla pelle.
“Va più che bene.”, disse lui e si sedette accanto ad Arianna.
La stava ignorando per caso? Sì? Oh, di bene in meglio.
“Dormito bene?”, chiese Arianna anche a lui, come se fosse stato un rituale.
“Non molto.”, rispose Danny.
“Oh, mi dispiace.”, fece Arianna, “Spero che stanotte sarà meglio, allora.”
“Lo spero anche io.”, disse lui, grattandosi la testa mentre si versava del latte.
Arianna gli porse il caffè ma lui lo rifiutò, si prese un paio di biscotti dal barattolo di vetro. Lo stesso in cui Joanna aveva preso i suoi biscotti.
Com’era che ogni mossa di Danny le pareva un’invasione della sua privacy?
“Oggi devo dedicarmi al locale.”, annunciò Arianna, “Devo fare giri immensi in città per trovarmi un nuovo cuoco.”
“Davvero?”, chiese Danny.
“Sì, sono merce rara.”, disse la donna, “Cosa farete oggi?”
Attimo di silenzio, Danny stava sicuramente aspettando che lei dicesse o facesse qualcosa. Joanna tuffò una mano nel barattolo dei biscotti e ne prese un altro, marcando di nuovo il suo territorio. Lo morse.
“Beh… Non so.”, disse allora Danny, “Devo chiamare per trovare un volo.”
“Ma dai!”, esclamò Arianna, “Rimani qualche altro giorno.”
Il biscotto che Joanna aveva in mano, sotto l’improvvisa e convulsa pressione delle sue dita, si spezzò in due. Una parte cadde sul tavolo, frantumandosi ancora. Fece seguire una serie di imprecazioni mentali e con noncuranza raccolse le briciole, gettandole dentro alla tazza di latte.
“Vedremo, non credo che mi tratterrò, ho un mucchio di cose arretrate da svolgere, con il gruppo.”, disse subito Danny, “Ma grazie comunque, ci penserò.”
“Danny!”, lo riprese Arianna.
“Oh sì, hai ragione!”, fece lui, ridendo, “Volevo dire che farò qualcosa… E che guarderò.”
Joanna non ne comprese il perché. Dovevano riferirsi a quello che si erano detti la sera prima. Si era dispiaciuta di essere arrivata tardi, nello stesso momento in cui Arianna aveva smascherato la sua presenza in ascolto.
“Perfetto.”, gli disse Arianna, alzandosi e mettendogli amichevolmente una mano sulla spalla, “Perché non andate un po’ in giro per Firenze?”
Altro silenzio. Quello di Joanna, di certo, non era un silenzio assenso.
“Perché no?”, chiese Danny.
“Perché no.”, rispose Joanna, decidendosi a parlare , “Perché ho delle cose da fare.”
“Andiamo, Jo!”, sbottò Arianna, “Fatti una doccia, esci di casa e cerca di non pensare più a niente.”
“Non ne ho voglia.”, disse, facendo una smorfia.
“Jo, se non lo fai, ti giuro che ti caccio di casa.”, la minacciò Arianna.
“Non insistere.”, disse Joanna, alzandosi e riponendo la tazza nel lavandino, le aveva fatto passare l’appetito.
“Joanna ha ragione.”, fece Danny, “Vado trovarmi un posto su un aereo.”
Joanna, così lui l’aveva chiamata, sentì la sedia su cui Danny era seduto stridere contro il pavimento, poi percepì anche i suoi passi.
Se n’era andato, finalmente.
“Jo, per piacere, smettila di fare la bambina viziata.”, le disse Arianna, quando Danny fu lontano, “Dovresti davvero uscire di casa... Respirare aria fresca, prendere un po’ di sole... Per il tuo bene. Vai in camera, togliti il pigiama e lascia questa casa. E dai un’altra possibilità a Danny.”
“L’ultima volta che mi è stata chiesto di dare una seconda possibilità a qualcuno”, fece Joanna, “ho trovato un regalo a cinque dita sul viso.”
E si indicò la guancia, a promemoria del gesto di Miki.
“Danny e tuo fratello non sono la stessa persona.”, disse Arianna, scuotendo la testa.
“Lo so benissimo.”, sbuffò Joanna.
“E allora perché non mi accontenti ed esci di casa...”, le disse, con tono di supplica, “Per favore, Jo. Vedrai che dopo starai meglio.”
“Certamente, starò veramente meglio in compagnia di Danny.”
La donna si spazientì e la lasciò al suo riassettare nervosamente la cucina. Non appena la porta di casa si chiuse, Joanna sprofondò su una delle sedie intorno al tavolo. Arianna avrebbe dovuto aiutarla a dimenticarlo, a passargli sopra, sia in senso figurativo che reale, ed invece, la spingeva a stare insieme a lui, per una giornata intera.
Intera.
Con lui...
 
 
 
“Un momento solo, prendo la mia carta di credito.”, disse, posando il cellulare sul materasso su cui era seduto.
Si alzò, prese il portafogli dal comodino e lo aprì, scegliendo una delle tre carte magnetiche.
“Allora…”, fece, riavviando la conversazione, “Il numero è otto, sette, quattro...”
Tre colpi lievi alla porta, fece quasi fatica a sentirli.  Rimase in attesa, in silenzio.
“Signore? E’ sempre in...”
Chiuse la telefonata alla compagnia aerea, interrompendo bruscamente la conversazione con la gentile quanto annoiata operatrice del call-center. Si alzò di nuovo, afferrò la maniglia ed aprì la porta trovandola lì, a torturarsi le mani.
“Vuoi ancora uscire?”, chiese lei, lo sguardo era sfuggente.
Le sorrise.
“Certo.”, le fece, incrociando le braccia, “E tu?”
Joanna annuì.
“Mi preparo, allora.”, gli disse, abbozzando un sorriso per mascherare il disagio, “Ci troviamo giù?”
“Ok.”
“Bene.”
Dopo un attimo di esitazione Joanna si allontanò. Anny non sapeva se avesse cambiato idea sotto le pressioni di Arianna, oppure se lo avesse fatto da sola. Non gli ci volle molto per farsi trovare pronto e di lì a poco anche Joanna si presentò in salotto, dove la stava aspettando.
“Andiamo?”, le chiese.
“Sì...”, rispose lei, “Ti va bene se prendiamo un bus per scendere in centro?”
“Non hai una macchina tutta per te?”, le chiese.
“No.”, fece Joanna, alzando le spalle, “Purtroppo no.”
“E come fai per andare al lavoro ogni giorno?”, domandò Danny, perplesso.
“Vado con una collega che sta qua vicino.”, si spiegò, “O mi accompagna Arianna… Ma se non vuoi salire su un bus, non ti preoccupare, chiamiamo un taxi.”
“Oh no, non è per quello.”, si affrettò a dire Danny, “Andiamo in bus.”
“Ok.”, disse Joanna, “La fermata è qua vicino.”
“Perfetto.”, le disse, precedendola.
Si stava sentendo stranamente fuori posto, disadattato… Insicuro, superfluo, a disagio. L’atteggiamento di Joanna sembrava indifferente e schivo, gli entrava dentro come la lama di un coltello.
“Aspetta.”, lo fermò lei, “Ho pensato che potremmo... Che ne so, mangiare all’aperto.”
“Come vuoi, Joanna.”, le disse, “Mi va bene tutto quello che vuoi.”
Lei annuì.
“C’è un grande parco in città.”, spiegò lei, accennando un sorriso, “Potremmo portare qualcosa da casa e mangiare lì, piuttosto che stare all’aria condizionata di qualche locale.”
Gli erano sempre piaciuti i pic-nic, perché dire di no?
“Va benissimo.”, le ripeté, “Hai già preparato qualcosa?”
“Sì.”, disse lei, passandogli oltre per andare in cucina.
Con uno zaino sulle spalle, Danny la seguì alla fermata del bus. Biglietti alla mano, appena il mezzo arancione si fermò davanti a loro vi salirono sopra, sedendosi sull’unico paio dei pochi sedili rimasti vuoti, l’uno di fronte all’altro.
“Ti ricordi quando ti accompagnai a fare la spesa?”, le chiese, rompendo il silenzio e distogliendola dal paesaggio in movimento, fuori dal finestrino.
“Sì, me lo ricordo.”, disse lei, ridendo, “E mi ricordo anche quanto sei stato capace di farmi mettere in imbarazzo.”
“Al tempo ci voleva molto poco.”
“Già...”, disse lei, abbassando lo sguardo, con tristezza, “Sembrano secoli fa.”
Concordava perfettamente.
“Ed è passato solo poco più di un anno.”, disse Danny, appoggiandosi allo schienale ed incrociando le braccia, lo zaino fermo tra le sue gambe.
Joanna tornò con gli occhi sul paesaggio, anche lui la seguì. Le colline su cui si trovavano diventarono pianura, le case sempre più fitte, il traffico sempre più caotico.
“Hai in mente qualcosa in particolare, per oggi?”, le domandò, dopo qualche minuto di silenzio.
“Beh... Pensavo che potremmo visitare qualche museo.”
Un museo, ottima scelta, ci sarebbero state poche occasioni per affrontarsi, se affrontava la situazione dal punto di vista di Joanna.
“C’è una mostra di sculture, pensavo potesse essere interessante.”, continuò lei.
A dire il vero no, non era molto interessante ma andava bene tutto, piuttosto che passare la giornata insieme nella stessa casa, ad ignorarsi.
“La nostra è la prossima.”, disse Joanna, alzandosi e andando verso l’uscita.
Indossò lo zaino sulle spalle, e quando il bus si fermò, scesero.
 
 
 
Dopo una mezzora di fila passata in silenzio comprarono il biglietto. Seguirono il gruppo che era entrato insieme a loro e, con in mano le brochure prese all’ingresso, si misero in osservazione dei quadri esposti in quel museo di fama internazionale. Lui non ne aveva mai sentito il nome, eppure doveva essere estremamente rinomato, a sentire dalla babele di voci intorno a lui.
Lesse il titolo del primo depliant: ‘Canova, Scultura vivente’ stava scritto in grandi lettere bianche, sotto di esse era stata rappresentata una piramide, con delle figure accanto all’entrata, anch’esse scolpite. Bizzarra immagine, gli sembrava quasi un monumento funebre, chissà cosa poteva essere poi in realtà.
“Era questa la mostra a cui ti riferivi?”, le domandò, fermandola davanti al ritratto di un uomo con un grosso naso, morto indubbiamente centinaia di anni prima della loro nascita..
“Sì.”, disse lei breve, come tutte le altre sue risposte.
Seguendola, visitò tutte le sale del museo e vide quadri di ogni grandezza, sculture non attribuite a quel Canova e per lui sempre poco interessanti, così come il resto delle opere, di cui lesse vagamente informazioni sui loro autori. Joanna si soffermava di tanto in tanto in contemplazione. Lui, indifferente, notava solo i particolari più spettacolari. I musei non erano mai stati di suo pieno gradimento, a meno che non trattassero argomenti a lui affini o, comunque, molto più divertenti di dipinti noiosi raffiguranti figure sacre e crocifissioni. Per carità, alcuni erano belli e grandi il triplo della sua altezza, ma erano sempre quadri morti.
Davanti all’ennesima rappresentazione di un soggetto religioso, una Madonna seduta che porgeva la mano ad un Arcangelo Gabriele, uno dei tanti turisti che popolavano quelle sale ebbe un tentennamento. Danny non se ne accorse e, quando l’uomo si appoggiò alle sue spalle per ritrovare l’equilibrio, lui perse il suo e la spinta lo fece spostare. Joanna, davanti a lui, sentì il peso del suo corpo sulle spalle, e si voltò di scatto.
“Scusami.”, le fece, imbarazzato, “Mi hanno spinto...”
“Ah, non ti preoccupare.”, disse, scrollando via quel ravvicinato contatto e muovendosi veloce verso la prossima sala.
“Joanna…”
Ma lei aveva già svoltato l’angolo ed era sparita. Le andò dietro e, come prima, si trovò in una stanza simile, con altri dipinti, altre sculture ed altre decine di turisti in ammirazione.
La catturò di lì a poco.
“Ma la mostra di questo artista… Questo qua…”, le fece, indicandole il nome sul depliant, “L’abbiamo già passata?”
Joanna si fece scappare un sorriso, cosa che gli scaldò un po’ il cuore.
“No, ancora no.”, rispose, come se fosse stata cosa ovvia, “Ma ci siamo quasi.”
Ed infatti di lì a poco incontrarono enormi stanze occupate da sculture marmoree, così bianche che sembravano fatte di latte. La luce naturale, mescolata a quella elettrica in un sapiente riverbero, rifletteva su alcuni di quei marmi colorandoli di una tenue tonalità, a metà tra il giallo e il rosa della pelle, che aumentava il piacere della vista.
Morbide, sinuose: ogni drappo intorno ai fianchi delle statue era vero, ogni vena sporgente dalle braccia degli atleti reale, ogni ciuffo di capelli sulle fronti autentico. Si stupì di se stesso: per qualche secondo era rimasto senza fiato, così come tutti quelli intorno a lui, prima abituato a quadri bidimensionali e sculture di tutt’altro genere.
“Dan?”, lo chiamò Joanna, sorridendogli, “Stai bloccando l’entrata.”
“Oh, sì, scusatemi.”, fece ai turisti sbuffanti alle sue spalle.
In quella lunga stanza, illuminata dalle grandi finestre laterali, fu felice di spendere un po’ del suo tempo per ogni opera. Dentro di lui sentiva la voglia di allungare la mano e toccare la candida pietra levigata, così lucida e liscia da essere quasi aliena, sapendo che certamente l’avrebbe trovata calda e che la persona si sarebbe mossa, vibrando al suo tocco. Voleva capire se fossero veramente sculture e non corpi umani dipinti di bianco.
Le linee femminili erano così tenere e soffici che avrebbe voluto abbracciarle e sentire la morbidezza delle loro curve. La durezza dei muscoli maschili, invece, gli trasmetteva un senso di potenza, di sicurezza e fermezza che si sentiva quasi intimorito, ma comunque affascinato. Quella ventina di figure umane intorno a lui, prima o poi, sarebbero scese dai piedistalli su cui il loro creatore le aveva posizionate…
Davanti ad un trittico di donne, l’una che abbraccia l’altra, perse la percezione della vicinanza di Joanna. Si guardò intorno, cercandola tra la folla.
“Joanna?”, le chiamò, ma si voltarono solo facce sconosciute.
Si mosse tra la gente, cercando la sua testolina bionda. Non era più in quella stanza, altrimenti l’avrebbe trovata davanti a qualche rappresentazione. Cercò di guardare meglio, di essere più attento, ma niente. Non poteva essere andata molto lontana, non senza di lui, ma l’apprensione salì comunque. Non poteva averla persa in un museo, sarebbe stato praticamente impossibile. Uscì per cercarla nella prossima camera d’arte. Quella in cui entrò era dedicata ad una sola scultura e le mura erano strette intorno ad essa, era abbastanza piccola.
La trovò lì, insieme ad altri ammiratori, con le mani giunte dietro la schiena, gli occhi fissi e ipnotizzati. Ebbe quasi timore di spaventarla, ma volle posarle lo stesso una mano sulla spalla. Lei, infatti, trasalì.
“Scusami...”, le fece, “Ma ti avevo perso.”
“No, perdona me, che mi sono allontanata.”, disse lei.
Danny si guardò intorno.
“Cosa c’è di bello da vedere qua?”, chiese, retoricamente.
Posò gli occhi sulla coppia marmorea, l’unica in quella piccola stanza, che sembrava già satura di persone.
Una donna semi distesa era in procinto di stringere le braccia attorno al collo di un angelo alato, alle sue spalle, che la guardava dall’alto e stava per baciarla. La luce proveniva da un lucernario circolare sul soffitto che illuminava la coppia di statue come se fossero stati gli attori sotto al riflettore di un palcoscenico, mentre loro erano il pubblico nella platea in osservazione dello spettacolo sulla scena. Se quella che vedevano non era la realtà, erano loro ad essere le statue.
Ed infatti, erano tutti più immobili di quella coppia, fermi in contemplazione.
“Adesso te lo posso anche dire.”, fece Joanna, distraendolo, “Questa è la quinta volta che vengo a vedere questa mostra.”
Danny strabuzzò gli occhi.
“La quinta volta?!?”, esclamò.
“Sì...”, fece lei, sorridendo imbarazzata, “Per vedere solo quella.”
“E tornerai anche una sesta?”, le fece, prendendola un po’ in giro.
“Forse sì.”, disse lei, sorridendo, “Sicuramente prima che la mostra chiuda, a settembre.”
Era più che plausibile, se pensava a sua sorella Vicky che era stata sette volte al cinema per vedersi quel’abominio cinematografico del Titanic.
“Beh, posso dirtelo anche io, allora...”, disse Danny, “Non avevo nessuna voglia di venire in questo museo ma mi devo smentire.”
“Lo sapevo che avresti cambiato idea.”, disse Joanna, ridacchiando.
“Lo sapevi che non ero molto entusiasta di entrare qui dentro.”, presuppose lui, colto in fallo, spostando lo sguardo su di lei.
“Sì, te lo leggevo in faccia.”, scherzò ancora lei.
Una volta terminato quel piccolo momento allegro, Danny ritornò gli occhi sull’opera e, per un attimo, ebbe la certezza che i due amanti si fossero mossi. Gli sembrarono sempre più vicini, le bocche sempre più pronte a baciarsi. Si impose di fissarli per vedere il preciso istante in cui si sarebbero avvicinati ancora di più, perché quello che osservava era più surreale di un sogno ad occhi aperti.
“Non ti sembravano più distanti qualche attimo fa?”, le chiese.
Si voltò verso di lei, che abbassò subito il viso.
Danny tornò a guardare quella statua. Ancora una volta, quei due sembravano sempre più vicini.
E loro due sempre più lontani.
 
 
Uscirono dal museo e un colpo improvviso di calore li investì.
“Dio mio che caldo...”, disse Joanna, prendendo a sventolarsi con una delle brochure, ormai scadute.
“Già...”, le rispose, “Cosa facciamo ora?”
Guardarono gli orologi.
“E’ un’ora accettabile per pranzare, non credi?”, le fece.
Era infatti poco più di mezzogiorno.
“Sì, lo è.”, disse lei, “Da questa parte.”
Si misero a camminare sotto il sole cuocente di quell’estate. Sperò che la canicola riuscisse a sciogliere il ghiaccio formatosi tra loro, che pareva subire l’influsso di una strana marea: a volte era così spesso da bloccare il respiro, altre invece sembrava assottigliarsi fino a scomparire.
“Mi ricordo quel ponte!”, disse, vicinissimo alla costruzione che univa le due sponde del fiume, pieno di costruzioni, dall’aspetto pesante ma comunque fiero.
“Esattamente.”, disse Joanna, annuendo con un cenno della testa.
“Cavolo...”, disse Danny, guardandolo, appoggiato alla lunga balaustra che proteggeva l’argine del fiume.
I ricordi erano così tanti, piacevoli e spiacevoli, che sembravano impossibili da selezionare e rivivere con calma.
“Ti ricordi?”, le chiese, indicandolo con un gesto della testa e sorridendole.
“Certamente, il gelato era buono.”, rispose Joanna, che gli aveva letto nella mente e lo aveva sbuffare in una risata, “Vogliamo proseguire?”
Era una sensazione strana camminare su quel ponte e ricordarsi quello che era successo dopo quel gelato. Sembravano davvero millenni fa, erano successe così tante cose in mezzo… In quel momento passato nel gusto agrodolce dei ricordi e del presente, Danny trovò la forza di ammetterlo: per qualche tempo aveva creduto in tutt’altro sentimento che nel semplice affetto che provava per Joanna, ma si era reso conto che la vita non aveva voluto mettere sulla stessa strada. Aveva conosciuto Tamara e le cose erano cambiate drasticamente, ma non aveva mai smesso di volerle bene, di preoccuparsi per lei, per Joanna.
Passarono oltre al ponte, non prima che lui avesse indossato un cappello sulla testa per riparare i pensieri dal caldo infernale, ed un paio di occhiali da sole. Intorno a loro c’era tanta gente, specialmente  turisti, ed ogni poco dovevano dare la precedenza a qualche fotografo improvvisato, per la colpa di essersi trovati senza volerlo nel campo visivo della sua fotocamera.
“Siamo quasi arrivati.”, gli disse Joanna.
Camminarono lungo una lunga e dritta strada finché un grande arco di pietra non segnalò loro l'uscita medievale del centro storico. Lo oltrepassarono e si fermarono davanti ad un cancello in ferro battuto, sulla loro sinistra.
“Ecco il giardino che ti dicevo.”, gli fece Joanna.
Pagarono un altro biglietto, di pochi euro e si trovarono di fronte ad una lunga salita, una scarpinata che sembrava non finire, ai lati alte siepi che venivano spezzati da stretti viottoli. Ogni tanto qualche statua strana, uomini e donne con visi deformi e posizioni del tutto bizzarre. Erano in un giardino degli orrori?
“Dobbiamo arrivare lassù?”, le fece, svogliato.
“Sì.”, disse Joanna, “Ma staremo bene.”
“Speriamo...”
“Vedrai che cambierai idea un’altra volta.”
Un sorriso e il gelo sembrò scomparire, ma riapparse di lì a qualche secondo. Il sole non era riuscito a rompere il ghiaccio, anzi, sembrava averlo paradossalmente rafforzato. Cento metri di salita, lei tre metri avanti a lui, che cercava di non ansimare per lo sforzo. Ogni passo era difficile, il caldo era asfissiante, ma già a metà percorso un venticello fresco sembrò volerlo incoraggiare nell’impresa.
Accelerò il passo.
“Come sei lenta!”, le disse, ridendo.
“Sì, sono una tartaruga, ma arriverò lassù senza il fiatone.”, disse lei, scuotendo la testa divertita.
Una volta approdati in cima, davanti a loro trovarono una strada di sassolini bianchi, come quella appena conclusa, che divideva in due un basso prato verde, cosparso di fiorellini.
“Ci siamo.”, disse lei, sorridendo ancora, “A destra o a sinistra?”
Danny rifletté, guardandosi intorno.
Non erano stati gli unici a scegliere quello spiazzo verde per pranzare, molte altre persone sembravano aver scelto quel posto. Il vento fresco aumentò gradualmente la sua potenza, tanto che in un batter d’occhio ogni goccia di acqua sul suo naso scomparve.
“A sinistra.”, disse Danny, decidendosi per la parte più vicina al panorama.
Una volta scelto una porzione di erba abbastanza libera si sedettero, incrociando le gambe sul prato fresco. Si tolse lo zaino dalle spalle e lo aprì: spuntò fuori un lembo di una tipica tovaglia quadrettata, bianca e rossa, da pic nic.
“Ti aiuto ad aprirla.”, gli fece Joanna.
Ne presero i lembi e la sistemarono. Presto, i primi sandwich furono tra i loro denti.
“Avevi ragione un’altra volta.”, le disse e lei comprese, dimostrandolo con un riso, “Si sta proprio bene.”
“Lo so.”, rispose Joanna.
“Sai, la tua città mi è sembrata diversa da quando siamo venuti, l’anno scorso.”
“Dici sul serio?”
Le disse di sì con un cenno della testa.
“In meglio o in peggio?”, domandò Joanna.
“Non lo so.”, rispose.
Non voleva dire in peggio. Se nelle ultime due settimane non fosse successo niente, avrebbe anche potuto non notare alcuna differenza. Guardò brevemente Joanna, sembrava aver capito cosa avesse in testa.
“E’ sempre una stupenda città, credimi.”, volle correggersi, “Sono i ricordi che mi porterò a casa a renderla meno bella.”
Lei non disse niente, e lui non sapeva cosa altro aggiungere. Non c’era una via di uscita, ormai si era formata una coltre di gelo così spessa che niente sembrava riuscire a scalfirla. Era stata colpa sua, del suo egoismo e della sua presunzione.
Era vero quello che ogni tanto gli era stato detto, in passato: non era capace di rendersi conto di sbagliare finché il danno commesso dai suoi errori non era più riparabile. Faceva male, faceva davvero male.
Come se i suoi amici più cari, Harry, Dougie o Tom, gli avessero voltato le spalle per sempre.
Come se Tamara avesse scoperto che lui era lì, in Italia, e non da sua madre, ed avesse deciso di lasciarlo.
Come se Joanna, davanti a lui, si alzasse e lo accusassee di essere la peggiore persona sulla faccia della terra.
Come aveva già fatto.
Danny odiava sentirsi respinto, abbandonato, solo. Posò il sandwich, sospirando, e si tolse gli occhiali da sole.
“Che c’è?”, gli fece Joanna, “Non hai più fame?”
“No.”, disse, riponendo il panino nella carta stagnola.
Alzò gli occhi su di lei.
“Avevi ragione, ieri.”, le disse, “Sono davvero peggio di tuo fratello.”
Joanna avvampò e scansò il suo sguardo, posandolo a terra.
“E mi chiedo con che coraggio possa rimanere ancora qui.”, fece, sistemando il suo misero pranzo nello zaino, “Dovrei essere a casa mia, in Inghilterra, dove non posso combinare tutti questi casini, Sono venuto con la pretesa di farti stare meglio ed ho solo peggiorato la tua situazione. Ti ho fatto piangere, ti ho trattato male, mi sono permesso di dirti cose che, se ci penso ancora...”
Scosse la testa, non poteva crederci.
“Mi chiedo come tu possa stare lì, seduta davanti a me.”
Joanna non disse niente, ripose il sandwich. Le aveva fatto passare la fame, complimenti a lui ancora una volta.
“Dovresti odiarmi, Joanna.”, le disse, “Più di quanto tu possa aver odiato Dougie, che nonostante tutto è riuscito a capirti molto meglio di quanto abbia fatto io  in un intero anno.”
Ed invece Joanna se ne stava lì, i capelli dietro alle orecchie, il viso basso, le gambe incrociate e quella maglietta senza maniche, bianca, che le stava proprio bene. Avrebbe dovuto essere da tutt’altra parte, meglio da sola che insieme a lui, ma invece lo aveva portato ad una mostra che lo aveva incantato, per fargli ammirare una statua che lei aveva visto per ben cinque volte, che adorava, ed aveva voluto che anche lui rimanesse a bocca aperta insieme a lei.
Come se fosse stata una cosa speciale per Joanna.
“Sono davvero peggio di tuo fratello.”
“No... Non lo sei...”, disse lei, così piano che parve solo un sussurro.
“Certo che lo sono!”, la contraddisse, “E cosa hai fatto con lui? Lo hai cacciato via. Perché non lo fai anche con me?”
Joanna sospirò mestamente.
“Ci sono milioni di persone meglio di me.”
“Non è vero.”, fu questa volta Joanna a contraddirlo.
“Dimostramelo!”
Ma non sembrava facile per lei accontentarlo.
“Joanna, perché non...”
“Little.”, lo interruppe lei.
“Come?”, le domandò di ripetere.
“Io sono Little.”
Non riusciva a guardarlo negli occhi, né in faccia.
“Ma è solo un soprannome stupido!”, le fece, “E non vale più niente.”
“Perché?”, domandò lei.
“Perché hai una forza che mi spaventa.”, le rivelò, “Perché non sei la persona indifesa che mi ero convinto tu fossi. Me ne sono reso conto solo ora, ti chiamavo Little perché inconsciamente ti credevo incapace di essere adulta.”
Le prese le mani.
“Ma sei anche più adulta di me, Joanna.”, continuò Danny, “E non hai bisogno di Danny Jones... Forse non ne hai mai avuto bisogno.”
Joanna si morse le labbra, che divennero ancora più rosse. Conosceva quel gesto, sapeva che cosa significava.
“Non piangere, per favore.”, le disse, “Non voglio che tu lo faccia ancora a causa mia.”
Non poté fermare la prima lacrima che scese sulla sua guancia.
“No, Joanna...”, le disse, abbracciandola, “Dimmi qualcosa, ma non piangere.”
Si avvicinò a lei, cercò di starle più vicino che poteva.
“Per piacere.”, disse lei, con la voce rotta, “Fa’ quello che vuoi, ma chiamami Little.”
“E perché dovrei farlo, Joanna?”, la contraddisse di nuovo.
“Perché mi fa stare meglio.”, disse lei, “Molto meglio.”
Non seppe cosa dire, né pensare. Se ne stava lì, come un fesso, a stringerla. Più passava tempo con lei, più si rendeva conto di quanto avesse sbagliato. Aveva pensato che tante cose -farla sfogare, starle accanto, porgerle una spalla- fossero convenzionali ma comunque utili per farle passare la tristezza ed il dolore. Ed invece, un semplice soprannome sembrava essere molto più efficace di tutti gli inutili e dannosi sforzi fatti.
Ebbe paura nel pensare a cos’altro avrebbe realizzato, nelle prossime ore.
“Little.”, le disse, passandole una mano tra i capelli, “Se serve a farti stare meglio.”
Forse Little sorrise, o almeno fu quello che gli sembrò di percepire sulla pelle. Allentò quell’abbraccio, volle vedere se la sua sensazione fosse stata vera. Ma si sbagliava.
Danny sentì qualcosa piombargli sulla spalla ad una certa velocità e si voltò velocemente, notando con la coda dell’occhio un pallone che rotolava via. Allentò l'abbraccio, Little asciugò velocemente le lacrime dal viso. Decise di rompere quella situazione e di alzarsi, fare qualche passo e recuperare la palla.
Un ragazzo si presentò per reclamarla e gliela porse con un sorriso.
“Grazie.”, disse, rigirandoselo tra le mani.
“Ehm... Prego.”, gli rispose in un italiano stentato.
Il ragazzo fece un cenno divertito con la testa, poi si allontanò di qualche passo. Lo stava quasi per ignorare, quando quello si voltò ancora.
“Hey, ma tu sei Joanna!”, lo sentì esclamare.
Comprese solo il nome di Little, e si voltò per vedere la reazione di lei. Lo conosceva? Lei si ripristinò in fretta e scacciò ogni espressione cupa dalla faccia.
“Marco, non ti avevo riconosciuto!”, disse, alzandosi ed andandogli incontro, “Cavolo, sono anni che non ti vedo!”
“Come stai?”, le fece lui, mettendosi il pallone sotto il braccio.
Le porse la mano e, in sequenza, si scambiarono baci sulle rispettive guance.
“Oh, come sempre.”, e alzò le spalle, “E tu?”
“Tutto ok. Sono qua con gli altri.”
“I tuoi amici?”
“Sì, ci sono anche Stefania e Marta, della nostra vecchia classe.”
“Oh, cavolo, non le vedo da una vita!”
Necessitava urgentemente di sottotitoli, fece un colpo di tosse. Danny Jones era stato completamente eclissato, e con quel gesto finalmente Little tornò ad accorgersi di lui.
“Scusami Dan”, gli disse, facendosi comprendere, “questo è Marco, un mio vecchio compagno di scuola.”
E poi si rivolse ancora al proprietario del pallone, nella loro lingua.
“E’ un mio amico inglese, non capisce una mazza di italiano.”, disse Little.
“Si vede dalla faccia.”, e la fece ridere.
Anche lui seguì quella risata, scatenando a sua volta quella del ragazzo. Insomma, stavano tutti ridendo. Di lui o con lui?
“Vieni a salutare le altre?”, attaccò ancora quello, “Così ci scambiamo i numeri di telefono e vediamo di uscire, qualche volta.”
“Oh... Va bene!”
Little si voltò verso di lui.
“Dan, vado un attimo a salutare i miei vecchi compagni di classe.”, gli domandò.
“Oh sì, certamente, vai pure.”, le fece.
“Perfetto.”
Li guardò allontanarsi, poi decise di sedersi e di tornare al suo sandwich. Sdraiò le gambe sulla tovaglia quadrettata, i piedi uscivano fuori e riposavano sull’erba macchiata di fiori. Appoggiò le mani dietro di sé, per stare più comodo.
Venne quasi automatico spostare l’attenzione verso il gruppetto al quale si era unita Little. Stava chiacchierando con tutta tranquillità, rideva e scherzava con un paio ragazze ed il tizio del pallone: dovevano conoscersi e non essersi più visti da tempo, sembravano contenti di essersi ritrovati.
La vide voltarsi, guardare verso di lui, e sventolare timida una mano per salutarlo.
Lui ricambiò, aprendo la propria e portandosela alla fronte, in un gesto militare stilizzato. Le sorrise, e lei tornò dai suoi amici.
Se c’era un enigma che non era mai stato capace di risolvere, si chiamava Little Joanna. Non sembrava essere ancora la ragazza che aveva conosciuto: la cameriera goffa, quella che era rovinata a terra riconoscendoli, che si era offerta per portarli al mare e che li aveva sopportati in quartetto senza dare troppo in escandescenza. Non si era nemmeno accorto di tutti i suoi cambiamenti e pretendeva di essere considerato come suo amico.
Il migliore, in aggiunta.
Se tre mesi prima gli avessero detto ‘Jones, sai che presto Poynter e Joanna diventeranno amici più di quanto tu e lei siate mai stati?’, lui avrebbe riso così tanto che sarebbe morto per i crampi allo stomaco, e non era importante andare troppo indietro nel tempo perché quella frase risultasse ancora così assurda ai suoi occhi.
Little non era mai rimasta uguale a se stessa, ne aveva sempre avuto dimostrazione. Ogni presupposto che aveva avuto su di lei, da quello più stupido a quello più serio, era stato immediatamente smentito. Lo aveva stupito ogni volta e, nonostante quello, era rimasto fedelmente aggrappato al vecchio stereotipo di lei, nato nella sua mente. Non l’aveva mai capita, ed era sicuro che non sarebbe mai stato in grado di farlo. Pretendeva ancora di avere a che fare con la Little Joanna che arrossiva ad ogni più piccolo sorriso, ad ogni avvicinamento, ad ogni parola detta per lei, che se ne rimaneva in disparte, lasciando che gli altri parlassero, senza mai far sentire la sua voce.
Forse non voleva abbandonare quella vecchia immagine perché, in fondo, si era affezionato a quel suo modo di essere. Era tenero vederla intimidirsi, farsi piccola ed abbassare gli occhi a terra, sorridendo imbarazzata, mentre si torturava le mani e gli occhi fuggivano qua e là.
Little era tuttora così, ma molte altre cose di lei erano diverse.
Era lui che non aveva voluto che lei crescesse, ed ora che era cresciuta, che lei si era fatta forte e che aveva lasciato indietro tutte le persone che l’avevano fatta soffrire... Anche lui avrebbe fatto quella fine. Poteva averlo perdonato, ma lui continuava a credere di non essere più quello di cui lei aveva bisogno. Ne era così certo che niente avrebbe potuto fargli cambiare idea. Si era fatta amica il McFly sbagliato, lui era solo uno stupido che si era fatto tante illusioni. Si stava sentendo disarmato, come un soldato tornato dalla guerra, disfatto e senza motivo per continuare ad andare avanti.

She's a girl, running to spring.
It is her time, so just watch her run with ribbons undone.

Per la seconda volta, Little guardò verso nella sua direzione, attirando su di lui anche gli occhi delle sue due conoscenti. Little non sembrava aver niente in comune con loro, lo sentiva e lo poteva vedere.
Little era unica. O forse la stava idealizzando di nuovo… Doveva smetterla con la presunzione di sapere chi avesse davanti. Alzò una mano nella loro direzione, poi decise di dedicarsi ad altre attività. Si alzò, si stiracchiò e se ne andò verso il parapetto che costeggiava quel giardino, su una collina più alta rispetto al resto della città: i tetti delle case, dei monumenti, sembravano molto più vicini di quanto in realtà non fossero e, come aveva provato davanti alle statue, volle allungare una mano per toccarli.
Lo fece davvero, ma quelli si allontanarono via, spaventati.
Come avrebbe fatto Little.
“Ti infastidiva una mosca?”
Lei gli sorrideva flebilmente, i gomiti appoggiati sui mattoni un po’ smussati della balaustra e il mento sulle mani unite.
“Sì.”, le mentì, “Ma è stata più veloce della mia mano.”, le sorrise, “Com’è andata con i tuoi amici?”
“Non sai quanto mi sia costato stare con loro.”, disse poi lei, voltando le spalle al panorama ed incrociando le braccia.
“Perché? Sembravate in buoni rapporti.”
“Può essere vero, ma non andavamo molto d’accordo, ai tempi del liceo.”, rispose Little, alzando le spalle, “Poi hanno saputo di mio padre”, sospirò, “ed hanno iniziato a fare un sacco di domande, a chiedermi del funerale... E insistevano nel volerti conoscere.”
Danny si mise a ridere, scuotendo la testa.
“Beh, non mi sarei tirato indietro.”, le disse, “Riesco a fare amicizia anche con i sassi.”
“Lo so.”, borbottò lei, ridacchiando.
“E allora perché non me li hai presentati? Credi che se avessero saputo chi sono veramente ti avrebbero scaricato per me?”
“Non essere così vanitoso, Dan.”, protestò lei, guardandolo di sottecchi con aria divertita.
“Dai, rispondi!”, insistette, “Perché non me li hai presentati?”
Little si fece attendere e dondolò gli occhi, evitando di posarli sui suoi.
“Perché... Non ti voglio dividere... Con nessuno.”, disse così piano che quasi non la sentì.
Stranamente, rimase spiazzato.
“Beh... Allora nemmeno con Tamara?”, le fece, arrabattando le prime parole che affiorarono nella sua mente.
“Ah, certo...”, rispose lei, “Tranne che con lei.”
E gli sorrise, prima di fuggire via verso le loro cose.  Di lì a qualche secondo la seguì, aiutandola a ripore tutto dentro allo zaino. Lo indossò sulle sue spalle e, senza una meta precisa, uscirono fuori dal giardino.
Little non era più l’unica a non aver forza di parlare.
Lui non era da meno.





OOOOOOOOOOOOOOOOOH! Eccomi.
Tutto questo casino per nulla! XD Bene bene bene,  sono arrivata.
Un po' di delucidazioni su questo capitolo: non ho fatto nomi, o meglio, non mi sono messa a dire dove vanno quei due con precisione... Ma i luoghi qua descritti esistono davvero, dal primo all'ultimo :) Chi è toscana come me forse li riconoscerà, chi non lo è non si preoccupi. Anzi, si preoccupi di venire a visitare questa città! XD
Chi di voi conosce Canova? Quasi tutte, lo spero... Personalmente, adoro questo scultore. Una breve biografia:  
Antonio Canova (Possagno1º novembre 1757 – Venezia13 ottobre 1822) è stato uno scultore italiano, ritenuto il massimo esponente del Neoclassicismo e soprannominato per questo il nuovo Fidia. Viene considerato anche come l'ultimo grande artista della scultura italiana. [Wikipedia, Antonio Canova]. Le opere qua citate sono:  il monumento funebre in cui riposa lo scultore stesso, situato a Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia, ed è ciò che Danny vede stampato sul volantino della mostra; le Tre Grazie, quando perde di vista Little e, infine, Amore e Psiche, la scultura che dà anche il titolo al capitolo. Ah, quasi dimenticavo, ho citato anche il quadro Annunciazione di Leonardo da Vinci. Tutte questi capolavori, compreso il nome degli autori, non sono state usate da me con scopi di lucro.
Stessa sorte per il piccolo verso citato a fine capitolo: l'ho tratto dalla canzone Ribbons Undone di Tori Amos. Quindi, anche in questo caso, no scopo di lucro.

Vorrei mettere alla vostra attenzione anche questa piccola opera d'arte...  Don't Call Me Joanna. Lo ha fatto per me x_blossom_x,  il cui ruolo durante tutta la stesura di questa storia è stato più che fondamentale. L'ho sottoposta alla tortura del betaggio, mi ha odiato talmente tante di quelle volte... Ha pure dovuto sopportare almeno un mese di attesa prima della stesura degli ultimi capitoli, tutta colpa mia [scusa ancora Sil... ti ho preso un po' in giro...], e alla fine mi ha comunque dedicato un po' del suo tempo.
Grazie davvero, Sil, e se ti dico che questa storia non sarebbe nata senza di te, devi credermi.

I ringraziamenti.

CowgirlSara:  Secondo te, Gioannina, con l'ultima frase, gliel'avrà stasato i' cervello a quell'ambulante? La risposta è alquanto ovvia.

Ciribiricoccola: Hai detto bene, Joanna è abituata a queste schifezze e ci passa sopra senza problemi... Ma spero che questa facilità nel superare determinate cose non sia presa come mia colpa nel non saper gestire determinate problematiche familiari... Danny avrebbe bisogno di un trasformatore per il cervello, che gli posizioni la trasmissione elettrica dall'alternato al continuo... Chiedi a McAmen come si chiamano st'aggeggi qua, che io un lo so!

kit2007: Non ti preoccupare per il ritardo!  Non ho nient'altro da aggiungere a quello che hai detto, hai  delineato perfettamente tutti i punti in cui si snoda il capitolo :)  brava e grazieeeee!!!

tsumika83: Oh ma indovinare era facile daiiiii! XDDDD Dougie doveva andarsene *sigh* doveva lasciare lo spazio a chi  di dovere... E ti assicuro, quello che ha fatto Dougie... Danny non avrebbe mai e poi mai potuto farlo. Credo che tu lo sappia bene, anche se non fossi mai stata fan di Dougie. Grazie **

Giuly Weasley:  Danny sta all'orticaria come... Come... Come l'orticaria sta a Danny. Aspetta, perchè ti pruderà così tanto che lo scorticherai a morsi. Fidati. Little non è nemmeno un pochinoinoinoinoino confusa dal bacio di Dougie XD E' talmente tanto incantata che potrebbero anche investirla contemporaneamente due eurostar, 4 tav e sei o sette rimorchi. Lei non se n'accorge... -____- Poveretta...

Godfather:  Maledette queste connessioni!!! Le odiamo in gruppo. Ormai è ufficiale XD Non ti preoccupare, recensisci quando vuoi, non ghigliottino nessuno [vi inforco].

x_blossom_x:  graziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegrazie
graziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegrazie
graziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegraziegrazie




   
 
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