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Autore: Elrais    11/04/2015    4 recensioni
"Non posso più tornare indietro". Questa è una delle frasi che Ciel ripete più frequentemente. E se invece questa possibilità gli venisse offerta? Cosa sceglierebbe?
Abbandoniamo gli scorci della Londra vittoriana per vedere il nostro Conte alle prese con due personaggi di un'altra Terra, una Terra antica e potente. Una Terra in grado di tendere la mano a un bambino e alla sua anima dannata... se solo egli deciderà di rimanere al di là della cortina di pioggia.
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ciel Phantomhive, Sebastian Michaelis, Undertaker
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II: Parallelismi

I
Un vecchio gobbo, la faccia rugosa, le iridi chiare. Di fronte a lui, Uriel, il mento alzato in un’espressione di cipiglio fiero.
“Io credo che voi due non abbiate ben chiara la gravità della situazione”.
“Ne siamo perfettamente consapevoli, grazie.”
“Ah sì? E allora mi spieghi come mai hai questa espressione serena stampata in faccia, Uriel? Degli Dei della Morte ci tradiscono, ci lanciano un ragazzino mentre tu e tua sorella lavorate alla chiusura di un varco, e tu cosa fai? Niente! Assolutamente niente!”
“Non sono stati gli shinigami di ruolo a lanciarlo nel varco… si tratta di un Dio disertore che sta creando parecchi problemi anche alla loro sezione. Non c’è nulla di premeditato.”
“Sei un ingenuo! Tale e quale a tuo nonno! Voi, con questa aria da salvatori misericordiosi… beh, ricordati, ragazzo, che hai una Divisione sulle spalle: la gente che devi proteggere è dentro queste mura! E proprio all’interno di queste mura hai appena fatto entrare il padrone di un demone delle Alte Schiere!”
Uriel abbe un moto di stizza.
“Finché il demone in questione non arriva qui, questo bambino è assolutamente innocuo. Ha solo tredici anni, non ha poteri particolari. Davvero pensi che un ragazzino potrebbe essere un problema per noi, vecchio?”
“Penso che il problema sia la corruzione che è in lui. La corruzione è contagiosa, ricordatelo! Questo essere ha solo tredici anni e ha già venduto la sua anima… non c’è nulla di buono in lui. Se tu fossi un padre, faresti giocare i tuoi figli con un ragazzino come questo? Devi pensare anche alle anime della tua gente, oltre che alla loro vita.”
“Non è per forza così, vecchio. Gli equilibri stanno cambiando… anche esseri come lui…”
“Cosa? Gli equilibri staranno pure cambiando, ma ciò che è sporco resta sporco!”
“Adesso fate silenzio tutti e due! Si sta svegliando. Andate a discutere da qualche altra parte.”
Il vecchio sputò a terra. “Ai vostri ordini, mia Signora. Spero che di questi ordini non dobbiate mai pentirvi.”
Uscì, accompagnato dal rumore secco di una porta sbattuta.
Elanor e suo fratello si scambiarono un’occhiata: Uriel aveva ostentato sicurezza, ma la preoccupazione gli si leggeva scritta in viso. La stanza della ragazza, in cui si trovavano, era avvolta dalla penombra; il bambino si mosse sotto le coperte. Elanor si chinò piano su di lui, scostandogli un ciuffo di capelli dal viso col dorso della mano. “D’accordo, piccolino. Vediamo un po’ cosa hai da dirci”.

II
La prima cosa che Ciel vide aprendo gli occhi fu oro. Una lucente ombra indefinita. Ci mise un po’ a mettere a fuoco i contorni, e allora l’oro prese forma. La forma di un viso, occhi e capelli. Oro che si riversava sulle spalle di una ragazza, oro che lo fissava, caldo e rassicurante. L’oro sorrise.
“Ciao. Benarrivato, anche se non dovresti essere qui”.
Ciel si mise a sedere di scatto. Si guardò intorno, confuso: una stanza semplice, con un grande armadio di legno e una scrivania intonata; l’unica luce della stanza proveniva da una candela appoggiata in un angolo. Un ragazzo alto, con il bel viso sfigurato da una lunga cicatrice, era in piedi accanto al letto. Lo fissava in silenzio e non sembrava avere intenzione di iniziare a parlare.
Ciel guardò la ragazza seduta accanto a lui, che precedette la sua domanda: “Io mi chiamo Elanor e questo è mio fratello Uriel. C’è stato un imprevisto: a quanto pare, uno shinigami ha deciso che sarebbe stato istruttivo per te fare una visita alla nostra Terra”. Di nuovo un sorriso. “Purtroppo, però,  non sei un ragazzino come gli altri: il fatto che tu controlli un demone ci crea qualche problema, come immaginerai. Dobbiamo essere sicuri che tu non rappresenti un pericolo per la nostra gente.”
Ciel lanciò un’altra rapida occhiata intorno. Non c’era nessun altro nella stanza, a parte loro tre. Sebastian non c’era. Non era riuscito a seguirlo? O forse lo avevano imprigionato da qualche parte? Ripensò alle parole del demone: “Contro di loro i miei poteri non sono valgono”. Sentì un brivido freddo alla base della schiena mentre l’immagine di Sebastian trafitto e sanguinante gli balenava nella mente, e automaticamente si portò una mano all’occhio su cui era inciso il segno del contratto.
Il ragazzo in piedi accanto al letto aggrottò le sopracciglia: “Il tuo demone non è riuscito a seguirti e se non si aprono altri varchi non potrà farlo. Quindi, al momento, puoi affidarti solo a noi. Lascia perdere le scappatoie, perché non ce ne sono.”
“Non essere così duro, Uriel.” La ragazza continuava a fissare Ciel intensamente, quasi senza sbattere le palpebre. “È soltanto spaventato. È la prima volta che ti trovi da solo senza il tuo servitore?”.
Ciel fece per rispondere, mentre la sua espressione da bambino indifeso e spaurito gli si dipingeva meccanicamente sul viso. Sapeva mentire bene ormai, non aveva neanche bisogno di pensarci. Ma qualcosa gli diceva che non sarebbe servito, e  la domanda continuò a rimbombargli nella testa: da quanto tempo non si trovava così irrimediabilmente solo?

Da quella notte, da quando aveva perso tutto, sapeva di poter far affidamento almeno su Sebastian; sapeva che, ovunque si fosse trovato, il demone sarebbe corso a salvarlo. C’erano state situazioni pericolose, certo: il suo lavoro come Cane da Guardia della Regina lo aveva portato a rischiare la vita più volte, ma erano pericoli finti. In realtà Ciel sapeva già quale sarebbe stata la storia della sua vita: salvarsi sempre, per poi perdersi definitivamente. Sebastian era la sua salvezza costante e sarebbe stata la sua fine, una volta per tutte. Lo sapeva, e gli andava bene così.
Ora, per la prima volta, il suo servo fedele non poteva raggiungerlo. Era solo, con gente sconosciuta, in un posto sconosciuto. Indifeso, debole, fragile.
Lui, che per il potere aveva rinunciato a tutto.

I due ragazzi continuavano a fissarlo in silenzio; Ciel intuì che non avrebbero parlato, ora stava a lui. Alzò la testa arrogantemente: “Se sapete che sono il padrone di un demone, vuol dire che già avete avuto informazioni su di me. Non ha molto senso che io mi presenti. Ad ogni modo, non sono stato io ad aprire il varco e non l’ho attraversato volontariamente: francamente, se avessi voluto crearvi dei problemi avrei portato anche il mio demone, invece di arrivare qui da solo.”
 Elanor ridacchiò piano: “Beh, almeno riconosci i tuoi limiti. Mi pare un buon inizio.”
“Sì, li riconosco. Ed è per superare i miei limiti che ho invocato Sebastian: per vincere la mia pochezza e la mia impotenza. Avevo bisogno di un’arma, tutto qui. E l’ho ottenuta. La mia famiglia è stata trucidata sotto i miei occhi; io stesso sono stato catturato e torturato per un mese, finché una notte riuscii a salvarmi invocando Sebastian. Il nostro contratto gli impone di starmi accanto finché la mia vendetta non sarò compiuta, e a questo io mi attengo. Niente di più, non mi interessa uccidere nessun altro, né far del male alla vostra gente.”
La sua voce era calma e altezzosa, ma Elanor poteva vedere le dita del ragazzino torcere convulsamente il lembo della coperta.
Lo fissò per un istante, sembrava indecisa. Poi parlò: “Sai, conosco bene i sacrifici demoniaci, dato che la mia famiglia si è occupata per secoli di uccidere demoni e creature simili. Un demone non è solo attratto dall’anima che c’è in gioco, ma dal dolore. Spesso, erroneamente, si compiono riti di evocazione prendendo gente sconosciuta e uccidendola: il demone non si presenterà mai in quel caso, perché i sacrificati non contano nulla per il sacrificatore. Non c’è coinvolgimento emotivo. Perché il sacrificio sia valido, qualcuno deve dare la sua vita, ma anche il sacrificatore deve perdere qualcosa: il demone sente il dolore di chi è ancora vivo e quel dolore è parte del prezzo da pagare. E tu cosa hai sacrificato?”


Ho sacrificato una mano calda che stringeva la mia. Ho sacrificato due occhi più coraggiosi dei miei. Ho sacrificato i pomeriggi passati a parlare in un linguaggio che conoscevamo solo noi, e le partite a scacchi che lasciavo vincesse per farlo felice. Ho sacrificato gli scherzi al maggiordomo, e i guai combinati in cucina. Ho sacrificato le ramanzine di nostro padre, che sospettava che la porzione di pasticche al miele che era per uno solo venisse divisa fra due. Ho sacrificato la mia risata, perché iniziava sempre dopo la sua: ora che lui non ride più, la mia risata da sola non riesce ad uscire.

Tutto questo Ciel non lo disse, ma Elanor lo lesse ugualmente nella sua gola che si serrava, e nel respiro mozzato. Di nuovo, qualche momento di verità fra tante bugie.
“Va bene così.”
Era stato Uriel a parlare. La sua voce si era ammorbidita. “El, vai a prendergli qualcosa da mangiare, è quasi l’alba. Io vedo di concludere questa storia.”
La ragazza si alzò. “Torno tra qualche minuto, ma temo che da noi la cucina non sia poi così fornita. Ti andrebbe bene del latte per colazione?”
Ciel annuì. “E anche un po’ di miele.”
Elanor rise, gli occhi che mandavano lampi chiari: “Va bene, va bene. Vedrò che posso fare.”
Il ragazzino li guardò uscire dalla stanza. C’era una luce strana, un chiarore diffuso: Uriel aveva ragione, stava albeggiando. Col cuore in gola, Ciel sussurrò piano: “Sebastian, vieni qui”. Ma del suo servitore nessuna traccia.
 
III
“Allora, adesso lo sfamiamo pure, eh?”
“Sul serio, vecchio, sei peggiorato. Sei pur sempre uno dei Guardiani, origliare non è da te!”
Il vecchio era appoggiato allo stipite della porta che Elanor aveva appena chiuso dietro di sé, e non sembrava intenzionato ad andarsene.
La ragazza lo fronteggiò, le braccia incrociate sul petto, il mento alzato: “ La sua anima non appartiene alla nostra Terra, lo sai. Dobbiamo accertarci che torni sano e salvo a casa sua. È la legge stessa a comandarlo. E se non hai delle obiezioni più sensate, la nostra discussione termina qui.”
Elanor si avviò a passo deciso verso le scale; il fratello rimase solo con il Guardiano, il quale ripartì immediatamente all’attacco: “Non capisco, Uriel! Cos’è tutta questa morbidezza da parte tua? Hai sentito, no? Voleva il potere! Lo traveste sotto forma di vendetta, ma la sua è solo ingordigia”
 “Smettila.”
 “Ti dà fastidio, eh? Ti dà fastidio sentirti dire la verità? È la stessa cosa che hai fatto tu! È per questo che sei così gentile con lui?”
“Adesso basta!”
Due ragazze che portavano delle lenzuola pulite nel corridoio si bloccarono, spaventate. Il vecchio si zittì e sputò in un angolo. Calò il silenzio, interrotto solo dal cigolio di una porta che si apriva: Ciel, attirato dalle urla, fece capolino dalla stanza di Elanor. Uriel non lo guardò in faccia mentre parlava:
“Hai ragione, vecchio. Lo sai perfettamente, io non sono sempre stato un Elfo… La mia vita è iniziata da comune mortale. Quello che non sai è come questo sia successo.
Beh, la verità è che questo ragazzino potevo essere io. Quando il mio villaggio fu dato alle fiamme, e le donne e i bambini furono segregati come schiavi, io avevo solo otto anni. Mio padre fu ucciso subito durante gli scontri, mentre io, mia madre e mia sorella fummo incatenati e portati via.
Il nostro era un villaggio di confine, i predoni ci stavano portando verso la città per poi venderci. Miglia e miglia di distanza, con un pezzo di pane al giorno, a piedi, con le mani legate ad una corda, uno dietro l’altro. Mia madre morì dopo tre giorni, mia sorella resse per otto. Ricordo che i cadaveri e i moribondi venivano buttati al lato della fila e dati in pasto ai cani da caccia dei predoni. Quando i cani dilaniarono mia madre non riuscii a guardare, ma quando fu il turno di mia sorella non riuscivo a staccare gli occhi dalla scena. Marsia aveva sedici anni, ed era bella, la più ambita del nostro villaggio. Ricordo il muso del cane che affondava nel suo grembo e pensai che non sarebbero mai usciti dei bambini, da lì. Marsia li voleva, dei bambini.
Ormai era quasi il mio turno, non avrei retto ancora per molto. Caddi a terra e sentii qualcuno che veniva a slegarmi per dare anche me in pasto ai cani. In quel momento avrei accettato un aiuto da chiunque, da qualsiasi creatura. Qualsiasi.”


Fa freddo. Ho paura. È buio. Padre, madre… Qualcuno ci aiuti. Qualcuno, qualcosa. Dio non esiste. Vi ucciderò tutti, vi ucciderò tutti…

“Quando riaprii gli occhi, i predoni non c’erano più: attorno a me era sorto un accampamento, con tende, cavalli e creature che si aggiravano aggraziate. Coloro che erano ancora vivi erano stati sciolti dalle catene e mangiavano, o ridevano, o piangevano, o pregavano.
Gli Elfi, chiamati dal nostro Reggente, erano accorsi in nostro aiuto; dama Erwan, la loro principessa, si occupava personalmente dei feriti. Ricordo che, quando la vidi per la prima volta, non riuscivo a capacitarmi che esistesse una donna così bella. Io ormai ero rimasto solo, senza casa e senza famiglia, e così mi offrii di diventare un servitore dei Miendul. Fui adottato da loro senza che lo chiedessi… a me bastava poter servire con la mia vita coloro che me l’avevano restituita: ma Elanor fece scorrere il suo sangue nelle mie vene, diventando mia sorella per scelta e ponendo fine alla mia vita da umano. E ancora oggi servo questa Terra.”
Uriel si voltò a guardare il bambino che era rimasto impietrito sulla porta, la mano sulla maniglia:
“Potevo essere io. Semplicemente, lui è stato salvato dalla creatura sbagliata.”
I due si fissarono per un lungo istante, ognuno per l’altro concretizzazione della seconda possibilità, della seconda via; poi Uriel voltò le spalle e percorse il corridoio a lunghe falcate. Il vecchio gli lanciò un’occhiata sprezzante, quindi si allontanò zoppicando nella direzione opposta.
Ciel si rese conto che la maniglia si era conficcata nella carne della mano, le dita fredde, a cui non arrivava più il sangue. Non si accorse che Elanor era dietro di lui finché questa non gli posò delicatamente una mano sulla spalla: “Vieni via, bimbo. Ho portato il latte con il miele, ma ho cambiato idea… non mangiamo qui, scendiamo dabbasso. Questo posto è diventato opprimente.”

Era una fresca mattina di inizio primavera: il cielo era completamente terso e i raggi di sole illuminavano i tavoli di legno della grande cucina comune della casa, la stessa cucina in cui il giorno prima i due fratelli leggevano le missive inviate dagli Dei della Morte. Il posto di Uriel era occupato da Ciel, che sorseggiava il suo latte, pensieroso. Elanor lo osservava, il viso appoggiato con noncuranza al dorso della mano, la manica del vestito che, riversa sul tavolo, lasciava scoperto il braccio candido.
Stavolta fu Ciel a interrompere il silenzio:
“Tuo fratello si sbaglia.”
Lapidario, perentorio. Elanor alzò le sopracciglia, incuriosita.
“Tuo fratello si sbaglia. Io non sono stato salvato dalla creatura sbagliata. Quella creatura era l’unica che potesse aiutarmi in quel momento e anche in seguito. Sebastian…” si interruppe un attimo, per cercare le parole. Elanor non mosse un muscolo; Ciel continuava ad osservare la sua tazza di latte, come se potesse pescarci dentro ciò che voleva dire.
Quando riprese la sua voce era più calma, decisa: “La mia famiglia è nata con lo scopo di risolvere i problemi della Regina d’Inghilterra. I Phantomhive nascono sporchi di sangue: è una macchia che non si lava. Voi parlate di scelta, ma la mia vita era già segnata; anche se i miei genitori non fossero stati uccisi, anche se io non avessi venduto l’anima ad un demone, dovrei comunque continuare a sporcarmi le mani… solo che lo farei con più difficoltà, mentre ora ho un aiuto soprannaturale… ma, qualunque arma si usi, la macchia di sangue rimane la stessa. Ora capisci perché quel demone era l’unica creatura che poteva aiutarmi?”
Alzò la testa e sorrise, con quel sorriso dolce e velenoso: “Io non potevo essere salvato dagli Elfi, o dagli Angeli, o da qualunque altra creatura che voi considerate benevola. Io sono marcio dentro, come lo era mio padre, come lo era mio nonno. Solo un demone mi si sarebbe avvicinato…anzi, ha ragione quel vecchio quando vi dice di starmi lontani.”
Elanor rimase in silenzio per qualche secondo, le palpebre leggermente abbassate: Ciel riusciva ad intravvedere tra le ciglia il bagliore dorato dato dal riflesso della luce del sole.
Poi alzò di scatto la testa, sul viso perfetto una divertita espressione di sfida: “E va bene, ragazzino dannato. Allora facciamo così: visto che non hai avuto la possibilità di scegliere nel tuo mondo, ti do la possibilità di scegliere nel mio. Pensaci: al momento, qui, non sei nessuno. Ciel Phantomhive non esiste, sei solo un ragazzo di tredici anni senza un passato. Persino il tuo contratto con il demone non è più valido, perché qui lui non può raggiungerti. Oggi ti darò la possibilità di vivere una vita diversa, una vita qualunque, non da nobile, certo, ma sicuramente più serena. Vediamo se sei marcio come dici. Vuoi provare?”
Ciel la guardò, interdetto. Era arrivato a quel punto ricordandosi, giorno dopo giorno, chi fosse e cosa dovesse raggiungere. Aveva alimentato il fuoco dell’odio, senza permettere che si tramutasse in semplici braci. Aveva represso la pietà, impelagandosi nel fango, godendo nello sporcarsi: questo era l’unico modo di vivere che lui riuscisse a concepire.
Elanor lo guardava con i suoi occhi d’oro fuso e il richiamo della Luce in lui non si era ancora spento. Non le rispose, ma non ce n’era bisogno.
La sorella del Governatore si alzò: “Allora, ragazzino, oggi starai con me. Ogni mattina mi occupo di fare il giro del villaggio per prestare cure mediche a coloro che non possono allontanarsi di casa: mi farai da aiutante.”
 
IV
Il piccolo villaggio di Raes era il punto di riferimento della Quindicesima divisione del reame di Menior: era una regione di confine, un punto strategico da tenere sotto controllo. Uriel era fedele al re, che discendeva anch’esso dalla stirpe elfica, e questa fedeltà lo aveva reso ideale per il Governatorato di quella regione. Quando il reame di Menior si era formato, le zone di confine erano devastate dalla guerra recente: re Anior si occupò di risanare le terre, inviare fondi per nuove costruzioni e assicurarsi che anche in quei luoghi martoriati arrivasse la giustizia del re, di cui Uriel era officiante.
Il villaggio che Ciel aveva ora sotto gli occhi era un borgo costruito in solida pietra, le strade piene di odori e di suoni: l’odore acre delle concerie, del fieno per i cavalli; ovunque le urla dei garzoni, le risate dei ragazzini sfuggiti alle rispettive madri.
Ciel portava in mano una valigetta in cuoio, che Elanor gli aveva affidato:
“Ce la fai a portarla, vero? Anche se sei così magrolino sei pur sempre un uomo!”
Il ragazzo era arrossito, e aveva afferrato la borsa sbuffando. E continuava ad avere l’aria accigliata anche ora che camminavano fianco a fianco: “Fammi capire, tu non sei la sorella del Governatore di questa regione? Per quale motivo ti abbassi ad entrare dentro le case di gente di così basso rango? Da noi, i servi non possono azzardarsi a toccare un nobile.”
Elanor si voltò a guardarlo, divertita: “Pensi al fatto che io sia la sorella del Governatore, ma ti dimentichi il racconto che ha fatto Uriel: io provengo dalla stirpe reale elfica. Che ne pensi?”
“Penso che sei completamente pazza.”
Elanor rise. Due ragazzine con in mano dei cesti di vimini si voltarono a guardarla e le sorrisero, per poi scappare via.
 “Beh, da noi le cose funzionano in maniera diversa. In particolare, lo scopo della mia famiglia è servire e proteggere. Noi viviamo per essere al servizio delle creature che camminano su questa Terra”
“Tutte le creature?” Sul viso del ragazzino comparve un sorrisetto denigratorio. “Mi pare un lavoro ingrato.”
“Tutte, indistintamente. Anche i ragazzini dannati come te.” Lei gli lanciò uno sguardo divertito. “È vero, può essere un lavoro ingrato. Ma a volte riserva delle sorprese interessanti.”

Si erano fermati davanti ad una casa bassa, anch’essa costruita nella pietra, quasi affossata nella terra. Le imposte di legno erano socchiuse per schermare l’interno dalla luce del sole. Elanor si avvicinò alla porta, bussò delicatamente due volte ed entrò; Ciel la seguì riluttante.
La porta dava direttamente su una cucina mantenuta in ombra; sul camino acceso bolliva una minestra dentro un paiolo, l’odore caldo riempiva il piccolo ambiente. Accovacciata su una sedia, una anziana signora sprofondava tra scialli e coperte. “Siete voi, mia dama?” disse piano, sibilando le parole nella bocca senza denti. “Vi riconosco dal modo di bussare.”
“Sono io, vecchia nonna” rispose Elanor avvicinandosi a lei “Oggi però non sono sola. Ho portato un aiutante, verrà con me dalla bimba.”
La nonna rispose con un mugolio, che poteva essere un cenno di assenso o una richiesta di pietà, e gli occhi velati si rabbuiarono ulteriormente. Sprofondò negli scialli, diventando sempre più piccola.
Elanor salì la scala di legno che conduceva alla camera superiore, seguita da Ciel: il bambino continuava a guardarsi intorno, tra il disgustato e l’incuriosito. Si rese conto all’ultimo che Elanor stava aprendo una porta: gli fece cenno di entrare. Una stanza piccola, spoglia, ma pulita; una cassapanca con sopra delle bambole di pezza, che sembravano essere il tesoro più grande della loro padrona; un armadio con un’anta aperta, semi vuoto.
La bambina che giaceva sul letto era cerea, di quel pallore innaturale che assume la pelle quando le forze se ne vanno, interrotto sul viso solo da grandi borse nere sotto gli occhi; le labbra erano secche e screpolate, dischiuse a cercare aria. Elanor si chinò piano su di lei, le posò una mano sulla guancia fredda. La ragazzina aprì gli occhi, incapaci ormai di distinguere alcuna luce. La bimba faceva fatica a respirare: rantoli leggeri riecheggiavano nel silenzio della stanza.
Ciel pensò che quell’immagine era simile a un’altra di cui era stato protagonista tante volte da bambino: lui disteso sul suo letto, delirante e privo di coscienza; il freddo portato dalla febbre; la tosse che squarciava il petto; la zia Anne seduta accanto a lui, lo sguardo preoccupato. La zia Anne…

la zia Anne seduta nel giardino della villa dei Phantonhive, mentre legge per lui e Lizzie; la zia Anne che lo rincorre, sporcandosi di terra il vestito rosso; la zia Anne che lo abbraccia piangendo dopo il suo ritorno a casa; la zia Anne che lo guarda da sopra una scacchiera, che gli consiglia di cambiare vita, di guardare oltre, di uscire dallo sporco in cui la famiglia Phantomhive è impelagata;

la zia Anne distesa di fronte a lui, mentre il rosso del sangue si mescola al tessuto scarlatto del vestito.

-Non posso ucciderlo…non posso, lui è…- -Mi deludi, sei uguale alle altre donne.-

“Ciel! La borsa!”
Elanor era a pochi passi da lui, la mano tesa.
“Ah, sì.” Fissò la valigetta che aveva in mano senza riconoscerla e gliela passò. “ Io esco, questo posto è soffocante. Non capisco proprio perché tu mi abbia fatto entrare. Ti aspetto fuori”.
Ciel percorse la scala che portava in cucina. La vecchia raggomitolata alzò la testa dal suo rifugio di scialli: “Come sta?”
 Il ragazzo la guardò, una smorfia di ribrezzo sul viso. Aprì la porta e uscì senza rispondere.
   
 
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