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Autore: M4RT1    12/04/2015    2 recensioni
56th Hunger Games | Distric 8 | OC!Characters
Leandro "Tim" Tiraz ha diciotto anni e si prepara per l'ultima Mietitura della sua vita, in piedi sotto il cielo plumbeo del suo Distretto. Non sa che una minuscola possibilità in quel mare di bigliettini può togliergli anche il diritto di guardare le nuvole.
Dal II Capitolo:
Tributo, già. [...] Come Teseo. Lui combatté contro il Minotauro, io soccomberò sotto i miei coetanei. Lui uccise un mostro, io non sono riuscito neppure a guardare il mio migliore amico negli occhi.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Slash | Personaggi: Altri tributi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Avviso ai lettori: i personaggi presenti in questa storia sono stati creati da me e restano di mia proprietà, così come l'Arena. Non mi appartiene invece il contesto generale, di proprietà di Susanne Collins, autrice della saga "Hunger Games". ©

 

E se il cielo scompare

 
Where did I go wrong, I lost a friend
Somewhere along in the bitterness
And I would have stayed up with you all night
Had I known how to save a life.

["How to save a life" - The Fray]

 
Sei mesi dopo

Il giorno della Mietitura è piovoso, ovviamente. Nubi dense e grigie si addensano sulle nostre teste, rendendo ancora più lugubre il tragitto dal mio Isolato alla Piazza e riempiendo tutto di una sorta di nebbia umida e biancastra che rende veramente odiosa la camicia bianca che indosso - e che mi si è appiccicata sulla schiena sudata.

E' carina, la piazza, forse il posto migliore di tutto l'Otto: grande, ariosa, sempre silenziosa. Certo, è grigia e piena di calcinacci, ma almeno non si respira quell'odore di cuoio troppo forte e non ci sono tanti Pacificatori. Non succede mai niente, in piazza.
Certo, tranne oggi. Perché oggi è il giorno della Mietitura e uno sciame di adolescenti si sta riversando al suo interno in modo disordinato; un caos di chiacchiere sommesse, un brusio simile al rumore basso dei motori degli hovercraft di giovedì, quando atterrano in periferia per caricare le nuove divise dei Pacificatori. A guardarci dall'alto, probabilmente siamo simili a un fiume che scorre troppo velocemente, schizzando via di tanto in tanto qualche goccia: ecco, io sono una delle goccie. Me ne sto in disparte, in silenzio, a rimuginare su quanto sia ingiusta la faccenda delle Tessere quando una voce attira la mia attenzione.

"Tim!" 

Mi volto in cerca della fonte del suono ma non riconosco nessuno: ci sono dei bambini, un ragazzo che riconosco come il figlio del dottore e forse un paio di miei compagni di scuola. 

"Tim, siamo qui!"

Questa volta la vedo: Rym è all'altro capo della via, accanto a quello che sembra un cassonetto bruciato. Indossa uno splendido vestito celeste un po' largo, con il colletto di pizzo e porta i capelli legati in un grazioso chignon. Tiene la mano a quella che sembra la sua versione a otto anni: una bambina identica, vestita allo stesso modo e con lo stesso sguardo pacato, forse un po' più sereno di quello della più grande.

"Rym" rispondo, avvicinandomi a testa bassa. Nonostante negli ultimi mesi ci siamo avvicinati parecchio (dopotutto ormai è la ragazza di Sam da quasi tre mesi) mi dà ancora un po' di imbarazzo lo stare da solo con lei - in realtà, odio stare da solo con chiunque non sia il mio migliore amico o i miei genitori. "Lei è tua sorella?" le chiedo, accennando alla bimba. La piccola annuisce con vigore e poi afferra la gonna dell'altra, correndo a nascondercisi dietro tutta rossa.

"Si chiama Alice" conferma Rym, ridacchiando. "Ha insistito per accompagnarmi fino in piazza perché dice che deve stare attenta per conto di Sam" aggiunge. Colgo una leggera nota di tristezza nella sua voce, ma d'altronde è sempre così, il giorno della Mietitura: la puoi prendere a ridere quanto ti pare, eppure il pensiero che non tornerai a casa tua o a scuola o al lavoro è sempre lì, pronto ad arpionarti il cervello e non lasciarlo mai più. Non essendo in grado di dar voce a questi pensieri davanti a una bambina di otto anni, mi limito ad annuire.

Proseguiamo. La folla si è diradata, ormai, e quando superiamo il controllo dei Pacificatori i ragazzi sono già quasi tutti in riga, disposti su più file in base all'età. Mentre mi sistemo tra due coetanei, entrambi brufolosi e scuri in volto, lancio un'occhiata alle transenne: dietro, appena schiacchiati tra la folla, i miei genitori mi fanno segno di star tranquillo. Una quindicina di bambini riempie lo spazio di confine tra ospiti e potenziali Tributi: se ne stanno seduti a gambe incrociate e hanno l'aria seriosa, probabilmente consapevoli che qualcosa non va. Tra loro c'è anche la sorellina di Rym, che saluto con un'occhiolino.

E poi comincia. Prima appare Holland, la nostra Accompagnatrice abituale: ha una parrucca fucsia sulla testa, ciglia rosse lunghe tanto da riuscire a vederle dalla mia fila (che, per inciso, è l'ultima, avendo io diciotto anni) e un abito di un colore che non riesco neppure a definire pieno di merletti e pizzi inamidati che puntano verso il cielo scialbo - muta offesa a quella che dovrebbe essere una meraviglia naturale ma che qui ha l'unica funzione di intrappolarci nella piattezza del grigio.

"Salve Distretto Otto!" esordisce, avvicinandosi al microfono. Deve avere delle zeppe spaventosamente alte, perché nonostante io la veda attraverso spalle e teste di almeno cento ragazzi, spicca sul palco come fosse sui trampoli. "Diamo inizio a questa Cinquantaseiesima Edizione degli Hunger Games!"

Tutt'intorno a lei regna il silenzio. Per un istante, come tutti gli anni, si guarda intorno sperando in un applauso scrosciante, o per lo meno in qualche segno di approvazione - e come tutti gli anni resta delusa, finendo per fingere nonchalance e continuare con il solito spettacolo. "Quest'anno" ci informa, e giuro che so a memoria cosa dirà, "Capitol City vi ha mandato un filmato molto interessante, sapete? Chi ha voglia di vederlo?"

Anche qui, stessa storia: i ragazzi la fissano con occhiate truci e visi pallidi, qualcuno sta piangendo prima ancora di conoscere il nome dei Tributi. Io guardo in basso e prendo a spostare dei ciottoli con le scarpe nuove. Cioè, non proprio nuove: diciamo solo le migliori che ho, strette da morire ma lucide e nere. Non mi do nemmeno la pena di guardarlo, il filmato, tanto è sempre lo stesso: morti, feriti, gente bruciata, un paio di bambini che piangono, zoom su un'arma letale e poi panoramica delle bellezze di Panem da cui, evidentemente, il nostro Distretto è stato escluso per oscuri motivi, dato che qui di bello non c'è proprio niente. Quando finisce, Holland si trattiene a stento dall'applaudire lei stessa e presenta sindaco e capo locale dei Pacificatori.

Poi appaiono le bocce e allora sì che l'atmosfera cambia: gli sguardi vacui si fanno intensi, puntano tutti a quei contenitori e ai bigliettini che ci sono dentro.

Leandro Tiraz.

Ripeto il mio nome nella mente e mi domando come suonerebbe pronunciato con l'accento della Capitale. Poi scopro che non ho poi così tanta voglia di saperlo.

Leandro Tiraz.

"Cominciamo dai ragazzi!"

Credo sia un modo per spiccare tra la massa di Accompagnatori, quello di partire dal sesso opposto rispetto agli altri Distretti. Anche se, in un certo senso, è galanteria anche questa: rimandare a una ragazza il momento in cui il suo cuore mancherà un battito e le labbra cominceranno a tremarle.

Leandro Tiraz.

Ogni anno, arrivato a questo punto, mi coglie l'insensata paura che per un assurdo errore l'intera boccia dei ragazzi contenga esclusivamente il mio nome. Magari qualcuno si è divertito a farmi un dispetto, o forse quest'anno i nomi li ha scritti un folle. O forse sono solo troppo paranoico.

"Leandro Tiraz!"

Non me ne accorgo nemmeno, all'inizio. Per un secondo sento l'adrenalina defluire e mi concedo di respirare, come se il mio cervello si rifiutasse di elaborare quell'informazione. Poi, però, i ragazzi alla mia destra si fanno indietro e un corridoio - sgombro, lungo, letale - mi conduce direttamente al palco.

Non mi ero mai accorto fosse fatto di legno.
Holland mi sorride, mi aiuta perfino a salire dall'alto delle sue scarpe. Sono ancora più pacchiane, viste da vicino.

"Ciao, tesoro!" esclama, nonostante sia consapevole di essere microfonata. I tre maxischermi posti tutt'intorno alla piazza mostrano la sua pelle colorata vagamente di arancione e, accanto alla sua faccia, la mia: bianchiccia, un po' confusa, certamente poco fotogenica. I capelli mi ricadono flosci a incorniciarmi il viso, la camicia è uscita dai pantaloni e ho le braccia penzoloni che fatico a tener ferme, ora che scruto tutti dall'alto e mi rendo finalmente conto che sarà l'ultima prospettiva da cui li osserverò.
Mentre constato queste cose e mi avvicino al punto che mi indica un Pacificatore, Holland torna alle bocce: tocca alle ragazze, ora. La sua mano artigliata si muove all'interno dei contenitori trasparenti, gioca in ampi cerchi e poi si tuffa per pescare un nome tra la massa di carta e inchiostro.

"Rym Silk"

Rym. Come la ragazza di Sam. Ma non può essere lei, una sfiga del genere non potrebbe capitare nemmeno a noi. Eppure è proprio la Rym che conosco a farsi strada tra la massa di colpevoli sospiri di sollievo, sicura e coraggiosa come non avrei mai immaginato che fosse: non piange, non trema, non balbetta come un'idiota. Si limita a sussurrare qualcosa all'indirizzo della sorellina, passandole accanto, e farle l'occhiolino. Tutte le telecamere sono puntate su di lei, adesso, su quella diciottenne bionda dal vestito celeste che sale aggraziatamente le scale e mi sfiora la spalla posizionandosi accanto a me.

Holland ci raggiunge, poggiando una mano sulla spalla di ognuno. Il suo capo spunta tra il mio e quello di Rym come un'inquietante terza testa: si volta da una parte e dall'altra, sorridendoci e aspettando una nostra reazione. Quando si rende conto che non diremo niente, fa lei la prima mossa: "Allora, Rym!" cinguetta. "Lei era tua sorella?"

Rym annuisce. "Lo è" ribatte, correggendola. In effetti sua sorella è viva e sta bene e non credo che i suoi genitori la diserederanno, quindi tecnicamente è ancora sua sorella. E poi, semmai, è Rym quella che tra poco non sarà più sorella di nessuno. Holland non sembra accorgersi della gaffe, anzi: la conferma che quella bimba è la sorella di uno dei Tributi sembra mandarla in brodo di giuggiole. Trotta verso un cameramen, parlotta coprendo il microfono con una mano e torna da noi sorridendo.

"Rym" la chiama. "Come hai detto che si chiama tua sorella?"
"Alice"
"Saluta la telecamera, Alice!" esclama allora la donna. Tutti i maxischermi si riempiono della faccia della piccola, sorpresa ma soddisfatta: alza una manina e saluta, sorridendo. Le manca un canino. "Vuoi dire qualcosa alla tua sorellona?" continua Holland. La piccola si ferma un secondo, lo sguardo puntato a terra in segno di riflessione, poi annuisce. 
"Non ti preoccupare, lo tengo d'occhio io Sam" le dice. "Poi quando torni ti dico se si è comportato bene" aggiunge.
Rym annuisce e, per la prima volta, una lacrima le fa capolino dall'occhio destro, minacciando di scenderle. Holland, forse semplicemente per chiudere il servizio con quell'atmosfera commossa, non fa altre domande e ci chiede di darci la mano: la mia è sudaticcia e trema, quella di Rym è gelida ma ferma. Ci stringiamo per un secondo e penso che uno dei due dovrà sopravvivere, perché altrimenti Sam rimarrà solo. Poi due Pacificatori ci spingono all'interno del Municipio. 

 
***

Velluto. E' velluto quello che ricopre la polverosa poltrona rossa. Ne accarezzo la superficie con un dito, su e giù fino a farle cambiare colore.
E penso.

Vado su e penso alla piazza e a Molly e al mio posto al Capannone. Vado giù e penso a Sam e ai miei genitori, che potranno prendere una casa più piccola ma in un Isolato migliore, magari. Vado su, poi giù. L'idea che non vivrò mai più qui è troppo grande per essere davvero concepita. E anche se tornerò non abiterò più in quella casa, ma al Villagio dei Vincitori, semivuoto e perfetto.
Su e giù, giù e su. Non è giusto, penso. Ma poi mi dico che non è giusto a prescindere, che se al mio posto ci fosse stato il figlio del sindaco, Fred, non sarebbe cambiato nulla. Giù e su, su e giù. 

All'improvviso la porta si apre. Per un momento non vedo nessuno dall'altra parte e spero che sia stato solo un colpo di vento - non ho voglia di dire addio a qualcuno, non ora - ma poi due figure varcano la soglia: i miei genitori. Non piangono, ma si vede che l'hanno fatto e lo rifaranno. Mia madre mi si avvicina, svelta, e prende a sistemarmi la camicia e il colletto e i capelli - mi scanso di scatto, allontanandola.
Lei non sembra prendersela, forse non se ne rende nemmeno conto: semplicemente mi guarda come se fossi la cosa più bella del mondo ed è in questo momento, mentre lei e papà mi fissano con l'aria di chi ha appena perso un tesoro, che mi rendo conto che gli Hunger Games non sono una punizione solo per i ragazzi: lo sono per tutto il Distretto. O almeno, per tutti quelli che domani non mi troveranno a scuola o al Capannone e si ricorderanno che sono morto; per i miei, che continueranno a spazzare la stanza e chiudere la finestra anche se non c'è nessuno da proteggere dal freddo; per Sam, che domani si risveglierà solo e non avrà nessuno a cui raccontarlo.

E poi arriva proprio lui: Sam. Il mio migliore amico, quello che conosco da quando avevo i buchi al posto degli incisivi e non sapevo pronunciare la parola "hovercraft". Arriva, si mette di fronte a me e dice: "Dovete vincere" ben consapevole che, al massimo, uno solo dei due lo farà. "Dovete vincere, Tim. Non potete lasciarmi solo."

Vorrei dirgli che non lo farò, ma sarebbe una bugia. Io non lo so se potrò vincere e, sinceramente, non credo di averne possibilità. E poi ho paura che, seppure tornassi qui, lui mi riterrebbe colpevole della morte di Rym. Però non glielo dico, ovviamente. Lascio che si avvicini e mi abbracci; e penso che ho desiderato un contatto per tutto questo tempo e, ora che il suo corpo è attaccato al mio, darei qualsiasi cosa per tornare a ieri. 

Alla fine, Sam dice: "Buona fortuna" ed esce. Vorrei guardarlo un ultima volta, imprimermi nella mente un'immagine bella a cui potrò pensare, ma non ci riesco: posso solo abbassare lo sguardo e scuotere la testa, permettendomi finalmente di cacciare qualche lacrima.

Sono un Tributo. Il pensiero mi colpisce, forte, non appena la porta si chiude e io resto di nuovo solo, con la consapevolezza che non li rivedrò mai più come unica compagnia.
Sono un Tributo. Tributo, già. Come le tasse che ogni tre del mese dobbiamo consegnare ai Pacificatori; come i soldi del pane e quelli delle consegne di grano. Come Teseo, l'eroe della mitologia greca che ho studiato un paio di mesi fa. Ma lui combatté contro il Minotauro, io soccomberò sotto i miei coetanei. Lui uccise un mostro, io non sono riuscito neppure a guardare il mio migliore amico negli occhi.
  
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