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Autore: M4RT1    08/04/2015    4 recensioni
56th Hunger Games | Distric 8 | OC!Characters
Leandro "Tim" Tiraz ha diciotto anni e si prepara per l'ultima Mietitura della sua vita, in piedi sotto il cielo plumbeo del suo Distretto. Non sa che una minuscola possibilità in quel mare di bigliettini può togliergli anche il diritto di guardare le nuvole.
Dal II Capitolo:
Tributo, già. [...] Come Teseo. Lui combatté contro il Minotauro, io soccomberò sotto i miei coetanei. Lui uccise un mostro, io non sono riuscito neppure a guardare il mio migliore amico negli occhi.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Slash | Personaggi: Altri tributi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Avviso ai lettori: i personaggi presenti in questa storia sono stati creati da me e restano di mia proprietà, così come l'Arena e il Distretto. Non mi appartiene invece il contesto generale, di proprietà di Susanne Collins, autrice della saga "Hunger Games". ©



 
Rainy days

 
When the sky turns gray 
And everything is screaming 
I will reach inside 
Just to find my heart is beating
 
["Bleeding out" - Imagine Dragons]



Odio il cielo del mio Distretto.

La prima volta che l'ho detto, urlando con foga, Sam mi ha gridato di darmi una calmata e poi siamo tornati nel Capannone, al lavoro. Da quel momento mi limito a pensarlo.

Ci penso spesso, in realtà. Ogni mattina, quando esco da casa e mi dirigo nella Zona Industriale, rivolgo un'unica occhiata alla cappa che ci opprime: sempre grigia, sempre cupa, sembra fatta apposta per farci consumare più energia elettrica di quanta ce ne possiamo permettere. Al Distretto Otto si calcola ci siano centodue giorni di sole a fronte dei duecentosessantatré di nuvole, pioggia e vento - e oggi è proprio uno di questi giorni. 

Mi chiamo Leandro Timothy Tiraz[*], ma preferisco farmi chiamare Tim. Già, lo so, i miei genitori ci si sono messi d'impegno a cercarmi un casino di nomi ricercati - ma è così che si fa nella mia famiglia, fin da quando il nome dei Tiraz era ancora sinonimo di ricchezza e pregio.
Ho diciassette anni, ne compirò diciotto a febbraio. Un mese del cavolo, dice Sam, perché c'è più pioggia che in tutto il resto dell'anno e spesso il Capannone si allaga e torniamo a casa inzuppati fradici.

E' forte, Sam. Ha due anni più di me ma a guardarci sembro io il più grande: lui è mingherlino, basso e sempre pallido. Al contrario di me, ha i capelli chiarissimi e gli occhi di un celeste più trasparente dell'acqua del Fiume. Sembra quasi troppo debole per resistere alle raffiche di vento, eppure è forte. Ha lavorato alla sezione Trasporti finché un'enorme cassa di bottoni e fodera non gli è caduta addosso, spezzandogli la gamba destra in cinque punti diversi. Gliel'hanno tagliata, ma almeno è vivo: ora ne ha una finta, di ferro o qualche tipo di metallo che non si arrugginisce, e sembra star bene, anche se zoppica un po' e si stanca spesso. 

Noi due lavoriamo insieme nel settore Tagli, come mio padre. Montiamo alle sette del mattino, tagliamo stoffa fino alle due, facciamo mezz'ora di pausa e riprendiamo fino alle sette. Qualche volta ci fermiamo anche oltre, quando ce la facciamo - ne abbiamo bisogno, i soldi scarseggiano sempre nel nostro Isolato: i miei genitori lavorano nel mio stesso settore e, insieme, riusciamo a tirare avanti; Sam invece ha solo sua madre, che è una donna veramente energica ma non riesce a sopperire alla mancanza del marito, morto dieci o dodici anni fa in uno scontro. Era un Pacificatore, nato nel Due e trasferitosi qui in cerca di un po' d'esperienza per poter fare carriera. Solo che poi ha incontrato Molly e ha messo su famiglia e una sera, mentre cercava di fermare una rissa, si è preso un colpo in testa dalla sua stessa pistola, impugnata da un uomo ubriaco arrestato sul posto. Sam non ne parla mai, ma credo sia stato abbastanza traumatico per lui.
 
***

Cammino svelto, scostandomi i capelli troppo lunghi dalla faccia. Mi coprono la visuale come tante sbarre di ferro brunito, facendomi lacrimare gli occhi scuri. Sbuffo. Le scarpe sono troppo piccole e mi stringono sulle caviglie, ma sono calde e mi proteggono dal fango che riempie la strada. Il mio Isolato, il Sei, è il più malandato degli otto che compongono il Distretto: una schiera di palazzi a tre piani tutti uguali, tutti di mattoni marrone sporco con una manciata di finestre sparse qui e lì e imposte di legno piene di spifferi e mezze marce. Un posto molto raccomandabile, insomma. 

Sam abita nell'Isolato Quattro, invece. E' giusto un filino meglio del mio, ha l'illuminazione notturna e un paio di negozi a dare colore al posto. Ma i Pacificatori non si fanno vedere nemmeno lì e così, proprio come succede a noi, gli abitanti del luogo pagano qualcuno per farsi proteggere. Il nostro protettore è detto "la Talpa", perché se ne sta sempre chiuso in casa senza mai aprire le finestre. Avrà cinquant'anni, ma se li porta male e beve come una spugna. Qualche mese fa ha rischiato di restarci secco, per quanto si è ubriacato.

"Tim! Ehi, sono qui!"

Sam si sbraccia dal marciapiedi accanto al Capannone della Progettazione, quello in cui sogno di lavorare da quando ho otto anni. Sì, okay, lo ammetto: vorrei diventare stilista. Sembrerebbe una cosa semplice, visto che siamo all'Otto e praticamente tutto (a partire dalle mutande fino a quegli assurdi copricapi della Capitale) è progettato e creato qui - eppure vi assicuro che non è facile, per niente. Diventare stilista è come diventare attore: o sfondi, o sei finito. E non parlo di lavorare a Capitol City, figuriamoci, ma anche per progettare tenute militari, divise e semplici vestiti per donne di un certo rango bisogna essere portati e fortunati. E io fortunato non lo sono mai stato, quindi mi limito a disegnare schizzi quando recupero qua e là qualche foglio di carta. 

"Sam!" lo chiamo a mia volta. "Che fai lì?"

Sam non mi risponde. Continua a farmi cenno di avvicinarsi, intervallando il gesto con occhiate continue verso l'interno del Capannone. Alla fine cedo, mi infilo le mani in tasca e abbasso la testa per evitare che la polvere alzata dai camion mi accechi. Quando gli arrivo accanto, lui è impegnato a consumare con gli occhi la cerchia ristretta di stilisti e quella, più ampia, di aiutanti. 

"Che stai guardando?" gli chiedo. 
Lui prima mi zittisce in maniera fin troppo sgarbata per lui, poi indica qualcosa (o qualcuno). "Lei".

Lei è una ragazza che conosco appena. Si chiama Rym, ha i capelli biondi legati in una spiccia coda di cavallo e regge una scatola di carboncini che le stanno macchiando il grembiule bianco. Sono abbastanza certo che non sia una stilista, quindi dev'essere un'aiutante o un'addetta all'ordine. 
Non posso negare che è bella. Ha bei lineamenti, un fisico invidiabile e grandi occhi castani che fanno a pugni con la pelle di porcellana. Si muove con grazia, quasi stesse ballando, e sono sicuro che sembri più giovane di quanto non sia in realtà.

E' veramente bella e la cosa mi da ai nervi.

"Non è meravigliosa?" mi sussurra Sam, rapito.

Ingoio un boccone amaro e annuisco, sentendo la nuca pizzicare fastidiosamente. Giocherello con il lembo della mia giacca sformata. 

"Sì, è molto carina".
"Ti piace?"

Vorrei dirgli di no. Vorrei dirgli che ci conosciamo da un sacco di tempo e continua a pormi quella domanda ma non si è mai chiesto il perché delle mie risposte. Vorrei davvero che capisse che la mia non è timidezza, ma si tratta di non interesse. Eppure, come per tutte le volte precedenti, faccio una smorfia indecisa.

"Allora, andiamo?"

Odio il cielo del mio Distretto, ma odio ancora di più il mio nome: Leandro. Leandro è il nome di un eroe antico, uno sfigato che non è mai riuscito a raggiungere la sua amata. Proprio come io non riuscirò mai a raggiungere la persona che voglio. 

"Andiamo, andiamo", mi interrompe Sam. Sento la sua mano spingere sulla mia schiena, indirizzandomi verso il Capannone giusto. "Poi dici che sono io quello musone".
 
***

Avevo otto anni la prima volta che mio padre mi ha portato con sé al Capannone. Mia madre era a casa, malata, così ho lavorato un po' al suo posto, tagliando grossi retangoli storti e maneggiando con difficoltà le forbici. E' stato così che mi sono procurato la cicatrice che ho sul sopracciglio sinistro, una spessa striscia pallida che taglia esattamente a metà la mia fronte per poi fermarsi miracolosamente pochi millimetri prima dell'occhio. Eppure, ricordo quel giorno con piacere, perché fu allora che capii cosa avrei voluto essere da grande. Ricordo l'odore di vestiti nuovi e cartone e disinfettante, lo sfregare costante del carbone contro i fogli e il ticchettio regolare delle lame delle forbici che si scontrano. Ricordo il fruscio della stoffa e le risate delle donne che piegano i grandi fogli, attente. 

Ho cominciato a lavorare a tempo pieno solo a quindici anni. Qui nell'Otto è vietato iscriversi ai Capannoni prima di quell'età - e tecnicamente fino a diciotto anni non potrei fare i turni serali, ma non importa a nessuno. Il capo del nostro settore, Phil, è un tipo okay che chiude un occhio purché non causiamo danni e non ci facciamo male.

E' simpatico e non è tosto come il capo del Capannone dei Cucitori, che ha un blocco su cui segna tutti i ritardi per detrarre denaro dallo stipendio, anzi: Phil è il tipo che ti paga anche se manchi un paio di giorni, purché generalmente lavori sodo. Tutte le mattine, per controllare chi si presenta, si siede accanto alla porta a braccia conserte e depenna i nomi dei suoi dipendenti; lo fa sempre con un gran sorriso sul volto, quasi sia fiero del nostro impegno. E' una cosa che mette il buon umore.

E' lì anche oggi, sempre con la solita camicia color panna e gli stivali da pesca. Mi fa un cenno e lascia passare me e Sam, cercando i nostri nominativi nell'elenco.

"Ciao, Tim!" mi saluta qualcuno. Mi volto e vedo Molly, la mia compagna di banco - entrambi frequentiamo poco, visto il lavoro, ma tecnicamente è vietato non essere iscritti e ci tocca presentarci un paio di volte a settimana, per non essere ammoniti.

"Ehi, Molly!" rispondo. E' una delle poche persone con cui mi trovo davvero, insieme a Sam e a mia madre. Indossa spessi occhiali rotondi ed è piena di lentiggini, ma il suo sorriso è meraviglioso.

Mi dirigo al mio posto in silenzio. Sono seduto quattro file dietro di lei, a destra, vicino al finestrone. Accanto a me c'è Kevin, un tipo lunatico e taciturno che adora rubare le mie forbici e lamentarsi di stare troppo stretto. Oggi non è ancora arrivato.
Mi siedo. Fa freddo e la condensa scivola dalle pareti di lamiera e plastica. Il mio tavolo è bianco, un po' consunto, e al centro campeggiano già alcuni dei pezzi di stoffa che devo tagliare. Prendo il primo, lo apro: è velluto, sarà un metro per un metro e cinquanta - un pezzo piccolo per gli standard del lavoro, ma io sono ancora un apprendista. Attaccato a un angolo della stoffa con una puntina, un biglietto recita: "due quadrati da cinquanta per cinquanta. Falli bene". Impugno le forbici e comincio.

Oggi ho il turno lungo. Dopo la pausa pranzo riprendo e lavoro fino alle sette, ma non basta. Sono stato lento, oggi, perché per due volte ho sbagliato e ricominciato - maledetto Sam e maledetta cotta.

Alle otto meno dieci mi mancano ancora almeno cinque rettangoli e ho le mani anchilosate per aver tenuto le forbici. Mi tremano leggermente e sbaglio di nuovo. Alle otto e trenta ho ancora due rettangoli. Sono circondato dai lavoratori del turno notturno. Sam mi ha aspettato fino alle otto, poi se n'è andato.

"E tu?" mi chiede qualcuno. 
Mi volto e vedo una signora tarchiata. 
"Mi scusi, devo terminare e vado via" mormoro. Ho terribilmente sete e ho sonno, mi si chiudono gli occhi. Taglio male il penultimo pezzo e passo all'ultimo, un enorme quadrato di lino verde chiaro. Non ce la faccio davvero più, ma devo terminare. 
Sono le nove quando esco, sbadigliando e resistendo all'impulso di svenire in strada.

Abito al primo piano della terza traversa dell'isolato Sei. Il mio appartamento è il più economico, perché più esposto a eventuali furti - che non ci sono, dato che tutti sanno che i poveri abitano in basso. Ho i crampi alle gambe e a stento riesco a girare le chiavi nella toppa. Lo spazio che mi si apre davanti - un piccolo soggiorno con la cucina in un angolo e un tavolo malandato al centro - si sfoca leggermente davanti ai miei occhi mentre mi chiudo la porta alle spalle. I miei sono appena usciti, probabilmente, quindi mi tocca cucinare. Sbadiglio così forte che credo mi si sia slogata la mascella. Mi succede spesso, di essere così stanco: non è facile conciliare scuola e lavoro, soprattutto con turni così lunghi. Ma quando apro la dispensa e ne tiro fuori una scatola di zuppa di farro e ceci, tutto acquista un senso. Lo faccio per me, per i miei genitori. Lo faccio per avere una vita quasi normale, per quanto la si possa desiderare nel mio Distretto.

Sono quasi le dieci quando sento quel rumore. Dapprima credo di averlo solo immaginato (la stanchezza può giocare brutti scherzi) ma poi, mentre mi dirigo in camera dopo essermi lavato i denti, si fa più netto e forte e capisco che proviene proprio dalla mia stanza. Mi blocco di colpo, cercando di capire cosa sia: sono colpi, prima due, poi altri tre; mi sembra di sentire anche un bisbiglio e sono colto dal panico. Se si trattasse di ladri sarei davvero nei guai: per prima cosa, in mutande e tshirt non potrei scappare scalzo per la strada, non con questo freddo; e inoltre, non trovando nulla, i ladri potrebbero arrabbiarsi e accanirsi su di me, essendo l'unico in casa. Cerco rapidamente qualcosa per difendermi e alla fine afferro un bastone corto e pieno di schegge che mia madre usa per cacciare via i topi dal marciapiedi fuori casa. E' umido e mezzo marcio, ma immagino faccia comunque male.

Mi avvicino alla porta. Un passo, un altro. Al quarto l'asse sotto i miei piedi scricchiola. Trattengo il respiro, terrorizzato.

Impiego quasi cinque minuti a percorrere i due metri di corridoio dell'abitazione, poi finalmente varco la soglia della camera. La finestra è chiusa dalle imposte di legno - verrebbero via facilmente, se al posto di colpirle provassero con una spranga o qualcosa del genere. Per fortuna non devono essere molto intelligenti. Mi avvicino ancora, ingoiando a vuoto. Sbircio da una delle numerose, piccole crepe: c'è un volto, mi sembra solo. Brilla al chiaro della luna, un viso pallido e disteso. Sembra quasi-

"Tim! So che sei lì dietro".

Salto via dalla finestra e finisco contro l'armadio, urtando dolorosamente una spalla. 

"Sam" grido, isterico. "Ho una porta, cazzo! Perché non usi quella?"

Con le dita che mi tremano, spalanco le imposte e mi ritrovo il volto del ragazzo a pochi centimetri dal mio: se ne sta in piedi, affacciato alla finestra come una casalinga che chiacchiera in piazza; i capelli gli incorniciano il volto, quasi brillanti alla luce pallida della notte. Mi fissa, divertito. "Sei bianco come un fantasma, Timmy".

Mi chiama sempre così, quando vuole prendermi in giro.

"E tu sei l'idiota più grande del mondo" sbotto io, voltandomi. Sistemo la lampada che, nella foga, ho fatto cadere. "Che vuoi a quest'ora?"

Sam scavalca con nonchalance il davanzale e si siede sul mio letto a gambe incrociate. Indossa ancora i vestiti da lavoro e ha un baffo di pomodoro sotto il naso, ma sempre terribilmente serio, adesso. 

"Mi serve una mano" dice solo, fissandomi dritto negli occhi. Un formicolio imbarazzante mi scuote mani e piedi e, per un istante, mi sembra di essere tornato al giorno in cui lo conobbi: anche allora eravamo uno di fronte all'altro, seri e rigidi. Quella prima notte, però, eravamo poco più che bambini.

"Pronto, Timmy?"

Rinsavisco allo schiocco delle dita del ragazzo. Mi sta sventolando una mano in faccia, a metà tra il preoccupato e l'infastidito. "Mi hai sentito?" sbotta.
Non rispondo.

"Okay, ricomincio! E vedi di stare attento".

Passo la mezz'ora successiva ad ascoltare quel coglione di Sam farneticare a proposito della sua nuova fiamma, del fatto che sembra che lei lo eviti e che lui l'abbia pedinata fino a casa. Abita nella quinta traversa dell'Isolato Tre, a quanto pare, secondo piano di uno dei palazzi meno brutti del Distretto. 

Secondo questa specie di amico che ho, dovremmo farle le poste sotto casa (si usano ancora espressioni del genere, poi?) finché non si arrende (o ci denuncia per stalking ai Pacificatori).

"Non sono d'accordo".
"Cosa? E perché mai?"

Mi trattengo dall'alzare gli occhi al cielo - Sam dice che ho l'aria da saputello, quando lo faccio - e passo a spiegargli: "Forse perché ti evita di proposito?"

Lui mi guarda per un momento, gli occhi ridotti a fessure e due rughe sulla fronte. Ha la giacca sbottonata e, attaverso l'apertura, riesco a scorgere un vecchio maglione logoro che apparteneva a suo padre.

"Sai" dice poi, rompendo il silenzio. "Hai proprio l'aria da saputello".


 
[*]N.d.A.: Il cognome che ho scelto per Tim, Tiraz, è il nome di un'antica fabbrica siciliana di tessuti pregiati.
  
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