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Autore: Kerri    14/04/2015    6 recensioni
[CaptainSwan: AU] [Accenni Rumbelle, Snowing, OutlawQueen]
Emma Swan si è trasferita a New York a 17 anni, accettando una borsa di studio che le avrebbe cambiato la vita, lasciandosi alle spalle un'infanzia difficile, Storybrooke e il suo migliore amico. Ma ha dovuto vedere tutti i suoi sogni frantumarsi, schiacciati dalla consapevolezza di aspettare un figlio.
Adesso la sua vita si è stabilizzata, ha Henry, gestisce un negozio di antiquariato e non sa che la sua vita sta per cambiare drasticamente, riportando a galla i più nascosti fantasmi del suo passato.
Killian Jones ha un'unica regola nella sua nuova vita: basta impegnarsi. È uno degli architetti più promettenti di New York e un giorno, riceverà una proposta che potrebbe dare una svolta alla sua carriera. Ma per farlo, dovrà collaborare con una sua vecchia conoscenza, riaprendo ferite mai rimarginate.
Il destino, continuerà a prendersi gioco di loro e dei loro amici, tra incontri, scontri e colpi di scena. Ma riusciranno Emma e Killian a perdonarsi e a ricominciare? Riusciranno, insieme, a riscrivere il loro destino? E se questo non fosse stato ancora scritto?
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino, Regina Mills, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2. I’m a Ghost in a Sea of Souls
 

Aprì la porta e lanciò le chiavi da qualche parte, sul piccolo tavolino all’ingresso. Si allentò il nodo, troppo stretto, della cravatta che anche quel giorno indossava e si trascinò in cucina. Come d’abitudine, aprì l’ultima anta in basso ed estrasse una bottiglia di rhum. Cercò un bicchiere pulito da qualche parte ma giacevano tutti, in bella mostra, nel lavabo. Per un attimo, gli passò per la testa che ne avrebbe potuto tranquillamente fare a meno e scolarsi quell’ultima bottiglia, così come aveva fatto nei giorni precedenti con le altre. Ubriacarsi, fino a perdere conoscenza, sensi, vista. Ubriacarsi fino a dimenticare.
No, lei non avrebbe voluto vederlo così.
Adocchiò una vecchia tazza di Mickey Mouse, comprata chissà quanto tempo prima e senza neanche pensarci l’afferrò e vi versò dentro buona parte del liquido. Poi chiuse diligentemente la bottiglia e la ripose al suo posto. Prese la tazza, dirigendosi verso il salotto, bagnandosi le labbra con quel liquido ambrato che ogni sera, gli faceva dimenticare un po’ del disastro che era la sua vita. Quella sentimentale, almeno.
Due anni.
Due anni da quando se n’era andata. Così come tutti gli altri.
 
Storybrooke, 21 Giugno 2002
 
«Emma!»
La ragazza si voltò di scatto. I capelli biondi le volarono dietro le spalle, disegnando un perfetto gioco di luci e riflessi dorati.
«Ah, sei tu…» disse, dopo aver riconosciuto chi fosse il malcapitato che aveva deciso di disturbarla.
«Scusa, vado di fretta. Ho lezione tra dieci minuti» continuò, accennando al grande borsone che portava a tracolla e accelerando un po’ il passo.
«Lo so che hai lezione Emma! Ma non ci vorrà molto, per favore! Devo parlarti! »
Emma ignorò volontariamente quella voce e riprese a camminare, frugando nelle tasche del giubbotto in cerca degli auricolari. Ma aveva sottovalutato la tenacia e la testardaggine del suo interlocutore.
«Emma aspetta!»
La ragazza sentì una mano calda sulla spalla, segno tangibile che il ragazzo era riuscito a raggiungerla.
Fantastico, anche oggi avrebbe fatto ritardo per colpa sua.
Sospirò e si voltò, incrociando le braccia infastidita, spostando il peso su un piede.
«Sentiamo Killian, che vuoi questa volta? Hai esattamente – fissò il piccolo orologio al suo polso – sessanta secondi a partire da ora…»
Killian si grattò la nuca con il braccio sinistro, come era solito fare quando era nervoso o agitato.
«Quarantotto, quarantasette, quarantasei…»
«Emma, smettila! Che diamine!» urlò, forse un po’ troppo, ma quella ragazza lo stava letteralmente facendo impazzire da quando... be’ in realtà da sempre.
La ragazza ammutolì. Alzò gli occhi al cielo e cominciò a battere il piede sull’asfalto.
Dio!
«Emma, io n-non… Mi dispiace, ok? Ho fatto una cazzata e so che tu…»
«Killian!» lo interruppe Emma, prima che la situazione degenerasse. E lei sapeva cosa sarebbe successo se Killian avesse continuato e no, non poteva permetterlo.
«Killian, ascolta: tu non devi dare conto a me di quello che fai o non fai nella tua vita privata. Io sono tua amica, non tua madre, né tantomeno la tua ragazza gelosa, ok? Ciò che mi ha infastidito è che proprio in virtù di quell’amicizia, avrei gradito che fossi stato tu a raccontarmi della tua relazione con la bella Ruby e non che lo venissi a sapere per bocca altrui…»
«Emma, tra me e Ruby non c’è niente!» chiarì Killian, abbassando lo sguardo e rialzandolo poco dopo, immergendosi nel verde prato degli occhi di Emma.
La ragazza si limitò a sorridere e assottigliando lo sguardo, fissò Killian di rimando.
Il giovane odiava quello sguardo. Significava “Non mentire, tanto lo scopro!”. Ed Emma lo scopriva veramente. Emma era in grado di leggergli dentro come nessun’altro. Forse perché ormai lo conosceva meglio di sé stessa, forse perché loro due non avevano mai avuto molti segreti. Forse perché ormai gli era entrata dentro.
«È vero!» si giustificò, alzando entrambe le mani al cielo, in segno di innocenza.
Emma, finalmente, abbandonò lo sguardo da dura e l’espressione corrucciata e si aprì in un sorriso che le illuminò il volto. Ormai ogni risentimento nei confronti dell’amico era svanito, anche se continuava a provare una strana voglia omicida nei confronti di Ruby.
Guardò l’orologio e strabuzzò gli occhi. In poco meno di cinque minuti, avrebbe dovuto essere in sala, pronta a cominciare.
«Ti accompagno io, Emmy» disse Killian, capendola al volo e lanciandole il suo casco.
«Non chiamarmi Emmy! Te l’ho detto mille volte, mi ricordano quei premi che danno ai cantanti o agli attori o a non so chi…» borbottò Emma, afferrando il casco al volo e dirigendosi verso la moto del suo amico.
«Solo se tu la smetti di chiamarmi Killy. Andiamo non ho più dieci anni!»
Emma rise, tirandogli un pizzicotto sul braccio destro. Si sistemò il casco mentre Killian salì in sella, accendendo i motori.
La ragazza montò dietro di lui, stando ben attenta al borsone e come al solito, si aggrappò alla sua schiena. Ormai erano movimenti autonomi, dettati dalla quotidianità. Avrebbe potuto riconoscere la moto di Killian anche bendata, ascoltando solo il familiare rombo con cui ogni mattina la salutava per accompagnarla a scuola.
«Sai che dovresti portare due caschi, vero? Nel caso tu voglia portare la tua nuova ragazza…» gli urlò Emma in un orecchio, mentre sfrecciavano a tutta velocità tra le vie del paesino.
Killian non rispose. Si limitò a premere il pedale dell’acceleratore e a far impennare la moto. Gli piaceva correre su quel veicolo, potenzialmente mortale. Gli piaceva sentire il vento tra i capelli e amava i brividi della velocità. Avere Emma dietro di lui poi, rendeva tutto più magico e surreale.
Arrivarono prima di quanto avrebbe voluto.
Vide Emma scendere dalla moto con grazia e sfilarsi il casco che gli porse gentilmente. Poi gli schioccò un bacio sulla guancia.
«Sta’ attento, capitano! La tua nave potrebbe affondare un giorno di questi…» gridò salutandolo con la mano, prima di entrare in quella che da sempre considerava casa sua.
Killian le riservò uno dei suoi sorrisi più belli e sistemandosi il casco, partì.
 
 
Killian Jones si era da poco trasferito a New York. Dopo aver detto addio alle uniche persone che contavano davvero nella sua vita, aveva bisogno di una boccata d’aria fresca, di cambiamenti e novità, novità che soltanto una grande città avrebbe potuto dargli.
Così, con i soldi messi da parte nel corso degli anni, lasciò Storybrooke, con la chiara intenzione di non ritornarvi mai più. La stessa di chi aveva lasciato quel paesino molto prima di lui.
Chissà come se la stava cavando con il mondo, dispersa chissà dove…
La sua bravura, insieme al suo fascino, l’avevano reso in poco tempo, uno degli architetti più promettenti di New York. Nessuno avrebbe mai scommesso su di lui, sul ragazzo scapestrato dal passato difficile, eppure era lì, ed era riuscito a riscattarsi.
I suoi clienti erano soddisfatti del suo lavoro e Killian ce la metteva tutta per non deluderli, ascoltando pazientemente ogni loro desiderio e prendendo nota dei loro gusti. Poi la sua fantasia e la sua creatività facevano il resto, dando vita a qualcosa sempre nuovo, mai visto, di cui andava quasi sempre fiero. Alle volte gli capitava di lavorare per giorni interi, settimane ad un solo progetto. Voleva che tutto fosse perfetto, che non ci fossero errori da contestare o calcoli errati. Faceva sopralluoghi su sopralluoghi, a volte esasperando gli stessi clienti. Ma per lui era normale: amava avere tutto sotto controllo.
Lavorare gli faceva bene. Non appena varcava la soglia del suo ufficio, tutte le sue preoccupazioni e i suoi dolori più profondi si dissolvevano, lasciando spazio soltanto a concentrazione e perfezione.
Sì, erano questi gli ingredienti basilari del suo lavoro: concentrazione, mente vuota e perfezione.
Aveva acquistato un piccolo studio, al decimo piano di un grande condominio. Era piccolo e perfetto, progettato interamente da lui. Il suo studio fu il primo progetto al quale si dedicò appena arrivato a New York. Ci lavorò per giorni interi perché quello sarebbe stato il suo biglietto da visita, il luogo nel quale avrebbe ricevuto i suoi clienti ed essi si sarebbero fatti un’idea del suo talento.
E doveva ammettere che ci era riuscito più che bene. Killian Jones non era certo avido di complimenti, anzi. Ma, quando entrava nel suo studio, capiva perché, tanti anni prima, aveva deciso di intraprendere quella lunga e tortuosa strada che non sempre era stata tutta rose e fiori.
L’unica pecca del suo piccolo rifugio era la posizione. Non era difficile da raggiungere ma si trovava esattamente di fronte ad una scuola elementare, un grande edificio antico di mattoni rossi e c’era sempre traffico. Le mamme che accompagnavano i bambini a scuola sapevano essere davvero incivili alle volte. Chi parcheggiava in seconda fila davanti all’ingresso del suo studio o chi bloccava il traffico soltanto per controllare che il suo bambino arrivasse integro alla porta di ingresso, proprio come successe quella mattina quando una tipa con un maggiolino giallo aveva bloccato tutto il traffico.
Scusa tesoro, ma non esistete soltanto tu e la tua vistosa auto!
Dio, che vita!
Qualche volta si ritrovava a rimpiangere le strade tranquille e silenziose di Storybrooke, quel pacato senso di immobilità che vi regnava.
New York, al confronto, era una grande bomba ad orologeria, un continuo viavai di gente, cani, giovani, vecchi, bambini, impiegati, donne. Potevi trovarci il mondo a New York. New York era il mondo. E tu, in quella grande insalata etnica, non eri altro che un puntino, un piccolo uomo tra la miriade di gente. 
Aveva bisogno di quel caos, dei rumori del traffico e del viavai della gente per mettere a tacere e riordinare i suoi pensieri, per ritornare ad un normale stato di equilibrio, semplicemente per ricominciare.
Aveva bisogno di quel senso di solitudine e anonimato e allo stesso tempo di quell’unità che soltanto una grande città come New York, avrebbe potuto offrirgli. Lontano dai pettegolezzi di Storybrooke, dalle dicerie, dai suoi sbagli. Lontano, senza più nessun obbligo, nessun legame.
Libero.
Ecco, voleva sentirsi libero, slegato da quei forti vincoli che l’avevano intrappolato nella sperduta cittadina del Maine. Vincoli che avevano il volto e le sembianze di una giovane donna dai lunghi capelli castani e dagli occhi color del ghiaccio. 
Mentre sorseggiava il suo rhum nella tazza di Topolino, sentì il suo telefono vibrare.
Lo estrasse lentamente dalla tasca dei suoi pantaloni e controllò i messaggi.
Due erano della sua segretaria, una tipetta un po’ stramba e ingenua ma sempre disponibile e tanto ordinata.
L’altro era di David.
David Nolan fu la prima persona che Killian conobbe a New York. Quel giorno, di qualche anno fa, si trovava come al solito in un pub, poco distante dal suo nuovo appartamento. Stava sorseggiando la sua birra, guardando attentamente la partita degli Giants contro i Bucs. Le sue conoscenze in merito al football erano piuttosto scarse, non si era mai appassionato molto a dir la verità, ma aveva deciso di cambiare vita no? E quale modo migliore se non quello di imparare a conoscere il più importante e popolare sport americano?
Così, in quel piccolo pub, Killian Jones cercava di seguire una partita, provando a non chiudere gli occhi per più di tre secondi.
L’uomo alla sua destra, invece, era su di giri. Incitava la sua squadra, si disperava quando gli avversari segnavano un punto ed esultava in caso contrario. Killian riuscì a tenersi sveglio, anche e soprattutto grazie alle sue urla, sebbene non avesse ancora ben capito chi tifasse quell’uomo.
A fine partita, quando Killian era al suo terzo boccale di birra, l’uomo, esultante, cominciò ad abbracciare tutti, felice che la sua squadra avesse vinto.
Killian non è di per sé molto incline alle manifestazioni d’affetto, ma con una quantità sproporzionata di alcool in circolo lo era ancora meno. E così, in men che non si dica, si ritrovò a fare a pugni con uno sconosciuto, forse più ubriaco di lui. Il proprietario li buttò fuori non appena notò che la situazione stava degenerando.
Continuarono a lanciare pugni, uno di seguito all’altro, sfinendosi a vicenda e mancandone tre su quattro. Alla fine si accasciarono su di una panchina e si addormentarono profondamente.
La gente che si ritrovava a passare di lì per caso, sorrideva davanti a quello spettacolo. Due uomini grandi e grossi, pieni di lividi e qualche taglio, addormentati uno sulla spalla dell’altro.
Si risvegliarono così, si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere.
Killian quel giorno tornò a casa con qualche livido e un paio di tagli sul labbro ma soprattutto con un amico in più. Un amico che, da quel giorno, lo avrebbe aiutato più di chiunque altro.
La suoneria del suo telefono lo risvegliò da quei ricordi lontani.
«Ehi Jones, sei vivo? Non hai risposto al mio messaggio…»
«L’ho appena letto, amico. Cosa vuoi fare?» chiese un po’ annoiato.
«Voglio uscire Killian, divertirmi! Io, te e Robin come ai vecchi tempi… cosa ne pensi?»
In realtà, Killian avrebbe voluto chiudersi in casa e dormire ma accontentò il suo amico. Era da molto, in effetti, che loro tre non passavano un po’ di tempo insieme e si sarebbero divertiti. Robin era il terzo componente della loro banda di scapestrati. Era un amico di vecchia data di David che si era trasferito a New York con la sua famiglia. Sua moglie aveva una grave malattia e soltanto in una clinica della Grande Mela avevano acconsentito a somministrarle una cura sperimentale che, con un po’ di fortuna e un miracolo, le avrebbe salvato la vita. Purtroppo però, la donna era da poco entrata in coma.
Robin e Marian avevano un figlio, Roland. Il piccolo era un tipo sveglio e Killian si divertiva un mondo con lui, gli ricordava il tempo che, molto tempo prima, aveva passato con altri bimbi della sua età. Un tempo che segnò il primo passo verso la sua rinascita, seppur all’epoca non sapeva ancora cosa farsene della sua vita. 
«Va bene, ci vediamo al solito posto?» chiese, cercando di sembrare più entusiasta di quanto non lo fosse in realtà.
«No, è ora di cambiare! Ti passo a prendere tra un’ora» disse David, riattaccando.
Killian sospirò. Pregò soltanto che i suoi amici non gli avessero organizzato altri appuntamenti al buio, visti i recenti fallimenti. Killian non voleva impegnarsi, non aveva nessuna voglia di sentirsi, ancora una volta, abbandonato. Perché tre donne furono importanti nella sua vita e tutte e tre lo avevano lasciato solo.
Non aveva nessun intenzione di commettere lo stesso errore.
Il suo amico però, aveva voglia di cambiamenti. Aveva appena rotto con la sua secolare fiamma, una certa Kathryn, e voleva divertirsi. Come dargli torto?
Sospirò e continuò a sorseggiare il suo rhum, distratto dal sottofondo della televisione che contribuiva a zittire ogni suo pensiero.
L’ora passò prima che Killian potesse cambiarsi, oppure David arrivò prima di quanto avessero concordato. Killian optò per la seconda opzione, mentre cercava di risistemarsi in fretta e furia la cravatta. Quella sera non si sarebbe cambiato, pazienza. Qualche ragazza gli aveva perfino confessato di trovarlo più affascinante in giacca e cravatta. Prima di chiudersi la porta alle spalle, diede un’occhiata al suo appartamento immacolato. Probabilmente nessuno avrebbe mai pensato che ci vivesse qualcuno, se non per i vestiti nell’armadio e quel po’ di cibo che aveva in dispensa. Sì, avrebbe potuto benissimo appartenere ad un fantasma. E in fondo lui cos’era diventato dopo tutto quel dolore? Un fantasma.
 
Quella sera, dopo tre ore di duro allenamento, Emma trovò qualcuno fuori ad aspettarla. Sorrise incamminandosi verso quella figura oscura, illuminata solo dalla luce di un lampione.
«Hey»
«Hey! Vuoi un passaggio?» chiese porgendole lo stesso casco che aveva indossato qualche ora prima.
La ragazza sorrise e annuì.
Killian partì. Sfrecciò per le strade desolate di Storybrooke, deserte e immerse in un religioso silenzio. Erano solo le dieci e tutti erano già al calduccio nei loro letti, addormentati già da qualche ora.
Emma si strinse alla sua schiena, poggiando la guancia sulla pelle nera del suo giubbotto. Era sudata, avrebbe potuto ammalarsi con quel vento, ma non le importava. Con Killian era al sicuro, dovunque fossero.
Dopo qualche minuto, il ragazzo fermò la moto.
«Perché siamo qui?» chiese Emma, guardandosi intorno e saltando giù dalla sella.
Si trovavano all’entrata del parco di Storybrooke, qualche metro più in là si vedeva il piccolo laghetto, illuminato dalla luce dei lampioni.
Killian scrollò le spalle, aveva solo voglia di passare un po’ di tempo con lei, lontano dagli allenamenti, dai problemi, da Ruby e dal resto del mondo.
«Non vorrai approfittarti di una povera ragazzina indifesa vero?» chiese la giovane, sorridendo e mascherando il suo tono di innocenza.
«Se avessi voluto, l’avrei già fatto mia cara» disse, beccandosi un pugno sul braccio.
«E a quanto pare non sei così indifesa come vuoi far credere, no?»
Scoppiarono a ridere e si incamminarono verso il laghetto, camminando l’uno di fianco all’altro.
Emma gli raccontò ciò che si era perso della sua vita in quei giorni, della nuova coreografia che stavano provando e di quanto le facessero male i piedi.
Killian l’ascoltava, la vedeva ridere, lamentarsi, sognare e una nuova consapevolezza si insinuava nel suo animo, una consapevolezza che lo eccitava e lo spaventava allo stesso tempo.
Voleva dirglielo. Quello era il momento giusto per dirle tutto.
Il parco di Storybrooke sembrava deserto e molto probabilmente lo era, se si escludevano loro due. I lampioni illuminavano il sentiero fino al lago. L’acqua era immobile, placida e silenziosa. La luna, non ancora completa, vi si rispecchiava perfettamente ma in cielo, non c’era neanche una stella.
«Così, quella stronza di Ashley Tremaine ha cercato di soffiarmi il posto…» disse accomodandosi sulla solita panchina, di fronte al lago.
In altre circostanze, Emma non sarebbe mai arrivata fin laggiù da sola, di notte. Anzi, probabilmente l’avrebbe fatto ma non ci sarebbe mai andata senza Killian. Quello era il loro posto speciale, il luogo in cui avevano giocato da bambini, il luogo che solo il bambino dagli occhi color del cielo conosceva e che aveva deciso di condividere con lei, la Bimba Sperduta.
Killian rise e si accomodò al suo fianco. Non riusciva a vederla bene, i lampioni non arrivavano fin lì ma riusciva ad immaginare perfettamente la sua espressione in quel momento.
«Emma, devo dirti una cosa…»
Il cuore cominciò a martellargli nel petto, le mani cominciarono a sudare. La giovane si voltò verso di lui, cercando di incrociare il suo sguardo.
«È successo qualcosa? – chiese preoccupata – t-ti ha fatto del male ancora?»
Killian distolse lo sguardo. Il suo cuore mancò un battito.
«No, lui non c’entra…»
Sospirò.
Lui.
Non ce la faceva a chiamarlo “papà”, non dopo tutto ciò che aveva fatto. Non dopo avergli fratturato due costole, non dopo avergli rotto una bottiglia in testa, non dopo averlo quasi ucciso.
Fortunatamente adesso non poteva più fare del male a nessuno, men che meno ai suoi figli. Quello era stato un brutto periodo, sia per sé che per suo fratello Liam. Ma era riuscito a superarlo, ad andare avanti anche se non avrebbe mai dimenticato. Suo padre era per lui e suo fratello l’esempio da non seguire, l’uomo che non sarebbero mai diventati.
Adesso poteva considerarsi come lei, un orfano.
«Lui non può più farci nulla Emma, lo sai…» disse in un soffio.
«Sì, è vero, hai ragione» rispose la giovane, maledicendosi per aver toccato l’argomento. Sapeva quanto fosse difficile per Killian, difficile era un eufemismo in realtà. Conosceva meglio di chiunque altro i suoi dolori e le sue sofferenze ed era preoccupata per lui.
«Allora, cosa c’è?»
Nominare suo padre gli fece tornare in mente immagini che avrebbe voluto dimenticare, vetri rotti, puzza e stanze bianche di ospedale. Dovette fare uno sforzo inimmaginabile per ritornare alla realtà, per non affogare nei ricordi. Anche se forse, era ancora troppo presto parlare di ricordi.
«Killian, ci sei?»
Emma fu la sua ancora di salvezza anche in quel caso, quel giorno come gli altri.
«Sì, scusa, io…»
Un cellulare vibrò. Emma gli lanciò una breve occhiata di scuse e poi rispose e il suo volto si illuminò. Killian riuscì a vederlo. I suoi occhi divennero piccoli, le sue guance si alzarono e i denti bianchi risplendettero alla luce della luna.
Si alzò in piedi, gironzolò un po’, si risedette. Era euforica.  
Quando chiuse la chiamata, si buttò al suo collo e cominciò a piangere e a ridere e a tirargli dei pizzicotti.
«Emma, diamine, calmati! Cosa è successo? Chi era?»
«Era Turchina, la mia insegnante! Si scusava per l’ora, sapeva che era tardi ma voleva dirmelo il prima possibile e quindi ha provato a chiamarmi e così…»
«Emma, arriva al punto! Che ti ha detto?» disse scuotendola.
«Sono stata presa, Killian! Ho la borsa di studio! Non ci credo! Non ci credo!» disse, saltandogli di nuovo al collo.
Le lacrime punsero anche gli occhi cobalto di Killian, ma il giovane le ricacciò indietro, ingoiando quel grosso malloppo che gli era salito in gola. Si limitò a stringerla e a carezzarle la schiena e ad inspirare il suo profumo.
«Brava la mia piccola ballerina…» disse, dopo che Emma si calmò un po’. Continuava a ridere e piangere contemporaneamente. Cercava di mascherare quanto poteva quella strana sensazione, quella tristezza che gli attanagliava il cuore, sapendo che prima o poi avrebbe dovuto salutarla.
Una parte di lui, sperava che Emma restasse sempre lì con lui. Era da egoisti e lo sapeva, ma non poteva farne a meno. L’altra parte però, quella più razionale, era felice per lei, felice che potesse realizzare il suo sogno e spiccare il volo.
«Sono felice per te!» disse, cercando di convincere anche sé stesso.
«Grazie, di tutto!» gli rispose, scompigliandogli i capelli e continuando ad abbracciarlo.
«A proposito, cosa volevi dirmi?»
«Oh, niente di importante! Lascia perdere!»
Avrebbe dovuto dirle addio, a cosa sarebbe servito rivelarle ciò che realmente provava per lei?
 
 
Aprì la portiera della macchina grigio metallizzato di David e si accomodò sul sedile di pelle.
«Finalmente amico! Credevo sarei morto quaggiù ad aspettarti!» lo prese in giro David. Era impeccabile nella sua solita camicia a quadri e i jeans larghi. Gli davano quell’aria da eterno cowboy. Killian riusciva ad immaginarselo perfettamente con un largo cappello, intento a catturare con un lazzo un cavallo o a cavalcare un toro imbestialito.
Rise scuotendo la testa per cacciare via quell’immagine dalla mente. Chissà, magari se un giorno il suo amico avesse festeggiato un addio al celibato, si sarebbe sicuramente divertito.
«Non è colpa mia se qualcuno è talmente impaziente da presentarsi un quarto d’ora prima del previsto!» sbuffò Killian, aprendo il finestrino.
David non rispose ma Killian notò uno strano fremito. Sì, era decisamente impaziente. La domanda era: perché?
«Robin?» chiese l’uomo, cercando di svelare l’arcano. Doveva essere cauto, indagare senza farsi scoprire; altrimenti David l’avrebbe accusato di volersi immischiare troppo e gli avrebbe intimato di farsi gli affari suoi. Sì, certo.
E poi lui e il suo amichetto, si divertivano alle sue spalle, organizzandogli appuntamenti ed intervenendo deliberatamente nella sua vita privata.
«Ci raggiunge tra un po’…»
L’uomo sbuffò.
«Come le ultime volte!» disse sarcasticamente, aprendo il porta oggetti di fronte a lui.
«Permettimi di ricordarti che ha una moglie in coma e un figlio di quattro anni Jones! E sta’ fermo per l’amor del cielo…» disse chiudendo con un colpo lo sportello.
Fantastico.
Killian avrebbe passato un’altra serata romantica in compagnia di David.
«Vuoi dirmi almeno dove stiamo andando?» chiese annoiato dopo qualche minuto di silenzio.
«Al Blue Mermaid Restaurant»
«Mai sentito nominare» disse Killian, facendo mente locale di tutti i ristoranti che aveva visitato a New York.
«Oh vedrai, ti piacerà Capitano!» rise David, prendendolo in giro.
 
 
 
Buonasera a tutti!! :)
Grazie per essere arrivati fin qui!! Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto!! So che probabilmente vi aspettavate di leggere qualcos’altro ma per andare avanti nella storia, avevo bisogno di introdurre anche il personaggio di Killian.
Anche lui, come Emma ha un passato difficile. E nel presente, il suo miglior amico è niente meno che il nostro bel Principe Azzurro! #CaptainCharmingisTheWay :)
Così come per Emma e Regina, mi sono divertita tanto scrivendo di loro e della loro combriccola!! Soprattutto del primo incontro tra Killian e David xD
Anche in questo capitolo c’è un bel flashback e credo ce ne saranno ancora!
Ringrazio tutte voi che avete recensito il capitolo precedente <3 Grazie, grazie, grazie!! Non mi stancherò mai di dirlo!! Grazie perché sprecate un po’ del vostro tempo per me e questo mi rende davvero orgogliosa!! :D
Grazie anche a tutti voi, che avete inserito la storia nelle varie categorie e a tutti i “lettori silenziosi”! GRAZIE!
Se vi va, fatemi sapere il vostro parere anche su questo capitolo!!
Un abbraccio a tutti,
Kerri :*
 
 
 
 
PS: (SPOILER) Wicked is back, dearie!! Zelenaaa!! Ancora non ci credo! X.X
   
 
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