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Autore: Afaneia    17/04/2015    3 recensioni
È l'anno della prima edizione della Lega Pokémon: Samuel Oak è un valido allenatore all'inizio di una brillante carriera. Tutto ciò che vuole è affermarsi e competere con avversari del suo livello.
Agatha ha diciott'anni, è testarda e impulsiva, orgogliosa e severa con se stessa e con gli altri.
Il loro è un legame inaspettato, guidato dall'ambizione e dalla fame di avventure. Ma proprio questa ricerca di avventure finirà per condurli in una spirale di eventi agghiaccianti e irresistibili, in una tragedia di cui non volevano affatto essere i protagonisti, tanto spaventosa e irreale da essere destinata a rimanere per sempre segreta...
Genere: Avventura, Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agatha, Prof Oak
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
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Capitolo VI – Dubbio.


Trascorsero giorni ardenti e intorpiditi, avvolti nelle spire brucianti di una febbre che era l'assenza di Agatha.

Gli sembrava non esservi luogo in tutta Kanto che non gli parlasse di lei, e non soltanto perché vi fossero stati insieme. Semplicemente gli sembrava di vivere in un mondo nel quale i suoi occhi lo scrutavano dal cielo nero che lo ricopriva di notte, nel quale i suoi ribelli capelli castani parevano flettersi al vento nelle spighe dorate dei campi di grano. Agatha gli mancava e il suo cuore la cercava ovunque, e questo lo umiliava e lo adirava perché era arrabbiato, era furioso con lei. Agatha l'aveva cacciato, aveva rinnegato tutto ciò che erano e che avrebbero potuto essere, allora perché avrebbe voluto ritrovarla?

Si allenò svogliatamente in solitudine, scegliendo i luoghi dove reputava assai meno probabile che si recasse anche lei, ma senza convinzione o entusiasmo. Persino la prospettiva del Torneo gli sembrava aver perso ogni possibile attrattiva ed egli continuava a dedicarvisi solo per non avere altre idee: dopo la Lega, pensava, si sarebbe recato a Johto per qualche mese. In quella regione avrebbe forse potuto sperare di scordarsi di lei.

Il primo di giugno sorse su un Altopiano Blu soleggiato e spazzato dal vento. L'androne era gremito, l'aria quasi irrespirabile mentre gli addetti si occupavano delle operazioni di riconoscimento dei partecipanti. C'erano iscritti di tutte le età, che parlavano tra loro mescolandosi e scontrandosi in un brusio indistinto di accenti e voci diverse: sembrava proprio l'occasione adatta per fare conoscenza e stringere nuove amicizie, ma in quel momento, sentendosi profondamente lontano da tutti coloro che lo circondavano, Samuel non era in grado di fare altro che sedere in silenzio in un angolo della sala, cogli occhi inquietamente infissi sulla porta principale.

Aspettava Agatha sin dalla mattina.

Non le avrebbe parlato, ovviamente, questo era ben chiaro nella sua mente sin da quando per la prima volta, pochi giorni prima, aveva affrontato il problema del loro probabile incontro al Torneo; no, non l'avrebbe neppure salutata, per evitare l'imbarazzante mortificazione di veder rifiutato il proprio saluto. Ma di non vederla no, non ce n'era bisogno, ed egli aveva saputo fin dal primo momento che, del resto, non gli sarebbe stato possibile trattenersi dal cercarla, sapendola tanto vicina. Come del resto avrebbe potuto, quando i suoi occhi l'avevano cercata persino nelle campagne assolate, nelle distese scure del mare notturno?

Le operazioni di riconoscimento e accettazione dovevano concludersi alle tredici del pomeriggio, ma già intorno a mezzogiorno la maggior parte dei presenti aveva già completato le ultime formalità. A mezzogiorno e mezzo, tutti erano ormai stati registrati e attendevano con vaga impazienza l'inizio del Torneo.

A mezzogiorno e quarantacinque, Samuel non aveva ancora visto Agatha.

Lo riempì un senso greve d'angoscia. Era stato tra i primi ad arrivare sull'Altopiano, quella mattina, assieme a una manciata di altri ragazzi: se Agatha fosse stata tra loro, l'avrebbe vista sicuramente nel salone quasi vuoto. Nelle ore seguenti, egli aveva sorvegliato la porta quasi ininterrottamente, aveva tenuto d'occhio la lunga fila che si stendeva dal bancone dell'accettazione, aveva scorso distrattamente con lo sguardo la folla chiassosa di allenatori che lo circondava e non poteva non esserne certo: semplicemente, Agatha non era venuta.

Quella conclusione lo sprofondò nella confusione. L'idea che Agatha decidesse di non partecipare al Torneo non l'aveva mai neppure sfiorato, e come sarebbe stato possibile? Rifiutò d'istinto il pensiero che avesse potuto rinunciare per non incontrarlo: no, Agatha, l'orgogliosa Agatha con i suoi atteggiamenti di superiorità sarebbe venuta apposta per poterlo affrontare e potergli dimostrare che non aveva bisogno di lui, che era forte e indipendente e che non necessitava del suo permesso – cosa di cui Samuel non aveva mai dubitato, malgrado ciò che le aveva detto.

Si alzò lentamente in piedi dall'angolo che aveva occupato per tutto quel tempo e attraversò a grandi passi la sala, guardandosi attorno con grande attenzione per esaminare con lo sguardo i vari gruppetti che si erano formati, alla ricerca di una massa di morbidi capelli castani, di un paio di neri occhi profondi sovrastati da scure sopracciglia dal taglio duro e altero... ma proprio come aveva in fin dei conti sempre saputo, Agatha non si trovava. Ma se non si era tirata indietro all'ultimo momento – e questa possibilità Samuel non riusciva nemmeno volendolo a prenderla in considerazione – allora l'unica ipotesi che rimaneva era più inquietante e angosciante ancora della prima e cioè che qualcosa doveva averla trattenuta. Ma cosa?

La Torre Pokémon, gli disse una voce nella sua testa, ma egli respinse anche quest'idea con un brivido. E perché no? Una ragazza sola, di notte, in quell'edificio abbandonato... No, Agatha c'era stata altre volte, persino da bambina, gliel'aveva detto lei stessa; aveva una forte squadra in grado di difenderla... È stata ai primi piani, ma stavolta voleva salire fino agli ultimi.

Basta! Non poteva più non sapere. Continuò a percorrere ansiosamente la sala, mancavano solo pochi minuti all'inizio del Torneo: cosa doveva fare?

«Ehi, Samuel! Allora, sei pronto?»

Si voltò di scatto, col cuore che balzava di aspettativa e poi subito tornava a rallentare i suoi battiti: eppure era Jake, Jake col suo fisico robusto e ben piantato e gli occhi luccicanti di eccitazione e compiacimento! Gli fu addosso in un istante, sentendosi come di fronte a un araldo del destino: non poteva essere un caso incontrarlo lì, tra tutti, in quel preciso istante in cui egli tra loro cercava Agatha.

«Jake! Jake, hai visto Agatha?»

«Agatha?» Jake scosse la testa senza la minima esitazione; il suo viso entusiasta, luminoso, non ebbe alcuna perplessità. «No, ma mi piacerebbe salutarla. L'hai persa di vista tra la folla?»

Quell'ultima, minuscola speranza che gli rimaneva si spense nel suo petto: Samuel si sentì proiettare a una distanza incolmabile, insuperabile da quella sala affollata, in uno spazio interstellare e silenzioso nel quale gli mancava l'aria e non riusciva a pensare. Non rispose.

Al suo silenzio, Jake ebbe finalmente un lampo di dubbio. «Non è venuta qui con te?» chiese cautamente. «Pensavo che foste fidanzati, voi due.»

Samuel riuscì appena a scuotere la testa, guardando altrove. Si sentiva mancare la voce, e solo con un notevole sforzo di volontà riuscì a mormorare: «Abbiamo litigato.» Non sapeva in quale senso Jake avrebbe interpretato queste parole e francamente non gli interessava neppure.

«Oh... accidenti.» Jake assunse un'aria impacciata, come se temesse di aver fatto una gaffe imperdonabile, ma parve sinceramente dispiaciuto. «Mi dispiace un sacco, ma farete pace, vedrai» esclamò in tono conciliante. «Si vede che siete fatti l'uno per l'altra.»

Samuel sarebbe altrove arrossito, avrebbe protestato che lui non era affatto innamorato di Agatha, che la vedeva solo come un'amica, ma dopo aver ignorato e rintuzzato per settimane qualsiasi ombra di questi sentimenti in un angolo remoto e appartato della propria mente, non si sarebbe di certo soffermato a riflettervi o a discuterne in quei momenti d'urgenza. Tutto ciò che contava era la salute di Agatha.

«Dev'esserle successo qualcosa, Jake» disse ansiosamente. Non sapeva neppure perché gliene stesse parlando, visto che Jake non poteva avere idea di cosa fosse accaduto tra loro, e neppure di quanto complicata e incostante Agatha fosse, eppure provava un bisogno quasi fisico di parlarne a qualcuno, di esprimere ad alta voce quel dubbio inquietante che lo stava consumando, di renderlo reale e razionale e poterne discuterne.

«Oh, Samuel!» Jake scosse enfaticamente la testa, sorridendo di lui quasi con compassione. «L'amore non ti fa ragionare, eh? Ma sono certo che non è successo assolutamente niente. Agatha non è venuta perché non voleva incontrarti, tutto qui.»

Ma certo, era ovvio che Jake non potesse capire: non conosceva Agatha, coi suoi difetti e il suo ego, il suo orgoglio e la sua attitudine alla sfida. Per lui, tutte le ragazze non erano che una massa indistinta di creature vezzose e incostanti, irrazionali e fragili e in ogni caso incomprensibili; ma in quell'idea che Samuel stesso aveva sempre condiviso del mondo delle donne, in quella massa imprecisata di vestiti e voci squillanti, egli sapeva che Agatha si stagliav a su un piano più elevato, si differenziava per la sua alterigia e il suo coraggio e la sua incrollabile determinazione. Egli sapeva perfettamente di non avere alcuna prova concreta per temere veramente per lei, eppure una voce continuava a mormorare da qualche parte in fondo alla sua mente: Ti aveva chiesto di andare con lei.

In quel momento un gong rintoccò all'altoparlante e una voce di donna annunciò che le operazioni si erano ufficialmente concluse e che tutti gli allenatori erano pregati di recarsi nell'arena fuoristante. Jake parve dimenticarsi istantaneamente dell'argomento della loro conversazione.

«Ah! Si comincia» esclamò in tono eccitato. «Vieni, Samuel, andiamo. Non ci pensare, eh? Risolverete tutto dopo il Torneo, ne sono sicuro.»

Sì, tutti gli allenatori che li circondavano si stavano alzando, raccoglievano le loro cose, si avviavano verso l'arena. Sentendosi perduto all'interno di quella fiumana di gente che lo urtava, Samuel sentì come di star nuotando controcorrente in un fiume che lo affogava. Sarebbe stato semplice abbandonarsi a quella corrente, seguire gli altri allenatori, raggiungere l'arena e pensare ad Agatha solo più tardi, a Torneo finito: quella era l'occasione della sua vita e non doveva niente a quella ragazza, non era suo padre o suo fratello o il suo fidanzato, come ella gli aveva tanto amaramente ricordato, era solo un amico (e forse nemmeno più quello!) che lei non aveva voluto ascoltare quando avrebbe potuto. Aveva fatto di testa sua, come al solito, ed egli non aveva nessuna responsabilità. Ma in quel fiume di eventi che lo trascinava, Samuel continuò a dare bracciate furiose e sfiancanti e udì la propria voce vacua dire: «Vado a cercarla.»

«Stai scherzando, vero? Sta iniziando il Torneo!»

Samuel scosse la testa. «Vai tu e divertiti. Vinci anche per me. Io non posso.»

«Tu sei pazzo.» Jake lo scosse per le spalle, fissandolo incredulo. «Samuel, tu sei qui ora. Puoi andare a cercarla domani. Di sicuro avrà cambiato idea.»

«Tu non capisci, Jake... Agatha non l'avrebbe mai fatto.»

Forse Jake lesse la sua determinazione nei suoi occhi, comprese quanto forte fosse in lui il bisogno di accertarsi che Agatha stesse bene. In ogni caso lo lasciò e proseguì a bassa voce, ma con aria profondamente delusa: «Come vuoi, allora. Spero che tu non debba pentirtene.»

Samuel sorrise appena in risposta. «Buona fortuna, Jake. Ricordatevi anche di noi quando berrete coi soldi della scommessa.»

Pochi minuti dopo, egli fendeva il cielo sul dorso di Charizard, diretto verso est.


Era stato di rado a Lavandonia, ma non era una città nella quale fosse molto difficile orientarsi, pur conoscendola appena: anche trovare la casa di Agatha, che era l'ostacolo che maggiormente aveva paventato venendo lì, non si rivelò particolarmente difficile: la famiglia di Agatha era una delle più importanti della città ed egli non ebbe problemi a farsene indicare la casa.

Non aveva idea di cosa si era aspettato di trovare. Era una villa modesta, che avrebbe fatto pensare piuttosto a una famiglia benestante che aristocratica, e tuttavia il suo aspetto squadrato, maschio, imponente gli trasmetteva un senso di autorevolezza e minaccia. Agatha non poteva che essere cresciuta in una villa del genere, pensò, sola e senza i suoi genitori. Il cancello era chiuso: aldilà di esso, tutto era immobile e silenzioso. La casa avrebbe potuto benissimo essere disabitata da mesi, con le sue imposte chiuse, eppure egli sentiva, egli sapeva che Agatha era lì, era vicina, raggiungibile...

Il cancello era alto a dir molto un paio di metri. Samuel non aveva mai fatto nulla del genere in vita sua, ma aveva un corpo forte e atletico di vent'anni e dopo tanti viaggi, dopo aver scalato la grotta delle Spumarine – quanto dolorosamente ora gli tornava alla memoria quel ricordo! - un cancello di ferro battuto non rappresentava di certo un problema.

Si guardò nervosamente attorno, ma non ce n'era bisogno: la strada era deserta, la casa isolata. Si caricò meglio sulle spalle il peso dello zaino, si aggrappò alle robuste sbarre scurite e cominciò a salire.

Nel giro di un minuto aveva raggiunto il portone e vi si era letteralmente scagliato contro. Se avesse potuto, l'avrebbe abbattuto, ma dovette accontentarsi di tempestarlo di pugni e di grida.

«Agatha! Sono io, sono Samuel. Stai bene?»

«Ti prego, Agatha, aprimi! Voglio solo parlarti.»

«So che sei arrabbiata, ma ti prego, voglio solo sapere se stai bene!»

«So che sei qua dentro, Agatha!»

Perché egli lo sapeva, lo sentiva che Agatha era a pochi metri da lui, e non importava che non fosse in grado di spiegare perché: semplicemente, egli ne era certo, ed era altrettanto certo che non lo stava ignorando soltanto perché era arrabbiata. Agatha aveva bisogno di lui.

Doveva entrare in quella casa a qualsiasi costo. Percorse a grandi passi il lato frontale dell'edificio, si avvicinò alla prima finestra chiusa: le imposte erano serrate, ma piuttosto vecchie, e chinandosi, torcendosi, sbirciando, Samuel riuscì a scorgere con grande fatica qualcosa dell'interno: era un salottino d'ingresso accogliente ma semibuio, con larghe pozze di tenebra ai margini del suo campo visivo e, proprio sul divano, una magra silhouette di donna dai lunghi capelli scuri...

Non poteva più aspettare. Agatha non lo stava ignorando, di questo egli era certo, e ora doveva aiutarla. Tornò di corsa al portone, col respiro che si faceva affannato e ansimante e nervoso, e vi abbatté disperatamente l'ultima definitiva scarica di pugni.

«Agatha! Aprimi, o butterò giù la porta.»

Non vi fu risposta, e di certo Samuel non se ne era aspettata una: riusciva quasi a vederla fisicamente, nella sua mente, seduta all'interno di quella casa silente colle braccia incrociate e gli occhi infissi sulla porta, in una tacita, ansiosa sfida alla sua volta, in attesa di scoprire se avrebbe davvero fatto qualcosa di così sbagliato...

Ma in quel momento, neppure se l'avesse voluto Samuel avrebbe potuto trattenersi: nella sua mente ottenebrata dalla paura per Agatha, i valori morali e le regole scritte non trovavano più alcuno spazio che valesse la pena d'essere preso in considerazione.

La porta era ovviamente troppo spessa e robusta per poter anche solo pensare di riuscire ad abbatterla con le sue forze. Samuel gettò al suolo una Pokéball, liberando di nuovo nell'ampio giardino il suo Charizard.

«Charizard, aiutami! Dobbiamo buttare giù la porta!»

Non occorreva possedere lo stesso numero di muscoli facciali di un essere umano per esprimere stupore: sul suo duro volto squamoso, gli occhi di rettile di Charizard si strinsero scrutandolo fissamente. Ma Samuel lo guardò con disperazione crescente, accennandogli la porta con gesto di preghiera.

«Ti prego, Charizard! È per Agatha.»

Questo fu sufficiente a fargli intendere quanto importante e urgente quel compito fosse per lui. Charizard lo scostò semplicemente dalla porta con un braccio robusto: con un moto di profonda gratitudine nei suoi confronti, Samuel si fece obbedientemente da parte mentre il suo Pokémon si scagliava in avanti.

L'impeto di Charizard fu tale da sollevare la porta dai cardini e rovesciarla al suolo in una nube di polvere e schegge di legno. Samuel entrò come una fiumana irrefrenabile, ma una fredda voce femminile ordinò: «Fermati.»

Agatha era seduta immobile al tavolo davanti a lui, coi lunghi capelli sciolti e spettinati che scendevano in cascate disordinate sulle sue spalle, incorniciando un bianco volto stravolto e smagrito, con grandi occhiaie sotto gli occhi divenuti spettralmente enormi. Indossava ancora gli abiti che Samuel le aveva visto addosso qualche giorno prima, quando si era diretta a Lavandonia, ma non fu questo a sconvolgerlo.

C'era una pistola appoggiata sul tavolo davanti a lei, e la sua pallida mano esile riposava, priva di forza e di decisione, accanto alla sua impugnatura.

«Agatha...»

«L'ho visto, Samuel. Ho visto quell'uomo. È tutto vero...»

I secondi gocciolarono tra loro come acqua, increspandosi tra le pareti di quella stanza.


In quel tempo smisuratamente dilatato, Samuel mosse un passo in avanti con lentezza innaturale e grottesca e udì la propria voce lontana dire: «Agatha, no.»

«Fermati, Samuel.»

«Agatha, ti prego...»

«Se fai ancora un passo, sparo prima a te e poi a me.»

Samuel s'immobilizzò bruscamente davanti alla canna della pistola che lo scrutava inappellabilmente, mentre il tempo ricominciava a scorrere e pareva rifrangersi come onde sulle pareti intorno a loro. Quando aveva alzato la pistola?

«Agatha, che cosa è successo?»

Gli occhi della ragazza erano folli ma incrollabilmente determinati. Con la massima lentezza, spostò lentamente la pistola verso la propria tempia. La sua mano non tremava.

«Avevano ragione loro, Samuel. Lassù, al sesto piano... ho visto una cosa orribile.»

La bocca della pistola era appoggiata contro la sua tempia pallida, tra le folte onde di capelli: Samuel la vide con tanta vividezza da immaginarne la sensazione di gelo sulla pelle. Il dito di Agatha sul grilletto tremava leggermente, Samuel lo vide dal riflesso vibrante della luce sulle sue unghie a confetto, eppure sapeva che quella lieve manifestazione d'incertezza non sarebbe stata sufficiente a fermarla. La sua mente vagliò freneticamente una serie di possibilità: poteva cercare di balzarle addosso per strapparle l'arma di mano, ma ammesso che Agatha non si fosse sparata al suo primo movimento, ci sarebbe comunque stata una colluttazione. Poteva cercare di convincerla a posare la pistola, ma conoscendola sapeva che questo l'avrebbe agitata di più.

«Parlamene, Agatha» disse allora. «Raccontalo anche a me. Che cos'hai visto?»

La mano di Agatha conobbe un tremito improvviso: per la prima volta da quando egli la conosceva, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Allontanò dalla tempia la canna della pistola.

«Non vuoi saperlo, Samuel. Nessuno deve saperlo.»

«Dimmi perché, Agatha» insisté Samuel, con voce forzatamente calma e controllata quando invece avrebbe voluto urlare. «Ti prego, dimmelo. Ti prometto... ti prometto che quando me lo avrai raccontato non farò niente per impedirti di...»

«Non sono pazza, Samuel!» esclamò la ragazza, riavvicinando furiosamente la pistola alla propria tempia con un lampo folle negli occhi. La sua voce aveva un accento disperato che Samuel non avrebbe mai potuto immaginare da lei: ebbe un fremito involontario, ma Agatha non lo notò. «Ti giuro che è la verità!»

«So che non sei pazza» disse. Ora era la sua voce a tremare. Socchiuse per un attimo gli occhi e, con sforzo indicibile, proseguì. «Per questo voglio che tu me lo dica.»

«Esiste davvero, Samuel» sussurrò Agatha, spalancando ancor più gli occhi già innaturalmente grandi. «Te lo giuro. Quello che chiamano il sepolto vivo.»


Non era possibile, era assurdo. Quelle parole, sepolto vivo, si rifransero contro le sue orecchie incredule senza riuscire a penetrare realmente le difese della sua mente, erano incredibili, irripetibili.

Sepolto vivo. Poteva davvero Agatha, la razionale, scettica Agatha aver realmente pronunciato quelle parole? No, era assurdo, era...

«Vattene, Samuel» disse Agatha. I suoi occhi erano ancora seri e disperati. «Hai promesso. Ora devi andartene.»

Certo, aveva promesso, ma nella sua mente la promessa non aveva alcun valore, perché egli sapeva che proprio quando lo cacciava da sé Agatha aveva più bisogno di lui, e che proprio ordinargli di andarsene era l'unico modo che il suo orgoglio conoscesse per gridargli di aiutarla. Si sentiva ancora incredibilmente lontano da lei, a una distanza infinita dal divano dal quale Agatha lo stava minacciando e inconsciamente implorando, eppure doveva aiutarla.

Avanzò.

«Fermati!»

Ora la pistola era nuovamente puntata su di lui, puntata in un modo tremante e incerto, e Agatha era terrorizzata. Si ritrasse sul divano.

Samuel non aveva davvero idea di cosa stesse facendo, ma questo non aveva importanza. Sapeva di non poterla disarmare con la forza, perciò non gli restava che credere alla sua richiesta d'aiuto, a quella parte di lei che in quel momento – egli lo sapeva, ne era certo – voleva davvero soltanto ch'egli le credesse e la salvasse da se stessa. Mosse ancora un passo avanti.

«Se fai ancora un passo...!» esclamò Agatha con ansia crescente, annaspando sul grilletto, ma Samuel la interruppe prima che potesse finire.

«Lo so. Spari prima a me e poi a te.»

Non si sentiva affatto coraggioso e neppure aveva un piano. Agatha non era in sé: era sconvolta, era pazza, aveva bisogno di aiuto ed egli era quasi certo che avrebbe sparato, eppure non aveva alternative: se voleva aiutarla, doveva farlo così. Socchiuse per un istante gli occhi di fronte all'ineluttabilità dell'arma puntata su di lui e follemente pregò che Agatha mantenesse la parola e sparasse davvero prima a lui prima di rivolgere la pistola verso se stessa, perché che senso avrebbe avuto vivere in un mondo privo di lei?

Ora le mani di Agatha tremavano incontrollabilmente, ma Samuel non approfittò neppure di quel momento per tentare di disarmarla fisicamente. Aspettò con la massima calma, ma senza sapere neppure cosa con precisione, con gli occhi infissi in quelli di Agatha che erano lucidi e arrossati, esageratamente grandi e gonfi.

«Samuel, per favore...»

Ma poi la sua preghiera scemò in un silenzio attonito e stupefatto. All'improvviso le braccia di Agatha le ricaddero pesantemente contro i fianchi, la pistola rotolò da qualche parte sul tappeto, sotto il tavolo, ed ella, semplicemente, fece per alzarsi e si accasciò al suolo.

Finalmente quello strano incantesimo parve spezzarsi, il tempo smise di scorrere troppo lentamente: Samuel balzò in avanti, scavalcando il tavolino, e sollevò stringendola quella magra figura esausta che lo scrutava come una bestia ferita. Sotto le sue mani, attraverso gli abiti divenuti troppo larghi, egli sentì che le sue costole sporgevano esageratamente. Da quanto tempo non mangiava?

«Agatha!»

Agatha si agitò appena tra le sua braccia, ma non fece niente per respingerlo, e i suoi occhi ora dicevano con sufficiente eloquenza ciò che la sua bocca voleva tacere. Gli appoggiò una mano sul braccio con aria terribilmente confusa.

«Samuel... mi credi, mi credi, non è vero?»

La sua bocca lo implorava, lo supplicava. Agatha aveva bisogno di lui e della sua fiducia, aveva bisogno che egli le credesse, e come si poteva non crederle? Samuel sentiva di crederle come a un bambino svegliatosi da un incubo lungo e tormentoso: le credeva come avrebbe creduto a quel bambino, al vero e sincero orrore suscitatogli da quel sogno, e nulla di più, perché certo lo spavento di Agatha era concreto e reale e innegabile. Perciò, stringendola appena a sé, mormorò contro il suo orecchio: «Ma certo che ti credo.»

Agatha serrò maggiormente la mano attorno al suo braccio in un gesto che era riconoscenza e bisogno di lui. Trasse un respiro profondo. «Grazie, Samuel, io... se tu non mi avessi creduto, avrei pensato di...»

Temendo che finisse per agitarsi di nuovo, Samuel le fece cenno di tacere poggiandole un dito sulle labbra fredde. Sapeva già anche troppo bene, senza bisogno che lo dicesse, cos'avrebbe pensato, e all'ipotesi che fosse pazza, ora, era bene non credere. Doveva occuparsi di lei e aveva bisogno di concentrarsi interamente su quel compito.

«Non importa, Agatha. Va tutto bene ora. Vieni...»

La sollevò da terra senza curasi delle sue reazioni, ed era un corpo minuscolo e tiepido che si strinse a lui involontariamente come in cerca di protezione.

No, quella non era Agatha, Samuel ne era certo e la sua consapevolezza si rafforzava ogni istante di più mentre scrutava il suo volto esangue e languido, reclinato sulla sua spalla. La vera Agatha, la sua Agatha mai gli avrebbe permesso di sollevarla così come una bambina, mai si sarebbe arresa a lui in modo tanto incondizionato e stremato. Provò una fitta di rabbia verso quella creatura mansueta e bisognosa che in tutto e per tutto ricordava Agatha, ma che non era, assolutamente non poteva essere lei e che in quel momento stava celando ai suoi occhi quella vera...

E tuttavia Agatha era lì, era nascosta da qualche parte nella ragazza affranta e spezzata che portava tra le braccia, il suo sguardo altero ardeva ancora in fondo a quei placidi occhi bovini, ed egli a qualsiasi costo l'avrebbe ritrovata.


Trascorse il pomeriggio sforzandosi di non pensare, di non riflettere: sentiva che se si fosse soffermato anche per un istante soltanto a chiedersi se Agatha fosse sincera o pazza, se gli avesse detto la verità o gli avesse piuttosto raccontato un incubo, non sarebbe stato in grado di prendersi cura di lei come doveva.

Quando Agatha si fu finalmente ritirata nella stanza da bagno al piano di sopra, Samuel richiamò ancora il suo Charizard e se ne fece aiutare a sistemare alla meglio la porta d'ingresso: il risultato non era certo un granché, ma avrebbe resistito finché non ci fosse stato il tempo di chiamare un fabbro.

Ripensò alla pistola solo nel momento in cui fece per muoversi verso la cucina e la vide sul tappeto, là dove Agatha l'aveva lasciata cadere. Gli salì un rinnovato senso d'angoscia: doveva fare in modo che Agatha non la trovasse. Alle spalle del divano, dirimpetto alla porta, c'era un'ampia credenza dalle cui ante occhieggiava verso di lui un servizio di piatti d'aspetto antico. La chiave era inserita nella serratura. Samuel sapeva anche troppo bene che era un nascondiglio ridicolo e pericoloso, ma non conosceva quella casa abbastanza bene da cercarne uno migliore: aprendo le ante con grande lentezza per evitare che tintinnassero, nascose accuratamente la pistola dietro una pila di piatti e pregò che Agatha non fosse solita osservare quella vetrina con troppa attenzione.

I piatti gli diedero un nuovo pensiero, assai più urgente, tanto che Samuel si sorprese di non avervi pensato prima: da quanti giorni Agatha non mangiava? Represse furiosamente il pensiero assillante di cosa potesse averla ridotta in quello stato, poiché non poteva, no, assolutamente non poteva permettersi di pensarvi.

La cucina era sorprendentemente moderna, ma quando Samuel provò ad aprire il grande frigorifero all'americana, lo trovò pietosamente vuoto. Era ovvio, si disse con rabbia, sbattendo con forza la porta per richiuderla: era stato assurdo anche solo credere che vi avrebbe trovato dentro qualcosa. Aprì una dopo l'altra le varie dispense, sentendosi drammaticamente smarrito dalla quantità di pentole e posate e piatti che gli sembravano decisamente sovrabbondanti anche per una famiglia numerosa, per non parlare di una ragazza sola.

Proprio la penuria di viveri contribuì a fargli ricordare che uno stomaco vuoto da molto tempo può rifiutare il cibo. Non ricordava dove avesse letto o sentito quest'informazione, ma gli parve particolarmente preziosa quando riuscì finalmente a recuperare, da qualche parte in fondo all'ennesima dispensa, una piccola scorta di scatole di zuppa instantanea, dalle etichette un po' fuori moda, ma le cui scandenze erano ancora da venire.

Quando Agatha lo raggiunse, una ventina di minuti dopo, con l'espressione di qualcuno che lo avesse cercato per un po' in casa, i capelli le scendevano ora sulle spalle in quella massa districata e luminosa, vaporosa e spettinata ch'egli aveva conosciuto nel mese precedente, ancora vagamente umidi: attorniato da quella nube gonfia e ariosa, il pallore del suo volto smagrito sembrava risaltare in modo ancora più inquietante, ma Samuel si sforzò di sorriderle come se nulla di terribile e assurdo fosse mai avvenuto tra di loro, come avrebbe fatto se l'avesse vista scendere dalla sua camera in una delle loro tante mattinate trascorse in un Centro Pokémon, o come di certo aveva fatto al vederla svegliarsi dopo uno dei loro accampamenti notturni.

Trattenendosi sulla soglia della cucina, Agatha non gli sorrise in risposta, ma Samuel vide i suoi occhi illuminarsi un poco al di sopra delle profonde occhiaie scure. Sentì che una morsa di dolore gli stringeva le viscere a quella vista: possibile che potesse esistere al mondo qualcosa, anche solo un'allucinazione in grado di ridurla così?

Dopo lunghi secondi, Agatha parlò. Disse: «Perdonami, Samuel. Sai bene che l'ultima cosa che avrei voluto è esserti di peso.»

Come dirle che egli non voleva altro che essere lì, di più: che non avrebbe potuto trovarsi in nessun altro luogo senza che il suo cuore la bramasse e la cercasse e avesse bisogno d'esser certo di dove si trovasse; che avrebbe avuto decine di giustificazioni per rimanere sull'Altopiano Blu, ma che non aveva avuto bisogno che di una sola per andarsene? Eppure si trattenne. Per la prima volta in quel momento gli attraversò la mente il fugace pensiero che Agatha poteva non avere idea di che giorno fosse e che proprio per quel motivo, forse, non si era rpesentata al Torneo quel mattino. Informarla bruscamente non poteva essere una buona idea e decise di affrontre con calma quell'argomento.

Le accennò col capo al tavolo della cucina: non aveva realmente apparecchiato, ma confidava che dopo anni di pranzi all'aperto Agatha non avrebbe fatto problemi. Si sentiva un po' impacciata. «Ho pensato che avessi fame.»

«Grazie.» Accostandosi al tavolo, Agatha fissò in silenzio per un istante la scodella di zuppa precotta, ma ancora fumante. Teneva le braccia conserte sul petto e in quel gesto che le era tanto naturale Samuel notò con una fitta di dolore quanto gli abiti che indossava le stessero larghi.

«Non vuoi tenermi compagnia?» domandò a bassa voce levando gli occhi su di lui. Si sforzava di sorridere, ma le sue labbra erano pallide e i suoi occhi soffusi di una languida foschia.

«Non ho fame» disse Samuel nervosamente, e per una volta in vita sua non era una bugia. Sentiva che se avesse mangiato qualcosa avrebbe vomitato.

Le spostò la sedia per farla sedere, proprio come tante volte aveva fatto nel mese precedente, e sedette accanto a lei. Agatha cominciò a mangiare lentamente, in silenzio, e Samuel dovette complimentarsi con se stesso: era evidente che persino sorbire cibi liquidi doveva costarle un'immensa fatica. Si fermò a riprendere fiato dopo poche cucchiaiate, poggiandosi una mano sullo stomaco come se si sentisse già gonfia. Poggiò il cucchiaio contro il bordo della scodella con un tintinnio sonoro,

«Perché sei venuto a cercarmi?» chiese direttamente, guardandolo negli occhi. Samuel non poté tratenere un sospiro: non poteva proprio evitare di dirle che giorno era. Sostenne con forza il suo sguardo.

«Ero convinto che ti avrei incontrata questa mattina sull'Altopiano Blu, ma quano non ti ho vista ho capito subito che doveva esserti successo qualcosa.»

Rimase a fissare la consapevolezza farsi strada dentro di lei attraverso le espressioni del suo viso. Gli occhi d Agatha si spalancarono via via ch'ella comprendeva il significato delle sue parole, collegava le date agli eventi, ripercorreva colla memoria i giorni trascorsi... si coprì la bocca con la mano e per un attimo Samuel temette che i suoi nervi avrebbero ceduto di nuovo, ma finalmente ella mormorò: «È passato tanto tempo?»

Samuel assentì col capo, senza saper che dire. Lo stupore doloroso negli occhi di Agatha lo ammutoliva tanto che distolse lo sguardo: la sua mente affaticata e sconvolta sembrava quasi stentare a collegare quelle informazioni, dopo tanta nebbia di confusione. Si passò una mano tra i capelli in disordine.

«Ma tu sei qui, ora» balbettò. Non aveva bisogno di dire altro. Prima che quel pensiero potesse turbarla troppo, Samuel si protese verso di lei e le prese cautamente la mano senza stringerla. Questa volta neppure per un istante distolse gli occhi dai suoi.

«Non sarebbe stato lo stesso, da solo.»

La mano di Agatha parve rilassarsi sotto la presa della sua, tuttavia ella non fece nulla per allontanarla o sottrarsi a quel contatto. Tornò a scostarsi le ciocche ribelli dalla fronte con la mano libera e le sue labbra si piegarono a modulare un grazie che non assunse mai voce, ma che a lui parve più chiaro e più udibile di decine di parole diverse.

Sottraendo finalmente la mano alla sua, Agatha accennò a mangiare ancora un poco, ma dovette darsi per vinta dopo appena un paio di minuti: era evidente che anche la minima quantità di cibo era sufficiente a riempirla dopo giorni di digiuno quasi assoluto. Poggiò definitivamente il cucchiaio in segno di resa, gettandogli un'occhiata dispiaciuta, e si appoggiò contro lo schienale della sedia per riprendere fiato.

«Samuel...» cominciò. Ora la sua voce aveva un tremito esitante: Samuel si protese verso di lei col cuore colmo di trepidazione.

«Non pensavo nulla di quello che ho detto quel giorno. Questo non significa niente, ma grazie di essere tornato da me.»


Non vi fu modo di sapere alcunché riguardo a ciò che aveva visto, o forse piuttosto immaginato, all'interno della Torre. Ogni volta che Samuel provò ad avanzare con grande cautela qualche domanda, Agatha si chiuse perlopiù in un cupo mutismo terrorizzato: tutto ciò che acconsentì a dire fu che, in qualche modo, era riuscita a scappare. Questo sembrava per lei un pensiero odioso più che un sollievo, ed egli non stentava a indovinare perché: come poteva una creatura fiera e orgogliosa come lei ammettere di aver avuto paura, anche solo per un istante?

Indagare oltre e cercare di capire qualcosa di tutta quella storia era più che impossibile: era ovvio che doveva essersi immaginata tutto, ma come? Che il funereo ambiente della Torre l'avesse suggestionata a tal punto? Eppure era ridicolo, Agatha gli aveva ben detto di esserci stata altre volte, quand'era solo una bambina...! Ma tutto ciò che ebbe modo di sapere dopo una lunga serie di caute domande incerte fu la cosa che meno gli interessava: che la pistola era appartenuta a suo padre. Anche questo però parve turbarla un po' ed egli non volle insistere.

Provò allora a cambiare strategia e le chiese, con tranquilla indifferenza: «Hai trovato qualche traccia di quel Pokémon di cui...?»

Ma una semplice occhiata quasi impietosita di Agatha bastò a metterlo a tacere. Si strinse maggiormente tra le braccia. «Non mi hai ascoltata, Samuel? Aveva ragione quel ragazzo. È stato lui.»

Lui, lui, sempre lui, ma chi era questo lui? Il sepolto vivo? E com'era possibile credere a tanta assurdità? Samuel si sentiva la testa pulsare, come troppo piena d'informazioni, greve di dubbi e d'incertezze. Che Agatha fosse convinta di aver visto il sepolto vivo nella sagoma di qualche Pokémon selvatico? Che la sua mente avesse cercato d'interpretare e razionalizzare a quel modo un'ombra o un suono?

Comunque stessero le cose, da lei non c'era più da scoprire altro e continuare a infierire sarebbe stato semplicemente crudele. Samuel attese che Agatha acconsentisse finalmente, seppur malvolentieri, a riposarsi per qualche ora, per poter uscire e andare a procurare qualcosa da mangiare. L'idea di lasciarla sola gli dava un senso d'inquietudine non indifferente, ma si sforzò di soffocarlo e sopprimerlo: non aveva alternative, se voleva fare in modo che quella ragazza mangiasse qualcosa di solido. Poteva soltanto fidarsi di lei e sperare di essere riuscito a calmarla a sufficienza.

Si concesse di vagare per qualche minuto per le quiete strade di Lavadonia: l'aria di giugno si era rapidamente fatta calda a Kanto, ma in quegli antichi paesi dalle alte case arroccate sulle pendici dei monti, tanto addossate l'una all'altra da non lasciar passare la luce del sole sulle strade strette, si sentì a un tratto cogliere dai brividi. Non aveva addosso altro che la camicia, pensò chinando lo sguardo, e gli parvero passati giorni interi da quando l'aveva indossata, quella mattina, col cuore piendo di vaga ambizione al pensiero del Torneo, e anche di intensa trepidazione all'idea di rivedere Agatha. E poi, e poi...

Finalmente smise di respingere il pensiero di ciò che aveva visto quel giorno, doveva soffermarvisi, affrontarlo. Fermandosi bruscamente in mezzo alla piazza che stava attraversando, chiassosa e vivace ed echeggiante delle grida di un gruppo di bambini che giocavano rumorosamente vicino a una fontana, levò uno sguardo incerto sulla Torre Pokémon che svettava dall'altra parte della cittadina. Non c'era mai stato – aveva attraversato Lavandonia assai di rado e mai per scopi turistici – e a dire il vero l'aveva sempre degnata di poca attenzione, se non per considerarne talora la bella architettura armonica che pareva volersi congiungere al cielo; ma questo era quanto. Come forestiero non aveva mai saputo nulla di quanto vi accadeva all'interno, né delle grottesche abitudini dei Pokémon Spettro che lo abitavano, né delle leggende che Agatha gli aveva raccontato; e ora, invece...

In quella Lavandonia irrorata di sole, nel placido pomeriggio gioioso in cui i bambini urlavano e s'inseguivano e si schizzavano, credere alle parole di Agatha era semplicemente impossibile, ma proprio questo gli diede un grande dolore: era ovvio che il sepolto vivo non esistesse, ma in tal caso Agatha doveva averlo immaginato, e con tanta vividezza e realismo da pensare che togliersi la vita fosse l'unico modo per non doverlo ricordare oltre. Ripensò ai suoi occhi smarriti e terrorizzati, alla decisione delirante della sua voce confusa... cosa poteva averla sconvolta a tal punto? Considerò per qualche minuto l'idea di consultare un medico, ma decise che non era una buona idea: se un dottore l'avesse visitata con l'aria di voler mettere in dubbio le sue facoltà mentali, nel migliore dei casi Agatha si sarebbe infuriata. No, quell'idea era impraticabile, e Samuel si ripromise di far ricorso a un medico solo se strettamente necessario: per quanto lo riguardava, sentiva che occuparsi di Agatha era un suo preciso dovere, e poco importava ch'ella fosse tanto cambiata, forse persino ammattita. Fintanto che non fosse stata lei a cacciarlo, avrebbe fatto di tutto per far riemergere, da quella creatura smarrita dagli occhi annebbiati, la sua Agatha altera e insospettabilmente gioiosa.

Quando fece ritorno alla grande casa a nord di Lavandonia, forse un'ora dopo, scoprì con lieve rammarico che Agatha era già sveglia: stava armeggiando attorno a una grossa radio nel salottino. Samuel si fermò a guardarla un po' meravigliato, finché Agatha, percependo il silenzio invadente della sua presenza, levò lo sguardo su di lui.

«Sto cercando di farla funzionare» spiegò semplicemente, indicando la radio. Sembrava quasi contrariata di essersi fatta scoprire in quell'attività. «Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere sentire come sta andando il Torneo, dal momento che...»

Non concluse la frase, tornando seccamente a studiare la radio senza più guardarlo. Samuel si sentì interdetto per un attimo, ma poi, temendo che dar troppo peso a questo episodio potesse agitarla, si sforzò di riderne con naturalezza.

«Beh, credo che sia ovvio. Starà vincendo Jake, no?»

«Oh, senza dubbio» convenne Agatha, colla voce bassa vibrante di una risata, ma ancora senza levare gli occhi dal retro della radio.

Sapeva che il fatto che Agatha fosse tanto in sé da riuscire a concentrarsi su qualcosa di così pragmatico come far funzionare una radio avrebbe dovuto sembrargli un buon segno, eppure Samuel si sentì inspiegabilmente confuso. Sistemò rapidamente in cucina ciò che aveva comprato prima di tornare in salotto ad aiutarlo: come probabilmente molti ragazzi, quel genere di cose gli era sempre piaciuto, per quanto non avesse ovviamente occasione di dedicarvisi spesso, dato il mestiere che si era scelto. Era un modello piuttosto vecchio, risalente probabilmente agli anni dell'infanzia di Agatha, ma proveniente addirittura da Unima: portava la marca di una famosa, e costosa, casa produttrice di Austropoli.

Riuscirono a sintonizzarlo dopo una decina di minuti: la voce gracchiante di un telecronista stava descrivendo in quel momento uno scontro tra un Gengar e un Nidorino.* Trascorsero il resto del pomeriggio sul divano, seduti ad ascoltare in silenzio l'interminabile telecronaca delle battaglie: Samuel si sforzava di mostrarsi tranquillo e rilassato, ma con la coda dell'occhio osservava i movimenti e le reazioni di Agatha. Non era del tutto certo che riuscisse ad ascoltare tutta la battaglia con attenzione: sul suo profilo un tempo scostante, ma ora soltanto triste, i suoi occhi parevano talora farsi estranei e distanti, coperti da una foschia impenetrabile, ed ella gli sembrava in quegli istanti incredibilmente lontana. Allora avrebbe voluto tendere la mano e toccarla, ricordarle la propria presenza e confortarla, comunicarle che era al sicuro, ma sapeva che il suo bisogno di raggiungerla era anche altro da ciò: era il desiderio profondo e incontrastabile, dopo tutti quei giorni di terribile assenza, di stabilire un contatto e sentire di averla ritrovata. Tuttavia egli sentiva che, in quel frangente, approfittare della sua debolezza sarebbe stato imperdonabile, e si trattenne.

La sera incominciò a calare attorno a loro, appena fuori dalle mura spesse che li circondavano: una sera tiepida, ancora rosata, che gettava sulle brulle pendici dei monti i suoi riflessi dorati. Di lì a poco le battaglie ebbero fine: la seconda parte delle sfide avrebbe avuto luogo il giorno seguente, per dar modo a tutti i concorrenti di combattere colla luce.

Agatha parve riscuotersi con la fine della trasmissione. Spense lentamente la radio, come se non sapesse bene cosa fare, e si voltò verso di lui. Per l'ennesima volta, Samuel fu colpito dal pallore del suo volto.

«Speriamo che Jake non abbia ancora combattuto» commentò scherzosamente, facendo per alzarsi. A giudicare dal declinare del sole dietro le cime dei monti dovevano essere le otto passate, perciò domandò: «Hai fame?»

Agatha sembrò dover riflettere persino su quella domanda tanto concreta e immediata, come se da lungo tempo non avesse più riflettuto sulle reazioni del suo corpo, ma infine annuì.

Misero assieme una cena alla buona – Samuel aveva scoperto con profondo scorno che cucinare su un fornello a gas era piuttosto diverso che farlo su un fuoco da campo – e sotto il suo sguardo vigile Agatha si sforzò di mangiare un po' di più, ma pochi bocconi di pane e di carne furono più che sufficienti a saziarla completamente: sapendo che il suo corpo aveva bisogno di riabituarsi ai cibi solidi, Samuel evitò d'insistere.

Accadde quando ormai persino l'uniforme luce grigia della sera aveva già ceduto il passo alla piena oscurità ed essi stavano riordinando la cucina: la notte lavandoniense era calata sulle case come un manto. All'improvviso, mentre Samuel era chino per una qualche ragione sul lavello, un grido inumano lacerò l'aria smorta della città.

Era un suono straziante, indescrivibile e smisuratamente lungo – decisamente troppo, troppo per un petto umano! Continuò a ripetersi echeggiando per svariati interminabili secondi, modulandosi in agghiaccianti evoluzioni sonore che risultavano stridule e assordanti da udire, e Samuel ebbe un tuffo al cuore. Si voltò bruscamente per cercare Agatha con lo sguardo, e chissà cosa avrebbe voluto dirle: è lui! È tutto vero, avevi ragione, come ho potuto credere che ti fossi inventata tutto?, ma poi si scontrò coi suoi occhi fissi e qualsiasi cosa avesse voluto dire gli morì sulle labbra.

Agatha era incommensurabilmente tranquilla e parve quasi stupita del suo spavento. Stava asciugando i piatti, seduta al tavolo: gli gettò uno sguardo di benevola comprensione e gli sorrise appena.

«Non è come pensi» disse ad alta voce, sovrastando l'orrendo suono raggelante senza darvi troppo peso. «Dev'essere un Gastly. No, aspetta: credo che sia un Haunter...»

Se Samuel avesse avuto qualcosa in mano, l'avrebbe lasciato cadere. Fissò a bocca aperta quella ragazza calmissima che solo porche ore prima aveva tentato di uccidersi davanti ai suoi occhi, troppo convinta dell'esistenza di un orribile mostro per voler anche solo continuare a vivere, e che ora non aveva la benché minima reazione all'udire quell'urlo orrendo e spaventoso e...

«Non hai paura?» balbettò. Gli sembrava che il suo cuore stesse rallentando i propri battiti per lo stupore.

«È solo un Haunter, Samuel» ribatté Agatha dolcemente, quasi pensasse di dover essere lei a tranquillizzarlo. «Non c'è nulla di cui aver paura, lo fanno sempre. Ti abituerai anche tu. Non c'entra niente con...» Tacque improvvisamente, distogliendo lo sguardo, con espressione d'indicibile tristezza.

Samuel non riusciva a capire, tutto era confuso e tutto era sbagliato! Aveva creduto che Agatha fosse pazza e non più in grado di distinguere la fantasia dalla realtà, e ora eccola lì, perfettamente lucida e razionale, a distinguere persino i versi di un Gastly e di un Haunter e a dissociarli in modo del tutto ragionevole dal pensiero del sepolto vivo...

Samuel non era un medico o uno psicanalista, ma di una cosa era certo: non era così che ragionava una ragazza pazza.

Quel pensiero lo colpì con tale intensità da lasciarlo fermo in piedi, stupidamente immobile, a scrutare Agatha come se la vedesse per la prima volta. Forse avvertendo la fissità del suo sguardo spaesato, Agatha lo guardò di nuovo con aria interrogativa. «Non preoccuparti, davvero. Sono un po' dispettosi, ma non sono Pokémon cattivi. Condividono il tipo Veleno, sai?» soggiunse con voce forzatamente vivace, quasi a voler cambiare argomento o a volerlo distogliere da qualunque pensiero lo stesse agitando in quel momento.

Finalmente Samuel cercò di riscuotersi. Annuì per dar segno di aver capito, anche se non aveva sentito una singola parola, e si guardò attorno per cercare qualcosa di cui parlare. Tossì per schiarirsi la voce.

«Sono un po' stanco» cominciò in tono incerto, guardandola con attenzione. «Se sei d'accordo, potrei andare a cercare una stanza al Centro per stanotte e poi tornare a trovarti domattina...»

Ma come c'era da aspettarsi Agatha non era assolutamente d'accordo: scosse la testa e per un attimo egli ebbe l'impressione che il tremulo spettro di una risata le attraversasse gli occhi, ma fu solo un secondo.

«Sei venuto fin qui per me, Samuel. Vado a prepararti la camera degli ospiti.»

Samuel sapeva che quello era l'unico modo che Agatha avesse per domandargli di restare, senza doversi direttamente abbassare a chiederglielo, ma la sua integerrima coscienza non poté egualmente trattenere un guizzo serpentino. «Ma siamo in casa da soli!»

«Oh, andiamo, Oak!» sbuffò Agatha, ma sorridendo appena, alzandosi in piedi. «Come al solito, sei più pudico di una donna.»

Era la stessa frase che gli aveva detto quella sera all'Isola Cannella, dopo aver fatto irruzione in camicia da notte nella sua camera. Samuel non avrebbe saputo dire se avesse ora ripetuto quelle parole senza riflettere o se piuttosto avesse consapevolmente voluto recuperare colla memoria quel momento e quella situazione tanto simile, ma una cosa era certa: forse era stravolta, forse era spaventata, ma Agatha era pienamente padrona di sé. Era terrorizzata da qualcosa di specifico e definito che aveva ben chiaro nella sua testa, e nulla di più. Certo, probabilmente il suo arrivo l'aveva aiutata a razionalizzare ciò che aveva visto e a mettere ordine nella sua testa; ma per il resto...

Si sforzò di mostrarsi tranquillo e indifferente quando Agatha, pochi minuti dopo, gli fece strada al piano superiore e gli mostrò un'anonima stanza dall'arredamento impersonale e vagamente obsoleto, ma colla biancheria appena cambiata e la finestra aperta sulla notte all'esterno per lasciar filtrare un po' d'aria. Per quanto facesse finta di nulla, comunque, anche Agatha era visibilmente imbarazzata da quella situazione: gli porse in fretta degli asciugamani puliti, una coperta in più e gli augurò la buonanotte.

Samuel non aveva mentito quando aveva detto di essere stanco: l'angoscia e lo stress della lunga giornata che aveva trascorso cominciavano a farsi sentire, ed egli si sentiva i muscoli intorpiditi e stanchi, la testa tanto confusa e pesante da scoppiare. Sedette sul bordo del letto senza spogliarsi, beandosi in silenzio del soffio fresco e vagamente umido che gli accarezzava il viso dalla finestra: chissà, forse sui monti stava piovendo.

Quel pomeriggio, nella piena luce del giorno, era stato così facile attribuire ciò che Agatha gli aveva detto agli insensati vaneggiamenti di una pazza, ma in quel momento, per la prima volta, Samuel temette d' aver tratto quella conclusione un po' troppo in fretta. Ora egli sentiva di credere alle sue parole come avrebbe creduto ai suoi propri occhi, e proprio questo lo confondeva in modo straziante. Se non avesse posto fine a quei dubbi sarebbe uscito di senno.


Attese la mezzanotte disteso immobile sul letto, completamente vestito, dapprima ascoltando i movimenti di Agatha a pochi metri di distanza da lui, e poi cercando di percepire nella notte il suo respiro, come tante volte le sue orecchie avevano fatto, senza nemmeno ch'egli se ne rendesse conto, nelle notti della sua solitudine. Sentiva che quel suono l'avrebbe rassicurato se solo fosse riuscito a udirlo, ma la camera di Agatha doveva essere troppo lontana, o forse le mura troppo spesse, ed egli sentiva soltanto i deboli fruscii della notte circostante.

Si levò dal letto solo quando fu ragionevolmente certo che Agatha stesse dormendo. Si era tolto le scarpe e le tenne in mano per percorrere il corridoio a passi felpati, scendere le scale con la massima lentezza e il cuore in gola all'idea che scricchiolassero... Fu attraversando il salottino d'ingresso, fiocamente illuminato dalla magra luce che filtrava dalle finestre, che gli venne alla mente il curioso pensiero della pistola. Sostò a lungo davanti alla credenza, incerto e diviso tra due opposti partiti. C'era veramente qualcosa da cui doversi difendere?

Si decise a prendere l'arma solo dopo lunghi tentennamenti: se quel pomeriggio aveva avuto ragione, se veramente Agatha si era immaginata tutto, allora egli sarebbe stato di ritorno nel giro di un paio d'ore a dir molto e la pistola sarebbe stata al suo posto entro il mattino. E se poi i dubbi della notte si fossero rivelati autentici, se veramente Agatha avesse avuto ragione, gli avrebbe di certo perdonato quel piccolo prestito senza permesso. La infilò cautamente in una tasca interna del giubbotto di pelle, controllando nel riflesso della vetrina che fosse invisibile a occhi esterni, e uscì.

Lavandonia gli appariva incredibilmente diversa ora, mentre la percorreva in piena notte, era vuota e silenziosa e totalmente immersa nel buio: rispetto alle vie vitali e caotiche che aveva attraversato quel pomeriggio, credere ad Agatha sembrava molto più semplice. Gettò di nuovo un'occhiata inquieta verso la cima della Torre, ora quasi invisibile e perduta nel buio, e accelerò il passo.

Per quanto egli si sentisse stupido, ingenuo e infantile, l'idea dell'esistenza del sepolto vivo martellava senza sosta la sua testa. L'unica consolazione cui la sua mente, che ancora si dibatteva nel disperato tentativo di discernere la verità in quel cumulo di fantasie superstiziose e deliranti eppure stranamente reali, tentava di aggrapparsi, era che una volta che fosse entrato dentro quell'edificio finalmente si sarebbe liberato dei suoi dubbi angoscianti; nessuno avrebbe saputo mai ch'egli aveva creduto al sepolto vivo, anche se per pochi minuti soltanto, o che era entrato a verificare all'interno della Torre. I suoi dubbi sarebbero morti entro così poco tempo ch'egli stesso avrebbe finito per dimenticarsene, si sarebbero fatti inconsistenti come acqua o come aria e sarebbero scivolati via dalla sua mente estenuata, e proprio per questo, per quei pochi minuti che ancora lo separavano dalla verità, poteva concedersi di credere a quella colossale bugia.

La famosa Torre Pokémon sorgeva piuttosto a nord-est del paese, in direzione dei monti, ma Lavandonia non era di certo nota per la sua vasta estensione: Samuel la raggiunse dopo una passeggiata di una decina di minuti appena. Non aveva incontrato nessuno: era evidente che la vita notturna, in quella zona, era drammaticamente scarsa.

Sul Percorso Dieci, poco prima del loro litigio, Agatha gli aveva parlato chiaramente di un'entrata secondaria, o qualcosa del genere: trovarla non sarebbe stata di certo difficile in pieno giorno, ma ora la luce della luna non gli sembrava una garanzia sufficiente ed egli non aveva intenzione di perdere più tempo di quanto fosse strettamente necessario, dato che si sentiva già abbastanza stupido così. Entrare, accertarsi che tutto fosse a posto e poi andarsene, dimenticare tutti quei ridicoli pensieri sul sepolto vivo: voleva sbrigarsi alla svelta e di certo non aveva alcuna intenzione di perdere tempo a cercare a tentoni nel buio.

Estrasse la ball del suo Arcanine: le sue fiamme erano molto più tenui di quelle di Charizard, ma egli sentiva d'aver già fatto lavorare troppo il suo primo Pokémon per quel giorno, e inoltre non voleva rischiare di richiamare l'attenzione dall'esterno. Checché ne dicesse Agatha, non era del tutto convinto che entrare là dentro di notte fosse considerato un comportamento socialmente accettabile, in particolar modo per un forestiero.

La compagnia di Arcanine contribuì a farlo sentire un po' più al sicuro e, per dirla tutta, anche un po' meno ridicolo: Samuel lo accarezzò a lungo, scompigliandogli il pelo folto alla base del collo, e nei suoi occhi grandi e colmi di fiducia poté bearsi della sensazione familiare, confortante, che i suoi Pokémon non l'avrebbero giudicato mai, neppure per quelle missioni insensate, e che l'avrebbero seguito ovunque ciecamente fidandosi di lui. Il pensiero che Arcanine sarebbe stato l'unico testimone e complice della follia che stava per commettere lo fece sentire molto meglio: sollevandosi in piedi dal fianco del suo Pokémon, Samuel avanzò.

Percorse in silenzio il perimetro dell'edificio, ispezionandone cogli occhi le pareti alla luce fioca ma omogenea che filtrava dalle fauci dischiuse di Arcanine: non si era mai reso conto di quanto fosse grande, osservandola da lontano. Svoltò a sinistra all'angolo a sud-est e proseguì il suo giro nella notte. Arcanne era tranquillo: per lui quella non era che una delle loro tante esplorazioni e Samuel sorrise pensierosamente della sua fiducia, grattandogli piano la zona dietro le orecchie.

Svoltarono di nuovo a sinistra, stavolta per percorrere il muro settentrionale dell'edificio; ed eccola là, ovviamente, una porticina scura dall'aria arrugginita, proprio dove sembrava più logico trovarla, precisamente all'opposto dell'entrata principale. Agatha gli aveva detto che quell'ingresso non era mai ben chiuso: quando Samuel provò cautamente ad abbassare la gelida maniglia di ferro fu salutato da uno scatto secco e immediato e la porta oscillò quasi da sola, senza bisogno di spingerla. Di certo i responsabili della Torre Pokémon non dovevano essere particolarmente preoccupati all'idea dei furti.

Entrò per primo. All'interno l'aria era più fredda che all'esterno e odorava di muffa e d'incenso, un miscuglio intenso ma che in qualche modo non gli riusciva sgradevole. Fece cenno ad Arcanine di entrare a sua volta, ma non richiuse la porta, limitandosi ad accostarla con delicatezza: aveva imparato da tempo a non fidarsi delle serrature, a maggior ragione di quelle dall'apparenza difettosa, e non voleva correre il rischio di rimanere chiuso là dentro senza possibilità di uscire. Era ovvio che non c'era nulla di cui aver paura – ovvio! continuava a urlargli la parte razionale della sua mente che si vergognava di ammettere di aver bisogno di rassicurazioni – ma quella Torre era già sufficientemente inquietante anche senza dover necessariamente celare un morto vivente nelle sue profondità.

A quel piano non c'erano tombe. Samuel si guardò attorno alla luce di Arcanine, ma senza troppa preoccupazione o aspettativa: Agatha gli aveva parlato esplicitamente del penultimo piano. Individuò le scale e cominciò a salire.

Le fiamme che danzavano tra le fauci di Arcanine proiettavano sulle pareti le mostruose ombre orrendamente distorte delle possenti sculture sepolcrali, statue di angeli e di Pokémon defunti che parevano occhieggiarlo malignamente al suo passaggio: Samuel continuava involontariamente a seguirle con la coda dell'occhio, scrutando il loro multiforme cangiare irregolare negli angoli. Qua e là lo scrutavano cautamente da dietro le lapidi gli occhi incerti di un Cubone, e più di una volta egli si voltò di soprassalto sotto lo sguardo malevolo di un Gastly, tuttavia nessun Pokémon lo attaccò, forse percependo la possenza vitale, focosa dell'Arcanine che gli camminava a fianco.

Se solo fosse stato più attento, avrebbe notato che anche la presenza dei Pokémon selvatici si diradava via via ch'egli saliva. Ma la sua mente era troppo presa dalla fretta di terminare quella ridicola ricognizione per prestarvi attenzione, anche se in circostanze normali questo non gli sarebbe di certo sfuggito, e fu per questo motivo che non si mise all'erta.

Il sesto piano, finalmente. Samuel si accorse di aver trattenuto il respiro solo quando si trovava lì già da svariati secondi, immobile col cuore palpitante a fissare nel buio. Si riscosse bruscamente, sentendosi seccato in cuor suo anche solo per aver esitato: non c'era niente di cui aver paura, si disse con rabbia. Anche solo a un'occhiata superficiale era evidente che quel luogo non celava nulla, esattamente come i piani sottostanti; che era vuoto e squallido, spoglio e silenzioso come qualsiasi dannato cimitero, e che salire fin lì era stato un maledetto spreco di tempo.

Beh, ormai che era lì, tanto valeva dare almeno un'occhiata in giro. Provava un senso persistente di rabbia verso se stesso, verso la sciocca ridicola idea che gli era venuta, verso i suoi dubbi e la sua credulità, ma proprio per questo motivo, quasi per autopunirsi, sentiva di dover rimanere lì, fissare fino in fondo la vergogna della sua dignità perduta. Avanzò lentamente, tutto immerso assieme ad Arcanine al centro del cerchio di luce che si perdeva progressivamente nel buio, osservando il ritmico danzare delle ombre, ora lunghe e ora corte, che si ritraevano e si protendevano e si piegavano e si spezzavano quasi sprofondando nel silenzio d'abisso che lo avvolgeva...

Vagò senza scopo tra le tombe per un tempo infinito, senza riuscire a decidersi a smettere e a lasciar perdere, a porre fine a quella tortura. A un tratto Arcanine, col suo superiore senso dell'orientamento, dovette accorgersi del loro girare in tondo e gli diede una timida testata contro il retro delle ginocchia, forse cercando di richiamarlo all'ordine. Finalmente Samuel si fermò. Era ancora arrabbiato, ma all'improvviso si rese conto di sentirsi anche immensamente deluso, e di non capire perché.

«Hai ragione, Arcanine» disse. Le sue parole rimbombarono nel silenzio, ingigantendo a dismisura la portata della sua disillusione. «Andiamo via. Qui non c'è proprio niente. Agatha... temo che abbia bisogno di aiuto.»

Solo in quel momento egli realizzava quanto profondamente avesse desiderato di trovare qualcosa, qualsiasi cosa che dimostrasse che Agatha non si era immaginata tutto. Non certo un morto vivente, no – era impossibile! - ma un Pokémon, uno Spettro, un... e invece, non c'era nulla. Solo un'ampia spianata di terreno e lunghi filari di lapidi. Si voltò e tornò lentamente sui propri passi. Agatha era veramente pazza, si era inventata tutto.

È passato tanto tempo...

Il suo cuore saltò un battito. Samuel si fermò così bruscamente da rischiare d'inciampare nei propri piedi. Era una voce, egli ne era certo, aveva udito una voce! Ma dove? Si guardò freneticamente attorno, girò su se stesso trattenendo il fiato: dove...

Sei tornata a prendermi?

Si gettò di corsa tra i filari di tombe, cercando invano di aggrapparsi al suono di quella voce di farsene guidare nell'oscurità; avrebbe voluto urlare, chiederle di parlare ancora, ma temeva parlando di sovrastarla con le sue proprie parole e di perdere un'indicazione preziosa. Arcanine stentava a stargli dietro: Samul percorreva tutto con lo sguardo, cercava, frugava...

Ho un ricordo di te che mi dicevi...

Alla sua destra! Si gettò attraverso i corridoi silenti, scavalcò d'un balzo una lapide di marmo rosato, si precipitò nel buio. Agatha non mentiva, non era pazza!

Pensa che bellezza.

La voce era più forte, era vicina, vicina, Samuel era certo di non sbagliarsi! Nella luce del fuoco di Arcanine ora vedeva profilarsi in fondo al corridoio una scala che s'inerpicava, un'ombra, il mormorio indistinto si fece vera voce, la parola incorporea divenne carne, Agatha aveva ragione...

Sarà un po' come morire ogni giorno.

c'era davvero un morto vivente nella Torre.


*Tributo direi quasi obbligato, in questo contesto, all'epico filmato di apertura di Pokémon Rosso e Blu.


Eccomi qua, so di essermi fatta attendere un po', ma almeno posso postare proprio di venerdì 17!

Ho notato che nei commenti avevate già intuito su cosa si sarebbe incentrata la storia e finalmente, dopo quasi sessanta pagine, ci siamo: ormai volevo confrontarmi anche io con questo elemento ricorrente delle Poképasta. Spero di risultare all'altezza nei prossimi capitoli.

Forse a qualcuno potrebbe interessare sapere che la scena in cui Charizard butta giù la porta e Agatha minaccia Samuel è stata la prima di tutta la storia a essere scritta, durante una lezione particolarmente noiosa, tanto per scrivere qualcosa. Non avevo in mente niente di preciso e volevo solo passare il tempo, ma quella scena mi è piaciuta tanto che ho voluto costruirle una storia intorno.

Come al solito, un caldissimo ringraziamento e un caro abbraccio a cristal_93, a Mad_Dragon e a Bankotsu90 per le loro recensioni e i loro pareri, contano molto per me!

Alla prossima

Afaneia

   
 
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