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Autore: Inathia Len    18/04/2015    3 recensioni
Me lo chiedo ancora, se ho fatto bene ad abbandonare la sua città galleggiante. E non lo dico solo per il lavoro… Il fatto è che un amico come quello, un amico vero, non lo incontri più. Se solo hai deciso di scendere a terra, se solo vuoi sentire qualcosa di solido sotto i piedi, e se poi intorno a te non senti più la musica degli dei… ma, come diceva lui, “non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”. Il guaio è che nessuno crederebbe a una sola parola, della mia storia…
SherlockBBC incontra Novecento di Baricco... ai posteri l'ardua sentenza...
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Irene Adler, Jim Moriarty, John Watson, Lestrade, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Duello con l'inventore del jazz


 

 

 

 



Non ci fu mai così tanta gente a bordo del Virginian come quando, nell’estate 1931, ci salì sopra Jim Moriarty. Accompagnato da uno stuolo di facchini e giornalisti, prese alloggio nella suite più lussuosa di tutta la nave e non si fece vedere in giro fino a quando non fu pronto per la sfida. Lui era uno conosciutissimo, che faceva concerti in giro per mezzo mondo e aveva ammiratori su ammiratori. Bastava il suo nome per riempire teatri interi…

Dicevano che aveva cominciato a suonare in un bordello di New Orleans, che lì aveva accarezzato un violino per la prima volta. E lo dovevi suonare con delicatezza il violino, in un bordello, non volevano mica che facevi troppo baccano… e ci credeva sul serio, di essere il re del jazz.

Dovevano avergli detto che, su una nave, c’era un tizio che sapeva suonare meglio di lui. Sì, doveva essere per forza andata così. Perché tu non ci crederai, vecchio, tu Sherlock non sai nemmeno chi sia e va bene così… ma quindici anni fa c’era gente che saliva sul Virginian solo per sentirlo suonare. Persino il senatore Wilson, una volta, si è fatto il viaggio in terza classe, solo per Sherlock. Perché era lì, in terza classe, che Sherlock suonava davvero. E a volte i migranti tiravano fuori chi una chitarra, chi una fisarmonica, chi semplicemente la voce… e io me ne stavo lì, semplicemente fermo a guardarlo e a guardarli, perché non c’era letteralmente altro che potevi fare. Ammiravi questo miracolo della natura e ti dicevi che avevi un culo grosso così per esserci capitato dentro. Perché Sherlock non era così con tutti, Sherlock non suonava il violino per far addormentare chiunque… ha persino composto qualcosa per me, per le notti in cui la coscienza bastarda rimordeva e io mi sentivo troppo in colpa per aver abbandonato la mia famiglia. E allora mi mettevo sul letto a castello della nostra cuccetta –quello in alto… avevamo provato a far star Sherlock in alto, ma quelle rare volte che dormiva aveva comunque un sonno così agitato che una volta era piombato giù sul pavimento, svegliandomi e facendomi prendere un colpo- insomma, io mi mettevo là sul letto e lui si sedeva sotto, abbracciava il violino e mi suonava una ninna nanna che era un perfetto anatema contro i mostri che occupavano i miei sogni.

Comunque, qualcuno andò da Moriarty e gli parlò di Sherlock. E Moriarty fece il grosso, gesticolando e sorridendo sprezzante con il suo diamante tra i denti. E gli dissero anche che, quando Sherlock era in buona e lo lasciavi fare, era capace di suonare qualcosa che era come dieci jazz messi insieme. Ora, Moriarty aveva un bel caratterino, almeno questo lo sai, eh vecchio? Bene, aveva un caratterino niente male… e proprio non gli andava giù che si dicesse questo, in giro, che si dicesse che Sherlock gli avrebbe fatto le scarpe, se solo avesse messo piede a terra, che avrebbe riempito i teatri più grandi in meno tempo di lui, che avrebbe avuto più successo… insomma, Moriarty sarebbe tornato nei bordelli se solo a Sherlock fosse venuto lo sghiribizzo di scendere dal Virginian. Moriarty allora smise di ridere, tirò fuori la sua rivoltella dal calcio in madreperla e la piantò tra gli occhi di chi gli stava dicendo quelle cose. Ma non sparò, no… “Dov’è questa cazzo di nave?” chiese invece, e tre giorni dopo era a bordo del Virginian.

Quello che lui aveva in mente era un duello. No, niente sangue, vecchio, tranquillo… una sfida a colpi di violino. Cose da musicisti. Niente sangue, no, ma l’odio… oh, l’odio era vero! Note e alcol… e poteva durare anche una notte intera. Una sfida a pezzi di bravura… era anche un certo spettacolo, assistervi…

Il solo problema per questa sfida, era che Sherlock non suonava nemmeno nei porti. Diceva che era un po’ stare terra, lo stare in porto. E quindi Moriarty dovette imbarcarsi sul serio, prendere una cabina e tutto. Pagò di tasca propria il biglietto di andata e ritorno per l’Europa. “È la cosa più idiota che io abbia fatto in vita mia” disse ai giornalisti assiepati davanti al molo 14 di Boston, il giorno della partenza, infarcendo il tutto con qualche bestemmia, che ci stava sempre.

Ora, a Sherlock, a essere onesti, non interessava granché del duello. Era affascinato dalla cosa, questo sì, ma non la capiva fino in fondo. Oppure non gli interessava nemmeno capirla, questo non lo so. Per lui era un qualcosa per distrarsi dalla routine, un qualcosa di nuovo di cui parlare… e poi credo che lui fosse sinceramente affascinato da Moriarty. Passò una settimana intera a documentarsi su di lui su tutti gli scampoli di giornale che trovò sul Virginian e poi spedì me a terra per capire cosa ne pensasse la gente di lui. Voleva seriamente sapere come suonasse Moriarty, l’inventore del jazz.

Alle 21 e 37 del secondo giorno di navigazione, col Virginian spinto a 20 nodi sulla rotta di navigazione per l’Europa, Jim Moriarty si presentò in sala da ballo. Elegantissimo nel suo completo scuro, il fermacravatta che riprendeva i gemelli, la brillantina tra i capelli neri e il diamante che gli scintillava tra i denti. Avrei potuto giurare che avesse anche la sua pistola col calcio in madreperla, là da qualche parte. Non aveva l’aria di uno che aveva fatto tutta quella pagliacciata per perdere. Era lì per polverizzare Sherlock e le voci che giravano su lui, era lì perché poteva anche giocare alle regole del mio… amico… ma alla fine avrebbe piegato sia lui che le sue stupide regole e se ne sarebbe andato a testa alta, probabilmente dopo aver sputato sulla carcassa fumante di Sherlock.

Noi tutti sapevamo cosa fare, quando lo vedemmo entrare. Smettemmo di suonare, i ballerini si fermarono, il barman gli versò un whiskey, che Moriarty bevve mentre camminava verso di noi, gli occhi fissi su quelli di Sherlock. Si stavano studiando, questo era ovvio a tutti. Ma mentre Sherlock sembrava quasi incuriosito, Moriarty lo guardava come si guarda la cacca di un piccione che ti rovina il completo migliore. Questo era Sherlock per lui: la merda di un piccione che gli rovinava la reputazione. E andava lavata via. Col sangue, con l’umiliazione… sembrava non interessargli.

-Alzati da lì- gli disse, indicando, con un cenno della mano che reggeva il bicchiere, il seggiolino del violinista.

-Lei è quello che ha inventato il jazz?-

-Già. E tu sei quello che non suona se non ha l’Oceano sotto il culo?-

-Già.-

Si erano presentati. Moriarty accese una sigaretta e la poggiò sul pianoforte, che era proprio lì accanto a loro, si fece passare il proprio violino e prese a suonare. Senza chiedere il permesso a nessuno, senza dire che la gara stava cominciando… io tirai Sherlock per un braccio, ma lui sembrava non rendersi conto del fatto che stava camminando. I suoi occhi erano fissi sulle mani di Moriarty, sul modo in cui si muovevano sulle corde, su come teneva l’archetto e lo muoveva su e giù, gli occhi socchiusi e la testa che ondeggiava al ritmo della sua musica. Era un ragtime. Ma sembrava una cosa mai sentita. Non suonava, lui scivolava in mezzo alle note. Era come la sottoveste di seta di una donna che scivolava via dal suo corpo. E lo faceva ballando. C’erano tutti i bordelli d’America, in quella musica. Dal cliente di lusso alla prostituta sfatta, dalla maîtresse alla guardarobiera… c’era un mondo racchiuso anche nei silenzi tra un movimento e l’altro. Jim Moriarty finì di ricamare note invisibili sulle corde, simili a cascate di perle e diamanti su un pavimento di marmo, e poi si alzò, la sigaretta stretta tra le mani. Era consumata per metà, ma la cenere era ancora tutta lì, impilata e immobile, quasi avesse avuto paura di cadere per disturbare. La prese e la mise sotto il naso di Sherlock, guardandolo con quel suo ghigno storto.

-Tocca a te, marinaio.-

Sherlock sorrise, credo si stesse divertendo. Era decisamente qualcosa fuori dall’ordinario tutto ciò, e quello che era fuori dall’ordinario gli piaceva un sacco. Però, quello che si mise a suonare, di straordinario aveva ben poco. Non fare quella faccia, vecchio, era sempre lui, sempre il solito Sherlock… ma sembrava quasi non aver afferrato la cosa della competizione. E questo non era molto da lui, fidati… l’ho conosciuto bene… forse troppo…

Beh, fatto sta che si è messo a strimpellare una canzone che aveva sentito da un vecchio migrante qualche tempo prima. Credo si chiamasse Torna indietro paparino, o qualcosa di simile. E non è che fosse brutta, per carità, era una cosina carina, le cui parole erano perfette da storpiare se si era sbronzi –sì, abbiamo fatto anche questo- ma non era proprio la musica adatta a un duello con l’inventore del jazz. Lui la suonò giocando un po’ con i bassi, raddoppiò qualcosa, aggiunse due o tre svolazzi dei suoi… ma rimaneva comunque un qualcosa di abbastanza scemo. Sarei riuscito persino a suonarla io, che col violino sapevo fare giusto quelle tre note che mi aveva insegnato lui.

Jim Moriarty fece la faccia di uno a cui hanno rubato i giocattoli di Natale. E, devo ammettere, che un po’ era divertente. Io mi ero sistemato in disparte, avevo accanto a me la sedia vuota dove stava Sherlock quando non si esibiva… e un po’ me la stavo ridendo sotto i baffi. Però, al tempo stesso, era anche un pochetto umiliante. Insomma, io ero di fatto il suo ammiratore numero uno, il suo migliore amico, il suo… e lui per me era diventato tutto. Ero su quella benedetta nave da quattro anni e possono essere quattro secoli, quando si vive gomito a gomito con qualcuno. E credevo di conoscerlo, credevo di aver imparato ogni sfumatura del suo carattere… ma allora perché non si impegnava un po’ di più? Lui era meglio di quella idiozia che aveva suonato, lui avrebbe potuto fare un panino di Jim Moriarty e mangiarselo per chiudere un buco nello stomaco…

E invece, quando si tolse il violino dalla spalla e si mise a sedere accanto a me, aveva gli occhi che gli brillavano. Credo non avesse proprio idea di cosa significasse quel duello…

Jim Moriarty riprese il suo violino e questa volta attaccò un blues. Un blues che avrebbe commosso anche un macchinista tedesco, tanto era bello… una cosa da lasciarci l’anima. E la gente, quando lo finì, si alzò in piedi e quasi si spellò le mani, a furia di applaudirlo. Applaudii anche io. E, cosa assurda ma alla fine non troppo, applaudì anche Sherlock. E quando toccò di nuovo a lui, chiuse gli occhi pieni di lacrime –sì, si era commosso vecchio… Sherlock si era sciolto come neve al sole. Lui che non piangeva mai, lui che diceva che le emozioni erano solo un bagaglio scomodo e inutile… lui mi andava a piangere proprio nel momento meno indicato…- e con gli occhi socchiusi prese a suonare. E cosa ti suona? Ma il blues che aveva appena finito Jim Moriarty. Probabilmente il ragazzo aveva bisogno di ripetizioni per quanto riguardava la materia “duelli”. Perché la rifece praticamente identica. Okay, forse qualcosina la cambiò, dimezzò il tempo, lo rese più lento… ma il succo rimase quello. E alla fine, giustamente, la gente lo fischiò. E, lo ammetto, anche se non ne vado fiero, lo fischiai anche io. Perché, Cristo, a che gioco stava giocando?

Quando Moriarty riattaccò col suo violino, prima fece una smorfia e borbottò “E allora vai a fare in culo, coglione” e poi partì. Ed era una cosa che, persino io che ero abituato a sentire Sherlock –quando era in buona, eh, non la schifezza che aveva fatto quella sera- persino io rimasi con la bocca spalancata. Suonava a una velocità pazzesca, senza sbagliare una nota, pizzicando le giuste corde, con la perfetta inclinazione dell’archetto… e la gente esplose, letteralmente. Saltarono tutti in piedi, si misero a ballare, a battere le mani, a fischiare e applaudire… giuro, vecchio, avresti detto che era Capodanno, dalle urla e dall’entusiasmo. Ma Moriarty non sentiva niente. Suonava con gli occhi chiusi, un’espressione sul viso che molte volte avevo visto su quello di Sherlock, quando faceva sul serio.

Quando finì, mi voltai verso di lui. Non aveva più lo sguardo ammirato di poco prima, anche ogni minima traccia di commozione era sparita. Serrò la mascella e si girò a sua volta verso di me.

-Dammi una sigaretta- disse, allungando la mano bianca verso di me.

Ora, vecchio, questa te la devo spiegare se no non la capisci. Perché le sigarette di Sherlock le tenevo io, dato che lui aveva deciso di provare a smettere. Ogni tanto gliene concedevo una, ma proprio quando ero in buona. Per il resto, lui le sigarette non le vedeva neanche in fotografia. Aveva trentuno anni e fumava quasi da altrettanti –okay, forse non è vero, ma ero sicuro, nonostante all’epoca sapessi pochissimo di medicina, che i suoi polmoni non fossero del tutto sani… ricordavo di averne parlato con un medico tedesco tempo prima, fervido sostenitore del fatto che il fumo facesse male- e quindi smettere sarebbe stata cosa buona e giusta. Però, in quel momento, capivo che potesse aver bisogno di una sigaretta. La tensione, la sfida –che sembrava finalmente aver capito-. Okay, forse una sigaretta gliel’avrei potuta anche dare. Giusto un contentino. Magari si impegnava sul serio e rispediva quel Moriarty nei suoi bordelli davvero.

Sherlock prese la sigaretta tra le mani, ma non la accese. La tenne stretta e tornò a sedersi sul suo seggiolino. Sigaretta da una parte e violino nell’altra. La gente intorno ci mise un po’ a capire che fosse lì lì per suonare… ma lui attese, paziente per una volta nella sua vita. E io ero talmente in punta sulla mia sedia che sarei potuto volare via, se solo ci fosse stato un po’ di vento. Perché stava per succedere qualcosa, me lo sentivo. Lui aspettò che tutti finalmente si rendessero conto che voleva suonare, che il duello non era finito come credevano… poi si voltò piano verso Jim Moriarty che se ne stava tranquillo e con un sorriso tronfio a sorseggiare dello champagne. Gli piantò quegli occhi improbabili addosso e, prima di chiuderli per concentrarsi, sussurrò: “Lo hai voluto tu, violinista di merda”.

Poi poggiò la sigaretta sul pianoforte che era lì accanto.

Spenta.

E prese a suonare.

Ora, nonno, giuro che se tu fossi persino stato lì in quel momento, non avresti creduto alle tue orecchie. Il pubblico si bevve tutto praticamente senza respirare, in apnea. Rimasero fermi immobili, le bocche mezze aperte e gli occhi sgranati, fissi sul violino e sull’uomo che lo stava suonando. Aveva cento mani, giuro, in quel momento Sherlock aveva cento mani e sembrava che il violino dovesse scoppiare da un momento all’altro. Anche dopo la scarica finale, anche dopo l’arpeggio finale –che chiunque altro avesse provato a replicare, come minimo gli si sarebbero accavallati i nervi per l’eternità- anche allora rimasero tutti in silenzio, affascinati, ipnotizzati… rimbambiti da Sherlock e dal suo violino e dalla sua musica. In quel silenzio pazzesco, Sherlock finì di suonare e riprese la sigaretta dal piano, la accostò alle proprie corde.

Leggero sfrigolio.

L’aveva accesa.

Giuro.

Bella accesa.

Sherlock la teneva in mano come se fosse una candela, solo allora capii che non aveva intenzione di fumarla. Si avvicinò a Jim Moriarty, che se ne stava in piedi come un fesso, lo champagne in mano e gli occhi praticamente per terra, da quanto erano fuori dalle orbite, gli si avvicinò e gli porse la sigaretta.

-Fumala tu, che il mio medico dice che io non posso. E non si dovrebbe mai discutere con il proprio dottore- disse, girandosi appena e facendomi l’occhiolino. E fu allora che l’incantesimo si ruppe. La gente si lasciò andare in un apoteosi di grida, urla, applausi e casino totale. Tutti volevano toccare Sherlock, tutti avevano una parola da dire, un qualcosa da gridare… e alla fine se lo presero in spalla e lo portarono in trionfo per tutta la sala della musica, Jim Moriarty fermo come un fesso e la sigaretta tra le mani. Se lo portarono in giro, applaudendo e ridendo, cantando e tutto il resto… ma Sherlock, in tutto quello, aveva occhi solo per me, che me ne stavo in disparte, un sorriso aperto e fiero sul volto. Sembrava, con quei suoi occhi, chiedermi se stesse andando tutto bene, se era stato bravo. E io sollevai entrambi i pollici e scoppiai a ridere, facendolo finalmente rilassare e sorridere a propria volta. Ce l’aveva fatta. Cristo se ce l’aveva fatta…-

 

 

 

-E Moriarty?- chiese Andom, mentre John prendeva fiato. –Che fine ha fatto?-

-Oh, lui ha finito il viaggio chiuso nella sua cabina, berciando contro chiunque anche solo tentasse di avvicinarsi. Una vera diva- ridacchiò l’uomo. –Scese a Southampton e tornò in America su un’altra nave. Sherlock, accanto a me, lo osservò scendere dal ponte di terza classe. E tu non immaginerai mai che ha detto, quando finalmente Moriarty uscì dalle nostre vite… “In culo anche il jazz”!-

E questa volta scoppiò a ridere anche il vecchio.

-C’è una cosa, però, che non mi torna- disse Andom, grattandosi la testa bianca e alzando lo sguardo verso John, quasi a chiedergli il permesso per chiedere ancora, per saperne di più. Ma l’uomo sembrava ben disposto ora, quella cosa del duello gli aveva messo addosso una bella allegria e lo sguardo gli tremava di meno. Sentiva, Frank, che c’era qualcosa che non gli stava dicendo. Sentiva che forse quell’amicizia era più stretta di quanto il trombettista volesse far intendere… ma non era quello che gli interessava. Quelli erano fatti suoi, a essere onesti. Lui vendeva e comprava musica e quel Sherlock sembrava essere stato il più grande violinista che avesse mai solcato i mari.

-Dimmi- si strinse nelle spalle John, asciugandosi gli occhi che lacrimavano per il troppo ridere e sistemandosi il capello sulla testa.

-Ma questa registrazione… tu dici che non dovrebbe esistere, no? Eppure c’è… e dici anche che Sherlock non è mai sceso a terra e mi sta bene… ma allora che…?-

-Come fa a esserci una registrazione che non dovrebbe esistere?-

-Eh, precisamente!-

-Beh, nonno… questa è un’altra storia. Niente più duelli, niente di tutto questo, ‘sta volta. Centra una donna, come sempre- confessò, stringendosi nelle spalle e serrando i denti, quasi senza accorgersene. Quasi fosse un riflesso condizionato dal ricordo. –La donna per la quale Sherlock è quasi sceso dal Virginian…-

  
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