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Autore: Nina Ninetta    20/04/2015    4 recensioni
Yumiko ed Eri, due donne, una trentenne e una quindicenne, una madre e una figlia, catapultate dall’altra parte del Mondo, costrette a ricominciare tutto d’accapo, a confrontarsi con una cultura completamente diversa, lontane anni luce dal loro Paese d’origine: il Giappone. Ma Yumiko quel nuovo Paese lo conosce già in un certo senso, ha imparato a conoscerlo attraverso i racconti del padre di Eri.
N.B. Il titolo è tratto dalla canzone di Malika Ayane “E se poi” così come i titoli di ogni capitolo saranno presi da frasi del medesimo testo.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 5
Ho solo tanta voglia di sentirmi viva adesso
 
Per la prima volta da quando Eri si era trasferita a Madrid, aveva rifiutato che sua madre la accompagnasse con la macchina in giro per le strade della capitale. Diciamo che Kingsley non aveva precisamente le fattezze di una ragazza e Yumiko non ci avrebbe messo molto a fare due più due. Così Eri uscì alle tre del pomeriggio, sebbene l’appuntamento fosse fissato per le quattro. Restare in casa un minuto di più l’avrebbe fatta uscire di senno. Era così nervosa che perfino Macchia con le sue coccole non era riuscita a calmarla, allora si era affacciata alla finestra e i tiepidi raggi del sole l’avevano corteggiata e ammaliata fino a spingerla ad uscire in strada, per dirigersi al luogo dell’incontro. O semplicemente per passeggiare. Si era chinata verso sua madre, mezza addormentata sul divano nel soggiorno/cucina, lasciandole un fugace bacio a fior di labbra, il loro consueto saluto, e si era chiusa la porta d’ingresso alle spalle, dopo l’ultima carezza che sempre riservava alla cagnolina.
Camminare fra la gente l’aveva tranquillizzata un pochino, il dolce calore del sole aveva scacciato il masso grigio che le premeva sulle viscere e tutto le era sembrato più bello, più luminoso e il futuro meno difficile. Al contrario di quanto andava farneticando in quell’ultimo anno, non ebbe la sensazione di essere osservata dalla gente che le camminava di fianco come se fosse un extraterrestre, addirittura le parve che qualche coetaneo le lanciasse uno sguardo furtivo, languido, di apprezzamento.
Eri teneva gli occhi fissi davanti a sé e un sorriso appena percettibile sulla bocca, i lunghi capelli neri le ricadevano lisci fino alla base della schiena, così neri e lucenti da sembrare finti. Sul viso tondo e abbronzato – peculiarità che aveva ereditato dai geni ispanici di suo padre – gli occhi a mandorla spiccavano come due stelline contornate di nero. Dalla tasca del giubbino prelevò uno stick di burro-cacao alla fragola, se lo passò distrattamente sulle labbra, poi lo rimise in tasca, senza fermare il proprio cammino.
 
Le lancette dell’orologio alla fermata della metro segnavano le tre e venticinque minuti. Eri si accomodò all’estremità dell’unica panchina che aveva ancora un posticino libero, chiedendo alla signora che la occupava con i suoi tre figlioletti se poteva. La donna le disse di si. La ragazza sorrise alla bimba che le stava di fianco e che la fissava, aveva il viso paffuto e sporco di gelato che intanto le stava colando da una mano, sua madre la richiamò, parlando uno spagnolo così stretto e veloce che Eri non riuscì a comprendere neanche il nome della bambina. Allora le tornò un po’ di malinconia, per quanto si fosse sforzata di farsi piacere quel Paese, per quanto bene avesse imparato a parlare e a comprendere la loro lingua, per quanto si fosse ambientata e la gente del posto non le sembrasse più così diversa da lei, rimaneva pur sempre la Spagna: un mondo totalmente differente dal suo.
In piazza c’era una ressa di persone indaffarate a parlare al cellulare, a navigare su internet, ad affrettarsi per non rischiare di perdere la metro. Una coppia di fidanzati stava litigando, un’altra stava facendo la pace. Eri distolse lo sguardo quando una lunga macchina nera, con
i finestrini scuri, passò sulla strada, accostando. Il trafficò rallentò, le persone si dimenticarono del motivo per cui stavano correndo o chi c’era all’altro capo del telefono. Era proprio una splendida macchina. Eri non se ne intendeva, ma fare un giretto lì dentro non le sarebbe dispiaciuto. Si chiese chi potesse nascondere a bordo un veicolo del genere, lungo quanto una barca, così lucente che il mondo intorno vi si specchiava. Lo sportello anteriore si aprì, nella luce tiepida di settembre un uomo in smoking e con il cappello calcato sul capo fece la sua comparsa. Anche se da lontano, la ragazza giapponese notò i guanti bianchi dell’autista e i folti baffi che spiccavano da sotto alla tesa del cappello scuro. Lo osservò posare la mano destra sulla maniglia della portiera di dietro e un giovane ragazzo, con pantaloni dalla fantasia militare decisamente troppo larghi per uno magrolino come lui, abbinati ad una t-shirt grigio topo, uscì dalla vettura. Ancor prima che Eri potesse riconoscerlo, lui si stava già sbracciando per salutarla. La ragazzina si guardò attorno, adesso sì che la gente la fissava con insistenza e a bocca aperta come se avessero visto un fantasma.
Kingsley la chiamò con le mani a coppa vicino alla bocca, facendole segno di raggiungerlo. Imbarazzata Eri si mosse con passettini svelti e la testa bassa, i capelli le ricaddero ai lati del viso. Kingsley le schioccò un bacio sulla guancia, cosa che fece sciogliere le gambe di Eri come se fossero di cera. L’autista richiuse lo sportello dopo che i due ragazzi furono saliti a bordo, qui la giovane rimase imbambolata: c’era l’imbarazzo della scelta dove accomodarsi. Lui al contrario era perfettamente a suo agio, spaparanzato sui sedili di pelle nera e le braccia allungate sulla spalliera, la caviglia destra sul ginocchio sinistro:
«É una limousine» disse, dopo che la sua compagna di banco si fu seduta in un angoletto, tutta composta. Non sembrava l'adolescente che aveva conosciuto a scuola «Mio padre non vuole che vada in giro da solo, così mi ha regalato Alfonso» il ragazzo picchiettò le nocche contro il vetro che divideva l’abitacolo dell’auto. Il finestrino si abbassò di qualche centimetro ed Eri incontrò gli occhietti scuri dell’uomo alla guida:
«Signorino Kingsley…»
«Alfonso, ti presento la mia amica Eri»
«Signorina …»
«Salve señor» Alfonso fece un cenno con la testa, poi il finestrino si sollevò di nuovo, isolando i due ragazzi. Kingsley sbirciò nel mini frigo al centro della macchina, quindi elencò le bibite che conteneva:
«Coca-cola, fanta, sprite, acqua, succo a mela, succo a pera, succo a pesca, tè a limone, tè alla pesca, succo a..»
«Niente, grazie» lo interruppe Eri. Kingsley si voltò a guardarla, un sopracciglio sollevato per sottolineare l’espressione interrogativa «Sto bene così»
«Ok» rispose lui, prendendo una coca-cola per sé e giocherellando con la linguetta della lattina, facendo il gioco delle lettere, quello dove bisogna dire l’alfabeto fin quando la linguetta si stacca e la lettera che esce è quella del futuro amore. Kingsley iniziò «A, B, C, D, E, F …» ripetendo l’alfabeto per intero un paio di volte, poi la linguetta si staccò con un tac secco e lui sollevò lo sguardo sulla ragazza, un sorrisino beffardo sulle labbra «Mi è uscita la E» disse facendole l’occhiolino, tenendo la linguetta fra indice e pollice, mostrandola come fosse un trofeo. Eri arrossì e disse che era una splendida giornata.
 
I cancelli automatici si aprirono silenziosi. La ragazza vide attraverso i vetri scuri dell’automobile due guardie, poste ad entrambi i lati del cancello, battere l’attenti con lo sguardo fisso davanti a loro, sembravano statue di marmo, in uniforme e il fucile eretto contro la spalla. Guardò Kingsley seduto di fronte a lei, sembrava divertito dalla sua interdizione, dai suoi occhi allungati che andavano veloci da lui ai militari. Di nuovo, come pocanzi, le strizzò l’occhio. L’autoveicolo proseguì lentamente per diversi metri, lungo un sentiero alberato e curato, finalmente si fermò, ma questa volta non fu l’autista ad aprire la portiera dell’automobile, lo fece una donna di mezza età, con indosso un grembiule e dal forte accento spagnolo. Sicuramente una nativa del luogo. Eri scese ringraziando e, accecata dalla luce del sole, si coprì gli occhi con la mano seguendo fino alla fine l’altezza della costruzione che si ergeva dinnanzi a lei. Alla ragazza ricordò una di quei palazzi vittoriani che aveva visto solo nei film ambientati in epoche remote, dove c’erano ancora re e regine che valevano qualcosa. Alle sue spalle una fontana con l’acqua che sgorgava da anfore imbracciate da quattro statue – questa volta fatte veramente di marmo – con i seni nudi e una coda di pesce al posto delle gambe. Al centro re Tritone con il suo forcone, tenuto ben saldo nel pugno destro. La macchina si allontanò, la giapponese la seguì con lo sguardo, quindi Kingsley le sfiorò la schiena, mostrandole l’entrata maestosa della casa. Insieme salirono le scale e si inoltrarono all’interno della dimora. Un enorme salone si aprì dinnanzi a lei, decorato da quadri dalle cornici d’oro alle pareti, i pendenti di cristallo dell’imponente lampadario appeso al soffitto tintinnavano per la leggera brezza, emanando bagliori colorati che si riflettevano sulle vetrate tutte intorno. Eri se ne stava con il naso all’insù quando la stessa donna che aveva aperto lo sportello, si rivolse a Kingsley come aveva già fatto Alfonso – l’autista – e chiamandolo con l’appellativo di signorino gli chiese cosa preferivano, se tè o una bibita fresca. Senza interpellarla il ragazzo rispose che il tè andava bene, grazie Rosita. La donna si congedò con un mezzo inchino. Kingsley fece segno alla sua amica di seguirlo, su per la scalinata che si inerpicava davanti a loro, diramandosi in due direzione. Virò a destra ed Eri lo pedinò senza spiccicar parola, iniziava a chiedersi se per caso non stesse sognando. Un’altra donna, questa volta più giovane, ma vestita uguale a Rosita, li attendeva nel corridoio, salutò entrambi con una mezza riverenza e aprì per loro una porta, richiudendola dopo che erano entrati.
La stanza si rivelò essere una biblioteca, con centinaia e centinaia di libri.
«Wow!» esclamò Eri, mentre Kingsley si sedeva ad un lungo tavolo di legno scuro «Vorrei vivere in eterno solo per leggerli tutti» disse girando su sé stessa per osservare la planimetria a mezza luna degli scaffali ricolmi di volumi
«Io vorrei morire adesso per non leggerne neanche metà» fu la risposta di Kingsley e la ragazza puntò lo sguardo su di lui:
«Abiti davvero qui?» chiese liberandosi dello zaino, senza però riuscire a sedersi, tanta era l’adrenalina che provava
«Così pare»
«Cosa sei? Una specie di principe?» scherzò Eri, ma lui non parve molto divertito
«Sono un premio» disse, fece per aggiungere altro, ma quando Rosita entrò – annunciandosi con un toc-toc – si zittì. La donna spingeva un carrello con sopra una teiera finemente lavorata, due tazze capovolte e una zuccheriera che dovevano far parte della stessa collezione della prima, un vassoio e una biscottiera. Rosita capovolse una delle due tazze e vi versò dentro il tè, ma Kingsley alzò un palmo:
«Va bene così Rosita, puoi andare» la donna lasciò perdere tazze e teiera e si allontanò camminando all’indietro fino a raggiungere l’uscita, chiudendo la porta della biblioteca.
Il ragazzo si alzò e porse all’invitata la tazza con il tè che la stessa cameriera aveva riempito, quindi prese al volo un pezzo di torta di mele dal vassoio. Eri zuccherò il tè e lo assaggiò: era caldo e aveva un buon sapore, delicato. Da sopra la tazza osservò l’amico, i capelli ricciuti sul capo, la treccina colorata sul lato sinistro, la carnagione scura. Non se ne intendeva molto di popoli e di colori, ma di sicuro quello lì non era spagnolo.
«Kingsley …» disse per attirare la sua attenzione «Io sono giapponese, ma tu cosa sei? Africano?» lui rise
«Sono francese, mademoiselle» rispose, facendo un inchino da vero gentiluomo, con una mano premuta all’altezza dello stomaco e l’altra attaccata al corpo. Questa volta a ridere fu lei:
«Smettila, tanto non ti credo»
«Sei hai cinque minuti ti racconto la mia storia» continuò il ragazzo invitandola a mettersi comoda con un gesto della mano e lei obbedì, sedendosi sulla poltroncina lì vicino. Lui prese posto al suo fianco, tirandosi appresso il carrello con le cose da mangiare «A patto che poi tu mi racconti la tua di storia»
«Ci sto!» rispose Eri. Kingsley le tese la mano, come a voler siglare un patto, una promessa. La ragazza gliela strinse con forza.
 
Oramai il tè nella tazza si era raffreddato e la ragazzina lo mise da parte perché freddo non le piaceva. Aveva provato a berne un sorso, storcendo il muso, e Kingsley le aveva tolto la tazza di mano, senza smettere di parlare, ma porgendole la biscottiera coi frollini al cacao. La torta di mele se l’era mangiata tutta lui: narrando, mangiando e bevendo per non soffocare.
Kingsley aveva iniziato il racconto della storia della sua vita parlando in terza persona e lì per lì Eri non ci aveva capito molto, allora l’aveva fermato sollevando l’indice – come si fa a scuola quando si vuole intervenire – e gli aveva chiesto chi fosse “l’orfanello nero” di cui stava parlando. Lui le aveva risposto con la bocca piena di torta:
«Sto parlando di Kingsley, ovviamente» quindi aveva continuato il racconto «Fino all’età di dodici anni l’orfano ha vissuto in diverse famiglie, ma nessuna si era affezionata a lui, così allo scadere dei tre mesi tornava all’istituto di Parigi ancora più incazzato di quando lo aveva lasciato. Stai crescendo, gli dicevano, se continui così vivrai sotto un ponte» il ragazzo allargò le braccia e distese la labbra in un sorriso amaro «Per essere un ponte questa casa non è male, non trovi?!» Eri non rispose e lui intese il suo silenzio come un consenso «L’orfano nero era oramai cresciuto e a sedici anni si è troppo vecchi per trovare una famiglia a tempo indeterminato» la ragazza giapponese ebbe la sensazione che parlasse di lui come di una cosa, un oggetto, un contratto di lavoro. Forse perché semplicemente lo era davvero «Poi un giorno arrivarono due uomini e una donna che pretesero di avere un colloquio con la presidente dell’istituto. Una vecchia zitella che nessuno aveva avuto il coraggio di farsi da giovane e perciò, pensavano i ragazzi, era così acida» Eri spalancò gli occhi. Dov’era finito il ragazzo gentile che l’aveva invitata quella mattina a fare i compiti insieme? Iniziava a mancarle.
«Comunque, dopo un’ora di chiacchierata, uscirono tutti e quattro dall’ufficio. Anzi, tutti e tre, uno dei due uomini era rimasto fuori a fare da guardia alla porta come un cane da guardia … stavo dicendo?!»
«Che dopo un’ora sono usciti dall’ufficio …»
«Ah, si! Sono usciti e la presidente ha chiamato tre orfanelli: Kingsley , un orfano nero che non aveva mai conosciuto i genitori; Claudette Barbie Blonde, una bambina così bionda che la chiamavano Barbie per sfotterla, visto che lei alle Barbie tagliava i capelli e se la facevano arrabbiare anche un arto; e Maurice Mauri Mau, un tipo strano che come Kingsley era figlio di coloni dell’Africa»
«Ha-Ha! Allora sei africano?!»
«No, orientale, sono francese, nato a Parigi. La Francia ha diverse colonie in Africa e probabilmente i miei genitori si trasferirono in Francia a causa delle guerre civili. Mi hanno detto che potrei essere anche figlio di un nero e di una bianca …» Eri rimase in silenzio, interdetta, dopo la storia spagnola che era costretta a studiare a scuola, ci mancava quella europea e africana! «Ti dicevo: presero questi tre orfani e li misero in fila, braccia dietro la schiena e testa china. La donna li osservò uno per uno, soffermandosi e scribacchiando chissà cosa su un’agenda che teneva in mano. Kingsley era il più grande dei tre e la donna indugiò proprio davanti a lui, poi disse che aveva scelto. Quella fu l’ultima notte che l'orfanello nero trascorse sul materasso mangiucchiato dalle tarme dell’istituto.»
Kingsley sorrise e offrì un altro biscotto alla sua amica, le sembrava leggermente turbata, forse era meglio saltare i particolari, si disse, ma lui amava aggiungere descrizioni, vere e non. Le chiese se desiderava un altro po’ di tè caldo, Eri fece per rispondergli di no, ma lui aveva giù convocato la cameriera con un apparecchio di comunicazione interna alla casa che la ragazza, inizialmente, aveva scambiato per un comune telefono a muro. Dopo qualche minuto arrivò Rosita con un nuovo carrello e tazze fumanti, si scusò affermando che la torta di mele era finita. Kingsley la liquidò in fretta e la donna uscì dalla biblioteca portando con sé il vecchio carrello. Eri bevve un po’ di tè, stavolta aveva intenzione di finirlo prima che si raffreddasse. Intanto il racconto riprese:
«L’orfano il giorno dopo fu lavato come un cavallo, la pelle strofinata con spugna e sapone, vestito e pettinato. Volevano tagliargli la treccina …» se la carezzò distrattamente «… ma udendo le urla del ragazzo la donna del giorno prima, in attesa fuori alla stanza, entrò senza bussare, ordinando di lasciarlo in pace. Così Kingsley si tenne la sua treccina porta fortuna» ancora una volta le fece l’occhiolino e la ragazza arrossì lievemente, quasi avesse combattuto per tenersi quella treccia come fosse una cosa che riguardasse entrambi «Il ragazzo salì su una splendida auto, non bella quanto quella che hai visto tu, ma comunque importante, in compagnia della donna e dei due uomini del giorno precedente. Immediatamente notò le due bandierine che sventolavano sul muso della macchina: una era quella francese, l’altra non l’aveva mai vista. Fu portato in un enorme palazzo antico, ovunque c’erano quelle bandiere sconosciute. La donna lo accompagnò fin dentro una grande camera, molto simile a questa, ma con meno libri, dove gli disse di attendere. Rimasto solo l’orfano nero prese a giocherellare con la bandierina dai colori sconosciuti posta sulla scrivania, accanto al portapenne.»
Eri ascoltava il suo amico tenendo gli occhi fissi dentro i suoi, non era una di quelle che abbassa lo sguardo lei, proprio come suo padre, fiero e gagliardo dinnanzi a qualsiasi situazione o persona. Ogni tanto assaporava il calore del tè sorseggiandolo, stringendo la tazza con tutte e due le mani. Più volte si era chiesta, durante il racconto di Kingsley, se per caso non la stesse prendendo in giro, quella storia sapeva troppo di romanzo dickensiano. Eppure lui non aveva avuto un momento di cedimento, non si era fermato un attimo a soppesare le parole che pronunciava, come se tutte quelle immagini fossero ben impresse nella sua mente e sulla sua pelle.
«Era la bandiera della Spagna?» chiese ad un tratto lei e lui sorrise, mimando una pistola con le dita:
«Bingo!» esclamò «Sei una scaltra tu!» ancora quell’occhiolino «Ti dicevo che l'orfano curiosava per la stanza quando tornò la donna che lo aveva chiuso dentro, accompagnata questa volta da un uomo e da un’altra donna, più anziana. Entrambi più anziani della prima a dire la verità, o almeno anziani quanto possono esserlo due cinquantenni agli occhi di un ragazzo»
«Erano i tuoi genitori adottivi?» gli domandò Eri, cominciava a stufarsi, quella storia sembrava non avere un dunque, né tanto meno una fine e lei ferveva dalla voglia di sapere, di conoscere
«Hai fatto di nuovo centro! Brava, brava!» Kingsley prese un po’ di tè per sé, aveva la gola secca dal tanto parlare «La donna li presentò come il signore e la signora Rodriguez. Lui guardò il ragazzo dal basso verso l’alto, non era molto slanciato, e la moglie ancor meno, ma aveva un viso dolce a dispetto del marito. Questo disse che aveva da fare e se ne andò, la moglie e l’altra donna rimasero a chiacchierare a lungo con il ragazzo e quella stessa sera si avviarono le pratiche per l’adozione» l’espressione di Kingsley esplose in un gran sorriso
«E poi?» chiese Eri
«E poi cosa?»
«E poi tutto! Come ti sei trovato qui dalla Francia? Come mai vivi in un castello
«Ho trascorso il primo anno lì, a Parigi. Il signor Matteo Rodriguez era ambasciatore spagnolo in Francia, poi è dovuto rientrare per le elezioni, candidandosi alla carica di ministro degli affari esteri. Ed eccomi qui!» aprì le braccia per sottolineare la sua presenza fisica
«Tuo padre è un ministro?!» Eri non poteva crederci, eppure lui confermò la sua tesi annuendo e mangiando un altro biscotto. Lei aggiunse: «Prima mi hai detto che sei un premio, in che senso?»
«Quale popolo non vorrebbe al comando un politico che aiuta gli orfanelli?!» e allora Eri capì. Era stato tutto programmato: la sua adozione, il ritorno in patria dopo un anno e la campagna elettorale. Ci avrebbe scommesso la testa che il padre adottivo se lo trascinava appresso durante i comizi mostrandolo alla folla come un premio, appunto. Un trofeo.
«Parli bene lo spagnolo per essere un francese»
«In Francia avevo dei maestri a domicilio che mi hanno insegnato praticamente tutto, rivolgendosi a me categoricamente in spagnolo. Negli orfanotrofi insegnano a male appena a leggere e a scrivere. Ma ora, per fortuna, sono in classe con te!» Eri arrossì un pochino «Mia madre un giorno si è spazientita dicendo che dovevo andare ad una vera scuola per farmi degli amici e mio padre non ha potuto rifiutarsi. Avresti dovuto sentire come urlava!»  rise, ma Eri non ci trovò proprio nulla di divertente.
 
Dopo un po’ Eri capì una cosa fondamentale: Kingsley Rodriguez, che era mancato da scuola per una settimana, ne sapeva più di lei sulle lezioni che si era perso. La situazione cominciò ad esserle chiara quando la precedeva nella spiegazione di storia, o riusciva a risolvere un’equazione in tre passaggi, mentre lei si era già persa nei labirinti oscuri della matematica. All’ennesimo calcolo sbagliato sbottò:
«Basta!» abbandonò la matita sul tavolo e si mise a braccia conserte, il ragazzo di fronte a lei alzò gli occhi dal quaderno a quadri e abbozzò un sorriso «Qui l’unica persona in difficoltà sono io!»
«Dai, ti aiuto …» Kingsley si levò per prendere posto al fianco dell’amica
«Se sei così bravo, perché mi hai invitato a casa tua per studiare insieme? Per raccontarmi la tua storia? Per sfogarti? Per farti compatire?»
«Per passare un po’ di tempo insieme e si, per raccontarti la mia storia e conoscere la tua. Avevi promesso che me l’avresti raccontata …»
«Mio padre è spagnolo, è morto e mi sono trasferita qua con okaasan» Kingsley fece una faccia interrogativa «Cioè mia mamma»
«Tutto qua?»
«Si, tutto qua»
«Come è morto tuo padre?»
«Incidente stradale, in Giappone. Io avevo tipo sei anni» il ragazzo la osservò per un po’, in silenzio, comprese che quello era un argomento ancora tabù, non tanto per la perdita del genitore in sé, quanto per un sentimento che faceva a pugni dentro di lei. Raccolse la matita di Eri adagiata su un foglio di brutta, tutto stropicciato e pieno di cancellature e iniziò cerchiando un’operazione:
«Ecco l’errore: il segno meno davanti alla parentesi trasforma tutti quelli che stanno all’interno …» Eri ascoltò attenta la spiegazione, Kingsley sapeva spiegarsi perfettamente e usava termini semplici, così come aveva fatto durante la narrazione della sua vita.
«Rodriguez» lo chiamò e lui si fermò dall’illustrare la risoluzione di matematica «Perché hai raccontato la tua vita parlando di te come di un’altra persona?»
«Perché lo ero. Ero un’altra persona, avevo un’altra vita, non posso considerare questa e quella come la stessa cosa. Sono cambiato e quindi non sono più la persona che ero»
«Cosa hai fatto durante la settimana di assenza a scuola?» lui sorrise
«Non vuoi parlare di te, ma …»
«Se non vuoi o non puoi dirmelo non fa niente»
«Sono andato con mio padre fra la gente povera. Il mio caro papino ha ben pensato che mostrandomi loro, questi avrebbero avuto speranza per il futuro. Poi ha aggiunto che però avrebbero dovuto lavorare sodo, altrimenti come si può pretendere di raggiungere certi obiettivi nella vita? Come se non si spezzassero già la schiena tutti i giorni!»
Notando lo sguardo colmo di odio e di rancore del ragazzo, Eri preferì riprendere la spiegazione sulle equazioni.
 
 
 
 
  
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