Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: RaspberryLad    20/04/2015    1 recensioni
La domanda è sempre una, è una sola: Perché?
D’altronde, è la domanda più frequente nella vita di una persona. La inizi a fare da molto piccolo, quando vuoi capire come funzionino le cose, ma crescendo l’innocenza si perde, e dietro ad un perché si nascondono una pletora di emozioni. Dolore. Odio. Pietà. Tristezza. È raro che qualcuno chieda il perché di qualcosa che funziona – perché analizzare e analizzarsi, quando tutto va bene?

[Partecipa al contest "Città d'Italia" indetto da Babyjenks]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Untitled 8
 
 
 
 
 
 
Bologna, sabato 7 febbraio 2015
 
È freddo, oggi. Lo noti mentre stai in fila per il tuo caffè, in Piazza Verdi, come tutte le mattine. Sta nevicando, sai che probabilmente tra poco smetterà, probabilmente spunterà pure il sole e non sarà così difficile arrivare in stazione.
È una giornata speciale. Proprio perché è una giornata speciale, non sei intenzionato a rinunciare al pensiero di bere questo caffè fuori, anche se nevica, e fa freddo, e la neve ti disturba la vista, bagnandoti gli occhiali. Ti siedi sotto al portico, ma abbastanza vicino all’esterno, mentre la neve continua a cadere.
Mentre bevi il tuo caffè, il tuo sguardo si ferma, incurante, sulle tue valigie. Ce l’hai fatta. Stai per partire, stai per fare un anno di Erasmus in Germania. Ma non ci pensi, vuoi solo concentrarti sulle sensazioni: sul fumo che emana il caffè al contatto con l’aria fredda, il suo sapore amaro – lo prendi sempre senza zucchero, non ami l’idea di cambiare il sapore a qualcosa che compri – le persone che camminano talvolta con attenzione, per non scivolare, talvolta di corsa, per sfuggire alla neve e al freddo. C’è chi ha lezione all’università, chi sta andando al lavoro, chi semplicemente ha preso un appuntamento e deve uscire, anche se l’unica cosa da fare sarebbe rimanere a casa, sotto una coperta di pile a bere una cioccolata calda, magari con della musica classica di sottofondo – classica, non canzoni di Natale, giacché trovi le canzoni di Natale troppo melense e troppo poco realistiche, poco legate alla tragedia, allo scorrere degli eventi, alla vita. Sono canzoni astratte, inadatte al cambio delle stagioni, utili solo a sentirsi più buoni nel periodo natalizio, sono un’indulgenza sonora.
Tu invece te la stai godendo, quest’atmosfera calma, finché dura. In qualche ora, il sole inizierà a battere e la neve si scongelerà, ma tu non sarai qui a vederlo.
Ieri sera hai salutato la tua famiglia, l’altroieri i tuoi amici. Su alcuni di loro hai visto l’incredulità, non credevano davvero che l’avresti fatto. Sei Giulio, lo studente modello di architettura, futuro fortunato padre di famiglia, con tre figli, una bella casa e un ottimo lavoro. Per alcuni, il pensiero di andare a fare un anno fuori, in Erasmus, è come gettare alle ortiche tutto il lavoro che hai fatto finora. «Giulio,» ti ha detto Giovanni, il tuo amico da una vita, sin da quando eravate alle medie «che cazzo stai facendo? Lo stanno tutti che se vai in Erasmus perderai tempo, la gente si laurea fuoricorso per andare fuori, quando fino ad adesso, nella tua vita, hai fatto solo il passo giusto al momento giusto!». Non gli hai risposto, a Giovanni, hai sorriso e hai cambiato discorso e lui non ha voluto ritornarci. Forse ti ha capito, o forse non voleva capirti.
Ricordi lo sguardo di tua madre, quando le hai annunciato che saresti andato in Erasmus. Ricordi che lo ha distolto, perché si sentiva ferita. Suo figlio l’aveva tradita; invece di rimanere con la sua famiglia, che lo amava – che ti amava così tanto, Giulio – aveva preferito andarsene in un altro Paese, lontano, per un anno. Ma lo sguardo che più ti ha colpito è quello di Sara, la tua ragazza. O ex-ragazza, forse, visto che ti ha guardato con uno sguardo più astioso che ferito. La stavi abbandonando lì, andandoti a trovare qualcun altro, qualcuno diverso dalla fidanzata con cui sei stato sette anni, quella con cui condividevi il banco al liceo e poi le lezioni all’università. Ti ha urlato contro, perché stavi buttando all’aria tutta la vita che avevate programmato insieme. La domanda è sempre una, è una sola: Perché?
D’altronde, è la domanda più frequente nella vita di una persona. La inizi a fare da molto piccolo, quando vuoi capire come funzionino le cose, ma crescendo l’innocenza si perde, e dietro ad un perché si nascondono una pletora di emozioni. Dolore. Odio. Pietà. Tristezza. È raro che qualcuno chieda il perché di qualcosa che funziona – perché analizzare e analizzarsi, quando tutto va bene?
Il caffè l’hai finito, ma non sei intenzionato ad alzarti. Vuoi vedere come la città si sta svegliando, mano a mano che la neve smette di scendere. Vedi le signore di mezz’età andare a far la spesa, gli studenti iniziare a raggrupparsi, prima di andare a fare un giro alla Montagnola a comprare qualcosa, o ancora meglio, prima di chiudersi in qualche negozio sul viale dell’Indipendenza, a guardare vestiti che tanto non compreranno mai, solo per guadagnare un po’ di calore e per star riparati sotto ai portici. Vuoi vedere ancora una volta come, per piazza Verdi, passino ogni giorno centinaia di tipi di persone diverse, dallo studente squattrinato, al turista con zaino e sandali con i calzini – non in Febbraio, fortunatamente – alle signore impellicciate alla ricerca del nuovo chirurgo estetico che possa fermare il tempo e farlo tornare indietro, in modo da non dover gestire i rimpianti. Se il tempo non passa, non c’è niente da rimpiangere, no?
Sei un bravo ragazzo, Giulio. Quante volte te l’hanno ripetuto, nel corso di questi anni? Quante volte le amiche di tua madre hanno detto questa frase, deliziandosi di quanto il figlio della loro amica fosse a posto ed educato, tanto da desiderare a oltre cinquant’anni un desiderio di maternità, ma solo con un ragazzo già cresciuto? Quante volte l’hanno detto i tuoi ormai ex-amici, quando cercavano qualcosa di diverso da quello che potevi dargli tu? L’essere un bravo ragazzo è molto più una maledizione, non una benedizione. Significa che tu hai delle aspettative da mantenere, perché il bravo ragazzo è solo quello che la società riconosce come tale, e se cerchi di uscire dal cerchio – oppressivo, ripeti con me, Giulio, oppressivo – esso ti avvolge come un serpente a sonagli, chiedendoti chi ti abbia cambiato. E tu sei un bravo ragazzo: studente modello fin dall’asilo, orgoglio di mamma e papà, entrato ad Architettura nei primi dieci della graduatoria – e i tuoi genitori hanno anche insinuato che gli altri nove fossero solo dei raccomandati, perché per loro è inconcepibile che qualsiasi persona possa essere più perfetta del loro bravo ragazzo – con una ragazza adorabile con cui hai passato gran parte della tua vita, un gruppo di amici fidati e soprattutto educati e abituati ad apparire. Tutto ciò fa di te un bravo ragazzo, quello che non prende mai una decisione sbagliata, mai una affrettata, mai una inaccettabile. Tua nonna, prima di sapere che saresti partito – e diresti che non ti ha più guardato nello stesso modo, da quel giorno – ti chiedeva quando finalmente ti saresti sposato. Era già pronta a darti il suo anello di fidanzamento per quando avresti chiesto a Sara di sposarla. Era già pronta a combattere con tutte le donne sue parenti e affini per poter dare il nome alla prima nata femmina dal vostro matrimonio. Aveva già organizzato la tua vita perfetta, credendo che avresti ringraziato, perché avresti avuto qualcosa in meno da pensare, e non avresti avuto bisogno di chiederti dei perché.
Guardi l’orologio: sono le dieci. Decidi di iniziare ad incamminarti: alle tre hai l’aereo dall’aeroporto, ma devi prima prendere la navetta in stazione. Invece di tagliare, fare tutta via Zamboni fino a ritrovarti sui viali – quante giornate hai passato sugli autobus, mentre tornavi da scuola, mentre le stagioni passavano e vedevi morire e poi rinascere la vita sui tigli? –  e risparmiare tanto tempo, decidi di andare nell’altra direzione. Vuoi rivedere le Torri, vuoi fare un’ultima volta il giro che tante volte hai fatto, quando volevi camminare un po’, vuoi ancora una volta osservare come la città attorno a te si muove. Ti dispiace che ci siano i lavori, tra le Torri e Piazza Maggiore, vorresti ricordartele come in certi giorni di primavera, quando saltavi la scuola di nascosto con i tuoi amici, piena di gente e di colori, ma ciò non ti impedisce di camminare.
Mentre cammini, non riesci a non domandarti perché hai cominciato a chiederti di nuovo il perché di quanto accadesse attorno a te, come quando avevi sette o otto anni. Non solo perché, ma anche quando hai capito che la perfezione della tua vita era solo una facciata che altri avevano creato per te, per essere fieri di esserti vicini. Già a scuola ti hanno insegnato a pensare che sia peccato cercare di esprimere la propria unicità, come se nel XXI secolo ci sia una nuova religione, la religione della normatività sociale. È una religione insidiosa, perché ne fai parte senza esserne realmente cosciente.  Ti insegnano che è giusto desiderare solo quello che gli altri vogliono e tu, come tutti noi, inconsciamente lo accetti. È tutta una questione di status sociale, per questo ti insegnano che il tuo obiettivo non deve essere la felicità, ma la tua appartenenza a questo mondo. A Bologna ci sono molte opportunità, è una grande città, ma anche nelle grandi città si ricreano le stesse dinamiche dei paesi, solo in un’unità più grande. Per essere l’orgoglio di mamma e papà – ripeti con me, figlio da vetrina – hai deciso di andare al Galvani, perché era uno dei classici più antichi di Bologna e dovevi dimostrare che eri degno figlio della tua città e della tua famiglia.
Alle Torri c’è, come al solito, un sacco di gente che passeggia: gente che osserva le vetrine, entra in Feltrinelli per cercare dei libri, o forse più per darsi un tono, incuranti del fatto che tu li stia osservando. Vorresti una sigaretta, anche se non hai mai fumato: lo vedi come il primo passo verso l’uscita dalla vita di figlio e fidanzato perfetto, ma non hai le palle di farlo. O forse, sei solo troppo intelligente per abbassarti a questi livelli infantili di ribellione.
È divertente, il fatto che ti abbiano tacciato di tradimento e ribellione senza aver ancora fisicamente fatto nulla: non hai ancora preso l’aereo, non sei ancora atterrato a Berlino, non sei ancora entrato nel tuo nuovo WG1, la tua casa per un anno e chissà, magari di più. Già solo il pensiero di allontanarti ti rende un reietto, perché l’ambizione è importante, ma l’ambizione non dovrebbe mai uscire dal proprio giardino. Potresti suonare semplicemente assetato di potere, visto che l’erba del vicino è sempre più verde. Ma tu non cerchi potere, cerchi la possibilità di comprendere. Ecco perché hai iniziato a porti quelle domande: perché non capivi cosa stava avvenendo attorno a te, non capivi perché ti sentivi oppresso, anche se vivevi nella vita perfetta – perfetta, ma non tua. È comico pensare che c’è chi pagherebbe per essere nei tuoi panni e tu te ne stai spogliando, come se fossi un novello san Francesco. Non ti stai spogliando delle tue ricchezze, ma del tuo ruolo nella società, in realtà, ma in un mondo in cui lo status vale anche più della ricchezza fisica – quante volte hai sentito parlare di fallimenti, di bancherotte? Possibile non rendersi conto di non riuscire a gestire un proprio stile di vita? – sei veramente san Francesco.
Sali per via Rizzoli, butti un occhio dentro alla Fnac, o alla Coin, dove le persone continuano pigramente a far spese, osservando distrattamente se il prezzo è quello che si aspettano o se è più caro. Camminare è un po’ faticoso: su via Rizzoli non ci sono portici e la neve si è depositata a terra e sta iniziando a sciogliersi, rendendo il marciapiede assai sdrucciolevole. D’altronde, il marciapiede scivoloso non è un po’ una metafora della vita? Un piede in fallo e puoi cadere, e farti molto male. E quando hai dei pesi con te – le valigie, ma anche il peso di altre persone sulle tue spalle – scivolare è molto più facile. Stai prestando molta attenzione a non cadere, come se fossero gli ultimi passi prima di liberarti di questo peso.
È molto più facile, ora che hai raggiunto viale dell’Indipendenza: non c’è neve, ci sono i portici gremiti di gente. Ti fermi qualche secondo, appena superato il Mc Donald’s: nella Basilica di San Pietro – chissà cosa si è sostituito a san Pietro nella nuova religione sociale – qualcuno si sta sposando. Lo deduci dalla bella berlina nera, con coccarde bianche in onore degli sposi; probabilmente, stamattina, prima di arrivare alla basilica, anche la macchina era tutta bianca, coperta dalla neve, o più probabilmente era in un garage, lontano dalle intemperie, dall’esterno che potesse rovinarla. In realtà, sarebbe stato più poetico se fosse stata coperta di bianco: la sposa avrebbe potuto fare delle foto da favola, di quelle che metti sul caminetto, o sul tavolino da caffè in soggiorno, che causano l’invidia di tutti gli ospiti. Con tutta probabilità, invece, il matrimonio finirà quando già la gran parte della neve sarà sciolta, e del candore della mattina rimarrà solo dell’acqua sporca e fredda, contaminata dai passi delle persone.
Non puoi non pensare, ancora una volta, a Sara. “Certe volte non capisco come un altro possa averla cara, mentre io amo lei, unicamente, così dal profondo, così pienamente, e non conosco, e non so, e non ho altro che lei”, diceva Goethe. Ti è sempre piaciuto molto Goethe, e ricordi la passione con cui hai letto per la prima volta i Dolori del Giovane Werther, probabilmente è stato il primo momento in cui ti sei interessato davvero alla Germania. Cinque anni dopo, stai finalmente partendo in quella direzione, facendo il viaggio inverso rispetto a Goethe. Sai che Goethe, in quella citazione, ha fotografato una fase della tua vita. Ricordi di aver scritto quella frase sul tuo diario, probabilmente al 14 di febbraio o in qualche giorno di primavera in cui ti sentivi particolarmente romantico. In quel momento, tu non avevi veramente altro che lei, se escludiamo le altre convenzioni che la società ti stava imponendo. È per questo che siete durati così tanto insieme, probabilmente: perché tu vedevi in lei il mondo di entrambi, un mondo costruito da e per voi. Tra i perché che ti sei chiesto, il perché ti sentissi oppresso da lei è stato senza dubbio il più doloroso. Provi affetto per lei, non pensi che la potrai mai odiare; forse puoi addirittura dire di amarla, ma tu hai capito che non è giusto avere solo lei. Sara, senza volerlo, era lo strumento più forte che il Dio della normatività sociale – o forse il Satana, dipende dal punto di vista – ti aveva mandato per rimanere nel tuo contesto, per non andartene, per non concentrare la tua attenzione e il tuo amore su di te e non su chi ti stava intrappolando nella rete.
A questo punto, inizi ad accelerare il passo. Non lo fai consciamente, ma cammini sempre più veloce, fino a che la camminata si trasforma quasi in una corsa, come unico freno le valigie. Non presti attenzione agli attraversamenti pedonali, dove la neve è ancora fresca e il rischio di cadere è alto: non ti interessa. Vuoi solamente raggiungere la stazione, e non è la fretta o la paura di perdere il volo per Berlino a farti accelerare, ma solo il non sentire più le tue spalle flettersi in avanti automaticamente, l’essere in grado di sollevare la testa e drizzare la schiena, incontrare con lo sguardo il sole che si riflette sulla neve. Ti senti così forte che potresti anche camminare fino all’aeroporto, ma ti limiti ad avvicinarti sempre più all’autobus, e mano a mano che ti avvicini il tuo sorriso cresce. Non hai paura. Non temi la caduta o il farti male, non pensi che saltare da un marciapiede all’altro, davanti alla Stazione, possa essere pericoloso, l’unica cosa che temi è perdere questa nuova attitudine, questo nuovo qualcosa che non sai ancora descrivere, ma che presto capirai pienamente nella sua forma. Tuttavia, non rinunci a dare un ultimo sguardo alla tua città, mentre l’autobus parte e percorre i viali, prima di salire in Tangenziale e raggiungere l’aeroporto.
 
Ti hanno avvisato tutti dei pericoli del partire. Fa paura vivere da soli, in un Paese estero, dove la gente parla un’altra lingua – e per quanto tu possa essere bravo, non sei madrelingua solo studiando a scuola o all’università – e dove la distanza di casa possa essere incolmabile ed estremamente dolorosa. Te l’hanno detto che, in caso di difficoltà, non vedranno l’ora di riabbracciarti, come se il fallimento fosse partire, non tornare. Ti hanno avvisato dei pericoli, della solitudine, delle difficoltà. Quello che nessuno si è ricordato di dirti, però, è che partire ti dà una possibilità. Una possibilità che hai deciso di cogliere, e col cazzo che la getti via senza provare.
La possibilità di trovare te stesso.
 
 
  1. Per WG si intendono gli appartamenti in Germania.
Note:
Ammetto che mi sento… svuotato. Non è una storia lunga, sono cinque pagine, ma le trovo molto condensate. Non è una storia autobiografica, ma come sempre c’è qualcosa delle mie esperienze o di quelle di qualcuno a me vicino in quello che scrivo. In questo caso, la scelta della data non è casuale: il 7 febbraio ero a Bologna, con delle valigie, e nevicava davvero. Ma di mio, per il resto, c’è poco: ho solo sentito il bisogno di raccontare la storia di Giulio, della sua liberazione da un ambiente falsamente accogliente – ma assai opprimente – e la sua ricerca di se stesso. Io l’ho visto, Giulio, mentre ascoltavo i Sigur Ros, poche sere fa: ho visto questo ragazzo moro, alto, capelli lisci, con il viso allungato, gli occhiali e un cappotto lungo, che cammina velocemente per viale Indipendenza e ha questo sorriso luminosissimo. Quello che mi è rimasto impresso è questo sorriso innocente, da bambino, il sorriso di una persona che sta per buttarsi in una nuova avventura senza alcun timore di non farcela. I prompt cascavano a fagiolo, la musica pure, il mio stato d’animo altrettanto, per cui ho voluto descrivere per bene la storia di Giulio: non so se esce dal testo, ma ci ho veramente messo l’anima, perché è un messaggio che ci tenevo a narrare.
(Sul fatto che ho visto Giulio, avete due alternative: o ho letto troppo la biografia di Tori Amos e mi sono impazzito, oppure sono i Sigur Ros che creano effetti paranormali. Posso giurare di essermi sentito librare mentre suonavano Untitled 8, che peraltro dà il nome alla storia e che uso con un certo timore reverenziale, anche se non a scopo di lucro per cui, miei cari, rimanete in Islanda e non denunciatemi.)
Sono davvero molto soddisfatto per il risultato: anche la seconda persona è venuta spontanea, non è stata meditata. Secondo me, la seconda persona era necessaria perché parliamo di una persona che è alla ricerca di se stesso: non essendosi ancora trovato, la prima persona mi suona molto male. Su chi sia la persona che parla a Giulio, posso essere io autore, o anche Dio, o la sua coscienza, o anche il futuro se stesso, chi lo sa. E mi sa che smetto di parlare della storia, perché qua sennò mi internate. :P
Comunque, faccende più amministrative: la storia partecipa al contest di Babyjenks (e se non la conoscete, andate a leggere le sue meravigliose storie <3 ) sulle Città d’Italia. Io partecipavo con il Pacchetto Bologna, come poteva essere immaginabile.
Alla fine di questo papiro di note, ho due ringraziamenti: uno ai Sigur Ros, perché la loro musica è talmente emotiva che sono perfetti per questo tipo di storia – e infatti, nonostante io tenda a non usare le mie canzoni preferite relativamente a ciò che scrivo, stavolta sembrava semplicemente giusto. L’altro ringraziamento va a Sebastian, weil du wusste, was ich nicht wissen konnte. E qui chiudo veramente.
Alla prossima!
-RL-
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: RaspberryLad