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Autore: Virgyl Item    25/04/2015    2 recensioni
Gerard Way ha sedici anni, qualche problema di troppo, e una disarmante voglia di vivere.
Le sue giornate passano velocemente, alternandosi fra lezioni private, sedute psicologiche ed inutili litigi con i genitori.
Ma quando inizierà a frequentare la Redflame, rinomata scuola superiore di New York, Gerard dovrà vedersela con un nuovo mondo, e con una diversa realtà.
Un insolito incontro con un ragazzo renderà la sua vita una scoperta ai confini dell’esistenza, una lotta fra razionalità e sentimento, un’ incredibile avventura che vedrà come protagonista l’indistruttibile forza dell’amicizia e dell’amore.
E soltanto allora, i colori riusciranno a vincere.
 
“Ognuno di noi è costretto a seguire una strada che non gli appartiene pienamente.
Niente di nuovo, niente di spettacolare.
Le solite, immutabili, fredde e cupe strade di Novembre.
Tutti camminano qua sopra.
Ma nessuno si chiede mai il perché.
Siamo cosí abituati a seguire la nostra via, che ci dimentichiamo di chi siamo realmente.
Il mio nome è Gerard Way, e sono un ragazzo indaco.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                                                                              ***

Canzone: Life on Mars- David Bowie

Capitolo Primo.-Colours.

Mi sono sempre piaciuti i colori.
La mia cameretta aveva le pareti gialle.
Poi iniziai a ricoprirle di poster e la vernice sparì dietro dozzine di fotografie delle mie band preferite.
Ma non ho mai smesso di amare i colori.
Però non avrei neanche mai pensato di esserlo io stesso, un colore.
Sono un colore abbastanza triste. Uno di quelli sconosciuti, che non trovi nelle confezioni di tempere perché nessuno lo userà mai. Bhè, neanche io vengo usato poi molto. 
Tutti amano i colori. Tutti hanno bisogno di sfumare la propria vita con un paio di pennellate. Ognuno di noi è dipinto da varie tonalità. E allora perché, mi chiedo, nessuno vuole starmi troppo vicino, sebbene sia un colore?
Non sono eccessivamente acceso, e preferisco starmene zitto da qualche parte, piuttosto che sputare cazzate.
Preferisco confondermi tra gli altri, e non risaltare nel grigio mondo che mi circonda.
"È malato. Ha una malattia che si chiama come un colore", sentivo spesso dire dai miei compagni della scuola materna, che mi osservavano interrompendosi fra risate sommesse e ghigni divertiti. Non me la sono mi presa più di tanto, infondo avevo cose ben più importanti a cui pensare.
Il cielo, ad esempio. O il mare. Sono sempre stato dell'idea che se potessi viaggiare nel tempo, scoprirei di derivare da un uccello. O un pesce, magari. Sento dentro di me che la terra non fa al caso mio. Troppo ferma, troppo monotona. Troppo limitata.
Quando ero nato, nella sala parto di un piccolo ospedale del Jersey, avevo gli occhi completamente aperti, pronti per osservare e già verdi come quelli di mia nonna. Per i dottori risultò strano, e non esitarono a farmi delle analisi. Mi tennero là dentro per settimane, mi aveva detto mia mamma. Non oso immaginare la noia che provavo in quei giorni. 
Menomale che non ero in grado di raccogliere informazioni da aggiungere alla mia memoria, dato che io, una memoria, non la possedevo ancora.
Il tutto si concluse con un verdetto da parte del dottor Wayne, in cui dichiarava apertamente che "il bambino era affetto da gravi distorsioni mentali non ancora analizzate dalla scienza". Sono ancora alla ricerca di quel dannato dottore e delle sue teorie decisamente discutibili.
In poche parole, mi ritrovai intorno tutor di ogni tipo, fra parenti e insegnanti, infermieri e parroci della chiesa.
Non so quali problemi li tormentassero, e da dove provenisse la loro interminabile voglia di chiedermi, ogni fottutissima volta, cosa vedevo quando uno di loro entrava nella stanza. "Pensano che sia un alieno", mi dissi fra me e me, un giorno.
Così, la ventiquattresima volta che mi ripetevano quella frase -le avevo contate, tutte- risposi con un secco,
"Vedo una luce verde che vi avvolge e vi trascina da me.".
Questo bastò per levarmeli dai piedi per qualche giorno, evitando di perdermi in inutili sessioni psicologiche, come le chiamava mio padre.
Sessioni psicologiche era un termine pressoché professionale, e mio padre era un tipo molto professionale.
I professionisti che usavano parole professionali, i masochisti che usavano parole decisamente masochiste, e gli strani, come me, che si esprimevano nel modo più strano che gli umani conoscessero. Tutto tornava.
E mentre io ridevo dell'evidente scherzo sugli alieni, loro realmente si preoccupavano del fatto che io potessi soffrire di allucinazioni.
Trascorsi così un anno intero fra la mia stranezza e la professionalità -ma soprattutto noia, degli assistenti che mi circondavano ogni giorno.
Poi, i medici capirono che la mia non era affatto una malattia, bensì un fenomeno abbastanza raro -o così mi sembra che avessero detto-.
Non feci molto caso a quel termine che la dottoressa Marshall aveva usato, limitandomi ad aspettare ansioso la loro resa, e il ritorno alla libertà.
Quando finalmente successe, sperai immediatamente in una gloriosa entrata nella nuova scuola. Ma la mia felicità da bambino sognante di appena sei anni, non durò così a lungo. Infatti bastarono pochi sguardi, pochi discorsi insensati -ma di per sé giusti- che gli insegnanti sentirono uscire dalla mia bocca, per farmi cominciare nuove sedute psicologiche. Non in ospedale, fortunatamente, ma pur sempre noiose e insignificanti.
Cominciavo a stancarmi di quella storia.
Se non fosse stato per mia nonna, a quest'ora sarei ancora rinchiuso fra le quattro mura dello studio psicologico che frequentavo settimanalmente. E chissà, magari non sarebbe stato così male, ripensandoci.
Mia nonna Elena è poco più alta di me, mingherlina e arzilla, modello della classica donna del dopoguerra. 
Fu proprio lei, una domenica mattina, a trascinarmi sul taxi che ci aspettava fuori all'entrata dell'edificio, senza troppi giri di parole.
"Nonna, cos-", riuscii a balbettare, mentre inciampavo sulle mie stesse scarpe. Avrei compiuto di lì a poco dieci anni, e le mie gambe non erano secche come quelle dei miei coetanei. 'Ben vengano', mi dicevo, pensando alle loro stecche ossute. Possedevo molta più forza, se non altro.
"Ringraziami Gerard, ringraziami", aveva borbottato lei in risposta, senza mollare la presa dal mio avambraccio.
Salito sulla vettura, scoprii in poco tempo che la direzione era proprio casa di mia nonna. Mi piaceva quella piccola villetta di periferia, circondata da rare piante di garofani che mio nonno portava puntualmente al ritorno dei suoi lunghi viaggi all'estero. Poi mio nonno era morto, e con lui tutte le nostre speranze di poter costruire la più grande serra di garofani esistente al mondo. La sua morte, comunque, non fu così dolorosa. Mia nonna passò solamente qualche giorno di digiuno, mia madre scappò da suo fratello per una settimana, mentre io me la ridevo in un qualche angolo della casa. E intorno giaceva il silenzio.
Qualcuno mi disse che i bambini piangevano quando perdevano un parente, e quindi provai a farlo anche io. Dai miei occhi uscirono sì e no un paio di lacrime, ma poi mi annoiai, e ricominciai a ridacchiare davanti allo schermo di quella televisione che era la mia famiglia.
Il tempo scorreva comunque velocemente, e fu facile per gli altri riprendersi. Mia nonna, addirittura, stanca di quel digiuno, mangiò talmente tanto  che mise su quattro o cinque chili tutti in una volta. Insomma, mi piaceva davvero molto casa sua. Lì erano successe tante cose belle quanto brutte. Anche se io, in verità, il brutto non sapevo neanche cosa fosse. Non ero un bambino allegro, ma non mi piangevo mai addosso. Anzi, diciamo che non piangevo mai, in generale.
Dopo due anni in ospedale, e quattro di sedute psicologiche, arrivare davanti alla porticina bianca della villetta, non fece che riaccendere quell'ultimo spiraglio di speranza che si era spento con il mio ricovero. 
"Tuo padre mi ha concesso di prenderti con me per non più di una settimana, mentre tua mamma sa solo di un weekend 'diverso' a casa della nonna. Non voglio guai.", mi disse, non appena fummo dentro.
Annuii solennemente, scegliendo una sedia vicino al tavolo rettangolare di legno scuro, e mettendomi Fluffy sulle gambe. Fluffy era il gatto di mia nonna.
Aveva un nome orribile. In effetti, nessun nome è apparentemente giusto per un animale, secondo me. Infatti, preferivo chiamarlo semplicemente col suo nome tecnico. Gatto.
"Ehi, Gatto!", lo chiamai, il primo giorno,  stravaccandomi sui vimini della sedia.
Un miagolio ruffiano si fece spazio nel silenzio dell'abitazione, mentre il grasso gattone rosso saliva goffamente su di me.
Infilai le mie dita sottili fra i suoi peli folti e massicci. Mi piaceva quel gatto. E io piacevo a lui. Forse ero l'unica persona che non aveva mai marchiato con i suoi artigli affilatissimi. E gli ero immensamente grato per questo. Tutti tendevano sempre ad assalirmi, in ogni modo e in ogni luogo.
Ma come ho già detto, niente di tutto questo era mai riuscito a farmi piangere, o deprimere dietro un muro di solitudine. L'idea di cambiare per qualcun'altro che mi vedeva come 'strano', non mi passava neanche per la testa. Non avrei mai alterato alcun carattere di me stesso. Dopotutto era la mia vita. E le critiche facevano parte della mia vita.
Così non rispondevo a nessuna di esse, né le accumulavo dentro di me, come facevano i ragazzini depressi che ogni tanto vedevo in giro.
Semplicemente, le accettavo.

E fu così, tra i gemiti del gatto, e le telefonate interminabili di mia nonna, che passai la prima settimana fuori dall'immutabile percorso vitale che avevo fatto fino ad allora. Stavo piuttosto bene, lasciando perdere piccoli inconvenienti come il pallone che avevo lanciato sul finestrino della signora accanto, infrangendolo in migliaia di pezzi.
"È stato un incidente, signora Crowell, prometto che Gerard non lo farà mai più", aveva detto mia nonna alla donna.
Ma nessuna delle due, aveva realmente capito la ragione del mio gesto. Nessuno se lo chiedeva mai. Tutti davano un senso monotono e scontato alle mie azioni.
Nessuno ha mai saputo che avevo lanciato quel pallone perché volevo scoprire quanto tempo impiegava a raggiungere il vetro della finestra, e in seguito a distruggerlo. E dire che avevo scelto una traiettoria perfetta, prima di calciarlo.
Ma non m'importava. Se questo era il loro modo di pensare -ma soprattutto di etichettarmi, allora non avevo niente da ridire. Anche se avessi provato a controbattere, loro non avrebbero mai capito cosa davvero intendevo.
Nessuno cambia quando riceve l'ordine di farlo.
Nessuno.
È logica.
In seguito a quella settimana, successero varie cose simili a quell'ultima della finestra, ma niente di grave. E fui costretto a lasciare la villa, immerso nel mio solito silenzio che mi caratterizzava da tempo.

Giusto il tempo di ritornare a casa, iscrivermi e poi lasciare la scuola per altre cinque volte, tagliarmi i capelli e sottopormi ad altre sedute psicologiche, e sono diventato un bel sedicenne, alto quanto basta e non troppo robusto.
Le sedute continuano a tormentarmi, e ogni mercoledì il mio psicologo mi aspetta dentro il piccolo ospedale distante qualche isolato da casa mia.

Tocca a Fred accompagnarmi, ogni giorno, davanti alla porta di quell'edificio.
"Qual è la specialità di oggi, Fred?", chiedo, col mio solito tono cauto e strafottente.
"Psicologo, Gerard", mi risponde lui, la stragrande maggioranza delle volte. E io sbuffo, facendo roteare gli occhi.
"Ancora? Ma non si stancano mai di strizzarmi il cervello?", scherzo riluttante.
E lui ride.
L'unico assistente sociale che ride.
Che fortuna avere Fred come autista.
In effetti, è una fortuna soltanto avere un autista, chiunque egli sia.
Gli autisti ti fanno da guida, rispondono alle tue domande, e ti rispettano perché hai dei problemi mentali "non ancora analizzati dalle scienze".
Uh, giusto. Il dottore. Non l'ho ancora trovato. Il mio istinto omicida è comunque perennemente puntato sulla sua espressione da perfetto idiota.
Se non fosse stato per lui, in questo momento mi troverei fra i banchi di una scuola a fare il ragazzo normale.
Ma è chiedere troppo, forse. Chissà.
Scendo dalla macchina con eleganza, aggiustandomi gli occhiali da sole sul naso. Li porto per evitare ogni tipo di contatto visivo con la gente.
Le persone mi danno fastidio, e i miei occhi ne attirano anche troppe.
Entro nell'edificio con qualche colpo di tosse, e immediatamente l'infermiera biondina che si occupa di me mi fa strada verso il reparto 'psicologia-psichiatria'. A molti fanno cagare sotto, quei due nomi. A me no. A me divertono. Mi piacciono i nomi lunghi.

Entro nella stanzetta accompagnato dalle sottili dita della ragazza.
Si chiama Emily Merdens, e indossa sempre la solita divisa da infermiera raccomandata, lasciando scoperte le sue cosce fino alla base.
Ha ventidue anni, ma ne dimostra una trentina. Il mio desiderio è quello di ammazzarla. Sì, un giorno, magari, mentre sfoglia le pagine di quelle noiosissime riviste di moda. Una lama alla gola, colpo secco.

Come dicevo, mi ritrovo catapultato ogni settimana in quella minuscola aula, di fronte allo psichiatra e ad una lunga poltrona nera.
Mi ci sdraio ormai da anni, ma ho sempre un po' di timore, prima di poggiare il mio sedere su quell'ammasso di cuscini.
"Gerard, come hai passato questa settimana?", é solito domandare il dottore.
"Uhm...ho guardato il cielo...e il pavimento...e...", faccio illuminare sempre il mio viso, all'ultimo "e...", così da far illudere l'uomo con la speranza che dica qualcosa di interessante.
"...e le mie dita. Sono delle gran belle dita, non pensa?", dico indifferente.
Sento puntualmente uscire degli sbuffi dalla sua gola, ma me ne importo.
Ho pur sempre sedici anni, e devo trovare il modo di divertirmi anche io.
Ed è così che continuano le mie giornate.
Sempre le stesse noie.
Sempre gli stessi volti, le stesse parole che si ripetono di tanto in tanto in quella piccola sala da terapia. Costretto a parlare di faccende che non mi appartengono con un uomo coperto da un angosciante camice bianco.
Il mio nome è Gerard Way.
E sono un ragazzo indaco.

Le cose però, oggi hanno deciso inspiegabilmente di cambiare.
Come sempre, Fred mi invita a salire sulla sua auto nera, accompagnandomi davanti all'edificio bianco senza troppe parole.
Forse anche troppo poche, di parole.
Scatto velocemente fuori, senza perdermi in troppi saluti, e filando dritto verso la stanza.
Oggi sono inspiegabilmente di fretta. Già, tanto che riesco ad ignorare le smorfie di Emily, continuando per la mia strada da solo. Infondo la conosco bene. Ho sedici anni, un cervello niente male, e una malattia mentale*. A cosa serve un'infermiera a farmi come guida?
Spalanco la porta dell'aula senza bussare. Questo è il mio turno, e l'orario è già fissato. Tocca a me parlare col dottore, in quest'ora, e anche se ci trovassi un ritardatario a scambiare le ultime chiacchiere, ascolterei accanto a lui le sue parole finché non finisce. Odio perdere tempo. Soprattutto il mio, di tempo.

"Cerchiamo di sbrigarci", farfuglio entrando, e imitando tutto ciò che non sono-un professionista. 
Sono accolto dallo psicologo con una tentata stretta di mano, che riesco ad evitare gettandomi a capo fitto sulla poltrona.
"Come stai?", chiede, ignorando la mia evidente mancanza di affetto nei suoi confronti.
Faccio spallucce, mentre afferro uno dei biscotti che posano sempre in una ciotola alla mia destra.
Ne scelgo uno che ha il colore del cacao, rigato da sottili linee di quello che pare essere del cioccolato fondente.
Sembra buono. È come uno di quelli delle pubblicità, che prima desideri, poi compri, e infine getti nella pattumiera perché sei rimasto deluso dal loro reale aspetto -e sapore-.
"Uhm...sto bene", rispondo, annusando il dolcetto.
Noto con la coda dell'occhio le labbra del dottore piegarsi in un largo e falso sorriso, mentre si accomoda sulla sua solita sedia. Una di quelle sedie da professionisti.
"Mi fa piacere. E dimmi, cosa hai fatto durante questa settimana?", continua, afferrando il suo dannato block notes rivestito in pelle.
Eccola, la domanda che fa da ritornello alle sue sedute.
Mi ficco finalmente il biscotto in bocca, prima di rispondere, fra un boccone e l'altro,
"Bhè-ugh-non molto. Se vuole le posso raccontare del-uhm-cielo, ma immagino che lo conosca abbastanza bene da potersi raccontare ogni cosa da solo.".
Lui fa roteare gli occhi, allentando la presa della penna, già pronta per annotare qualsiasi cosa ritenesse importante.
"Gerard", esclama pacatamente, dando al mio nome un'intonazione interrogativa.
"Dio Dottore, questi biscotti fanno schifo", borbotto in risposta io, ignorando completamente la sua voce.
"Gerard...", insiste lui, sospirando.
"Insomma, capisco che stiamo parlando di uno come lei, ma", ridacchio, gesticolando, "almeno potrebbe impegnarsi un po' di più nella scelta dei dolcetti", continuo.
"Gerard, ascoltami", la sua voce si fa vagamente più ferma.
"Sa che i pazienti potrebbero lamentarsi, di fronte a questo scempio? Io non lo faccio perché le voglio bene, ma non tutti la pensano come me", spiego, strizzandogli un occhio.
Osservo il suo petto gonfiarsi e sgonfiarsi sempre di più, e sempre più velocemente.
"Va bene, ci penserò, ma adesso ascoltam-"
"Eh no, non rimandi niente al futuro", lo interrompo, sporgendomi in avanti,
"Il colore di questi biscotti inganna molto facilmente. Vede, la sfumatura scura, che ricorda il cioccolato al suo stato grezzo, e queste striature tendenti al nero, lo fanno apparire come qualcosa di assolutamente delizioso.", faccio cadere il pezzo rimasto sul tappeto di blu che entrambi stiamo calpestando, per poi concludere con un secco "questi biscotti fanno schifo almeno quanto l'ambiente che li circonda, dottore.".
"Gerard! Adesso basta!", questa volta urla, mentre si alza scattante dalla sedia, con lo sguardo di chi vorrebbe ammazzarti lì, sul posto, senza ripensamenti o sensi di colpa.
"Non siamo qui per parlare di biscotti!", ringhia.
E io, tranquillo, mi alzo, avvicinandomi lentamente a lui.
La nostra altezza combacia, quindi non ho bisogno di alzare o abbassare eccessivamente lo sguardo.
Mi schiarisco la voce, e con aria solenne sussurro,
"Siamo qui per parlare di me. E io voglio parlare di biscotti. Dopotutto ho dei problemi mentali, no? Mi assecondi, faccia il suo lavoro da professionista, e poi mi congeda. Avrà tutto il tempo per uscire, cazzeggiare, e ritirare il suo stipendio. E tutto questo per aver ascoltato le mie teorie sui biscotti. Non male, non pensa?".
Questo basta per farlo indietreggiare, lanciare due colpi di tosse, farfugliare qualche imprecazione e risedersi al suo posto.
È la prima volta che sputo questa roba sullo psicologo, solitamente preferisco tenermela per me. Come ho già detto, le persone non cambiano mai.
Picchiettando ritmicamente due dita su una gamba, mi stravacco di nuovo sulla poltrona, afferrando un nuovo orribile biscotto.
Il dottore mi guarda interdetto, mentre lo porto alla bocca.
"Perché ne hai preso un altro, se ti fanno così schifo?", chiede. Noto in lui la calma che poco prima aveva perso.
Una smorfia appare sul mio viso, mentre alzo le spalle e sospiro.
"Diciamo che...", una breve pausa interrompe la mia spiegazione. In effetti neanche io so bene il perché stia addentando quel biscotto.
Socchiudo gli occhi, e mi invento una qualunque stupida scusa che, detta in un certo modo -nel mio modo-  è in grado di ingannare anche un dottore.
"...diciamo che preferisco dare una seconda possibilità a tutto. Anche noi siamo stati beneficiati da molte possibilità, perché non darne una ad un così tenero biscotto?", le mie parole assumono un leggero sarcasmo, verso la fine.
Vedo il dottore sbuffare in segno di resa, e accavallare le gambe.
"Dunque. Passiamo a qualcosa di serio", iniziò.
"Mi sta dicendo che il cioccolato non è un argomento abbastanza serio di cui discutere?!", esclamo io, sedendomi velocemente sul bordo della poltrona, e sollevando le mani verso l'alto.
Questo movimento è probabilmente stato un pretesto per poter far cambiare posizione alle mie gambe.
Lui, comunque, mi ignora.
"Secondo le ultime analisi, Gerard...", spiega, scandendo le ultime lettere e rovistando nella sua cartella.
"...i miei colleghi hanno riferito che saresti riuscito a captare, senza alcun aiuto di nessun tipo, la traiettoria di una biglia lasciata cadere da uno scivolo di quattro metri interrotto da sette ostacoli differenti tra loro. Ed è la terza volta che ci riesci, questo mese.". Sul suo viso appare una finta espressione compiaciuta.
"Non male", conclude.
Un ghigno fa piegare le mie labbra.
"Gliel'ho detto che non sono normale", decreto, senza offendermi per l'insulto che mi sono appena dato da solo.
"La cosa che nessuno di noi riesce a spiegarsi, Gerard, è che con sedici anni di vita sulle spalle, non puoi arrivare a certe deduzioni così in fretta.", continua.
Dopo averci riposto dentro le analisi, chiude la cartella provocando un buffo rumore. Poi mi guarda, sfilandosi gli occhiali con la mano destra.
"Riuscire a capire la direzione che quella pallina avrebbe preso dopo appena un metro di percorso, è impossibile.", decreta infine.
Deglutisco appena, spostando il mio sguardo dal suo e cercando un nuovo appiglio nella stanza.
Provo a fissare la statua in bronzo sulla scrivania, ma ha una forma decisamente fallica, e mi scandalizza.
Così decido di osservare meglio il cestino cilindrico che posa vicino alla libreria, alla mia sinistra.
Al di fuori sembra vuoto, ma posso facilmente intravedere della carta bianca fuoriuscire dal bordo. Il che sta a significare che no, non è affatto vuoto, ma anzi, chiede sofferente di essere vuotato.
Ma...svuotato da cosa? Conoscendo il mio psicologo, il dottor Patter, là dentro non possono che esserci moduli, deleghe, analisi mal riuscite che, in un suo impeto di rabbia o noia, sono state accartocciate da quelle grasse manone che si ritrova. Ecco la vita di un foglio di carta in un ospedale.
Io, ad esempio, le cose non le butto, in special modo se fatte di carta.
La carta è la mia salvezza, e buttandola farei di me un corpo senza vita, destinato alla dura sofferenza dell'inerzia.
Quindi, preferisco piegarla in più parti, e infilarla nel primo posto in cui ci sia spazio.
La fortuna è che non scrivevo troppo, quindi la presenza di fogli nella mia stanza è davvero minima.
La vera carta di cui parlavo, è quella su cui disegno.
Fumetti, paesaggi, ritratti di persone che a malapena conosco. Tutto, ogni fottuta cosa che esce sotto forma di disegno dalle mie mani, è destinata a rimanere con me, per sempre.
Persino le pennellate che ogni tanto dò in preda a un improvviso e incompreso attacco di rabbia, vengono conservate da me con una certa eleganza.
Molti di questi schizzi sono appesi alle pareti, altri nei cassetti ai lati della mia scrivania, altri ancora sparpagliati fra i libri, sugli scaffali.
Niente è in ordine, nella mia stanza.
Si tratta del il mio angolo. A nessuno, neanche a mia mamma, è permesso entrare. Certo, sono consapevole che una volta uscito fuori di casa chiunque potrebbe fare irruzione là dentro, ma aver attaccato quel cartello minaccioso alla porta, in cui prometto di levare ogni singolo neutrone dalle cellule cerebrali di chiunque si avvicini, rompendo così il legame fra i protoni, mi fa sentire più sicuro.

Per questo mi chiedo come Patter possa consumare tutta quella carta in un solo giorno lavorativo.
Poi mi guardo intorno.
Quell'aula è troppo ordinata.
"Gerard, non evitare il mio sguardo", è proprio la sua voce a risvegliarmi dai miei pensieri. Attende con ansia una di quelle mie rispostine acide, che infondo ama molto.
Ma in questo momento non ho voglia di  soddisfarlo.
"Hm?", riesco ad esclamare, alzando le sopracciglia e sporgendomi leggermente in avanti. In effetti, non ho capito bene cosa intenda con quel suo 'non evitare il mio sguardo'.
Io non lo sto evitando. Lo sto semplicemente contemplando lasciando spazio alla minore importanza degli 
oggetti che ci circondano, tutto qui.

"Questa aula è troppo ordinata", dico ad un tratto, annuendo e riportando i miei occhi sulla traiettoria del cestino.
"Non si chiama aula, Gerard", lo sento spiegare.
"Lo so. Ma almeno mi faccia illudere che lo sia, così che quando ritornerò a scuola, e metterò piede in una vera aula, sarò felice di vedere che sarà molto meglio dell'idea che mi ero fatto sulle aule come questa. Mentre, in realtà, resterà sempre e comunque un'orribile aula.", esclamo gesticolando, concludendo con un leggero sorriso, come se ciò che ho appena detto sia la cosa più ovvia al mondo.
Il dottore sbuffa per l'ennesima volta.
Non mi sopporta più.
"Ad ogni modo, non voglio insistere troppo sulle tue analisi. Immagino che neanche tu, sappia come prevedere per tre volte di seguito la traiettoria di una biglia. O mi sbaglio?", indaga, sollevando un sopracciglio.
Annuisco, socchiudendo gli occhi.
"Certo che si sbaglia. Mi sembra ovvio che io sappia come prevedere certe cose!", esclamo, sorridendo.
"E allora perché non ce lo spieghi? Eh, Gerard?", chiede, abbassando il tono di voce e chinandosi verso di me.
Lo imito, piegandomi sul mio busto e trattenendo le mie corde vocali.
I nostri volti duellano in uno scontro all'ultimo sguardo.
"Perché se lo dicessi, non sarei più l'unico a sapere come fare, e diventerei normale" sussurro, senza lasciare che il ghigno abbandoni il mio viso.
Lui alza le braccia, in segno di resa, e scuotendo la testa dice,
"Va bene, Gerard. Ho capito che oggi non è giornata per una seduta psicologica insieme a me.".
Mi ricompongo sulla poltrona.
"In effetti non è mai giornata", aggiungo, con un sorrisetto soddisfatto.
Patter si alza, aprendo la porta e allungando una mano verso l'esterno.
"Sei libero per oggi. Ma sta attento a non uscire di qui finché qualcuno non sarà venuto a prenderti, perché altrimenti potremmo finire in guai seri", spiega.
Lo raggiungo quasi correndo, e ringraziandolo frettolosamente, sgattaiolo fuori dalla stanza trascinando con me un ultimo disgustoso biscotto.

Non è la prima volta che vedo il resto dell'ospedale, ma è la prima volta che lo vedo senza che il braccio ossuto e fastidioso di Emily si avvinghi al mio corpo.
Mi sento libero, finalmente. Certo, lo spazio rimane strettamente limitato, ma mi va bene così.
Esco accompagnato da un sorriso sornione dal reparto psichiatria, per recarmi verso le macchinette della hall.
Sto per gettarmi contro il pulsante del caffè, quando mi ricordo che ai pazienti non è consentito l'uso dei distributori.
Mi mordo un labbro.
Poi però guardo verso il basso.
E mi accorgo che nessuno, almeno che non mi conosca, potrebbe riconoscermi come paziente.
Indosso un paio di pantaloni neri, semplici e aderenti, e un sottile maglioncino grigio.
Quelli ricoverati ballano in casacche verdi o enormi pigiami sterili.
Io, in questo momento, non sono un paziente.
Sono un ragazzo.
Nessuno potrebbe mai scambiarmi per un malato.
Non oggi.
Sorrido fra me e me, e scelgo un altro distributore, un po' più lontano, giusto per assicurarmi che non mi veda nessuno a cui possa risultare 'familiare'.
Con fare indifferente, inserisco una moneta nella macchinetta, selezionando il mio gustoso caffè. Immediatamente una tazzina di plastica esce dall'erogatore, e posso vederla riempire da dietro l'opaco vetro che ci divide.
Mi piego sulle ginocchia per osservare meglio quel liquido marrone, mentre cola lentamente nel contenitore bianco.
Un magnifico contrasto, penso,
Poi, sento qualcosa toccarmi pesantemente una spalla.
Mi volto di scatto, sgranando gli occhi, quasi impaurito.
È la mano di un uomo, alto, robusto, sulla sessantina, quella che mi ha distratto.
"Bello, non trovi?", mi chiede, con una voce leggermente roca, e attenuata dall'età.
Ci metto un po' per capire la sua domanda.
Lancio uno sguardo alla tazzina che si sta ancora riempendo, e poi di nuovo a lui.
"Direi...Diabolico.", specifico, allibito.
Divide il suo braccio dal mio corpo, facendolo ciondolare su un fianco.
Sta sorridendo, che strano.
Nessuno mi sorride.
O meglio, nessuno mi sorride se non sotto uno stipendio.
"Le diavolerie fanno parte della nostra vita, dopotutto", aggiunge.
Riporto la mia attenzione sul distributore, che nel frattempo, ha cessato di far uscire caffè.
Adesso non so davvero come fare.
Non avevo mai usato una macchinetta simile, prima d'ora.
Lancio un'occhiata preoccupata all'uomo, che non ha smesso un attimo di osservarmi.
Quando si rende conto della situazione, non esita ad avvicinarsi.
"Aspetta, lascia che ti aiuti.
Ecco, così.", spiega, mentre apre lo sportello trasparente e estrae il bicchierino.
Me lo porge.
La sua espressione implica un invito.
Dannazione.
Allungo una mano, lentamente, mentre cingo la circonferenza del bicchiere con le dita.
"Grazie", sussurro, mentre lo porto alle mie labbra.
"Mi chiamo Ivan. Lavoro al reparto neurologia e psichiatria", aggiunge.
Tossisco, facendo tremare il caffè, non appena le sue labbra scandiscono quelle due parole.
Accidenti, lavora allo stesso reparto in cui vado a fare le sedute.
Magari non mi ha riconosciuto. O magari invece sì.
Non resta che accertarmi che non sappia chi sono.
"Oh. Oh, sì, ho un parente lì", mento, bevendo due nuovi sorsi del mio vizio preferito.
"Mi spiace molto per il tuo parente, ma... potrei sapere il suo nome? Magari sono proprio io, il suo dottore", chiede, accennando un sorriso comprensivo.
Scuoto la testa lentamente.
"No. Non è importante. Le posso dire comunque che mi somiglia molto, e data la mia unicità, non penso che impiegherà molto a vederlo", puntualizzo.
Merda, forse mi sono spinto un po' troppo in là.
Lo vedo mordersi un labbro e accigliarsi.
Ha un viso molto squadrato, capelli brizzolati, barba incolta e sottili occhiali posati sul naso imponente.
"Hm, capisco. Davvero pensi di essere unico nel tuo genere?", continua.
Sussulto internamente.
Genere? Quale genere? Umano? Oppure si riferisce ai malati di mente? Panico.
"Di che genere sta parlando?", domando impaurito.
Lui solleva una mano per guardarsi le unghie scure.
Poi alza entrambe le sopracciglia, e spiega,
"Bhè, il genere. Insomma, ci siamo capiti. Il genere di persone degli ospedali".
Deglutisco sonoramente, buttando giù anche il fondo rimasto del caffè.
Devo immediatamente trovare una risposta che riesca a zittirlo.
"Ma, dottor Ivan. I generi non esistono.
Come può, uno psicologo come lei, etichettare i pazienti di un ospedale in base al genere?", la mia voce trasmette del sarcasmo che non dovrei far sentire a quell'uomo.

Bhè, lo ammetto, la scusa che ho usato per deviare i sospetti del dottore è decisamente priva di senso, ma almeno ha rallentato il processo della mia condanna a morte.
"In realtà non sono uno psicologo", ha esclamato, posando le mani dietro la sua schiena e gonfiando leggermente il petto ricoperto dal camice.
"Mi occupo dei malati rari. Malati mentali, rari.", specifica.
Perfetto, tutto ciò che mi poteva capitare di brutto si sta catapultando su di me.
Ma io non vedo mai nulla di brutto.
"Oh...e mi dica, uhm, le piace il suo lavoro? Si diverte a far strizzare i cervelli dei malati dai suoi colleghi psicologi?", indago, ormai prossimo alla fine.
Sorprendentemente, lui scuote la testa.
"No. Odio terribilmente il mio lavoro.
Spesso desidero quasi diventare uno dei miei pazienti. Magari uno di quelli...uno di quei ragazzi...", interrompe la sua frase fingendosi in mancanza di una parola.
Vuole che io la continui, svelandogli chi sono realmente.
Ma io non gli concedo la vittoria. Non così in fretta.
"Mi dispiace, ma se la sua intenzione era quella di lasciare a me l'onore di completare la sua frase, sono immensamente dispiaciuto dal doverle riferire che non sono bravo in questi ambiti. Sa, gli ospedali non mi sono mai piaciuti.".
Certe volte capita che mi sorprenda di quanto sia abile nell'uso della parola.
Lo vedo portarsi una mano al mento.
"E va bene. Mi hai scoperto.", sospira, abbassando lo sguardo.
"Però, che ne dici di fare due chiacchiere nel mio ufficio?", mi propone.
Alzo immediatamente un sopracciglio.
"Lei mi sta davvero invitando nel suo ufficio? Insomma, si rende conto che potrebbe essere un perfetto pedofilo, ai miei occhi?", sputo in risposta, gesticolando col bicchierino mezzo vuoto in mano.
Il dottore annuisce, per poi aggiungere,
"E tu ti rendi conto che vi sono almeno tre infermieri che controllano, intorno alla mia stanza? Se volessi molestarti sceglierei il bagno. Quello sì che sarebbe un posto davvero carino, non pensi?".
In effetti, non ha poi tutti i torti.
E parlare un po' diminuirebbe la mia perenne noia.
Così, stringendomi fra le spalle, e esitando ancora per qualche minuto, accetto, e mi faccio strada nell'ospedale dietro al suo grande camice bianco che mi guida verso la sua stanza. Ma io conosco quel posto come le mie tasche.
O meglio, non proprio come le mie tasche.
Ogni tasca dei miei pantaloni è diversa, e spesso non mi ricordo neanche cosa ci sia dentro. Quindi, correggendomi, diciamo che conosco quel posto come...come la mia mente. Sì, conosco me stesso meglio di chiunque altro.

Entriamo nello studio -o ufficio, come lo chiama lui- seguiti dallo schiocco della maniglia della porta dietro alle mie spalle.
"Accomodati, e finisci pure di bere il tuo caffè", mi intima, sedendosi e indicandomi una piccola poltroncina color carne alla mia destra.
Faccio spallucce, bevo l'ultimo sorso dal bicchierino, e mi stravacco là sopra.
La sua sedia nera si trova dietro a un'enorme scrivania di legno.
Punto i miei occhi verdi sui suoi, scuri e severi. Passiamo un bel po' di minuti in silenzio, in cui ho la possibilità di studiarlo meglio. Non è cambiato poi molto dopo l'entrata in quella stanza, e l'unico nuovo particolare che noto è un cartellino bianco appeso al taschino sinistro del suo camice.
"Uhm-dunque dottor...Cooper? Si può sapere cosa vuole da me?", chiedo, leggendo chiaramente il suo cognome dalla targhetta.
Il dottor Cooper scuote la testa, ripetendo,
"Volevo semplicemente fare due chiacchiere con te...uhm...?", attende che io dica il mio nome.
Ma ignoro la sua evidente richiesta, e sposto la mia attenzione su un piccolo vaso vitreo posato sul bordo della scrivania, e riempito da minuscoli fiorellini violacei. Mi avvicino, strizzando leggermente gli occhi.
"Che fiori sono?", domando.
Non che me ne freghi poi così tanto, ma voglio far passare il tempo velocemente.
Non ricevo nessuna risposta.
Sollevo un sopracciglio nella direzione del dottore, interrogativo.
Ma continua a starsene zitto.
"Insomma, ha detto che voleva fare due chiacchiere con me. Se non ha nulla da dire, potrei anche alzarmi e...", poso entrambe le mani sui braccioli della poltrona, con l'intento di andarmene, attendendo la scontata frase che interromperebbe i miei movimenti.
Ma quella frase, non arriva.
Mi fermo, guardandolo dritto nelle iridi cupe. E per un attimo, penso che non sia la stessa persona di poco fa, quella che mi sta squadrando, qui di fronte.
Qualcosa fa sembrare la situazione molto più semplice, calma, quasi sicura.
Riesco a vedere minuscoli frammenti della sua vita, in quelle due pupille seminascoste da un ciuffo di capelli. Vedo un sorriso, una spiaggia, e poi un mare in tempesta, che infrange le sue onde su spigolosi ed enormi scogli. Scogli impenetrabili.
E improvvisamente, è come se conoscessi quest'uomo da anni.
Quando invece so a malapena il suo nome.
Tutto questo inizia a spaventarmi.
Accenno un mezzo sorriso tranquillo.
"Veda di dirmi qualcosa e di non limitarsi a guardarmi con quell'espressione da maniaco, perché ci sono due infermieri proprio qui fuori", lo avviso, accentuando il tono delle ultime parole.
Ma Cooper scuote TENERAMENTE la testa, facendo gonfiare d'aria le sue larghe guance.
"Non ho niente da dire, per quale motivo dovrei parlare?", domanda con una strana calma.
Sollevo le sopracciglia, e sono sicuro che la mia bocca si sia spalancata appena.
"Ma io le ho chiesto che cosa sono quelli", insisto, indicando i fiori.
"Ma neanche io so cosa siano", ribatte, alzando leggermente entrambe le braccia per poi riposarle sulla scrivania con un piccolo tonfo.
"Spiegami perché dovrei risponderti.", conclude, incrociando le dita e posandoci definitivamente il mento sopra.
Deglutisco.
Il dottore si sta mettendo contro di me. Ma io non sono una preda così facile, Cooper.
"Sembra simpatico, Ivan", controbatto, accentuando il tono sul suo nome.
I dottori odiano quando li chiami per nome.
"Lo pensano in molti", annuisce lui, serio.
Evidentemente non è come tutti gli altri. E questo mi preoccupa.
"Mi fa piacere. Dunque, cosa vuole dirmi?", domando io, sviando il discorso, e cercando di diminuire i tempi. Ho un'inspiegabile improvvisa voglia di tornare da Patter e affondare il mio sedere nella sua poltrona nera.
"Voglio sapere il tuo nome", spiega Cooper, sorridendo.
Scuoto violentemente la testa
"No, non è per questo. Non può avermi fatto entrare qui dentro soltanto per sapere il mio nome. Insomma, non sono un suo paziente!", urlo, quasi.
"E allora?", insiste, con falsa ingenuità.
E va bene, mi mancano anche i biscotti, di Patter.
"E allora mi lasci andare!", strillo, alzandomi dalla sedia provocando un fastidioso rumore ferreo, e senza ormai più un barlume di pazienza nel sangue.
"Va bene", ripete, con un'inspiegabile calma che modella il tono della sua voce.
"Eh?", esclamo confuso.
"Va bene, esci pure, non agitarti", ridacchia.
"Stai facendo tutto da solo. Io ti ho semplicemente invitato a fare due chiacchiere, tutto qui.", spiega, annuendo e gesticolando lentamente.
Deglutisco.
Il Dottor Cooper è riuscito ad impaurirmi.

Inciampo sui ciottoli della strada che le mie Converse stanno calpestando violentemente, ritrovandomi in poco tempo di fronte al magazzino dell'ospedale, mezzo ferito dalle continue cadute.
È soltanto un dottore, 
mi ripeto mentalmente, staccandomi nervosamente una minuscola striscia di unghia dal pollice destro, e posando la mano libera sulla fronte dolente.
Comincio a camminare senza meta fra le ambulanze depositate. E mi chiedo cosa ci stia facendo, lì.
L'ospedale è un posto per malati. Per i pazienti di Cooper. Non per me. 
Per quale motivo sono costretto a frequentarlo così spesso, allora?
Perché nessuno vuole capirlo?
Al diavolo i dottori, agli psicologi come Cooper. Al diavolo i camici spiritici che ti seguono ovunque.
Che vadano tutti a bruciare all'inferno, a rovinare le proprie pelli sguainate dalle fiamme.
Io voglio essere libero.
Soltanto questo.
Vorrei potermi sporgere dalla terrazza del mio cuore, e poter urlare all'Universo di aspettarmi, di avere pazienza. 
Perché io faccio parte dell'infinito.
E sto arrivando.


 
Una settimana più tardi.

Con un ultimo colpo finisco di buttare in terra anche l'ultima fotografia.
Le cornici di vetro si infrangono all'impatto col pavimento, e rumori assordanti si dileguano nella stanza.
"Gerard!", urla mia madre da non so dove.
In tutta risposta grugnisco, e afferro il ritratto di famiglia, scaraventandolo dritto contro il muro.
"Gerard, adesso smettila!", riconosco la voce di mio padre.
Ma non mi fermo, anzi, scelgo l'attestato di volo che mi è stato dato quando ho partecipato in Europa ad un raduno di alcuni ragazzi indaco.
Trascinandomelo fra le mani, spalanco la porta, già consapevole di trovarmi davanti i volti preoccupati dei miei genitori.
"Questo non è un attestato di volo! Questo non è volare! Andare incontro alla tua rovina non è volare! Questo non è un cazzo!", esplodo, strappandolo con violenza.
"Oh, Gerard...", piagnucola mia madre portandosi una mano a coprirsi le labbra socchiuse.
Ma io la ignoro, tuffandomi nelle coperte nere del letto, e scomparendo fra i cuscini.
I discorsi di quel dottore hanno scatenato in me una rabbia incontenibile.
"Dicci che succede e risolviamo insieme", sussurra dolcemente mio padre, avvicinandosi.
Mi limito a scuotere la testa, facendo ondeggiare i capelli troppo lunghi. 
"Gerard, possiamo aiutarti.", insiste.
"Ho già sentito troppe volte questa frase", mormoro, attenuando le mie urla interne con il cuscino.
"E la continuerai a sentire, se non ci spieghi cosa succede.", ripete.
"Lasciatemi stare", la mia voce è simile a un ringhio.
Sento mio padre sbuffare, e borbottare qualcosa in risposta.
Infine, il materasso su cui sono disteso si alleggerisce, e capisco che l'uomo che poco fa ha cercato di aiutarmi, si è alzato, e adesso sta abbandonando la mia stanza.
La verità è che mio padre non sa cosa voglia dire, aiutare.
Per lui tutto è molto semplice.
Per lui ogni cosa ha il suo senso, la sua natura logica. Ogni cosa si può sistemare allo stesso modo.
Ma non è così.
Dopo l'incontro con il Dottor Cooper, ho continuato le mie sedute stando più attento. Non voglio rischiare di incontrarlo di nuovo, e di ricadere nella sua trappola.
Ma sia chiaro, adesso non ho più paura.
No.
Oh, ovviamente, la mia situazione è sempre la stessa. Genitori che fingono di ascoltarti, un Fred che si ostina ad accompagnarmi ogni settimana in clinica, e una voglia matta di lasciare questo mondo per poter imparare a volare.
A volare nell'Universo, s'intende.

Mi sollevo leggermente, lasciando cadere il peso del mio corpo sui gomiti.
Mi stropiccio un occhio, e lentamente mi metto in piedi.
Mi guardo attorno per qualche attimo.
Tutte le fotografie incorniciate che mia mamma mi aveva costretto a tenere in camera, adesso si trovano buttate sul pavimento, staccate dai bordi in vetro, e strappate in più parti.
Non mi pento assolutamente di averlo fatto.
Erano tutti scatti di me e mio fratello in braccio a papà, oppure cartoline della nonna.
È inutile conservare troppe cose.
Finiranno tutte per essere dimenticate.
Un po' come l'uomo.
Nasce, cresce, studia per diventare qualcuno.
E poi, improvvisamente, muore, lasciandosi alle spalle ogni ricordo.

E allo stesso modo nessuno si ricorderà mai di me, né tantomeno delle mie fotografie.
   
 
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