Fanfic su attori > Ben Barnes
Segui la storia  |       
Autore: Nadie    27/04/2015    3 recensioni
Un giorno ha chiesto cosa fosse quell’amore ripetuto dai dischi in vinile di papà.
«Una cosa che aggiusta tutto.» gli hanno risposto.
«Come una super colla?»
«Proprio come una super colla.»
Adesso che il bambino che è stato lo ha abbandonato, capisce che gli hanno mentito.

[Ben e Prudence]
[La Legge del Resto - sentivo il bisogno di cambiar titolo]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Temporale '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
20. Farfalle sporche
 



Prudence era sempre stata grata di aver visto la luce a Dublino, di essere sbocciata in quella città ventosa e dal profumo salmastro.
Non era di certo la più bella città che esistesse al mondo, ma era una città-serpente, con la sua lunga lingua verde che sibilava nella notte, e le squame fatte di case semplici e castelli medievali; città spigolosa e tagliente come uno scoglio, come la sua costa scura modellata dalle mani forti del vento.
Città da cui bisogna scappare per imparare a sentirne la mancanza.
Con la fronte poggiata contro il vetro spesso dell’autobus, Prudence osservava le strade assolate di Dublino, bagnate dal calore di un Agosto insolitamente afoso.
Si sentiva sudata ed accaldata dentro al suo prendisole rosso porpora, e i capelli, ormai fin troppo lunghi, erano più arricciati del solito.
Si abbandonò contro lo schienale del sedile e chiuse gli occhi.
C’era un ragazzo, un uomo, che la aspettava seduto su una spiaggia deserta, con tante speranze fragili tra le mani: forse una casa, un appartamento tutto per loro in un bel posto; una famiglia perfetta, solida, senza scomparse silenziose, senza litigi che lasciano frantumi taglienti sul pavimento.
Benjamin, senza troppo giri di parole, io ti ho tradito.
La casa si spezza sotto il peso del soffitto e delle pareti crollate, la famiglia perfetta-solida-presente si spacca come un piatto gettato a terra.
E che grandi cose che sanno fare, le parole!
Che grandi cose che sa fare, la pelle!
La sua pelle sporca, bruciata, tagliata, infangata e come ti sei permessa? Come hai potuto?
Benjamin, senza troppi giri di parole, io ti ho tradito.
L’autobus frenò piano, delicatamente, silenzioso e Prudence, ridestatasi dai suoi pensieri-rimpianti, si affrettò a scendere.
Voleva arrivarci in fretta, su quella spiaggia, dire quello che doveva dire e andarsene alla svelta: uno strappo veloce, preciso e letale, perché sua madre le aveva insegnato che le cose veloci fanno meno male.
Camminò a passo svelto su un marciapiede accidentato di Portrane, pensando alla sua povera, fragile, misera storia.
Che fine indegna!
Una storia che aveva saputo andare oltre le barriere del Concreto, spingersi fino ai limiti dell’Astratto; storia nata, cullata, cresciuta e ammazzata in una città spigolosa e bagnata, umida e salata, così salata da poter bruciare la pelle; storia che aveva saputo legare strette due persone con molto poco in tasca ma con il petto che sapeva contenere e racchiudere il peso di anime troppo affamate, troppo affamate per un mondo come quello qua fuori.
E poi finita, interrotta, pugnalata alle spalle da una pelle sporca, bagnata di fango, caduta a terra, spaccatasi come una bottiglia di vetro svuotata di ogni cosa.
Che fine indegna!
Da lontano, la spiaggia cominciò a prendere forma e comparvero a poco a poco la vecchia torre abbandonata, la sabbia scura e il mare che sapeva farsi vedere, sapeva farsi sentire anche a chilometri e chilometri di distanza, mare che era e che sarebbe sempre stato una presenza fidata: il mare non sarebbe mai scappato via come i non-padri troppo impegnati a fare i non-padri.
Prudence si affrettò, velocizzò il passo e, una volta arrivata in prossimità degli insabbiati gradini di pietra, si tolse le ballerine, si armò dell’Appuntito Coltello Della Verità e fu pronta, pronta a ferire, strappare, distruggere con la sola, disarmante forza delle parole.
Benjamin era già arrivato, la stava già aspettando da chissà quanto, e aveva cercato di ingannare il tempo camminando a piedi nudi sulla riva gelida, con una maglietta scura e spiegazzata stretta in una mano.
Prudence lasciò che le ballerine affondassero nella sabbia scura e gli si avvicinò, attenta a non farsi sentire.
Studiò la sua schiena bianca e sudata, i piccoli nei scuri disseminati sopra la sua pelle chiara, riusciva a distinguere perfettamente alcuni piccoli graffi nati dalle sue unghie non troppe notti fa.
Il solo ricordo, il solo pensiero bastò ad imporporarle le guance.
Arrossiva così anche otto anni fa, quando carne e sudore si incontravano nel buio di una piccola stanza e lei chiudeva gli occhi e si aggrappava a quella schiena, come fosse lo spiraglio di un mondo un po’ meno bastardo di quello calpestato ogni giorno; e poi restavano solo promesse pronunciate con il fiato corto e la voce piena d’affanno.
 
Prue?
Sì?                         
Heathcliff.
Chi?
Nostro figlio. Nostro figlio si chiamerà Heathcliff.
Heathcliff?
È perfetto. Senti qui: Heathcliff, giù dall’altalena!
Heathcliff, non fare i capricci!
Heathcliff, lo vuoi prendere un gelato col papà?
Heathcliff, com’è andata oggi a scuola?
Heathcliff, vuoi che ti racconti una storia?
Heathcliff, riordina la cameretta!
Heathcliff, questa casa non è un albergo!
Sì, direi che suona bene.
Allora è deciso: Heathcliff, Heathcliff Barnes.
 
Prudence scosse la testa, tentando di scacciare i ricordi, e si affrettò a raggiungere Benjamin. Quando gli fu accanto lo prese per mano guadagnando un sorriso sorpreso e, allo stesso tempo, sollevato: forse non aveva sperato più di tanto di vederla arrivare.
«Alla buonora!»
«Scusa, ho dovuto aspettare che arrivasse Angie per lasciarle Leila.»
«Meglio tardi che mai.»
Le sorrise, e Prudence fu lieta di notare che il suo aspetto era migliorato dall’ultima volta che si erano visti: i capelli erano stati finalmente tagliati, le occhiaie erano quasi scomparse e, cosa più importante, si era deciso a farsi curare e fasciare la mano ferita.
«Benjamin, senti… devo dirti una cosa.»
Aveva provato e riprovato più volte a trovare le parole giuste, a confessare le sue colpe davanti ad uno specchio e pensava che al momento giusto ce l’avrebbe fatta, pensava che sarebbe riuscita a dire tutto senza girarci troppo attorno; pensava che le parole sarebbero scivolate da sole fuori dalle sue labbra mentre lei avrebbe retto, senza alcun timore, lo sguardo buio di Benjamin.
Ma si sa: le cose non vanno mai come volevi, mai come pensavi.
E adesso, sopra ad una spiaggia irlandese bagnata da un sole sbagliato, c’era una donna con lo sguardo basso e parole cadute giù nel fondo del petto e mai più riaffiorate sulla superficie della lingua.
«Ti devo dire una cosa.» ripeté per darsi forza, per incoraggiarsi e forse sperava di non doverla dire, quella cosa, sperava che lui ci arrivasse da solo e Prudence, cara Prudence, la tua pelle mi sembra sporca-sporca-sporca: non è che mi hai tradito?
«Me la dici dopo, d’accordo?»
Lei alzò il capo e incontrò un volto sorridente, un volto ancora ignaro e felice, felice nel suo non-sapere la verità.
Prudence annuì, incapace di parlare.
«Ho portato questo.» disse Benjamin, facendo cadere a terra la maglietta e tirando fuori dalla tasca dei jeans un iPod datato e un paio di auricolari.
«Una cuffia a testa, come ai vecchi tempi.»
Prudence afferrò una cuffietta dalla mano tesa di Ben e la infilò in un orecchio, lui la imitò e poi si mise ad armeggiare per trovare la canzone giusta nella playlist giusta.
«Eccola: ci siamo!»
Prudence aspettò, nascosta dal silenzio che precede ogni canzone, aspettò di sentire qualche nota; aspettò guardando negli occhi Benjamin, senza staccare lo sguardo, sentendosi protetta da quel silenzio buio.
Le bastò sentire il primo accordo per capire di che canzone si trattasse, probabilmente se l’aspettava: era stata La Canzone del loro tempo insieme.
«Nonostante le mie inesistenti doti di ballerino, mi concederesti un ballo?» chiese Ben, dopo aver accuratamente sistemato l’iPod in una tasca dei jeans.
Prudence accettò con un sorriso l’invito e si ritrovò presto stretta contro il suo petto, con le unghie saldamente aggrappate alle sue spalle sudate; chiuse gli occhi e sentì mani gentili correrle lungo il corpo, risalire lente sotto al suo prendisole e poi posarsi decise sulla sua schiena nuda, e mentre  quel vortice di carne e pelle accaldata li teneva uniti in un abbraccio poco amichevole, gli Oasis finirono presto la loro canzone.
Prudence non fece in tempo a riaprire gli occhi che si ritrovò a terra, sotto il peso di un bacio preteso da labbra voraci, labbra stanche di aspettare, stanche di essere respinte e lei, nonostante la sabbia fastidiosa a graffiarle la pelle e aggrovigliarle i capelli, non si tirò indietro, non pensò a ciò che avrebbe presto dovuto confessare, si spinse con tutta se stessa dentro a quel bacio che non aveva nulla di romantico.
C’era una pretesa velata, dentro a quelle labbra, c’era uno smettila-di-correre gridato in silenzio e lei, sudata e sporca di sabbia, intrecciò le dita nei capelli scuri di Benjamin e lo abbracciò stretto: carne che si stringe contro altra carne, pelle che brucia sopra a sabbia schiacciata, appiattita sotto il peso di corpi che cercano qualcosa di più, che sanno fare di quella loro pelle un rifugio contro la realtà che è dura, che è appuntita, che taglia, che squarcia, che svuota.
«Dopo questo, dovrò imparare di nuovo a respirare.» sussurrò Benjamin, la voce affannata contro il collo di Prudence.
Lei non si mosse, non rispose, non voleva parlare perché quello era un momento che non richiedeva la presenza di parole, non ce n’era il bisogno e le andava bene così, e avrebbe voluto poter fermare il tempo, poter maneggiare il tempo a suo piacimento e poter cambiare le cose sbagliate; avrebbe voluto ritornare La Giovane Ragazza Che Aspetta, con il suo libro non letto tra le mani, una metropolitana buia tutto intorno a lei ed un ragazzo che si è perso, che ha bisogno di indicazioni, che ha bisogno di qualcuno che gli dia labbra da mordere, pelle da stringere e un cuore da far battere e adesso andrà meglio, vorrebbe dirgli, adesso che il tempo ci ha dato una seconda possibilità starò attenta a ricordare gli errori da non fare e le ferite da non aprire.
Ma il tempo non dà seconde possibilità a nessuno, figuriamoci a due come loro!
«Benjamin, devo dirti una cosa.»
«Sì?»
Prudence riaprì gli occhi e, spingendo Ben di lato, si alzò barcollando un poco.
«Ti ho tradito.»
Lui si rimise in piedi, uno sguardo confuso dipinto sul viso.
«Cosa?»
«Ti ho tradito.»
Nessuno aggiunse altro, restarono per qualche minuto a guardarsi, probabilmente nessuno dei due avrebbe voluto andare oltre quella frase, oltre quelle parole che sembravano saper avvolgere una verità inaccettabile, una verità capace di tagliare il filo sottile che li teneva uniti.
Ma Prudence non li aveva mai sopportati, i sensi di colpa, e ora che le parole erano cadute fuori dalla sua bocca, non le restava che tentare di dare una spiegazione, di darsi una spiegazione.
Per quanto patetica potesse risultare.
Provò a raccontargli di quella notte, di quell’ennesimo litigio e del suono della bottiglia scagliata a terra che lei riusciva ancora a sentire, così nitido da far battere i denti; gli spiegò che lei non voleva rubargli il futuro, non voleva avvolgere le sue speranze e trattenerlo a forza dentro ad una vita senz’altro difficile.
Gli disse: ‘ti amo, Benjamin, ma’ e dopo quel ‘ma’ seguirono parole che sembrarono trafiggerlo come frecce appuntite, e quel senso di colpa scorreva via da lei come un fiume in piena, svuotandola, liberandole i polmoni.
Lo osservò, mentre parlava, e quando gli disse che aveva voluto ferirlo, che aveva voluto dimostrargli di sapersi bastare, si sentì quasi scivolare giù per il pozzo buio dei suoi occhi delusi.
‘Mi dispiace’ disse alla fine, dopo avergli ripetuto che per lei non aveva avuto importanza, che quella notte era stata un grosso sbaglio di cui si sarebbe pentita per sempre.
‘Mi dispiace’ disse alla fine, e si sentì come un frutto appena sbucciato, nudo e al freddo, pronto ad essere triturato da denti affamati.
«Mi dispiace. Scusa.»
Benjamin scosse la testa, raccolse da terra la maglietta e la indossò, si infilò le scarpe senza allacciare le stringhe e rivolse un ultimo sguardo a Prudence.
«È che a volte le scuse non bastano, Prue.»
«Ti giuro che per me non ha significato niente!»
«Per me sì, invece.»
«Ben…»
«Avevi ragione: noi due non siamo destinati a vivere per sempre felici e contenti.»
Le diede le spalle e si allontanò.
Lei lo guardò andar via, incapace di muoversi, di fermarlo, di salvarsi, come una farfalla con le ali troppo sporche per volare.
 
 
 
 
 

Ciao a voi, lettori pazientissimi!
Purtroppo è stato(ed è) un periodo un po' dimmerda(tra l'altro ieri è pure finita la prima stagione di Poldark e adesso dovrò fare a meno di Aidan Turner per i prossimi 10 mesi, poteva andare più dimmerda? Io credo di no!) in cui ho avuto un bel po' di roba da fare, e quindi per scrivere questo capitolo ho impiegato quasi un mese(quando si dice 'autrici organizzate'!)
E poi vi confesso che ho dovuto riscriverlo uno quarantina di volte perché non mi convinceva e questa, oggi pubblicata, è la versione più accettabile che ne è venuta fuori.
Dunque, dunquerrrimo... Barny l'ha presa malaccio(nel prossimo capitolo ritorno a scrivere dal suo punto di vista e chissà cosa gli combinerò!), ma io ho pur sempre promesso un lieto fine perciò abbiate fede!
E nulla, io ringrazio di cuore chi legge e chi sopporta pazientemente questi ritardi(GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE!) e smammo!
A presto(detta da me fa popo ride)
peace(perché Ringo Starr docet),
C.

P.S: Io mi smaterializzerei volentieri a Portrane, non so voi...




 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su attori > Ben Barnes / Vai alla pagina dell'autore: Nadie