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Autore: Eilan21    27/04/2015    6 recensioni
Una bambina. Solo una bambina minuta e dall'aspetto insignificante. E agli occhi di chi non la conosceva a fondo, Gunhild sarebbe potuta apparire perfino una bambina beneducata e rispettosa; ma chi le era vicino sapeva bene che sotto la sua pelle infuriava un fuoco pronto ad eruttare come un fiume di lava in piena, impossibile da prevedere o frenare. Era la maledizione del sangue vichingo, era il dono che sua nonna Gytha le aveva portato in eredità.
Lei è la figlia dell'ultimo re Sassone Harold, lui è un Normanno, il suo peggior nemico. Gunhild dovrà trovare un compromesso tra la lealtà e il cuore.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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Settembre 1074

Westminster Palace, Londra, Inghilterra

 

L'ultima volta che Gunhild aveva visto il palazzo di Westminster era quando lo aveva lasciato per andare studiare all'abbazia di Wilton, una vita fa.

Allora sembrava che la sua vita dovesse prendere tutta un'altra direzione. Chiunque avrebbe scommesso che il regno di suo padre sarebbe durato altri vent'anni, che sarebbe stato ricco e prosperoso e che l'egemonia sassone in Inghilterra non avrebbe mai avuto fine.

La sala del trono era come la ricordava: gli stessi muri di pietra coperti da arazzi – alcuni addirittura ereditati dai re sassoni – le stesse grandi finestre ad arco, i due alti scranni riccamente intagliati e decorati in foglia d'oro. Salvo che l'ultima volta che era stata lì sui due troni sedevano suo padre e la sua matrigna Ealdgyth.

I pesanti tendaggi di broccato che adombravano le finestre facevano penetrare poca luce del caldo sole estivo. Quando Gunhild entrò, la mano poggiata con eleganza su quella del marito, annunciati dalla voce stentorea dell'araldo, non riuscì subito a mettere a fuoco le due figure sedute l'una accanto all'altra. Il re a destra, e la regina sul trono leggermente più piccolo di quello del marito, a sinistra. La piattaforma dove stavano i due troni era gremita di cortigiani e paggi, e la sala era riempita del loro vociare sommesso.

Il Conte e la Contessa di Richmond erano seguiti alcuni nobili alleati di Alain, tra cui l'onnipresente Walter d'Aincourt, che sembrava divenuto l'uomo di fiducia del Conte, dalle loro mogli, da Bridgit e da un'altra dama di Gunhild.

Tutti gli uomini chinarono il busto in avanti di fronte ai sovrani, mentre Gunhild fece la riverenza tenendosi la gonna, stando bene attenta a piegarsi il minimo indispensabile, appena sufficiente a non creare scandalo.

Il re era un uomo di mezza età, alto, che da giovane doveva essere stato aitante e robusto, ma che ora era decisamente obeso.

La regina aveva pochi anni meno di lui, ed era piccolina e minuta come suo marito era alto e grasso. Formavano davvero una coppia singolare, e visti l'uno accanto all'altro risultavano quasi buffi.

Ancor più del marito la regina Matilda emanava un'aura solenne, dignitosa, da vera regina. Guardava i suoi ospiti con una certa autorevolezza, ma senza superiorità, evitando così di metterli a disagio.

Guglielmo scese dal trono, non senza difficoltà a causa della sua mole, e abbracciò fraternamente Alain.

“Benvenuti a corte” disse rivolgendosi all'eminente assemblea. “Sarete i nostri graditissimi ospiti.”

“Vostra Grazia, posso presentarvi mia moglie?” intervenne Alain prendendo la mano di Gunhild e conducendola di fronte al re.

Gunhild fremette di rabbia, le mani le tremavano, ma si sforzò di rimanere calma.

“Vostra grazia...” mormorò piegandosi a baciare l'anello con il sigillo reale sulla grassa e sudaticcia mano di Guglielmo.

“Mia cara Contessa... avevo udito voci sulla vostra avvenenza. Vedo che non sono state affatto esagerate.”

Per niente impressionata dal commento galante Gunhild mostrò i denti in un sorriso. “Vostra Grazia è troppo gentile.”

“Gradite del vino?” chiese rivolto agli uomini e facendo un cenno a un paggio senza attendere risposta. “Confido che domani vorrete essere miei ospiti. Terremo un grande banchetto per l'inizio della stagione di caccia.”

“Vostra Grazia ha quindi in programma una battuta nel parco reale...” commentò Alain con aria complice.

Il re rise di cuore. “Come mi conoscete bene, amico mio! Ebbene sì, la caccia è l'unico svago che mi rimane da quando non ci sono più sassoni da combattere.”

Gunhild avrebbe voluto strozzarlo, e se gli sguardi avessero potuto uccidere Guglielmo sarebbe caduto ai piedi del trono, morto stecchito. Alain dovette intuirlo, perché si affrettò a rispondere.

“Quando avete in programma la battuta di caccia, sire?”

“Cosa? Ah sì, certo... domani mattina. Naturalmente dovete partecipare tutti!”

In quel momento la regina scese dal trono, così discreta e silenziosa che nessuno la notò finché non mise una mano sulla spalla del marito, il quale si voltò.

“Marito mio, vi dispiace se io e la Contessa vi lasciamo alle vostre chiacchiere da uomini? Mi piacerebbe parlare un po' con lei e conoscere la mia figlioccia.”

“Ma certo, ma certo” esclamò bonario il re.

Gunhild fu grata a Matilda per averla tolta da quella situazione imbarazzante. Un altro minuto insieme a quell'odiosa montagna di grasso che aveva la fortuna di calzare una corona sulla testa, e temeva che l'avrebbe ucciso.

 

Matilda, sempre seguita da un codazzo di dame, condusse Gunhild alla nursery dove vivevano i figli della coppia reale. Anche Matilda, insieme ad Arleigh e alla balia che l'accompagnavano, era stata alloggiata lì. Waltehof invece, giudicato troppo grande per la nursery, era stato sistemato con i paggi più giovani, di poco più grandi di lui; figli di nobili che avevano appena intrapreso il noviziato da cavalieri.

Ormai la nursery era abitata solo dalle due figlie più piccole di Guglielmo e Matilda: Constance di nove anni e Adela di cinque.

La regina le presentò a Gunhild e le due principesse, ligie alle regole e perfettamente educate, fecero un inchino quasi all'unisono, gli occhi bassi e l'espressione modesta.

Tutto il contrario di me, dovette ammettere Gunhild. Anche quand'era una principessa non era mai stata così obbediente, ne credeva che avrebbe mai potuto diventarlo, neanche se avesse mantenuto il titolo per tutta la vita.

“Piacere di conoscervi Contessa” disse Costance con solennità facendo un passo avanti.

La regina, accomodata in una sedia, le fece un cenno d'approvazione.

“Molto bene mia cara. E ora vorrei conoscere la mia figlioccia.”

Gunhild prese una riluttante Matilda dalle braccia di Arleigh e la porse alla regina, che la tenne sulle ginocchia.

“Ma che bella bambina, cara Contessa” commentò la sovrana. “Assomiglia moltissimo a vostro marito.”

Matilda tenette qualche minuto in braccio la sua piccola omonima, intavolando una conversazione di circostanza con Gunhild, Bridgit e le sue dame.

“Costance, Adela!” disse ad un certo punto rivolgendosi alle figlie. “Perché non mostrate il vostro baule dei giocattoli a Lady Matilda?” Le bambine eseguirono prontamente l'ordine della madre, e insieme alle balie condussero Matilda a giocare nell'altra stanza.

La regina congedò anche le sue dame e quelle della sua ospite, le quali si misero a ricamare in un angolo remoto del salotto; così Gunhild si trovò sola, faccia a faccia con quella donna che tanto aveva temuto di incontrare. Seduta nella sedia di fronte alla sua, inizialmente tentò di evitarne lo sguardo. Ma negli occhi della regina non c'era arroganza, né altezzosità. C'erano solo gentilezza e compassione.

“Ho tanto desiderato conoscervi Contessa” disse Matilda rompendo quel silenzio imbarazzato. “Devo ammettere di essere stata curiosa di incontrare la figlia del vecchio re, divenuta forzatamente una della nostra stirpe.”

“E ora che mi avete vista qual'è la vostra impressione, Vostra Grazia?” chiese Gunhild senza più remore di guardare quella donna minuta dritta negli occhi.

“Siete indubbiamente una donna di carattere. E vi si legge in viso che avete sofferto molto.”

“Di questo potete essere sicura” commentò asciutta la Contessa di Richmond.

“Non vi mentirò: non rimpiango la decisione di mio marito di reclamare il trono d'Inghilterra. Mio figlio William un giorno sarà re, ed ora che siete madre anche voi potete capire che voglio solo il meglio per i miei figli. Rimpiango tuttavia il modo in cui questo trono è stato ottenuto e mi rincresce per le vostre perdite.”

Gunhild rimase per un momento spiazzata dalla schiettezza della regina e faticò a trovare una risposta.

“Non ve ne faccio una colpa, Vostra Grazia” rispose con cautela. “Raramente una decisione simile spetta a noi donne.”

“Ma so che la fate a mio marito... no, non lo negate. E' così, e non vi biasimo affatto. So che è stata dura per voi inchinarvi davanti ai vostri nuovi sovrani.”

“Vostra Grazia non deve pensare che io non abbia accettato la vostra sovranità.”

“So che lo avete fatto; e per quanto riguarda ciò che provate nel vostro cuore.... ebbene, quello è affare tra voi e Dio Onnipotente.”

“Vi ringrazio per la vostra comprensione” rispose Gunhild, scoprendosi a credere veramente nelle proprie parole. Per qualche strana ragione, quella donna le piaceva. Era una donna risoluta e intelligente.

“E ditemi, avete notizie della vostra famiglia?”

Gunhild esitò: che quella di Matilda fosse una trappola ben congegnata per strapparle qualche informazione utile alla cattura dei suoi familiari? Le parve improbabile, ma decise comunque di essere prudente. Non nominò Godwin ed Edmund, i due membri della famiglia su cui di sicuro Guglielmo avrebbe voluto maggiormente mettere le mani. E non le parve neppure il caso di accennare al fatto che il suo zio più giovane Wulnoth era ancora prigioniero del re: non sarebbe stata una gran mossa diplomatica.

“Mia sorella vive alla corte danese da anni, ed è prossima al matrimonio con il Gran Principe di Russia.”

“Un ottimo matrimonio, indubbiamente” approvò la regina. “Come anche il vostro con il Conte di Richmond, anche se so non essere stato una vostra scelta.”

“Non lo è stata infatti, come voi saprete” confermò Gunhild senza tentare minimamente di addolcire la pillola.

“Come avete detto, raramente una simile decisione spetta a noi donne. Neppure il mio matrimonio fu una mia scelta. Fu mio padre a decidere che avrei sposato Guglielmo.”

“Vi ha comunque portato qualcosa di buono, Vostra Grazia...” osservò Gunhild.

“E' così. E siete sicura che anche il vostro non possa fare altrettanto?”

 

Le parole della regina le risuonarono in testa per diverso tempo. Quel matrimonio le aveva portato qualcosa di buono? Probabilmente le stesse cose che aveva portato a Matilda: titoli, terre, ricchezze, una posizione... Il guaio era che a Gunhild non importava di nessuna di queste cose. Chissà se per la regina invece avevano più peso o se le desiderava meramente per regalare una buona posizione ai figli? Era immersa in quei pensieri mentre Arleigh tirava fuori dai bauli da viaggio l'abito che le sarte di Richmond avevano confezionato appositamente per il suo viaggio a corte, e che lei avrebbe indossato alla festa che si sarebbe tenuta quella sera. Alain non aveva badato a spese per quel sontuoso vestito. Era di un verde scuro che sfumava man mano che raggiungeva l'orlo, riccamente ricamato con dei fregi dorati sul petto e le maniche, che erano molto larghe. Il mantello color ruggine, la torque* intonata all'abito che teneva fermo il velo bianco ma anch'esso ricamato, la cintura di cuoio ricamata in oro, completavano l'immagine opulenta che il Conte voleva mostrare alla corte, esibendo sua moglie come fosse un forziere d'oro che provava la sua immensa ricchezza.

Ci vollero due ancelle per acconciarle i capelli in due lunghe trecce inanellate d'oro. Insieme ai grossi orecchini pure d'oro, erano talmente pesanti che Gunhild sapeva che alla fine della serata ne avrebbe guadagnato un gran mal di testa. Sospirò, alzando gli occhi al cielo: quel banchetto sarebbe presto finito, bastava stringere i denti per qualche ora e poi avrebbe potuto liberarsi di quel ridicolo travestimento. E forse presto anche abbandonare il chiasso, l'opulenza e le falsità della corte per tornare alla pace e alla semplicità di Middleham.

 

Come Gunhild aveva previsto il banchetto fu un affare in grande stile. La sala grande di Westminster era affollatissima, il chiasso assordante, il cibo talmente abbondante che andò sprecata una buona parte delle mille portate raffinate e complesse che gli invitati si videro mettere davanti. I tavoli erano coperti di tovaglie bianche come la neve e complesse decorazioni floreali decoravano sia i tavoli che le pareti, in un tripudio di colori. Erano stati ingaggiati diversi menestrelli, giocolieri e saltimbanchi, e ad un certo punto della serata una compagnia di attori mise in scena perfino una commedia teatrale, infarcita delle solite allusioni e volgarità che tanto facevano presa sui nobili come sul popolo.

Gunhild e Alain erano seduti al tavolo d'onore, proprio alla destra dei sovrani, come si conveniva al nobile più potente del regno e alla sua consorte.

A metà serata suo marito e Guglielmo erano già allegri, brindisi dopo brindisi, e ridevano di gusto alle battute e alle buffonate degli attori. Gunhild li osservava annoiata, piluccando svogliatamente dall'ennesimo piatto che i servitori le avevano messo davanti, desiderando con tutte le forze che quella serata avesse termine.

Si guardò intorno, osservando con poco interesse la sala gremita di nobili e cavalieri; il vociare e le risate fragorose sembravano in grado di coprire perfino i suoi pensieri. E fu così che lo vide. Per caso. Se si fosse trovato due passi più a destra sarebbe stato fuori del suo campo visivo, e non avrebbe mai saputo di averlo avuto tanto vicino.

Gunhild sentì un improvviso nervosismo serrarle la bocca dello stomaco, i suoi sensi furono di nuovo all'erta e vigili, la noia e la disattenzione spazzate via in un attimo.

Temeva che la voce le avrebbe tremato, ma tentò ugualmente. Mise la mano sul braccio del marito, il quale inclinò il capo nella sua direzione senza nemmeno distogliere lo sguardo dal palcoscenico che era stato allestito al centro della sala.

“Alain?”

“Mmh...” fu la risposta distratta del Conte.

“Ti dispiace se mi allontano un momento?”

“Ma certo, mia cara. Vai pure” la congedò lui con un cenno della mano, gli occhi ancora incollati sugli attori.

Gunhild raggiunse il fondo della sala praticamente inosservata, ma quello spazio limitato le sembrò lungo centinaia di miglia.

Alain il Nero se ne stava lì, con la schiena poggiata al muro e le braccia incrociate. Il suo sguardo enigmatico si spostò dal centro della sala a lei, ma Gunhild non seppe dire se la sua espressione mutò nel vederla, né quali furono i suoi pensieri.

La sassone si fermò di fronte al normanno, e alzò lo sguardo sul suo viso, esitante. Non era cambiato da quando lo aveva visto l'ultima volta, sulle mura del castello di Richmond. Erano trascorsi tre anni e loro non si erano lasciati certo nel migliore dei modi. Gunhild trattenne il respiro mentre tentava di decifrare il viso di Alain, di trovare qualche indizio nella sua espressione indecifrabile. Che fosse ancora in collera con lei dopo quei tre lunghi anni?

Poi i suoi occhi blu si addolcirono, le sue labbra si piegarono in un sorriso. Alain ricambiò il suo sguardo e disse soltanto: “Gunhild...”

“Pensavate di andare via senza salutarmi? Senza salutare vostro fratello?” replicò lei.

“Mio fratello? Dovrei rendere omaggio a colui che mi ha portato via l'unica cosa che abbia mai davvero voluto in vita mia?” chiese Alain con un sorriso amaro.

Gunhild si guardò intorno. Non c'era nessuno nelle vicinanze che potesse sentirli. Nessuno che prestasse loro minimamente attenzione.

“Dopo questi anni...” disse in un sussurro.

“Questi anni non sono serviti a niente Gunhild” la interruppe Alain. “Le altre donne che ho avuto non sono servite a niente. Ti amo ancora, dannazione!”

“Ti prego, non dire così” mormorò lei. Perché quell'accenno alle altre donne che Alain aveva avuto in quegli anni le faceva così male?

“Perché non dovrei?” ribatté Alain. Si passò una mano tra i capelli, con un pesante sospiro. “Mi hanno detto che ti è nata una bambina...”

Gunhild non si sentiva a suo agio a parlare della figlia di suo marito con Alain il Nero, quella stessa bambina che, non ancora nata, lo aveva spinto ad abbandonare Richmond... e lei.

“Si chiama Matilda” disse con cautela. “Ha due anni adesso.”

“Mio fratello è rimasto deluso per non aver ottenuto un erede maschio?”

“Lo è stato” confermò Gunhild. Decise di non aggiungere il vero motivo della delusione del marito, di non raccontare che era stata vicina alla morte nel mettere al mondo Matilda. Non voleva la sua commiserazione, di questo era sicura.

Ma allora cosa voleva da lui? Voleva ascoltare il suono della sua voce, ma aveva anche paura di ciò che avrebbe potuto dirle. Voleva averlo vicino, ma allo stesso tempo temeva il suo tocco. Perché le sue parole, il suo tocco l'avrebbero lasciata senza difese, vulnerabile... debole.

“Io... ora devo tornare da Alain, o si chiederà dove sia finita.”

Ma prima che potesse voltarsi Alain le afferrò per il polso con delicatezza ma fermamente, costringendola a guardarlo negli occhi.

“Vai pure da lui, se devi. Ma vuoi ripetermi di nuovo che non provi quello che io provo per te?”

“Alain, ti prego, lasciami.”

“Sei tu che mi hai cercato stasera, sei tu che sei venuta da me. Chiediti perché Gunhild... chieditelo quando stanotte sarai tra le sue braccia” disse con amarezza, facendo un cenno in direzione di Alain, chiaramente alticcio, le cui risate facevano eco a quelle dell'altrettanto alticcio re Guglielmo.

Gunhild roteò il polso con violenza in modo di liberarsi della presa del normanno, incurante di farsi male. Questa volta fumava di rabbia. Il temperamento che aveva tenuto a freno tanto a lungo, riemerse.

“Come puoi parlarmi così” sibilò, le mani tremanti. “Proprio tu che sai che non ho scelto il matrimonio con tuo fratello, che non avrei mai voluto essere costretta a dividere il suo letto.”

“Perdonami” disse solo Alain, sfiorandole il dorso della mano con le dita, quasi impercettibilmente. “Non volevo ferirti. Sono stato uno sciocco. La gelosia mi annebbia la mente a volte, per questo ho scelto di stare lontano da te tutti questi anni. Ma Dio mi è testimone che preferirei morire che farti del male.”

Era sincero. Era terribilmente sincero. Fu proprio l'enormità dei suoi sentimenti per lei a farle desiderare di fuggire da lì. Di fuggire da un amore impossibile, da quella trappola di infelicità e dolore.

“Devo tornare da mio marito” furono le sole parole che marcarono la sua fuga da vigliacca.

 

Gunhild non resistette ancora molto al banchetto. Disse a suo marito che si sarebbe ritirata e tornò in camera sua, dove buttò mantello e torque su una sedia e cominciò a camminare avanti e indietro, ininterrottamente. Congedò tutte le sue donne, inclusa Arleigh. Solo Bridgit rimase. Provò a chiedere all'amica cosa avesse, perché fosse così irrequieta, ma non riuscì a cavarle più di un paio di sillabe.

Poi finalmente, come se avesse finalmente risolto un ardente dilemma interiore, Gunhild si sedette allo scrittoio e butto giù un paio di righe frettolose su un pezzo di carta.

Prese le mani di un'esterrefatta Bridgit nelle sue, mentre le consegnava il biglietto.

“Portalo ad Alain, mio cognato” le disse. “Non farmi domande, ti prego” aggiunse quando Bridgit aprì bocca per parlare. “Fai solo come ti chiedo. Se mi sei amica, fai questo per me.”

Bridgit sorrise. “Certo che lo farò, Gunhild. Non devi neanche chiederlo.”

E uscì, portando con sé quel prezioso messaggio.

Quanto tempo trascorse prima che qualcuno si affacciasse alla porta della sua camera? Minuti? Ore? Gunhild non avrebbe saputo dirlo. Quando dei colpi leggeri risuonarono alla porta, trattenne il fiato.

Improvvisamente lui era lì, nella sua stanza. Ed erano soli.

Gunhild non riuscì più a trattenersi e gli corse incontro, gettandogli le braccia al collo e nascondendo il viso nel suo petto.

Alain rimase spiazzato per qualche secondo, ma subito le sue braccia la circondarono, stringendola a lui con forza.

“Sono fuggita da te due volte. Non voglio farlo di nuovo” mormorò Gunhild.
Alzò lo sguardo su di lui. “Ti amo anch'io, solo che l'ho capito troppo tardi... davvero troppo tardi. Sono stata una stupida. Ti prego, perdonami.”

Alain le sollevò il mento con due dita e la guardò dritta negli occhi. Il cuore prese a batterle talmente forte contro le costole da farle male.

“Non hai niente da farti perdonare. E non è affatto troppo tardi.”

“Non so se il mio amore per te mi renda debole. Forse è così.... ma non mi importa. Non più.” disse lei in un soffio.

Alain non le permise di aggiungere altro. Aveva atteso troppo e troppo a lungo quel momento.

Avvicinò il viso al suo, coprendo la poca distanza che ancora la separava. Il bacio che le posò sulle labbra fu dapprima delicato come il tocco di una piuma, ma non appena Gunhild gli rispose divenne ardente, possessivo, bruciante. Quel bacio la trasformò in fuoco liquido, la fece morire e rinascere mille volte, come una fenice dalle proprie ceneri.

Le sue labbra erano deliziosamente turgide quando infine si staccarono per riprendere fiato, la fronte poggiata contro la guancia di Alain, le dita intrecciate con le sue.

Non appena il suo respiro si fece meno affannoso, Gunhild cominciò a slacciare i bottoni del farsetto di Alain.

“Mio fratello non ti cercherà stasera?” chiese lui, affondando le mani nella sua gloriosa chioma e attirandola di nuovo verso le sue labbra.

Gunhild ridacchiò. “Il suo valletto mi ha detto che è talmente ubriaco che è crollato sul letto senza dargli nemmeno il tempo di sfilargli gli stivali.”

Alain non sprecò altro tempo in chiacchiere. I suoi movimenti si fecero impazienti e, liberatala dell'ingombrante abito della festa, la sollevò tra le braccia con un gesto deciso e la posò sul grande letto a baldacchino.

Si liberò in fretta del farsetto scuro che Gunhild aveva già slacciato e della camicia, poi le sfilò la sottoveste, l'ultima sottile, diafana barriera che gli nascondeva la vista del suo corpo.

Fecero l'amore in modo frenetico, passionale. Alain sembrava un assetato a cui per un tempo infinito era stata negata una fonte d'acqua fresca.

Infine giacquero l'uno accanto all'altra, il respiro ansante, i corpi accaldati. Gunhild si raggomitolò contro il petto di Alain, beandosi della sua vicinanza e delle braccia che la stringevano. Non lo avrebbe mai creduto, ma ciò che con suo marito era sempre stato un penoso dovere, con Alain si era rivelata pura estasi.

“Dove sei stato tutti questi anni?” chiese Gunhild, con il viso che sfiorava quello di lui, scostandogli una ciocca di capelli neri dagli occhi.

“Ho viaggiato molto. Sono tornato in Normandia per un po' di tempo. Ma ora sono a servizio di Guglielmo, che mi ha assegnato alcune terre e un castello, e mi ha nominato Guardiano delle Marche Orientali.”

“E cosa hai fatto senza di me?”

“Senza di te? Niente. Ho finto...”

“Ha finto...?” chiese Gunhild, perplessa.

“Ho finto di vivere.”

Un sorriso malinconico incurvò le labbra di Gunhild. “A me sembra di aver iniziato a vivere solo in questo momento” sussurrò, gli occhi lucidi.

In risposta Alain si sollevò sul gomito e la strinse a sé, coprendole le labbra, il viso, il collo di baci delicati. “Amore mio...” mormorò contro la sua pelle.

Fecero l'amore di nuovo, seppellendo in un angolo remoto della loro mente il fatto che quello che stavano vivendo sarebbe finito troppo presto. In quel momento esistevano solo loro, il mondo esterno non era che una cornice sfocata e indefinita, le altre persone un lontano ricordo.

Fu Alain più tardi ad esprimere ad alta voce ciò che entrambi sapevano e temevano.

“Quello che è successo stasera non può ripetersi, lo sai vero? Non potremmo tenerlo nascosto, mio fratello Alain se ne accorgerebbe. E tu sai qual'è la pena per l'adulterio...”

Gunhild lo sapeva. Era la morte, anche se si trattava di una sentenza che raramente veniva applicata alla lettera, soprattutto nel caso di nobildonne. Ma in quel momento non le importava nemmeno di morire: ne sarebbe valsa la pena per aver vissuto quella notte in cui si era sentita più viva di quanto non lo fosse mai stata.

“Andrai di nuovo via?” chiese.

“Sì. Ti ho detto che non ce la farei a vederti con lui, giorno dopo giorno. Sarebbe uno stillicidio, una morte lenta e incredibilmente dolorosa.”

“Ma io ti ho già perso una volta... non posso sopportare di perderti di nuovo.”

“Tornerò da te, te lo prometto... dovessero volerci cent'anni. E quando lo farò sarà per chiederti di essere mia moglie, di essere mia e mia soltanto. Non voglio dividerti con nessuno.”

E mentre Alain pronunciava quelle parole, Gunhild seppe che difficilmente sarebbe potuto accadere in quella vita.

Dormirono insieme quella notte, ma quando Gunhild si risvegliò Alain non era più al suo fianco. Più tardi Bridgit le disse di averlo aiutato a sgattaiolare via prima dell'alba quando ancora tutti erano immersi nel sonno.

Quella stessa mattina ebbe luogo la grande battuta di caccia nel parco reale, cui presero parte centinaia di nobili. Gunhild cavalcò accanto a suo marito e a Waltehof, che non stava più nella pelle al pensiero di partecipare ad una vera caccia in grande stile. Il bambino, fiero in groppa al suo pony pezzato, riempiva il conte di domande euforiche cui lui rispondeva sempre con pazienza e con un sorriso. Alain il Nero era con loro insieme a Walter e ad altri nobili, ma lui e Gunhild stettero bene attenti a non attirare l'attenzione su di loro, limitandosi ad una conversazione di circostanza.

Nei giorni che seguirono, fatti di banchetti, di balli e di eventi mondani, si comportarono allo stesso modo. Ciò che era successo tra loro quella sera non accadde più: sarebbero stati sciocchi solo a tentarlo, ad ignorare il fatto che, se una volta la fortuna gli avevo arriso, non sarebbe capitato una seconda volta.

 

La mattina in cui Alain lasciò Londra insieme al suo seguito, Gunhild si svegliò all'alba, e fuori della finestra, invece del verde smeraldo dei prati di Richmond e Middleham, trovò una coltre di nebbia che ingrigiva ancora di più la città, e che faceva da eco al suo stesso umore. Si erano già salutati la sera prima, in presenza di Alain il Rosso e quindi in maniera formale. Ma il biglietto che lui le aveva mandato quella mattina tramite Bridgit non aveva nulla di formale.

 

Ricorda la mia promessa e abbi fede. Anche se dovessero volerci cent'anni non dubitare mai del mio amore.

Alain

 

Gunhild lo lesse e lo rilesse mille volte, straziando la pergamena tra le sue mani irrequiete. Quando si risolse a fare ciò che andava fatto le sembrò che le strappassero il cuore dal petto. Gettò il biglietto nel fuoco e restò ad osservarlo divenire lentamente cenere.
 


* Torque: coroncina circolare che si portava poggiata sopra la testa, dalla quale si dipartiva il velo. Poteva essere di stoffa o di metallo.

 


Angolo Autrice: Rieccomi a voi!^^ Altro capitolo dolceamaro.... molto dolceamaro. Alain e Gunhild devono di nuovo dirsi addio dopo una breve parentesi felice. Spero vi sia piaciuto e come sempre ringrazio tutti coloro che seguono, leggono e recensiscono. Il prossimo capitolo sarà ambientato più avanti nel tempo e segnerà una svolta nella storia.
Alla prossima!
   
 
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