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Autore: _unintended    01/05/2015    2 recensioni
I My Chemical Romance, due anni dopo la fine. Nessuno avrebbe mai pensato che si sarebbero ritrovati, in un assurdo scherzo del destino, nel posto più impensabile al mondo.
Separati. Soli. Alla ricerca di una via d'uscita nel caos più totale.
Un labirinto impossibile, un gioco mortale, in una corsa contro il tempo, contro il mondo intero e contro le loro stesse scelte passate.
E no, non è proprio la situazione giusta per pensare a vecchi amori e rancori, ma c'è Gerard e c'è Frank... e sappiamo tutti come va sempre a finire.
Genere: Sentimentale, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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OOOK, big premessa speciale perché questo capitolo è… insomma, sì. Ci ho lavorato per giorni, e ancora non sono soddisfatta del risultato. Dato che mi sono uscite tipo dodici pagine di roba, l’ho diviso in due parti e pubblicherò la seconda parte a breve, perciò non disperatevi.
Sappiate che ovviamente tutti i fatti descritti qui sotto sono soltanto frutto della mia sadica immaginazione e che sì, sono una persona cattiva a immaginare queste cose/situazioni dolorose ma ok.
Non so perché i mychem si siano sciolti. Non so come sia avvenuto. Non so da chi sia partito, non so come l’abbia presa ciascuno di loro e non so se torneranno. Posso soltanto continuare a scrivere di loro e a cercare disperatamente risposte, perciò perdonatemi se la mia visione delle cose non corrisponde alla vostra.
Baci.
M.
 
 
CHAPTER FIVE - PART1
 
 
MIKEY
 
Trattengo l’impulso irrefrenabile di urlare.
Ci hanno separati. Di nuovo.
Per favore per favore per favore per favore.
Ho un fottuto terrore di queste porte. Vorrei sedermi qui e rimanere accucciato contro la parete a ciucciarmi il pollice come un neonato, pur di non scoprire cosa c’è lì dentro.
Se c’è una cosa che ho capito con gli anni, è che il mio istinto non sbaglia mai. E il mio istinto mi sta urlando di stare lontano da queste dannate porte.
Prendo un profondo respiro, già sapendo che non ho altra via d’uscita. Stringo i pugni fino a conficcarmi le unghie nei palmi e mi avvio verso la prima porta che mi capita a tiro.
La apro di colpo, senza concedermi il lusso di esitare o riflettere, e mi fiondo dentro chiudendomela alle spalle.
Non appena metto piede nella stanza, capisco subito dove mi trovo, e per quanto mi sembri impossibile e assurdo, lo so con certezza.
Sono nella mia vecchia camera da letto, la camera da letto del mio vecchio appartamento, quello in cui vivevo assieme ad Alicia.
Mi guardo intorno freneticamente, sentendo il mio stomaco contorcersi. Vedo miei indumenti gettati alla rinfusa su una poltrona, o sul pavimento, l’armadio con le ante spalancate e il tavolino addossato al letto con una bustina di plastica vuota e una polverina bianca sparsa sulla sua superficie.
Guardo il letto.
C’è una figura semisdraiata sopra.
Non so cosa mi succede in quel momento, ma vedere la scena, vedere questa precisa scena dall’esterno, mi provoca qualcosa che non riesco a decifrare.
Pietà. Confusione. Tristezza. Disgusto.
Quello sul letto sono io.
E questo è il giorno in cui stavo per morire.
Due anni fa, o forse di più. Poco prima dello scioglimento dei My Chemical Romance. Poco prima che tutto finisse a puttane, poco prima che io passassi un mese intero in una clinica per la mia disintossicazione.
Mi avvicino al letto con le ginocchia che mi tremano.
Sono proprio io, sdraiato in orizzontale sul letto, con le gambe che penzolano giù, il braccio destro spalancato e l’altro abbandonato sul petto. La mia espressione è a metà tra la beatitudine e una fase pre-morte, e soltanto quando mi vedo chiudere gli occhi, completamente perso nell’oblio, ricordo tutto ciò che stavo provando in quel momento.
Non sentivo nulla. Proprio nulla.
 Ed era così bello. Era proprio ciò che desideravo. Era il paradiso, e io credevo di stare per raggiungerlo.
Dio, quanto ero idiota.
La porta della mia camera si spalanca subito dopo, lasciando entrare Alicia. Eravamo già in crisi a quei tempi, e tutta quella situazione non fece che allontanarci ancora di più.
-Mikey! – urla subito, correndo verso il me sdraiato sul letto, ignorandomi totalmente. Capisco che sono completamente invisibile, e in un certo senso non so se esserne grato o infastidito.
Vorrei dire ad Alicia che mi dispiace. Vorrei abbracciarla e dirle che mi dispiace, mi dispiace tantissimo.
Ma non posso fare nulla di tutto questo, perciò mi limito a guardarla mentre cerca di sollevarmi dal letto, piangendo e urlando e cercando a tentoni il cellulare sul comodino. La guardo digitare il 911 con dita tremanti e aspettare una risposta.
-Pronto… sì, mio marito… credo… credo che lui…  è sul letto, non riesco a svegliarlo, sembra… sì, credo… c’è della cocaina sul tavolo, credo sia in overdose, non lo so, io… d’accordo, la ringrazio – Alicia chiude la chiamata e si lascia cadere sul letto accanto a me, sospirando e portandosi le mani al viso per asciugarsi le lacrime.
La vedo inspirare ed espirare a fatica, cercando di calmarsi. La vedo voltarsi verso di me e scostarmi una ciocca di capelli dagli occhi, e poi provare a rianimarmi invano spingendo ritmicamente con le mani sul mio petto.
Oh, Alicia.
Quanto ti ho fatto soffrire.
So che i soccorsi arriveranno a minuti, e che verrò trasportato in una stanza d’ospedale dove miracolosamente riusciranno a rianimarmi. Non voglio rivedere tutto questo.
Non voglio.
Chiudo gli occhi, scacciando via il dolore, ed esco da questa stanza degli orrori.
So che non voglio assolutamente, so che non devo e che al contrario la cosa da fare è cercare una dannata uscita, perché è ovvio che queste porte non conducono da nessuna parte, se non negli angoli bui del mio passato.
Ma lo faccio.
Apro un’altra porta e mi ci infilo dentro.
Questa volta, la stanza in cui mi trovo non la riconosco a prima vista. Poi, man mano che mi guardo intorno e mi abituo all’ambiente circostante, inizio a capire.
Sono nella clinica di disintossicazione, e questa è la stanza dove ho passato il mese più orrendo della mia vita.
C’è un letto al centro, con le lenzuola pulite e immacolate e un paio di fumetti impilati sul comodino affianco ad esso. C’è una valigia nell’angolo, il che significa che questo è il giorno in cui sono arrivato.
Lo ricordo, lo ricordo molto bene.
Il vecchio me è alla finestra, a guardare il giardino ben curato che circonda la clinica, quel giardino che ho odiato inizialmente e che poi è diventato pian piano l’unico luogo in cui potessi sentirmi ancora libero.
Ricordo tutto così bene. In fondo sono passati soltanto due miseri anni.
E poi entra Gerard, il Gerard di due anni fa, e attraversa la stanza lentamente, quasi con timore che io mi accorga della sua presenza.
Eppure, me ne accorgo.
-Come avete potuto farmi questo?
Gerard si immobilizza di colpo, poi sospira. Ricomincia a camminare e mi raggiunge alla finestra, posandomi una mano sulla spalla.
La mia reazione è immediata. Mi scanso di colpo, allontanando brutalmente la sua mano e voltandomi verso di lui in modo da essere faccia a faccia. –Come avete potuto? Dovevamo finire di registrare l’album degli Electric Century, dovevamo… noi dovevamo….
Vedo Gerard deglutire, rimanendo sempre in silenzio.
Vedo me stesso abbassare la testa, trattenendo chissà quale sentimento.
Mi sentivo così impotente, all’epoca. Non volevo stare lì. Non volevo essere aiutato. Non volevo nessuno. Avevo staccato i contatti con tutti, con il mondo intero, e mi ero ritirato nel mio appartamento senza voler vedere anima viva.
Ma poi ero crollato. Credevo di aver già toccato il fondo, ma non era così. Rischiai di andare di nuovo in overdose. I dottori mi dissero che avevo rischiato di non risvegliarmi più. Non avevo ancora capito quanto fosse grave, ma continuai a rifiutare gli aiuti dei miei amici e della mia famiglia, cercando di dedicarmi con scarsi risultati al nuovo progetto con gli Electric Century.
Ma come potevo, quando non riuscivo nemmeno a mantenermi in piedi per l’effetto di tutte le droghe che mi iniettavo in corpo appena sveglio?
E poi mi avevano chiamato sulla East Coast, ed io ci ero andato, credendo che avremmo finito di registrare l’album.
E invece mi ritrovai lì, in quella clinica, tradito da quelle poche persone che, nonostante tutto, mi volevano un bene dell’anima.
-Gerard, devi portarmi fuori di qui. Non posso. Io non posso, d’accordo?
Gerard scuote la testa fermamente. –Devi rimanerci, Mikey. Per favore, fallo per me, fallo per nostra madre, fallo per chi ti vuole bene. Devi cercare di….
-No! – esplodo, risollevando improvvisamente la testa e guardando mio fratello con un’espressione quasi spiritata negli occhi. –Dio, non capisci? Non voglio nessuno, non ho bisogno di nessuno! Posso cavarmela da solo, dovete smetterla di trattarmi come un fottuto bambino, cazzo!
Gerard non fa una piega. Sorride tristemente. –Mikey, non ti ho mai trattato come un bambino. Se sei qui, se ho ancora speranza riposta in te, è proprio perché confido che tu sia abbastanza maturo e adulto per gestire questa cosa.
-Non ho bisogno di gestire un cazzo, io. Ho tutto sotto controllo – dico, ma le mie parole vengono tradite da un leggero tremore, come un tic nervoso, delle mie palpebre.
-Da quando non dormi, Mikey?
Qualche istante di silenzio.
-Mikey, lo sai che stavi per morire? Lo sai che stavo per perderti per sempre? – e posso sentire la voce di Gerard spezzarsi a queste ultime parole. Mi mette le mani sulle spalle, chinando la testa e posando la sua fronte contro la mia, respirando piano. –Non puoi immaginare… non puoi immaginare cosa mi hai fatto passare.
E poi finalmente crollo.
Me lo ricordo, perché sentii come un qualcosa che si fosse spezzato dentro di me. Sentii le mie ossa frantumarsi, il mio cuore spaccarsi in due e il mio stomaco contorcersi. Sentii le ginocchia cedere e le braccia diventare improvvisamente troppo pesanti, e fu allora che mi aggrappai al collo di Gerard.
E piansi.
Sì, scoppio a piangere proprio in quell’istante, stringendo forte la maglietta di mio fratello tra le mani, tentando quasi di strappargliela, tentando quasi di fargli male per evitare di riconoscere il male che mi sto facendo io stesso, e Gerard mi tiene forte, mi tiene forte per impedirmi di cadere e io lo sapevo. In quel momento, in quella stanza di due anni fa, io sapevo che ci sarebbe stato sempre, per me.
-E’ tutta colpa mia – sussurro tra le pieghe della sua maglietta, soffocando i singhiozzi.
Gerard si stacca immediatamente, fissandomi e aggrottando le sopracciglia. –Cosa?
-E’ colpa mia, Gee. Lo sai. È colpa mia se la band si è sciolta. È colpa mia se è finito tutto a puttane, e tu non senti Ray e Frank da mesi. Lo sai che è così.
Gerard mi afferra improvvisamente il volto, piantando i suoi occhi nei miei. –Non. Dirlo.
Io annuisco con foga, continuando a sostenere le mie parole. –Lo sai.
-No, cazzo. Mikey, non dirlo neanche per scherzo. Non è colpa tua. Non è colpa di nessuno.
Silenzio.
Lo guardo per qualche istante, la mascella che mi trema e i miei occhi offuscati dal pianto. –E allora perché? Perché è finito tutto? Perché ci siamo ridotti a questo, Gerard? Dimmelo, ti prego, perché io davvero non capisco, io davvero non….
Smetto di guardare mio fratello e il vecchio me.
Smetto, perché semplicemente non posso reggere un momento di più.
E lascio la stanza.
 
 
FRANK
 
Sbatto le palpebre circa una decina di volte, prima di realizzare davvero ciò che sta succedendo sotto i miei occhi. E d’accordo che la prima cosa che ho visto è stato Gerard dall’altro lato della stanza, e d’accordo che ho sentito il cuore farmi una capriola nel petto per la gioia di rivederlo, ma non appena il mio sguardo si è posato sui due intrecciati appassionatamente su quel letto, si è fermato tutto.
Letteralmente. Ogni mio muscolo, ogni mia vena, il mio cuore e i miei arti e i miei pensieri. Fermi. Immobili. Ghiacciati sul posto.
Su quel letto ci siamo io e Gerard che ci baciamo. E no, non voglio ammetterlo nemmeno a me stesso, ma ricordo quel giorno. Lo ricordo come se fosse ieri, come in realtà ricordo perfettamente ogni dannata volta che la mia bocca ha toccato la sua.
Mi viene quasi da ridere. Come potrei scordarle?
Ci ho provato, oh sì, ci ho provato così tanto. In due anni non ho fatto che provarci.
Ma come si fa a scordare che si respira? Come si fa a scordare di possedere un braccio, o un piede, o una testa? Come si fa a scordare 12 anni di una vita vissuta in modo così intenso, così totalizzante, e come si fanno a scordare tutti quei baci, e quegli abbracci, e quelle parole sussurrate all’orecchio, e quegli sguardi d’intesa di cui nessuno tranne noi riusciva a capirne il significato; come si fa a scordare tutto questo?
Dio, devo tenere a bada la mia mente. Vedere questa scena sotto i miei occhi ha innescato qualcosa dentro di me, e ora i miei pensieri stanno cavalcando a briglia sciolta, come non succedeva da secoli, direi.
Prendo un profondo respiro.
Vedo Gerard, e non il Gerard dall’altro lato della stanza, ma quello sul letto, levare la maglietta a… me stesso, solo ringiovanito di dieci anni, ed è allora che capisco che non posso reggere questa situazione un momento di più.
Sono terrorizzato.
E imbarazzato, soprattutto. Credo che potrei andare in autocombustione da un momento all’altro, e non so se riuscirò più a sostenere lo sguardo di Gerard dopo aver condiviso insieme una scena del genere.
Ed è buffo, perché noi l’abbiamo già condivisa. Anzi di più. Noi l’abbiamo vissuta.
Attraverso la stanza a grandi passi, senza lasciare che il mio sguardo si soffermi oltre su ciò che sta succedendo sul letto, e arrivo faccia a faccia con il vero Gerard.
Lui continua a fissarmi, e all’improvviso sono anche io a corto di parole.
I due dietro di noi cominciano ad ansimare, e trattengo l’impulso irrefrenabile di scavarmi una fossa e seppellirmici per sempre.
-Dobbiamo… uscire di qui. – riesco finalmente a dire, e Gerard annuisce debolmente.
Apriamo la porta bianca dalla quale lui è entrato, e ci chiudiamo per sempre quella scena alle spalle.
O quasi.
Rimaniamo fermi, immobili nel bel mezzo del corridoio accecante e vuoto. Io ho lo sguardo piantato sui miei piedi nudi, come se fossi più interessato alle linee del mio alluce che a ciò che succede attorno a me.
Gerard è davanti a me, e mi sta fissando sicuramente. Non lo so cosa vuole dio ma perché deve sempre volere qualcosa da me io non ho niente da dargli non ho niente io non sono niente e lui non è niente per me, assolutamente.
Sto di nuovo andando alla deriva.
Fermatemi.
-Frank, anche tu ti eri ritrovato in un corridoio simile a questo?
D’accordo, una domanda semplice. Posso farcela. –Sì – dico, riuscendo ad alzare lo sguardo e ad incontrare per una frazione di secondo i suoi occhi.
-Cosa… cosa hai visto?
Non voglio dirgli cosa ho visto. Non voglio.
-Ho visto il giorno in cui ci siamo conosciuti – balbetto infine tutto d’un fiato, sputando fuori le parole.
Qualche istante di silenzio. Posso sentire la tensione, posso quasi toccarla. Aleggia tutt’intorno a noi, e ci opprime pesando sulle nostre spalle.
Alla fine lo vedo annuire. – Dobbiamo trovare gli altri. – è quello che dice soltanto, e comincia a camminare su e giù per il corridoio, con le mani dietro la schiena, riflettendo.
Lo conosco, e so che quando Gerard pensa è come se il mondo si fermi. C’è soltanto lui nella sua testa, che cerca di collegare i pezzi del puzzle, e guai se lo interrompi anche soltanto respirando un po’ più rumorosamente.
Perciò rimango in silenzio ad osservarlo parlare ad alta voce.
-Il fatto è che se io provenivo da una porta opposta alla tua, i nostri corridoi dovrebbero essere paralleli, e se c’è una stanza che ha messo in comunicazione noi due, deve esserci anche una stanza che ci mette in comunicazione con Ray e Mikey, giusto?
Annuisco piano, non sapendo cosa dire. Siamo passati dall’imbarazzo più totale a me che assecondo i suoi pensieri, ma è sempre meglio di affrontare l’argomento di ciò che abbiamo visto qualche minuto fa.
-Perciò dobbiamo solo trovarla! – esclama alla fine, come se avesse ricevuto l’illuminazione.
Lo guardo, poi guardo le decine e decine di porte che ci aspettano.
Uh, beh, la fa facile lui.
Poi Gerard viene verso di me, e mi prende per mano. Mi prende per mano, stringendomela forte, e mi guarda dritto negli occhi. –Andiamo.
E lo seguo. Certo che lo seguo. Come potrei non seguirlo.
Non so dire quante porte apriamo nell’ora successiva. So soltanto che non ci fermiamo un attimo, correndo da una stanza all’altra, evitando di soffermarci troppo sulle scene del passato.
In una stanza ci ritroviamo ad un nostro concerto ai tempi della danger days era, con Gerard e il suo fisico pazzesco e i capelli rosso fuoco e quell’aria da pervertito che non vedo nei suoi occhi da una vita.
Ci ritroviamo proprio lì, in mezzo alla folla, mentre sul palco ci siamo noi che suoniamo The Only Hope For Me Is You, e il Frank del passato lancia sguardi al Gerard del passato, e c’è Ray che è epico e Mikey fighissimo ed è tutto troppo bello perché possiamo rimanerci anche soltanto un secondo di più.
In un’altra stanza ci siamo noi nel nostro vecchio van, con un Gerard appena sveglio che tira giù dal letto Mikey e il vecchio me che prepara il caffè e Ray che dorme sul divano ed è una scena troppo intima, troppo nostalgica, troppo troppo troppo.
Non c’è nemmeno bisogno di dirlo, non c’è nemmeno bisogno di guardarci. Ci richiudiamo la porta alle spalle e ne cerchiamo un’altra. E no, non ci voltiamo a guardare indietro.
Nell’ennesima stanza che apriamo, c’è il mio matrimonio con Jamia. In un’altra, poco tempo dopo, c’è il matrimonio di Gee con Lynz, dietro le quinte di uno dei concerti dei Linkin Park, e poi ancora io e Ray e Mikey che andiamo a casa di Gerard per portare regalini a Bandit appena nata, e poi ancora Gerard che gioca con i miei figli, e poi ancora un’intervista ai tempi di bullets, e poi di nuovo avanti nel tempo, nella danger days era, in un’intervista in cui parliamo di MCR5 e dei nostri progetti futuri.
Non so come faccio a sopportare tutti questi ricordi. Non so come faccio a non crollare, a non inginocchiarmi e prendermi la testa tra le mani e urlare basta basta basta, è troppo e non posso reggere più.
Non so come ci riesco. Forse è perché Gerard non mi lascia mai la mano. Me la tiene stretta per tutto il tempo, e oh dio, gliene sono così grato. Ci facciamo forza a vicenda, e mi rendo conto, mentre lo guardo trascinarmi verso l’ennesima porta, che non succedeva da anni.
Non succedeva da anni. Io e lui, insieme, che ci sosteniamo l’un l’altro.
L’ultima porta che apriamo è diversa dalle altre.
Non so dire cosa la differenzi, ma lo sento. Lo sento non appena mettiamo piede nella stanza. Lo sento dall’atmosfera cupa e pesante che respiriamo appena entrati, e poi lo capisco vedendo le altre due porte bianche una di fronte a noi e l’altra sulla parete di sinistra.
È questa.
È la stanza che collega tutti noi.
E quando vedo entrare anche Mikey e Ray, e quando i nostri sguardi si incrociano e poi ritornano sulla scena che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, è impossibile non capire.
Era ovvio che questa fosse la fine della nostra ricerca.
Questa è la fine, in tutti i sensi.
Questo è il giorno in cui i My Chemical Romance si sono sciolti.
   
 
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