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Autore: Virgyl Item    01/05/2015    3 recensioni
Gerard Way ha sedici anni, qualche problema di troppo, e una disarmante voglia di vivere.
Le sue giornate passano velocemente, alternandosi fra lezioni private, sedute psicologiche ed inutili litigi con i genitori.
Ma quando inizierà a frequentare la Redflame, rinomata scuola superiore di New York, Gerard dovrà vedersela con un nuovo mondo, e con una diversa realtà.
Un insolito incontro con un ragazzo renderà la sua vita una scoperta ai confini dell’esistenza, una lotta fra razionalità e sentimento, un’ incredibile avventura che vedrà come protagonista l’indistruttibile forza dell’amicizia e dell’amore.
E soltanto allora, i colori riusciranno a vincere.
 
“Ognuno di noi è costretto a seguire una strada che non gli appartiene pienamente.
Niente di nuovo, niente di spettacolare.
Le solite, immutabili, fredde e cupe strade di Novembre.
Tutti camminano qua sopra.
Ma nessuno si chiede mai il perché.
Siamo cosí abituati a seguire la nostra via, che ci dimentichiamo di chi siamo realmente.
Il mio nome è Gerard Way, e sono un ragazzo indaco.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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                                                                                                                                                      Streets
                                                                                                                                                         Of
                                                                                                                                                   November
                                                                                                                                                        ***

Canzone: Homecoming- Green Day (sembra fatta apposta per questo capitolo)
Capitolo secondo-Eyes and streets.

Avete presente quel momento in cui vi ritrovate a fissare qualcosa di effettivamente inutile, e immergervi in milioni di pensieri che riguardano tutto tranne l'oggetto che state guardando?
Bhè, a me capita con la mia vita.
La guardo, la osservo, l'analizzo. E infine scopro che non me la sto godendo.
La vita è tutta un po' così, priva di senso. 
Nessuno sa come si fa davvero a vivere.
Ognuno di noi è costretto a seguire una strada che non gli appartiene pienamente.

Un po' come quella che sto calpestando io, adesso.
È una di quelle enormi strade americane dimenticate dal mondo, che ti portano verso la tua meta già prefissata, e che ti impediscono di voltare gli angoli. Quelle strade che ti costringono a guardare dritto.
Niente di nuovo, niente di spettacolare.
Le solite, immutabili, fredde e cupe strade di Novembre.
Tutti camminano qua sopra.
Ma nessuno si chiede mai il perché.
Siamo cosí abituati a seguire la nostra via, che ci dimentichiamo di chi siamo realmente.

Tutti, tranne me.

Ho scoperto dell'esistenza di molte, moltissime altre stradine da poter seguire. Basta saper osservare. 
Basta rendersi conto del fatto che la nostra non è una vita a senso unico. 
È troppo vasta per poter essere divisa in sensi unici.
Unico è chi ha il coraggio di cercare qualcosa di piú, di una strada. Di incamminarsi verso la desolazione, lontano dalle idee corali che ci obbligano a smettere di seguire le nostre ambizioni.

In contraddizione con tutto ciò, devo ammettere che anche io, oggi, mi trovo diretto verso una strada a senso unico.
Per la prima volta dopo anni, sono stato iscritto ad una nuova scuola.
Ho convinto Patter a parlare con i miei, e insieme siamo arrivati alla conclusione che io non sono fatto per le lezioni private.
Ed eccomi qui, solo, intimorito, e spaventato dai continui lampi che sento alle mie spalle.
Non male come mese, Novembre.
Pioggia, pioggia, pioggia su pioggia.
Pioggia e freddo.
Freddo su freddo su pioggia.
Uno schifo.
Mia madre mi ha abbandonato sul marciapiede, dopo avermi riempito la testa di mille raccomandazioni su come devo comportarmi in classe.
Mi sono limitato ad annuire, sorridere con netta falsità, e scendere sbuffando dalla sua auto grigia.
E ho provato un certo odio, mentre la vedevo allontanarsi diretta all'ufficio in cui lavora.
È un avvocato civile.
Si occupa dei divorzi.
Penso che sia il lavoro più triste che una donna possa fare. E altrettanto tristi sono i clienti che le chiedono aiuto.
Troppe persone si prendono gioco del matrimonio. Se un giorno mi sposerò, starò bene attento a scegliermi qualcuno di abbastanza intelligente. Almeno quanto me.

Mi dirigo lentamente verso il grande portone verde, che mi aspetta spalancato. Devo dire che è molto inquietante.
Salgo gli scalini che mi dividono dall'entrata, e mi faccio strada verso quello che molti chiamano "l'inferno degli adolescenti".
Un enorme corridoio si materializza davanti ai miei occhi, e centinaia di voci esplodono intorno.
Deglutisco.
Vedo studenti che si incamminano velocemente verso le proprie classi, anziani professori che cercano inutilmente di gestire la situazione, gruppetti di ragazzine che ammirano estasiate le enormi finestre che occupano gran parte delle pareti. 
Devo ammetterlo, è tutto molto strano.
Ogni cosa è diversa da ciò che ricordavo della scuola.
Va bene, ho abbandonato gli studi in prima media, ma non pensavo che sarebbe stato così...Traumatico.

"Smettila Paul!", sento strillare.
Mi volto verso destra, e sorprendo un ragazzo impegnato a strappare dei libri dalle mani di un tipo basso e paffuto.
Quello che penso essere Paul, è alto, biondo, con un fisico ben scolpito e due occhi brillanti.
L'altro sembra fragilissimo.
Due spessi occhiali gli ingrandiscono eccessivamente gli occhi, facendolo sembrare più basso di quanto già sia.
Lo vedo saltare e strillare, mentre prova disperatamente a riprendere i suoi libri.
"Non riavrai mai indietro i tuoi stupidi libri, Denny Mosca", lo provoca Paul, alzando volontariamente il braccio, così da aumentare le difficoltà del ragazzino.
Aspetta, Denny Mosca?
Che diavolo di nome è?
Strizzo leggermente le palpebre, e cerco di ascoltare ciò che dicono.
"Basta chiamarmi così!", insiste Denny, stringendo denti e pugni. Avrà sì e no quindici anni, a giudicare dalla sua altezza. 

"Way?", è la voce di una donna, a farmi voltare.
Mi giro quasi immediatamente, e non sono sorpreso di vedermi davanti il voluminoso corpo della Preside. 
L'ho conosciuta qualche settimana fa, quando sono dovuto andare a firmare dei documenti per l'ammissione alla scuola.
"Sì, sono Gerard", puntualizzo io in risposta. Al contrario dei dottori, odio essere chiamato per cognome.
"Benvenuto alla Redflame High School, caro! Per di qua", continua con troppa enfasi, indicandomi un corridoio secondario alla mia sinistra. 
Faccio spallucce, e la seguo.
La Gullivan è una preside davvero ridicola.
Lunghe mosse ciocche di capelli biondo limone la coprono fino a due grosse spalle, a loro volta attaccate ad un corpo non troppo...sottile, ecco.
Un vestito rosso le mette in mostra le forme, lasciando per metà scoperte le gambe imponenti, sorrette da due tacchi troppo alti.
Sbuffo, mi sembra una donna davvero orribile.
"Eccoci qui, Way", esclama, aprendo una porta che appartiene alla stanza della Presidenza.
"Preferirei essere chiamato col mio nome", controbatto, senza mostrare troppa rabbia.
La Gullivan mi sorride, e con gli occhi leggermente contratti ripete,
"Ma certo, Way, accomodati pure".
Sollevo contemporaneamente entrambe le sopracciglia.
Sta scherzando, vero?
Insomma, non è seria quando mi parla, giusto?
Che massa di matti.
Decido di ignorarla, e di ricambiare forzatamente il sorriso.
Infine scelgo una sedia di fronte a quella che dev'essere la sua scrivania, e mi metto comodo.
La Preside occupa pesantemente quella opposta, rivestita in pelle nera.
Mi ricorda quella di Patter.
E questo cade a suo svantaggio.
"Dunque, ragazzo, come ti senti?", chiede raggiante la Preside.
"Uhm...bene, credo.", rispondo io, domandandomi dove voglia andare a parare con le sue domande.
"Fantastico!", strilla, alzando leggermente le braccia.
Deglutisco.
Ho paura di certa gente.
Non la stessa paura che ho avuto con Cooper, ovviamente.
"Conosci già i tuoi nuovi compagni?", indaga annuendo.
Scuoto lentamente la testa.
"Fantastico!", ripete urlando lei, stavolta facendomi ritirare nella sedia.
"Sono più emozionanti, le nuove avventure! Vediamo un po'... La tua classe è la settantadue, terzo piano, la prima a destra.", spiega.
"Oh, grazie dell'aiuto, arrivederci", esclamo io, alzandomi si scatto dalla sedia, e cercando di scappare da quel posto il prima possibile.
"Lascia che ti accompagni", dice seguendomi lei.
Annuisco in silenzio, sospirando.

In pochi secondi, sono di nuovo dietro la Gullivan, e sto camminando impacciatamente verso la mia nuova classe.
Mi chiedo come faccia lei a correre su dodici centimetri di tacco.
"Eccoci", sussurra, allungando una mano verso la maniglia di una porta color panna.
Annuisco solennemente, preparandomi al peggio. O al meglio, chi lo sa.
La Preside aspetta un 'avanti' proveniente dall'interno dell'aula, per poi abbassare la maniglia ed entrare, seguita da un me tremante e preoccupato.
"Buongiorno ragazzi", esclama Gullivan.
Un coro di "buongiorno Preside" si alza intorno a lei, e un forte rumore di metallo mi fa capire che gli studenti si sono alzati.
Dopo un grande respiro, metto anche io piede nella stanza.

Mi guardo velocemente intorno, cercando di raccogliere più informazioni possibili sul posto in cui trascorrerò gran parte del mio tempo. 
La prima cosa che noto, è la presenza di due grandi lavagne alle spalle del professore, coperto dalla schiena della Preside.
Poi, quattro finestre, di cui una a lucernario, contornate da ricamature color panna che richiamano la tinta della porta da cui sono entrato.
I muri sono dipinti di un semplice bianco, senza sfumature, senza le solite crepe che si vedono normalmente nelle scuole.
Infine, sposto il mio sguardo verso gli studenti.
Approssimativamente, posso dire che siano una ventina, non di più.
Noto immediatamente che prevale il numero di ragazze, e il che non mi spiace affatto.
I ragazzi sono tutti raggruppati nei posti infondo, fatta eccezione per due o tre sfigati mischiati fra le donne.
A prima vista, non riesco proprio a farmi delle idee su che tipo di compagni di classe possano essere.
Alcuni sembrano buoni e tranquilli, altri svegli e magari anche un po' cazzoni. Come la maggior parte degli adolescenti, d'altronde.
I miei occhi si spostano ritmicamente da una persona all'altra. Ma non riesco a vedere più di qualche chioma bionda e un paio di espressioni annoiate.
La cosa che mi sembra più strana, però, è che nessuno di loro si è davvero sorpreso dell'entrata della Preside.
Nessuno ha dimostrato troppo interesse per il nuovo arrivato.
Forse sono io che-
"Avanti Gerard, presentati", esclama ad un tratto la Gullivan.
La guardo in silenzio.
È come se non avessi afferrato a pieno il senso della sua frase.
"Hm?", dico.
Un onda di risatine si fa spazio fra le mura dell'aula.
"Ho detto, presentati", scandisce la Preside.
"Oh. Si bhè, io-io mi chiamo Gerard. Way. Gerard Way, ecco", balbetto, con lo sguardo rivolto verso i ragazzi.
"Way come Strada", sento esclamare da qualcuno fra i banchi.
Le risate questa volta arrivano con maggiore enfasi alle mie orecchie.
"Bella questa, Paul", urla qualcuno.
Paul? 
Mi ci vuole davvero poco tempo per rendermi conto che il Paul che ho visto poco fa, adesso siede nella mia classe.
Come diavolo avrà fatto ad arrivare qui prima di me?
Questo posto mi preoccupa.
"Insomma, smettetela ragazzi!", li rimprovera Gullivan con uno sguardo stranamente serio. E la vorrei infinitamente ringraziare, per questo.
"Prendi pure posto dove vuoi, Gerard", mi intima poi, addolcendo la sua espressione.
Annuisco in silenzio, per poi dirigermi verso il primo banco libero che vedo.
Faccio per posarci il mio zaino nero sopra, quando una voce acuta mi ferma.
"Occupato, strada", esclama la biondina al mio fianco, con un'aria decisamente narcisista ed egocentrica.
Sbuffo di rimando, e vado verso un altro posto.
Prima di commettere ulteriori errori, mi assicuro di non aver scelto un altro schifo di compagno di banco.
"Posso?", esclamo.
Il ragazzo a cui ho chiesto il permesso mi guarda per un attimo. Noto che stringe fra i denti una matita rovinata.
"Fai che cazzo ti pare", borbotta riluttante infine.
Mi convinco che non c'è niente di meglio, e controvoglia mi seggo.
"Bene, se tutto è apposto posso andarmene, allora. Arrivederci ragazzi", saluta la Preside sorridendo, e abbandonando la stanza.
Il secondo coro della giornata rompe nuovamente il silenzio.
"Arrivederci", esclamano tutti insieme i ragazzi. Tutti tranne me e il mio nuovo compagno di banco.

"Allora, Gerard, come ti sembra questa scuola?", domanda improvvisamente il professore.
Adesso che posso guardarlo meglio, devo dire che è proprio come me lo immaginavo.
Calvo, scuro di pelle, voce leggermente roca ma forte.
"Bella", rispondo, limitandomi ad una sola parola.
"Grandioso. So bene che il primo giorno può sembrare difficile, ma vedrai presto che non lo è affatto. E tu, Bob, cerca di essere gentile con il tuo compagno di banco.", dice il professore.
Involontariamente mi ha svelato il nome del ragazzo.
Bob, che nome di merda.
Lo guardo meglio. Sembra alto, e piuttosto robusto. Una ciocca di capelli biondicci gli copre metà della fronte, e un minuscolo piercing splende dal labbro inferiore. Odio i piercing, e odio i capelli biondi.
Bob non sarà mai mio amico.

Improvvisamente, mi ricordo di Paul.
Mi volto leggermente per puntare i miei occhi sui suoi, che inspiegabilmente mi stanno fissando.
Mi mordo lievemente l'interno della guancia. 
Il ragazzo sfodera un ghigno, facendomi stringere nel cappotto, che ancora non mi sono sfilato di dosso.
Improvvisamente inizia a mimare una frase con le labbra.
BENV...
...TO
...FERN
O...

Non capisco.
Poi ripete.

Benvenuto all'inferno.
E stavolta afferro il concetto.

La voce dell'insegnante mi desta dallo stato di shock a cui sono andato incontro, e il mio primo giorno alla Redflame inizia.





Il suono metallico della campanella, che segna l'inizio dell'intervallo, esplode in tutto l'edificio dopo due ore di lezione col professore iniziale, che ho scoperto essere insegnante di Inglese, e una con la Smith, una donna sulla cinquantina più ridicola della Preside, che ci ha spiegato quanto sia importante mangiare sano e roba simile.
Esco dalla classe con il mio blocco da disegno rosso fra le mani.
Cammino lentamente per il corridoio, osservando con cura ogni singolo studente che incontro.
Hanno tutti il solito sguardo da perfetti idioti, addobbati con vestiti di marca e caratterizzati da voci stridule e provocatorie.
Tanti Paul tutti in un corridoio.
Sbuffo, deluso, mentre finisco di scendere le rampe di scale che mi dividono dal piano terra, uscendo nel cortile.

Un forte odore di fumo mi pervade le narici, costringendomi ad arricciare il naso.
Non avrei mai pensato che agli studenti di una scuola così rinomata come la Redflame fosse permesso fumare. 
Mi allontano dalla nuvoletta di aria grigia alla mia destra, inoltrandomi verso orde di gruppi di studenti.
Con un po' di spinte, riesco a raggiugere una panchina, proprio sotto una grande quercia.
Mi accomodo, trionfante, e sospiro.
Poi guardo in alto.
Le nubi che questa mattina hanno scatenato il temporale se ne sono andate, e al loro posto splende un sole caldo e luminoso.
Mi sforzo di osservarlo per qualche secondo.
Amo guardare il cielo.
In sedici anni ho imparato a studiare ogni suo comportamento, dalle previsioni metereologiche, alle eclissi solari e lunari.
Ma non fraintendetemi, non voglio diventare un weatherman.*.
Preferisco agire da autodidatta.
Voglio tenermi l'Universo tutto per me. Soltanto io, posso essere ospitato dall'infinito blu.
Soltanto io.
Sono costretto a distogliere lo sguardo dall'enorme stella, giusto per evitare di accecarmi.
E ho ancora troppe cose da scoprire, per poter permettermi di perdere la vista.
Decido di aprire il blocco da disegno.
Ma scopro immediatamente di non avere ispirazione.
Mi inumidisco le labbra, e provo a guardarmi intorno.
Ragazzi.
Ragazze.
Ragazzi che baciano ragazze.
Ragazze che parlano con ragazze di ragazzi.
Ragazzi che guardano le ragazze perché vogliono che le ragazze parlino di loro.
Tutto così.
Tutte persone uguali.
Comincio a pensare che forse le lezioni private non erano troppo male.
Sbuffo, annoiato, e chiudo di scatto le pagine del quaderno, ancora bianche.
Ho deciso di comprarne uno nuovo appositamente per questo anno scolastico.
Ne ho molti, in casa, ma per le nuove avventure come questa, vanno conservati fogli altrettanto nuovi.
E anche se la scuola è una merda, segnerà in qualche modo la mia vita.
Nel bene.
E nel male.
O forse soltanto nel male.

Mi guardo intorno per l'ennesima volta, in cerca di qualcuno o qualcosa di interessante.
E non sorprendetevi se vi dico che l'oggetto che attualmente sta attirando la mia attenzione è un cestino dei rifiuti.
Poi, ad un tratto, da dietro il contenitore appare Bob, il mio compagno di banco.
Stringo appena le palpebre.
Lo vedo spostarsi il ciuffo biondo dalla fronte, e lentamente poggiarsi ad un albero.
Sembra più annoiato di me.
Il nostro incontro non è stato dei migliori, lo ammetto, ma quel ragazzo mi appare in modo diverso, rispetto agli altri.
Sento che qualcosa brilla in lui.
E quando un ragazzo indaco sente qualcosa, allora credetemi, è quella giusta.
I colori non sbagliano mai.

Senza accorgermene, mi ritrovo a camminare nella direzione di Bob.
"Bob", esclamo, alle sue spalle.
Il ragazzo si volta, e dopo avermi lanciato uno sguardo di fuoco, mi ringhia,
"Sparisci.".
Penso che sia stato più un ordine, che un invito ad allontanarmi.
Ma lo ignoro.
"Che professore avremo alla prossima ora?", insisto, non pienamente consapevole di ció che sto dicendo.
Il ragazzo continua a guardarmi male.
Deglutisco in silenzio.
Incredibile quanto riesca a intimorire le persone senza dire nulla.
Punto gli occhi sulle mie scarpe, che improvvisamente mi appaiono come le cose piú interessanti che avessi mai potuto trovare.
"Ti ho detto. Sparisci.", scandisce poi Bob, stavolta senza guardarmi.
Decido di dargli retta, e con piccoli passi, mi allontano.
La nostra conversazione è durata troppo poco.

Mi ritrovo davanti alla panchina su cui ero seduto poco fa molto piú in fretta di quanto pensassi.
Guardo l'orologio legato al mio braccio sinistro. Mancano sei minuti alla fine dell'intervallo.
Dopodiché dovrò resistere un'ora ad ascoltare la prossima lezione, e infine ci sarà il pranzo.
Ed è proprio il pranzo, che mi preoccupa.
Non ho conosciuto nessuno, da quando sono arrivato qui. E nella mensa, se non hai amici, ti ritrovi a mangiare in un tavolo lontano dagli altri.
Da solo.
O almeno questo è quello che vedo nei film.
E così ho provato a parlare con Bob. Ho pensato che interagire con il mio compagno di banco avrebbe reso tutto molto più semplice.
E invece eccomi qua, su una panchina, circondato da centinaia di persone, ma pur sempre maledettamente solo.
Faccio roteare gli occhi, posandoli nuovamente sulle lancette, e accorgendomi che altri tre minuti sono passati.
Magnifico, un'ora e tre minuti di tempo per decidere accanto a chi mi siederò nella pausa pranzo.


"Buongiorno ragazzi!", esclama raggiante il nuovo professore.
È un tipo alto e robusto, con i capelli neri laccati e una camicia a pois colorati.
Alzo un sopracciglio.
Chi cazzo indosserebbe una camicia a pois, per di più colorati?
Qualcuno bussa alla porta, e i discorsi dell'insegnante vengono fortunatamente interrotti.
Una donna si avvicina, e sussurra qualcosa al suo orecchio.
Mi sforzo di leggerle il labiale.
E Dio, sono sicuro di averla vista scandire il mio nome.
Sbuffo.

Le mie supposizioni si confermano quando la donna abbandona l'aula, e il professore punta il suo sguardo su di me.
"Oh, tu devi essere Gerard, hm?", domanda retoricamente.
Annuisco.
"Allora, Gerard, cosa mi racconti di te?", continua.
Raccontare? Io? Di me? Non se ne parla.
Scuoto velocemente la testa.
"Eh no, ragazzo," ridacchia, "qui non si scherza. Ognuno dei miei alunni è obbligato a presentarsi, la prima volta. Vuoi spiegarlo meglio tu, Bob?".
Bob sembra svegliarsi da una morte apparente.
"Perché proprio io?", esclama irritato.
Il professore lo ignora, e il biondo è costretto a parlare.
"Uhm. Quando hai per la prima volta una lezione con il Professor Ramirez, sei...obbligato a dire tre cose che ti piacciono, e tre che invece detesti o temi", mi spiega, evidentemente controvoglia.
Annuisco, un po'preoccupato.
Tre cose che mi piacciono? Ci può stare.
Tre cose che detesto? No, ci saranno almeno un migliaio di cose che non sopporto. O come dice Bob, che temo.
"Avanti Gerard, sorprendici!", esclama curioso Ramirez.
Ramirez.
Benvenuti alla scuola dei nomi di merda.
"Io...A me piacciono molto il cielo, il mare, e... I colori." mi esprimo, senza pensarci troppo.
L'insegnante fa segno di comprensione, e il movimento della sua testa mi fa capire che devo, purtroppo, continuare.
E gli sguardi dei miei compagni mi spaventano.
"Invece-ugh-non amo eccessivamente...-stop.
Ho davvero troppe cose da poter dire.
Odio le persone.
Ma non penso che sia troppo carino da dire.
Odio i cereali con il latte, ma dubito che possa davvero interessare a qualcuno.
Odio anche i fast food, in effetti, ma resta ancora una cazzata.
Detesto le ragazze con le unghie perfette, e i ragazzi biondi, ma dannazione, niente di tutto ciò è davvero sensato.
"...non mi piacciono gli aghi, e neanche il vomito...", dico infine, nominando due delle mie più grandi fobie.
Ma ecco che manca la terza parola.
"Avanti, dicci la terza cosa, siamo tutti molto impazienti di saperla", mente Ramirez.
So benissimo che a nessuno frega un emerito cazzo delle mie fottute paure.
"E...", ammetto che non so cosa scegliere.
Gli occhi dei miei compagni ancora tutti puntati su di me.
L'ansia che sale.
Il respiro che si appesantisce.
L'irritante sorriso di Ramirez che si allarga sempre di più.
E il fastidioso rumore di legno e saliva proveniente dalla matita fra le labbra di Bob.
Non pensavo che una semplice domanda potesse rendermi così nervoso.
Infine mi faccio forza stringendo il bordo del banco, e sposto lo sguardo verso la finestra.
Il sole è ancora alto, le nuvole non sono più ritornate.
Sembra tutto così semplice, visto dal di fuori. 
Tutto così piccolo.
Non penseresti mai di essere così insignificante, nell'Universo.
E invece sì, lo sei eccome.
Spesso ci preoccupiamo di come possiamo apparire agli occhi degli altri, mentre l'Universo, d'altro canto, ci osserva sornione pensando che siamo tutti uguali.
Tutti piccoli, insignificanti, impotenti umani.
Non sforziamoci di urlare, di farci sentire.
Siamo il silenzio, nell'infinito.
Convinciamocene.
"Del silenzio", dico infine.

La mia voce sembra essere uscita da me sotto forma di un sussurro, di un pigolio.
"Del silenzio?", chiede il professore leggermente deluso.
"Ho paura del silenzio", ripeto io, questa volta più sicuro.
La classe esplode in una risata corale, forte e acuta.
Mi guardo intorno deglutendo, e arrossendo appena.
"Insomma ragazzi, un po' di contegno!", strilla Ramirez colpendo la scrivania con una mano e producendo un rumore in grado di sovrastare le voci degli studenti.
"Gerard, va benissimo così, grazie", conclude poi voltandosi verso di me.
Va benissimo cosí?! Eh?! Dopo minuti in cui ho cercato disperatamente la risposta giusta, lui mi viene a dire che VA BENE COSÌ?
"Bastardo", borbotto, stando attento a non farmi sentire dall'insegnante.
Ma non mi sono troppo curato di Bob.
"Ci farai l'abitudine", sussurra infatti dopo poco, rivolgendomi per la prima volta parola -tralasciando la storia dell'intervallo.
Faccio spallucce, e mettendomi comodo, mi preparo a trascorrere un'altra ora di noiosa lezione.


Se pensavate che la Preside Gullivan fosse ridicola, allora non avete mai assistito ad una lezione di Storia Americana insieme a Ramirez.
È il più bizzarro, stravagante e essenzialmente pazzo di tutto il personale della Redflame. O almeno per ora.
Ho scoperto che è nato in Messico, ma è dovuto venire ad abitare a New York per il trasferimento di cattedra. Qui ha conosciuto una bellissima moglie con cui ha avuto due figli, ma uno di loro è morto gettandosi dal quinto piano di un grattacielo, comportando la separazione fra Ramirez e la donna.
Ho pensato che fosse stato carino, da parte sua, avermi raccontato tutto questo, ma l'entusiasmo si è pacato quando Bob mi ha spiegato che almeno una volta al mese, si ostina a ricordare a tutti gli studenti quanto sia difficile la sua vita.
Oh giusto, Bob. Con mia grande sorpresa, ha iniziato a scambiare qualche parola con me, alternandosi con la disgustosa masticazione di quella che una volta doveva essere una matita.

Ad ogni modo, il fatidico momento della pausa pranzo è arrivato, e come sospettavo, non ho trovato ancora nessuno con cui poterla passare.
Mi faccio strada nel cortile, stringendomi nel mio maglione grigio, diretto verso la mensa.
"Attento al silenzio, strada", sento esclamare qualcuno.
Istintivamente mi volto, e non sono sorpreso di vedere un Paul tutto impegnato a mettermi in ridicolo di fronte ai suoi scagnozzi.
Grugnisco appena, ed evito il suo sguardo continuando il mio cammino.
"Buon appetito, visino di porcellana", conclude infine il biondo, accompagnato da una forte pacca sulla mia schiena. Tanto forte da farmi cedere le ginocchia.
Dalla mia bocca esce un gemito soffocato, mentre mi accartoccio sulle gambe e seguo con gli occhi il ragazzo che si allontana.
"Cazzo", borbotto, rialzandomi lentamente e pulendomi alla meglio i vestiti impolverati dalla terra e dall'erba del cortile.

"Dovresti stare alla larga da Paul, ragazzino", una voce familiare approda alle mie orecchie.
Sposto il mio sguardo verso sinistra.
Un Bob stranamente preoccupato mi si è piazzato davanti.
"Oh", commento io, senza saper bene cosa voglia intendere.
"Dico, quando lo vedi, gira l'angolo e corri", spiega in poche parole lui.
Annuisco con insicurezza, ma quando afferro il concetto muovo la testa energicamente.
"Bene. Buon appetito", esclama Bob con un cenno del capo, pronto ad allontanarsi nell'ombra. Come al solito, da quando lo conosco -ovvero quattro ore e dodici minuti di orologio.
"Aspetta, Bob", lo chiamo d'un tratto.
Aspettate, cosa ho appena fatto?
Il ragazzo si volta, interrogativo.
Deglutisco, rendendomi conto della situazione imbarazzante in cui mi sono infilato.
"Non è che potremmo...insomma, passare il pranzo insieme?", spiego infine gesticolando.
Aiuto.
Bob mi guarda sospettoso, sollevando appena un sopracciglio, e aprendo quindi maggiormente le palpebre, fino ad ora tenute sempre abbastanza socchiuse.
Ha degli occhi strani.
Non che abbiano un colore troppo particolare.
Ma trasmettono una certa inquietudine, e nascondono cose che soltanto un ragazzo indaco può notare.
No, non mi sto vantando di esserlo.
Sto solamente puntualizzando.

Lo fisso di rimando, abbastanza calmo.
Non ho mai avuto paura di chi mi sfida ad un gioco di sguardi.

"Vieni", mi invita poi improvvisamente, con un movimento della mano.
Sorrido internamente, e lo seguo fino alla mensa.

Un odore acre di cibo e adolescenza mi fa rallentare il passo, una volta entrato nella stanza.
Ma subito noto che Bob ha già preso posto intorno ad un tavolo rettangolare infondo, e sono costretto ad iniziare a correre per non fare la figura dell'idiota.
Mi seggo di fronte a lui, posando il vassoio con il pranzo sul piano.
Ho scelto qualcosa che è definito con il nome di purea, ma che somiglia più ad un fiume in piena sporcato di patate.
Ho contornato il piatto con una salsa arancione che ho notato essere molto popolare fra i ragazzi del primo anno.
Ma qualcosa mi dice che sarà una merda, a giudicare da chi frequenta il primo anno.
Con un po' di disgusto, afferro una fetta di pane e la immergo lentamente nel purea.
Sto per addentarla, quando,
"Non mangiarla, se non vuoi morire congestionato", è la voce di Bob a bloccarmi.
Con rigetto, mollo immediatamente la presa dal pane, facendolo rumorosamente cadere sul vassoio.
"Hm", grugnisco disgustato.
"Prova questa, invece", la sua mano robusta mi offre un sacchetto rosso che odora di fritto.
"Cos'è?", domando ingenuamente.
"Pollo", risponde.
Annuisco, e ne pesco un pezzo dal contenitore.
Mi fido imprudentemente di Bob, e lo assaggio senza troppi pensieri.
Mi rendo conto di essermi fidato di qualcuno che a malapena conosco quando la carne è già completamente agganciata ai miei denti.
Sorprendentemente, è fottutamente buona.
Mi inumidisco goloso le labbra, cercando lo sguardo del ragazzo.
Quando lo trovo, noto che mi sta osservando con aria tranquilla.
"Prendilo tu", esclama, mettendomi il sacchetto fra le mani.
Scuoto velocemente la testa, allontanandolo.
"Ma no, tu cosa mangerai?", chiedo imbarazzato.
"Non mangio, sono a dieta", risponde.
Sarebbe potuto essere divertente, se soltanto non lo avesse detto con quello sguardo cupo e severo.
Con coraggio lo ringrazio, e afferro il sacchetto.
Mangio il secondo pezzo di pollo fritto aiutandomi nuovamente con le dita.
Devo ammettere che non ho mai mangiato troppe cose fritte. Non ne vado eccezionalmente pazzo.
Diciamo che io non vado pazzo per nessun tipo di cibo in particolare.
Odio la cucina americana, sempre se si possa definire tale.
Niente di quello che trovi in giro è mai stato realmente cucinato, fatta eccezione per il Tacchino del Giorno del Ringraziamento e qualche altra pietanza tradizionale.
Lo stesso pollo fritto, avrà girato città, stati, se non continenti prima di arrivare qui.
E in seguito sarà stato surgelato, unto da sostanze ipercaloriche e confezionato in graziosi sacchetti rossi, spediti nelle mense dei licei Americani.
Ho un leggero conato di vomito, al solo pensiero.
Ma decido di avere fiducia nel pollo, e gli dò il terzo morso.
Subito dopo, noto Bob sorridere.
Mi fermo.
Bob? Sorridere? È uno scherzo.
E invece no, le sue labbra si sono realmente piegate in un sorriso.
Imbarazzato, deglutisco, e cerco di far sembrare la situazione il più normale possibile.

E ammetto di rimanere leggermente deluso, quando scopro che il motivo del suo gesto non sono -ovviamente- io, ma un gruppo di ragazzi che si è avvicinato alle mie spalle.
"Ehy, Bry!", esclama un tipo basso e rotondo.
Aspettate, io ho già visto quel ragazzo.
Ma certo, questa mattina Paul gli aveva strappato i libri di mano.
"Ciao Denny", lo saluta Bob accennando una leggera felicità.
"Facci spazio Bry, siamo di fretta oggi", è la voce di una ragazza, che parla.
Bry? Non bastava il nome "Bob" a metterlo in ridicolo? Adesso anche Bry? Immagino che sia un abbreviativo di Bryar, comunque, il suo cognome. Disgustoso.
I due si siedono, accompagnati da un terzo ragazzo alto e riccioluto, serio ed educato, a quanto sembra.
Mi sento leggermente di troppo.
Come se lo avesse intuito, la ragazza mi rivolge uno sguardo sospetto.
"Bry, chi è questo?", esclama, senza distogliermi gli occhi di dosso.
Deglutisco sonoramente.
"Si chiama Gerard, è della mia classe", spiega Bob gesticolando.
"Uhm-ciao", saluto io, ingoiando l'ultimo pezzo di pollo fritto.
Silenzio.
Silenzio.
Ancora silenzio.
Ho paura.
Silenzio.
La mano della ragazza si allunga verso di me, e non posso evitare di tirare un sospiro di sollievo.
"Annah. Ma tu puoi chiamarmi Ann", si presenta, strizzandomi l'occhio.
Faccio unire le nostre dita.
"Gerard", dico.
"Benvenuto fra noi, Gee", mi sorride Anna.
Mi piace il suo sorriso.
Ma quel "Gee" è uno schifo.
Più di Ramirez, più di Bob, più di mio padre Donald. Gee è insopportabile.
"Gerard, per favore", puntualizzo schiarendomi la voce.
Annah alza le mani giocosamente in segno di resa, e annuisce.
"Sono Danny", tocca al nanetto presentarsi.
Gli stringo la mano, evitando di ripetere il mio nome, già stato sufficientemente appreso.
Infine, il ragazzo riccioluto si alza dalla sedia per raggiungermi, e con una voce sottilissima esclama un debole,
"Ray".
Istintivamente, gli sorrido.
Che nessuno mi chieda il motivo.
"Bry, dov'è il tuo pollo fritto?", domanda Danny Mosc-ehm, Danny, quasi balzando addosso a Bob.
"L'ha mangiato Gerard", risponde il biondo tutto d'un fiato, indicandomi con il dito.
"Accidenti, Bry! Era l'ultimo sacchetto rimasto!", si lamenta Denny.
"Gerard, non farci l'abitudine, il pollo fritto ce lo danno una volta a settimana, se tutto va bene", continua poi strillando il nanetto.
Mentre i due gesticolano e discutono, sposto  ancora una volta lo sguardo su Annah.
A differenza degli altri, dimostra più esperienza.
Porta lunghi capelli scuri legati in una treccia, e il suo viso sembra essere stato truccato da più e più strati.
Gli occhi color castagna sono circondati da due leggere occhiaie violacee lungo i bordi, e minuscole rughe le si formano agli angoli quando sorride troppo.
Ha dei bei denti, brillanti, delineati da due labbra rosse e sottili.
È poggiata al tavolo con il peso sui gomiti, in un modo molto mascolino e poco seducente.
I suoi gesti, la sua voce, le dita lunghe e sottili, ogni cosa mi fa pensare che sia una ragazza che ha lasciato le sue ambizioni da parte, all'altezza del cuore, qualche anno fa.
Qualcosa mi dice che ha sofferto.
Molto.
Lo si vede dallo sguardo perso nel vuoto che apparentemente dedica al bicchiere di plastica che ha di fronte.
È tutta un po'alternativa e particolare, immersa nel suo mondo di favole fatate.

"Paul stamattina ha ricominciato a perseguitarmi", esclama sconfortato ad un tratto Denny, portandosi alla bocca una lattina di cola.
"Ancora con Denny Mosca?", chiede comprensiva la ragazza.
Il nanetto annuisce, e sospira di rimando.
Denny è davvero molto basso. Ha due guance rosee e paffute, coperte per metà da un paio di enormi occhiali, che contribuiscono ad ingrandirgli gli occhi.
Oh! Ecco svelato il mistero.
Le mosche hanno gli occhi grandi.
Denny Mosca non è una scelta così infondata, per un soprannome.
Sembra un ragazzo affettuoso, però.
Uno di quelli a cui ti affezioni subito, ma che ti romperanno le palle per sempre.
Ridacchio leggermente, pensandoci.
"Ehi tu, cosa ridi?", strilla Denny notando la mia espressione divertita.
"Non sto ridendo", controbatto, serrando immediatamente le labbra.
"Tu stavi ridendo", insiste il nanetto, annuendo.
"Ti sbagli", lo convinco io.
"Avanti, perché stavi ridendo?".
"Ti dico che hai visto male, Denny", ripeto.
"Non chiamarmi per nome! Dico, avete visto che faccia tosta?", domanda poi irritato  ai compagni, che esplodono in una -vera- fragorosa risata.
Denny sembra non esaurire mai le energie.
E chissà cosa nasconde, anche lui, sotto quel fisico da Puffo.
Sí, perché tutti nascondono qualcosa.
Ogni singolo umano riesce a nascondersi dietro una maschera che non gli appartiene.
Ma preferisco non pensare a questo.
Non voglio rendermi conto del fatto che altri sette miliardi di persone stanno riflettendo su faccende a me sconosciute, su problemi e problemi che riguardano le loro vite private.
Miliardi di altre vite private come la mia.
Detesto sentirmi così piccolo.

"Dov'è il bagno?", sputo ad un tratto io.
Denny cessa di parlare, e Bob sbadiglia rumorosamente.
"Primo corridoio a destra, Gerard", mi indica poi Annah accentuando il tono sul mio nome.
La ringrazio e mi alzo velocemente.

I pochi secondi mi ritrovo nel corridoio di cui parlava la ragazza, e in altrettanto tempo riesco a trovare i bagni.
Con una certa fretta entro, e apro la prima porta.
Un "occupato" mi fa imprecare sottovoce, e passo alla seconda cabina.
Stavolta busso.
Niente.
Busso di nuovo, non si sa mai.
Niente.
Convinto, spingo la maniglia.
Ma la porta è chiusa.
Dall'interno.
"Cos-", esclamo, cercando di forzarla senza ottenere alcun risultato.
"C'è qualcuno?" domando, provando a rendermi utile.
Nessuna risposta.
In quel momento, un ragazzo esce dalla porta che avevo inizialmente provato ad aprire.
"Serve aiuto?", chiede dopo avermi osservato accigliato per un po'.
"No, io-la porta sembra essere chiusa dall'interno", farfuglio in risposta, senza smettere di tirare la maniglia.
"E dai, staranno scopando", ridacchia il ragazzo poggiandosi al muro.
"Chi?", esclamo guardandolo ingenuamente.
"Non lo so, i due là dentro, immagino", spiega con ovvietá.
"Due?".
"Sì, saranno sicuramente in due".
"Cosa ne sai?", insisto.
"È sempre così. Due innamorati si chiudono dentro e si inculano come forsennati. Semplice.", dice.
Non so se sorprendermi più per il fatto in sé, o se per la volgarità e la tranquillità con cui il ragazzo mi sta parlando.
Deglutisco più volte, fermando i miei movimenti.
Potrebbe avere ragione quanto torto.
E accidenti, forse la verità è proprio questa.
Forse due innamorati stanno davvero facendo sesso in quel bagno.
"Oh. Sì,", mi schiarisco la voce "hai ragione tu.", concludo.
"Mi pare ovvio", puntualizza il giovane uscendo dalla stanza, e dirigendosi verso la mensa.
Sbuffo, infastidito e anche un po' imbarazzato per il mio gesto.
Entro nella cabina libera, assicurandomi di chiuderla bene, e finalmente mi sbottono i jeans neri liberandomi nel water.
Tiro un mezzo sospiro di sollievo, socchiudendo gli occhi.
Tutta la tensione della giornata si sta ora riversando in un pozzo senza fondo laccato in ceramica.
È triste pensare che tutti i rifiuti, che fino a poco fa facevano parte del mio corpo, adesso scorrono in enormi tubi sotterranei.
Un po' come perdere una parte di noi.
Scuoto la testa, e premo il pulsante dello sciacquone.
Ondate di acqua esplodono nella tazza del water, e dopo essermi riallacciato pantaloni e cintura, esco dal bagno.
No, decido di soffermarmi allo specchio.
Un me completamente spettinato prende forma sul vetro di fronte.
Mi avvicino leggermente, e sono costretto a socchiudere le palpebre per evitare di vedere le occhiaie scure che mi si stanno formando sotto gli occhi.
Mi scappa un verso di disgusto nei miei stessi confronti.
Non male, Way.
Way, oppure strada.
O ancora meglio, Viso di Porcellana, come mi ha chiamato Paul poco fa.
Con un rapido gesto, apro il rubinetto dell'acqua fredda sotto lo specchio, e mi sciacquo lentamente -e dolorosamente la faccia.
L'acqua fredda mi fa sentire bene.
La doccia preferisco farla fredda, piuttosto che calda, anche con la neve fuori.
Passo la mano attraverso gli occhi, la fronte, arrivando ad inumidirmi alcuni ciuffi di capelli.
Schiudo leggermente le labbra, lasciando che un paio di rivoli d'acqua scivolino dentro di me. Mi sento quasi meglio.

Poi, un ticchettio.
Un altro.
Più forte.
È nella mia testa, e sta iniziando a diventare doloroso.
Il mio corpo cessa di muoversi, insieme al mio cuore e ai miei polmoni.
In un attimo spalanco gli occhi, e il fastidioso ticchettio si trasforma in un potentissimo rumore.
È come se mi stessero improvvisamente fracassando il cranio a suon di martellate.
Ho paura.
Ho paura di voltarmi e scoprire di cosa si tratta.

Ma la verità, è che conosco fin troppo bene questo ticchettio.
Ed è impossibile da descrivere.
Sembra un avviso, un messaggio di pericolo che soltanto io posso sentire.
Con un po' di coraggio, mi giro indietro.
La vista inizia improvvisamente ad appannarsi, gli arti che tremano vistosamente.
La luce sembra scomparire, e in poco tempo mi ritrovo al buio.
Mi strofino violentemente gli occhi, mentre sussurro parole incomprensibili, pensando che possano in qualche modo farmi capire cosa sta succedendo.
L'oscurità della stanza aumenta vistosamente, ed è qui che mi accorgo di un luminoso fascio rettangolare davanti a me.
Mi avvicino lentamente, e con cautela lo tocco.
È un materiale freddo, ruvido, pare essere legno.
E sì, è legno, e appartiene ad una delle porte del bagno.
Deglutisco sonoramente, e la spingo con forza.
Ma poi mi accorgo che si tratta della cabina chiusa dall'interno.
"Qualcuno apra, per favore", ansimo mentre il martellamento nella mia testa aumenta.
Continuo a forzare inutilmente la maniglia.
"Aprite, dannazione!", riesco ad urlare.

Ci sono due ragazzi che fanno sesso là dentro, lasciali stare Gerard,

Mi sento ripetere in lontananza.
Una volta.
Due volte.
Dieci volte.
La frase continua a rimbombare nella cupa stanza.

No, non ci sono due ragazzi.
Nessuno si è chiuso là dentro per stare da solo nella sua intimità di adolescente.
No, no, no.
Io so che non è così.
Io lo so.
Io lo so.
Me lo sento.
Aprite questa porta.
So cosa sta succedendo.

Con un ultimo strattone, riesco finalmente a sbloccare i cardini dell'anta, facendo tentennare la cabina e provocando un'esplosione luminosa che mi costringe a coprirmi gli occhi.
Poi, silenzio.
Un incredibile, spaventoso silenzio.

Quando sposto le mani dal mio viso, sembra essere ritornato tutto alla normalità.
È come se niente di tutto questo sia successo, come se il tempo si sia improvvisamente bloccato.
Ho un vago ricordo di ciò che ho appena fatto. 
Cerco di sforzarmi, ma l'immagine che mi si proietta davanti passa avanti ad ogni mio pensiero.

La porta è spalancata, leggermente ammaccata.
C'è del sangue, in terra.
Ed è guardando le mie mani, che capisco che si tratta del MIO sangue.
Infine alzo lo sguardo.
Apro la bocca, e urlo.
Urlo in silenzio.
Mi accascio per terra, mentre sento arrivare qualcuno dall'esterno.
 
 
 
-


 

Mi muovo nervosamente, cercando di non sforzare troppo le mani arrossate.
"Insomma, mi volete spiegare cosa succede?", domanda irritata.
"Signora, quante volte glielo dobbiamo ripetere? Nessuno del personale era al corrente di questo fatto. La cabina è rimasta chiusa a chiave per giorni, senza che nessuno studente ci avvisasse.
Sicuramente pensavano ad un guasto, e invece...", cerca si spiegare il vice Direttore, che viene però nuovamente interrotto dalla voce di mia madre.
"Le ho chiesto di dirmi cosa succede. Cosa è che non riesce a capire?".
"Bhè, vede-", tenta di insistere l'uomo.
"Mamma, va tutto bene", intervengo io, stanco di questa discussione.
"Gerard, tu stanne alla larga", prende le distanze lei, allontanandomi con una mano.
"No, ascoltami", grugnisco.
Mia madre mi guarda accigliata.
"Ti prego", concludo.
La donna annuisce.
"Neanche io avrei mai pensato di trovare una cosa simile dentro ad un bagno.
E invece eccoci qua.".
"No Gerard, tu hai aperto quella porta, solo tu sai cosa ti ha spinto a farlo!", strilla, posandosi due dita sulla fronte.
"Cristo, sai come sono fatto. E sai cosa succede quando sento qualcosa di questo tipo.", piagnucolo, convincendola.
Dopo avermi osservato per qualche secondo, socchiude gli occhi e annuisce.
"Va bene. Okay.", sussurra, nascondendo l'evidente preoccupazione. 
Sbuffo, guardandomi le nocche infiammate.
Devo aver spinto quella porta con tanta forza da riuscirmi a fare male.
Grandioso.

"Donna e Gerard...Way?", esclama ad un tratto una segretaria, esitando sul mio cognome.
Io e mamma annuiamo all'unisono, ed entriamo nella sala della presidenza.
Qui, ci aspetta una Gullivan spaventata e al tempo stesso eccitata ed irrequieta.

"Gerard! Oh, Gerard, caro!", urla stringendomi in un disgustoso abbraccio.
Mia mamma provvede immediatamente a separarci, e spingendomi indietro chiede,
"Mi dica cosa succede o mio figlio abbandonerà questa scuola, immediatamente", noto della rabbia nella sua consueta sottile voce.
"Donna-ehm, possiamo parlarne fuori?", propone in un modo stranamente tranquillo la Gullivan, aprendo la porta ed uscendo con mia madre.
"Pretendo che mi dia del Lei, comunque", sento pronunciare, mentre le due si allontanano.
Certe volte mi somiglia, la mamma.
Sì, perché è lei che somiglia a me, non il contrario.
Insomma, i figli sono o non sono le ragioni i vita delle madri? 
Ecco risolto tutto.

Mi stravacco sulla solita sedia di fronte alla scrivania.
Osservo un vasetto riempito da decine di caramelle al miele, e quasi non trattengo un conato di vomito.
Le caramelle fanno schifo.
Fanno schifo quelle alla frutta, quelle al miele, quelle al latte, e ancora quelle al miele. Ma quelle al miele della Gullivan.
Avrei paura di assaggiare qualcosa offerto da lei.
Come avrei paura a convivere con lei.
È da quando l'ho vista la prima volta, che mi preoccupo per suo marito.
Sì, la Preside Tacco Dodici è sposata.
Ho notato la fede, sapete.
È un anello argenteo e sottile, ma si intravedono due iniziali.
Quindi o la Gullivan è sposata, o quello apparteneva ad un ex compagno deceduto.
Di solito funziona così.
E credetemi, preferirei essere il compagno deceduto.

La mia gamba inizia a muoversi ritmicamente, seguita dalla mia mano.
Sono passati trentasei minuti, da quando mia mamma è fuori a parlare con Miss Tacco Dodici.
E questo mi spaventa.
Con un balzo, mi metto in piedi, e raggiungo la porta.
Lentamente, poso un orecchio sull'asse di legno.

Il nulla.
Ecco cosa sento, nulla.

O meglio, questo è ciò che sentirebbe un ragazzo normale..
Io sono Gerard.

Spingo con più decisione la testa contro la porta, socchiudo gli occhi, e inizio ad unirmi con l'esterno.
Il tempo si ferma, le luci si spengono, mi sento leggerissimo.
Un grazioso cigolio si fa spazio nella mia mente, e come per magia, ecco le prime voci.
Sembrano mormorii, parole divise a metà da sospiri e rumori di lacrime che scendono.

"Certo, Vanessa, ma non saprei... Sono anni che succede così...", è mia madre, che improvvisamente chiama la Gullivan per nome.
E va bene, ne ho sentiti di peggio.
"Donna, la situazione è sotto controllo! Gerard ha scoperto tutto questo grazie a qualcosa che... Che... Lo rende speciale, cara!", la rassicura la Preside.
"No. Non stavolta. Gerard sta male, Vanessa. Gerard ha bisogno di aiuto. Ha scoperto...quella cosa... Nel suo primo giorno, qui alla Redflame. È preoccupante!", insiste mia mamma.
"Non ha bisogno di aiuto, te lo posso assicurare".
"Sì, invece. Ha bisogno di ritornare dal suo psicologo. E il prima possibile.", conclude.


La porta si spalanca sotto la mia spinta violenta.
"Non ci provare", ringhio, puntando un dito contro mamma.
"Gerard, va' via", mi ordina con fermezza.
"Io non ritornerò là dentro", insisto però io, alzando la voce.
"Gerard, adesso basta, tornatene a casa, arriverò fra un po'.".
Scuoto energicamente la testa.
"Se ho aperto quella fottutissima porta, non vuol dire che ho bisogno di Patter e dei suoi odiosi ragionamenti da capra addomesticata", esclamo, ignorando la presenza della Gullivan, che però non sembra troppo scandalizzata.
"Vattene", la voce di mia madre inizia ad impaurirmi.
La guardo con gli occhi già gonfi per le prime lacrime.
Mi inumidisco le labbra, e scuoto leggermente il capo.
Non pensavo che sarebbe andata a finire così già dal primo giorno di scuola.
Non lo pensavo affatto.
No.
"Va bene", sussurro tremolante, raccogliendo da un angolo il mio zaino.
"Va bene", ripeto, allontanandomi, ed uscendo dall'edificio.
Attraverso l'entrata ritrovandomi velocemente all'esterno.
Posso sentire mia mamma scoppiare in lacrime.
 
 
   
 
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