John ricordava il momento in cui aveva temuto di aver perso l'ultima cosa decente che gli era rimasta con una lucidità feroce, assassina.
Erano
trascorse tre settimane dal matrimonio di Chas, quasi un mese intero.
John si era reso conto
gradualmente di quanto ormai non gli restasse più nulla. Non aveva
più nessuno. Non aveva una famiglia – non ce l'aveva mai avuta, -
e quel che restava dei suoi amici, se tali si potevano chiamare i
drogatelli ingenui con cui aveva condiviso rituali e droghe pesanti
negli anni dello sbaraglio, o erano morti o si auguravano la sua
morte. E, per quanto fosse abile nel riempirsi il letto con una
sgualdrinella diversa ogni sera, c'erano altri vuoti che non riusciva
a riempire, altre mancanze a cui non riusciva a sopperire.
Chas
era la persona con cui aveva il rapporto più stretto. Con lui non
aveva mai dovuto fingersi diverso, o migliore di quello che era. Con
lui poteva essere sé stesso,
e non avrebbe mai dovuto temere di essere allontanato o giudicato,
perché a Chas andava bene
così. Non ricordava di essersi mai sentito così con nessuno, prima
di conoscerlo; e anche dopo, il clima di familiarità che c'era tra
loro non aveva mai subito scalfiture, anzi: col tempo era solo
migliorato, era diventato più caldo e solido.
Finché
poi non era arrivata Renée,
e Chas aveva deciso che era il momento di mettere la testa a
posto.
Cazzate.
John Constantine non era mai stato un sostenitore del matrimonio,
anzi: era felicissimo di boicottarlo. Non capiva perché
mai due esseri umani avessero bisogno di stipulare contratti e liste
di doveri, uccidendo sul nascere la spontaneità di un sentimento –
sempre ammesso che ce ne fosse uno – che aveva bisogno di ben altro
per sopravvivere. Non servivano anelli, non servivano grandi promesse
davanti a un prete e, soprattutto, non c'era alcun bisogno che quelle
due scellerate persone, che avevano deciso di assecondare la
scellerata usanza dello scellerato matrimonio, si stravolgessero la
vita a vicenda.
Da un giorno all'altro, Chas se
n'era andato. Perché
"è normale che due che si
sposano vivano insieme, John," e tutt'intorno si era fatto il
vuoto.
Senza
contare che John detestava con ogni fibra del proprio essere quella
stronza antipatica di Renée,
e la cosa era reciproca. Lei non lo sopportava, e non si curava
affatto di nasconderlo. Quelle rare volte che erano stati costretti a
condividere lo stesso spazio vitale, John si era trattenuto dal
prenderla a schiaffi solo perché
c'era Chas.
Chas,
Chas, Chas.
Sapeva che c'era rimasto male,
quando aveva cortesemente declinato il suo invito alla cerimonia.
No, davvero, non sono fatto per questo genere di cose, ma divertiti
anche senza di me, eh?. Ma davvero, davvero, era l'ultima cosa al
mondo a cui avrebbe voluto assistere.
Il
primo giorno che aveva trascorso senza di lui era stata pura agonia.
Si
era ubriacato, si era addormentato, si era svegliato a testa in giù
ai piedi delle scale – come diavolo c'era arrivato? - e si era
ubriacato di nuovo, perché
si era reso conto con orrore che il tempo non voleva saperne di
passare e non voleva restare lì, a fissare le lancette che si
spostavano con una lentezza snervante, fino a perdere la ragione. Non
aveva avuto ancora il coraggio di dirlo ad alta voce, ma aveva capito
benissimo cos'era, quel groppo in gola che gli rendeva difficoltoso
anche ustionarsi l'esofago a forza di ingoiare whisky: era la
sensazione di aver perso tutto.
Di
essere arrivato troppo tardi.
Rideva di sé
stesso. Cosa mai avrebbe potuto fare, comunque? Dirgli: non mi va
che ti sposi, quella squinzia mi sta insopportabilmente sul cazzo,
oppure andare più sul soft, cercare di far leva sul suo istinto
protettivo, dirgli qualcosa tipo non voglio che te ne vai, perché
poi resterò solo, e non saprò più cosa farne di me stesso. Che
poi, era la verità. Da quando Chas se n'era andato, John non aveva
fatto molto, a parte trascinarsi in giro per casa ubriaco fradicio e
tentare sciatti e stupidi incantesimi da prestigiatore di periferia,
sotto effetto dell'alcol.
Era
andato avanti così per un tempo che gli era sembrato infinito.
Alienante.
Logorante.
Si sentiva di merda. Sapeva che
non era il tipo di sentimento che avrebbe dovuto provare per un
amico; ma, ora che era solo e poteva guardare in faccia la verità
senza doversi preoccupare delle conseguenze, aveva finalmente trovato
la consapevolezza di quello che realmente provava. Era da molto,
molto tempo che aveva cominciato a voler bene a Chas molto più che
ad un amico. Lo sapeva, se ne rendeva conto benissimo. Non lo aveva
taciuto a sé
stesso per pudore, o per stupidi e insensati dissidi con la propria
identità sessuale – era bisessuale dichiarato e, francamente, era
orgoglioso di giocare per entrambe le squadre, - ma, piuttosto,
perché una
parte di lui, quella più razionale e concreta, sapeva che per una
cosa del genere non avrebbe mai avuto futuro. E un rifiuto da parte
della persona più importante della sua vita era esattamente l'unico
rifiuto che non avrebbe mai voluto ricevere.
Perciò
aveva taciuto. Prima, durante e dopo.
E quando Chas telefonava, ciao
come stai, e John schiacciava la sigaretta, bruciata fino al
filtro, sul bordo annerito del tavolo prima di rispondere, gli
uscivano frasi del tipo: tutto bene, no, non mi annoio, ho un
sacco da fare, sì, sì, mangio, non ti preoccuapare, adesso devo
andare, eh? Ciao ciao, ci sentiamo presto. E si sentiva un idiota,
ma non riusciva a vedere nessuna alternativa.
Continuava
ad esserci troppo silenzio in quella casa, soprattutto la sera. E
tutte le bottiglie che comprava condividevano il pessimo difetto di
svuotarsi troppo velocemente.
Verso
la fine della terza settimana decise che aveva sofferto abbastanza.
Se avesse continuato così, avrebbe dovuto comprare una borsa a
tracolla e usarla per portare in giro il fegato, dal momento che il
suo stile di vita consisteva nell'ingerire derivati dell'alcol
etilico, tamponando i crampi allo stomaco con sostanze commestibili
solide scarse e sbagliate, e dormire solo durante la sbornia.
Ad ogni modo, non era solo con
questo che doveva fare i conti. Non voleva più sentirsi così a
pezzi, così... Mutilato. Doveva dimostrare a sé
stesso di essere perfettamente in grado di controllarsi. Di essere
una fottuta persona adulta, per la miseria! Perciò si era sbarbato e
profumato ed era uscito di casa, con la decisa intenzione di mettere
a tacere, una volta per tutte, quella stretta nel petto che
minacciava di farlo a pezzi.
Doveva
farlo. Doveva andare a trovarlo, rendersi conto di come stavano
adesso le cose, e farsene una ragione. Doveva vederlo con i propri
occhi per mettersi in testa, finalmente, che nulla sarebbe mai più
stato come prima e non c'era nulla che potesse fare per impedirlo.
Avrebbe bussato. Sarebbe stato
gentile e cortese da essere adorabile. Si sarebbe comportato come una
persona normale, - come un semplice amico, - e avrebbe
sorriso, avrebbe detto a Chas che era felice per lui e poi se ne
sarebbe andato. Andato, magari sul serio. Forse era ora di
ricominciare altrove. Forse, se non lo avesse visto per un bel po' di
tempo...
Non
aveva tempo di pensarci su, doveva farlo e basta.
Prima
che venisse a mancargli il coraggio.
Prese
un pacchetto di dolcetti alla pasticceria all'angolo dove spesso lui
e Chas si fermavano a fare colazione di ritorno da una missione. Era
aperto a tutte le ore, ed era tutto molto buono. Eppure, già
soltanto entrandoci, e ricordando tutte le notti che avevano
trascorso seduti a quei tavoli, e le albe che avevano visto sorgere
da quelle finestre, John sentì la fitta farsi più insistente, e il
suo proposito di comportarsi da persona matura e ragionevole cominciò
a vacillare.
Pagò,
stringendosì nell'impermeabile, e uscì in strada.
Era
un settembre insolitamente freddo, più del solito, e il clima di
merda non gli rendeva le cose più facili. Stava calando la sera,
lentamente; nel giro di qualche settimana, l'inverno avrebbe
cominciato a divorare le ore di luce fino a non lasciarne più
neanche le briciole.
Tre
fermate di autobus, due di metro. Le affrontò con pazienza, con il
pacchetto tra le mani, sulle ginocchia, ripetendosi che era la cosa
giusta, che doveva chiudere con questa pagina della propria vita e
rendersi conto che innamorarsi del migliore amico era roba da
adolescenti, e lui non aveva più l'età per robe del genere – e
neanche Chas.
Non
conosceva bene la zona, e si perse un paio di volte. Riuscì ad
imboccare la strada giusta nel momento in cui i lampioni si
accendevano tutti insieme, come a volergli indicare la via, e
rallentò il passo. Più si avvicinava, più il tremore interno che
lo scuoteva si faceva più forte, e dovette fermarsi un paio di volte
per riuscire a recuperare un minimo di compostezza.
Maturo e ragionevole, pensò. E
mentre si ripeteva mentalmente queste due parole, si rese conto di
essere arrivato.
A una decina di metri dal
marciapiedi, c'era la porta a cui avrebbe dovuto bussare. Guardò
l'orologio. Forse non era il caso, a quell'ora avrebbe disturbato di
sicuro... Ma d'altronde aveva anche un pensierino tra le mani; si
faceva così, no? Non che fosse così esperto di etichetta, raramente
faceva visita a qualcuno – perché
non aveva nessuno a cui far visita, fu il pensiero doloroso, - ma
non avrebbero dovuto esserci problemi... Giusto?
Esitò. Così impalato, in mezzo
alla strada, prima o poi avrebbe attirato l'attenzione. Doveva fare
qualcosa. Restare o andarsene, non importava, ma fare qualcosa.
Guardò il pacchetto che aveva tra le mani – il fiocco era
fatto male, dannazione, – poi si guardò attorno, cercò con lo
sguardo il numero civico per essere sicuro al cento per cento di
essere di fronte alla casa giusta – a chi vuoi che importi di
uno stupido fiocco? - e, infine, alzò lo sguardo.
E
sentì il cuore stringersi all'improvviso e diventare piccolo, nero e
sporco come un misero sassolino.
Sembrava
che stessero apparecchiando per la cena. Non si erano accorti di lui
e, a giudicare dall'atmosfera animata che c'era tra loro, sembravano
troppo presi l'uno dall'altro per accorgersi di qualsiasi cosa –
non avrebbero guardato fuori neanche se avessero avuto un elefante
parcheggiato sul prato.
Le
dita di John si strinsero, la carta del pacchetto crepitò.
Stupido coglione autolesionista.
Erano
felici. Erano felici, e lui non era nessuno. Non aveva nessun diritto
di essere lì. Non aveva nessuno diritto di bussare a quella porta.
Guardò
Chas. Sembrava felice, davvero. John sentì gli occhi bruciare e il
nodo in gola stringersi e pensò che tutto quello che aveva sentito
dire sull'amore era soltanto un mare di cazzate.
Se
ami qualcuno, lo lascerai andare eccetera eccetera. Tutte
stronzate. Non ce la faceva. Lo amava e, proprio per questo, lo
voleva con sé.
Non
aveva senso, quella frase fatta del cazzo. Lasciar andare qualcuno
che si ama, se lo si ama davvero, è un controsenso, una violenza
contro sé stessi. Avrebbe dovuto essere felice per lui, e lo era.
Ma, più di ogni altra cosa, avrebbe voluto essere felice con lui.
Perché era umano, e delle frasi fatte buoniste del cazzo non sapeva
che farsene.
L'unica
verità tangibile e incontrovertibile era che John stava male,
malissimo, senza di lui. Misero e vuoto e senza dimensioni,
schiacciato e inutile. E non gliene fregava un accidente di fare
gesti nobili, di lasciarlo andare
perché farsi da parte è un atto d'amore
e stronzate simili; non gliene importava nulla, perché tutto quello
che aveva era soltanto un grande dolore, e non desiderava altro che
Chas. Lo rivoleva, anche se non era la cosa giusta; lo rivoleva,
perché quel fottuto dolore, quel grumo nero di angoscia, vuoto e
solitudine che gli si addensava nel petto, doveva essere curato
urgentemente. Era qualcosa di vero, vivo e presente, e non una frase
fatta inventata da qualcuno che probabilmente non aveva mai amato in
vita sua.
Non
sono un santo, cazzo. Sono un essere umano.
Non
voleva essere il ritratto della virtù. Non si sentiva in colpa per
quello che desiderava, anche se era un atteggiamento egoista e forse
anche un po' puerile. Ma almeno era onesto con sé stesso, per quello
che poteva valere.
E
non poteva farci niente, se senza Chas si sentiva spezzato. Non
poteva farci niente, se tutto quello che lo attendeva era un futuro
di solitudine e di vuoto.
Non
poteva farci niente, se tutto intorno a lui ormai c'era solo terra
bruciata.
La
pioggerellina che aveva ricominciato a cadere lo riportò alla
realtà.
Per
quanto tempo era rimasto là, in piedi sul marciapiedi come l'idiota
che era? Non ne aveva idea. Così come non aveva idea di quando
avesse cominciato a piangere.
Oh,
Cristo! Mi sto proprio rincoglionendo.
Si
sentì la creatura più stupida e patetica del pianeta. Cosa pensava
di fare?
Aveva
le mani gelate. Tra le dita, contratte e illividite, il pacchetto era
ridotto ormai come un fiore avvizzito. Dalla finestra dell'abitazione
non arrivava più alcuna immagine – dovevano essersi spostati in
un'altra stanza, - ed era meglio così.
Se
prima aveva esitato nel decidere se bussare oppure no, ora non aveva
più dubbi.
Non sarebbe dovuto essere lì. Non avrebbe mai dovuto neanche
pensare di essere lì.
Quello non era il suo posto, e non lo sarebbe mai stato. Stonava con
quell'immagine di calore familiare come una bestemmia in chiesa, e
non aveva nessun diritto di imporre agli altri la propria presenza e
rovinare tutto.
Si
ritrovò a fissarsi la punta delle scarpe, a disagio, mentre la vista
gli si appannava. La pioggia si fece più fitta.
Pensava
che tra loro due le cose non sarebbero mai cambiate. Che Chas non si
sarebbe mai dimenticato di lui. Ma ora? Ora che sembrava così
felice, ora che aveva altro da fare, quanto poco ci avrebbe messo a
capire che viveva molto meglio senza avere John Constantine e i suoi
maledetti demoni tra i piedi..?
...Quanto
tempo sarebbe passato, prima che cominciasse a dimenticarlo?
Qualcosa
si era completamente demolito, dentro di lui. Come dopo un
bombardamento, o un terremoto. Si sentiva informe e disperato come un
cumulo di macerie, e non c'era nulla che potesse fare per poter
rimediare.
Stava
piovendo forte, ormai. Non si mosse.
Percepì
addosso il peso del cielo enorme sopra di lui, schiacciante e
cattivo; e si sentì perso in una città che era diventata troppo
grande e spaventosa, ora che non aveva più nessuno da cui tornare.
Lasciò che il cuore gli si accartocciasse, in silenzio. Sentì le
prime lacrime varcare il confine delle ciglia e ricadere sulle
guance, e desiderò prendersi a schiaffi da solo per la vergogna.
In
un giorno qualunque, non si sarebbe mai abbassato a piagnucolare come
una ragazzina: non era così che reagiva John Constantine, colui che
prende a calci nelle palle i demoni di tutte le latitudini. Ma quello
non era un giorno qualunque. Era il giorno più triste della sua
vita.
Non
c'era più nessuno al suo fianco, e mai più ci sarebbe stato.
Ora
era solo, solo davvero.
Quando tornarono al mulino,
trovarono Zed accoccolata sul divano, con l'album da disegno aperto
sulle ginocchia e almeno una decina di fogli sparsi attorno, sul
pavimento, sparpagliati come una nevicata di immagini.
Lo sguardo della ragazza si spostò
immediatamente sul sangue che inzuppava gli abiti dei due, ma John le
rivolse un'occhiata disinvolta e scrollò le spalle, in un gesto che
significava tutto e niente, battendola sul tempo e impedendole di
fare commenti.
«Normale
amministrazione, love.»
E
subito andò a versarsi un bicchiere di quei suoi alcolici
spaccabudella che mandava giù come se fossero acqua fresca. Sembrava
insolitamente allegro, però, una strana gioia mescolata al consueto
atteggiamento da spaccone alcolizzato.
Zed lo osservò per
qualche istante, incuriosita; poi cercò silenziosamente spiegazioni
da parte di Chas, guardandolo con aria interrogativa. Si sorprese non
poco quando, invece di ricambiare la sua perplessità, l'altro
arrossì e distolse lo sguardo.
Decisamente,
stava succedendo qualcosa tra quei due.
Li
lasciò stare e non disse niente, quando sparirono al piano superiore
per cambiarsi. Ma erano davvero troppo strani, tutti e due, e moriva
dalla voglia di sapere cosa stesse accadendo, dannazione.
Sbuffò,
voltando pagina. Poi spezzò in due un bastoncino di grafite, e chiuse
gli occhi in cerca di ispirazione.