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Autore: Ambaraba    01/05/2015    1 recensioni
[Constantine]
Chas era la cosa più simile a una famiglia che avesse mai avuto. Se “famiglia” significava sostegno, calore e fiducia assoluta, allora Chas era la sua famiglia. Senza quel gigante taciturno, che molto spesso si esprimeva a monosillabi quando non addirittura a grugniti, la sua vita sarebbe stata uno schifo.
(John/Chas)
Genere: Generale, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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chastantine 3

John ricordava il momento in cui aveva temuto di aver perso l'ultima cosa decente che gli era rimasta con una lucidità feroce, assassina.

   Erano trascorse tre settimane dal matrimonio di Chas, quasi un mese intero.
John si era reso conto gradualmente di quanto ormai non gli restasse più nulla. Non aveva più nessuno. Non aveva una famiglia – non ce l'aveva mai avuta, - e quel che restava dei suoi amici, se tali si potevano chiamare i drogatelli ingenui con cui aveva condiviso rituali e droghe pesanti negli anni dello sbaraglio, o erano morti o si auguravano la
sua morte. E, per quanto fosse abile nel riempirsi il letto con una sgualdrinella diversa ogni sera, c'erano altri vuoti che non riusciva a riempire, altre mancanze a cui non riusciva a sopperire.
   Chas era la persona con cui aveva il rapporto più stretto. Con lui non aveva mai dovuto fingersi diverso, o migliore di quello che era. Con lui poteva essere sé stesso, e non avrebbe mai dovuto temere di essere allontanato o giudicato, perché a Chas andava bene così. Non ricordava di essersi mai sentito così con nessuno, prima di conoscerlo; e anche dopo, il clima di familiarità che c'era tra loro non aveva mai subito scalfiture, anzi: col tempo era solo migliorato, era diventato più caldo e solido.
Finch
é poi non era arrivata Renée, e Chas aveva deciso che era il momento di mettere la testa a posto.
   Cazzate. John Constantine non era mai stato un sostenitore del matrimonio, anzi: era felicissimo di boicottarlo. Non capiva perché mai due esseri umani avessero bisogno di stipulare contratti e liste di doveri, uccidendo sul nascere la spontaneità di un sentimento – sempre ammesso che ce ne fosse uno – che aveva bisogno di ben altro per sopravvivere. Non servivano anelli, non servivano grandi promesse davanti a un prete e, soprattutto, non c'era alcun bisogno che quelle due scellerate persone, che avevano deciso di assecondare la scellerata usanza dello scellerato matrimonio, si stravolgessero la vita a vicenda.
   Da un giorno all'altro, Chas se n'era andato. Perch
é normale che due che si sposano vivano insieme, John," e tutt'intorno si era fatto il vuoto.
Senza contare che John detestava con ogni fibra del proprio essere quella stronza antipatica di Renée, e la cosa era reciproca. Lei non lo sopportava, e non si curava affatto di nasconderlo. Quelle rare volte che erano stati costretti a condividere lo stesso spazio vitale, John si era trattenuto dal prenderla a schiaffi solo perché c'era Chas.
Chas, Chas, Chas.
   Sapeva che c'era rimasto male, quando aveva cortesemente declinato il suo invito alla cerimonia.
No, davvero, non sono fatto per questo genere di cose, ma divertiti anche senza di me, eh?. Ma davvero, davvero, era l'ultima cosa al mondo a cui avrebbe voluto assistere.
   Il primo giorno che aveva trascorso senza di lui era stata pura agonia.
Si era ubriacato, si era addormentato, si era svegliato a testa in giù ai piedi delle scale – come diavolo c'era arrivato? - e si era ubriacato di nuovo, perché si era reso conto con orrore che il tempo non voleva saperne di passare e non voleva restare lì, a fissare le lancette che si spostavano con una lentezza snervante, fino a perdere la ragione. Non aveva avuto ancora il coraggio di dirlo ad alta voce, ma aveva capito benissimo cos'era, quel groppo in gola che gli rendeva difficoltoso anche ustionarsi l'esofago a forza di ingoiare whisky: era la sensazione di aver perso tutto.
Di essere arrivato troppo tardi.
   Rideva di s
é stesso. Cosa mai avrebbe potuto fare, comunque? Dirgli: non mi va che ti sposi, quella squinzia mi sta insopportabilmente sul cazzo, oppure andare più sul soft, cercare di far leva sul suo istinto protettivo, dirgli qualcosa tipo non voglio che te ne vai, perché poi resterò solo, e non saprò più cosa farne di me stesso. Che poi, era la verità. Da quando Chas se n'era andato, John non aveva fatto molto, a parte trascinarsi in giro per casa ubriaco fradicio e tentare sciatti e stupidi incantesimi da prestigiatore di periferia, sotto effetto dell'alcol.
Era andato avanti così per un tempo che gli era sembrato infinito.
Alienante. Logorante.
Si sentiva di merda. Sapeva che non era il tipo di sentimento che avrebbe dovuto provare per
un amico; ma, ora che era solo e poteva guardare in faccia la verità senza doversi preoccupare delle conseguenze, aveva finalmente trovato la consapevolezza di quello che realmente provava. Era da molto, molto tempo che aveva cominciato a voler bene a Chas molto più che ad un amico. Lo sapeva, se ne rendeva conto benissimo. Non lo aveva taciuto a sé stesso per pudore, o per stupidi e insensati dissidi con la propria identità sessuale – era bisessuale dichiarato e, francamente, era orgoglioso di giocare per entrambe le squadre, - ma, piuttosto, perché una parte di lui, quella più razionale e concreta, sapeva che per una cosa del genere non avrebbe mai avuto futuro. E un rifiuto da parte della persona più importante della sua vita era esattamente l'unico rifiuto che non avrebbe mai voluto ricevere.
Perciò aveva taciuto. Prima, durante e dopo.
   E quando Chas telefonava,
ciao come stai, e John schiacciava la sigaretta, bruciata fino al filtro, sul bordo annerito del tavolo prima di rispondere, gli uscivano frasi del tipo: tutto bene, no, non mi annoio, ho un sacco da fare, sì, sì, mangio, non ti preoccuapare, adesso devo andare, eh? Ciao ciao, ci sentiamo presto. E si sentiva un idiota, ma non riusciva a vedere nessuna alternativa.
Continuava ad esserci troppo silenzio in quella casa, soprattutto la sera. E tutte le bottiglie che comprava condividevano il pessimo difetto di svuotarsi troppo velocemente.
   Verso la fine della terza settimana decise che aveva sofferto abbastanza. Se avesse continuato così, avrebbe dovuto comprare una borsa a tracolla e usarla per portare in giro il fegato, dal momento che il suo stile di vita consisteva nell'ingerire derivati dell'alcol etilico, tamponando i crampi allo stomaco con sostanze commestibili solide scarse e sbagliate, e dormire solo durante la sbornia.
   Ad ogni modo, non era solo con questo che doveva fare i conti. Non voleva più sentirsi così a pezzi, così... Mutilato. Doveva dimostrare a s
é stesso di essere perfettamente in grado di controllarsi. Di essere una fottuta persona adulta, per la miseria! Perciò si era sbarbato e profumato ed era uscito di casa, con la decisa intenzione di mettere a tacere, una volta per tutte, quella stretta nel petto che minacciava di farlo a pezzi.
   Doveva farlo. Doveva andare a trovarlo, rendersi conto di come stavano adesso le cose, e farsene una ragione. Doveva vederlo con i propri occhi per mettersi in testa, finalmente, che nulla sarebbe mai più stato come prima e non c'era nulla che potesse fare per impedirlo.
Avrebbe bussato. Sarebbe stato gentile e cortese da essere adorabile. Si sarebbe comportato come una persona normale, -
come un semplice amico, - e avrebbe sorriso, avrebbe detto a Chas che era felice per lui e poi se ne sarebbe andato. Andato, magari sul serio. Forse era ora di ricominciare altrove. Forse, se non lo avesse visto per un bel po' di tempo...
Non aveva tempo di pensarci su, doveva farlo e basta.
Prima che venisse a mancargli il coraggio.
   Prese un pacchetto di dolcetti alla pasticceria all'angolo dove spesso lui e Chas si fermavano a fare colazione di ritorno da una missione. Era aperto a tutte le ore, ed era tutto molto buono. Eppure, già soltanto entrandoci, e ricordando tutte le notti che avevano trascorso seduti a quei tavoli, e le albe che avevano visto sorgere da quelle finestre, John sentì la fitta farsi più insistente, e il suo proposito di comportarsi da persona matura e ragionevole cominciò a vacillare.
   Pagò, stringendosì nell'impermeabile, e uscì in strada.
   Era un settembre insolitamente freddo, più del solito, e il clima di merda non gli rendeva le cose più facili. Stava calando la sera, lentamente; nel giro di qualche settimana, l'inverno avrebbe cominciato a divorare le ore di luce fino a non lasciarne più neanche le briciole.
   Tre fermate di autobus, due di metro. Le affrontò con pazienza, con il pacchetto tra le mani, sulle ginocchia, ripetendosi che era la cosa giusta, che doveva chiudere con questa pagina della propria vita e rendersi conto che innamorarsi del migliore amico era roba da adolescenti, e lui non aveva più l'età per robe del genere – e neanche Chas.
   Non conosceva bene la zona, e si perse un paio di volte. Riuscì ad imboccare la strada giusta nel momento in cui i lampioni si accendevano tutti insieme, come a volergli indicare la via, e rallentò il passo. Più si avvicinava, più il tremore interno che lo scuoteva si faceva più forte, e dovette fermarsi un paio di volte per riuscire a recuperare un minimo di compostezza.

Maturo e ragionevole, pensò. E mentre si ripeteva mentalmente queste due parole, si rese conto di essere arrivato.
   A una decina di metri dal marciapiedi, c'era la porta a cui avrebbe dovuto bussare. Guardò l'orologio. Forse non era il caso, a quell'ora avrebbe disturbato di sicuro... Ma d'altronde aveva anche un pensierino tra le mani; si faceva così, no? Non che fosse così esperto di etichetta, raramente faceva visita a qualcuno
– perché non aveva nessuno a cui far visita, fu il pensiero doloroso, - ma non avrebbero dovuto esserci problemi... Giusto?
   Esitò. Così impalato, in mezzo alla strada, prima o poi avrebbe attirato l'attenzione. Doveva fare qualcosa. Restare o andarsene, non importava, ma fare qualcosa. Guardò il pacchetto che aveva tra le mani –
il fiocco era fatto male, dannazione, – poi si guardò attorno, cercò con lo sguardo il numero civico per essere sicuro al cento per cento di essere di fronte alla casa giusta – a chi vuoi che importi di uno stupido fiocco? - e, infine, alzò lo sguardo.
   E sentì il cuore stringersi all'improvviso e diventare piccolo, nero e sporco come un misero sassolino.
    Sembrava che stessero apparecchiando per la cena. Non si erano accorti di lui e, a giudicare dall'atmosfera animata che c'era tra loro, sembravano troppo presi l'uno dall'altro per accorgersi di qualsiasi cosa – non avrebbero guardato fuori neanche se avessero avuto un elefante parcheggiato sul prato.
Le dita di John si strinsero, la carta del pacchetto crepitò.

   Stupido coglione autolesionista.
Erano felici. Erano felici, e lui non era nessuno. Non aveva nessun diritto di essere lì. Non aveva nessuno diritto di bussare a quella porta.
Guardò Chas. Sembrava felice, davvero. John sentì gli occhi bruciare e il nodo in gola stringersi e pensò che tutto quello che aveva sentito dire sull'amore era soltanto un mare di cazzate.

   Se ami qualcuno, lo lascerai andare eccetera eccetera. Tutte stronzate. Non ce la faceva. Lo amava e, proprio per questo, lo voleva con sé.
   Non aveva senso, quella frase fatta del cazzo. Lasciar andare qualcuno che si ama, se lo si ama davvero, è un controsenso, una violenza contro sé stessi. Avrebbe dovuto essere felice per lui, e lo era. Ma, più di ogni altra cosa, avrebbe voluto essere felice con lui. Perché era umano, e delle frasi fatte buoniste del cazzo non sapeva che farsene.
   L'unica verità tangibile e incontrovertibile era che John stava male, malissimo, senza di lui. Misero e vuoto e senza dimensioni, schiacciato e inutile. E non gliene fregava un accidente di fare gesti nobili, di lasciarlo andare
perché farsi da parte è un atto d'amore e stronzate simili; non gliene importava nulla, perché tutto quello che aveva era soltanto un grande dolore, e non desiderava altro che Chas. Lo rivoleva, anche se non era la cosa giusta; lo rivoleva, perché quel fottuto dolore, quel grumo nero di angoscia, vuoto e solitudine che gli si addensava nel petto, doveva essere curato urgentemente. Era qualcosa di vero, vivo e presente, e non una frase fatta inventata da qualcuno che probabilmente non aveva mai amato in vita sua.
   Non sono un santo, cazzo. Sono un essere umano.
   Non voleva essere il ritratto della virtù. Non si sentiva in colpa per quello che desiderava, anche se era un atteggiamento egoista e forse anche un po' puerile. Ma almeno era onesto con sé stesso, per quello che poteva valere.
E non poteva farci niente, se senza Chas si sentiva spezzato. Non poteva farci niente, se tutto quello che lo attendeva era un futuro di solitudine e di vuoto.
Non poteva farci niente, se tutto intorno a lui ormai c'era solo terra bruciata.
   La pioggerellina che aveva ricominciato a cadere lo riportò alla realtà.
Per quanto tempo era rimasto là, in piedi sul marciapiedi come l'idiota che era? Non ne aveva idea. Così come non aveva idea di quando avesse cominciato a piangere.

   Oh, Cristo! Mi sto proprio rincoglionendo.
   Si sentì la creatura più stupida e patetica del pianeta. Cosa pensava di fare?
Aveva le mani gelate. Tra le dita, contratte e illividite, il pacchetto era ridotto ormai come un fiore avvizzito. Dalla finestra dell'abitazione non arrivava più alcuna immagine – dovevano essersi spostati in un'altra stanza, - ed era meglio così.
   Se prima aveva esitato nel decidere se bussare oppure no, ora non aveva più dubbi.

   Non sarebbe dovuto essere lì. Non avrebbe mai dovuto neanche pensare di essere lì. Quello non era il suo posto, e non lo sarebbe mai stato. Stonava con quell'immagine di calore familiare come una bestemmia in chiesa, e non aveva nessun diritto di imporre agli altri la propria presenza e rovinare tutto.
   Si ritrovò a fissarsi la punta delle scarpe, a disagio, mentre la vista gli si appannava. La pioggia si fece più fitta.
   Pensava che tra loro due le cose non sarebbero mai cambiate. Che Chas non si sarebbe mai dimenticato di lui. Ma ora? Ora che sembrava così felice, ora che aveva altro da fare, quanto poco ci avrebbe messo a capire che viveva molto meglio senza avere John Constantine e i suoi maledetti demoni tra i piedi..?
...Quanto tempo sarebbe passato, prima che cominciasse a dimenticarlo?
   Qualcosa si era completamente demolito, dentro di lui. Come dopo un bombardamento, o un terremoto. Si sentiva informe e disperato come un cumulo di macerie, e non c'era nulla che potesse fare per poter rimediare.
   Stava piovendo forte, ormai. Non si mosse.
Percepì addosso il peso del cielo enorme sopra di lui, schiacciante e cattivo; e si sentì perso in una città che era diventata troppo grande e spaventosa, ora che non aveva più nessuno da cui tornare. Lasciò che il cuore gli si accartocciasse, in silenzio. Sentì le prime lacrime varcare il confine delle ciglia e ricadere sulle guance, e desiderò prendersi a schiaffi da solo per la vergogna. 
   In un giorno qualunque, non si sarebbe mai abbassato a piagnucolare come una ragazzina: non era così che reagiva John Constantine, colui che prende a calci nelle palle i demoni di tutte le latitudini. Ma quello non era un giorno qualunque. Era il giorno più triste della sua vita.
Non c'era più nessuno al suo fianco, e mai più ci sarebbe stato.
   Ora era solo, solo davvero.

   Quando tornarono al mulino, trovarono Zed accoccolata sul divano, con l'album da disegno aperto sulle ginocchia e almeno una decina di fogli sparsi attorno, sul pavimento, sparpagliati come una nevicata di immagini.
Lo sguardo della ragazza si spostò immediatamente sul sangue che inzuppava gli abiti dei due, ma John le rivolse un'occhiata disinvolta e scrollò le spalle, in un gesto che significava tutto e niente, battendola sul tempo e impedendole di fare commenti.
   «Normale amministrazione, love.»
E subito andò a versarsi un bicchiere di quei suoi alcolici spaccabudella che mandava giù come se fossero acqua fresca. Sembrava insolitamente allegro, però, una strana gioia mescolata al consueto atteggiamento da spaccone alcolizzato.
   Zed lo osservò per qualche istante, incuriosita; poi cercò silenziosamente spiegazioni da parte di Chas, guardandolo con aria interrogativa. Si sorprese non poco quando, invece di ricambiare la sua perplessità, l'altro arrossì e distolse lo sguardo.
   Decisamente, stava succedendo qualcosa tra quei due.
Li lasciò stare e non disse niente, quando sparirono al piano superiore per cambiarsi. Ma erano davvero troppo strani, tutti e due, e moriva dalla voglia di sapere cosa stesse accadendo, dannazione.
   Sbuffò, voltando pagina. Poi spezzò in due un bastoncino di grafite, e chiuse gli occhi in cerca di ispirazione.

  
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