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Autore: Sheep01    04/05/2015    3 recensioni
“Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, prima o poi.”
Clint si trovò ad osservarlo ancora una volta con stupore. Non era da Coulson parlare a quella maniera, non usare quel tono afflitto, sconfitto.
“Avete ingaggiato i migliori, Phil… il governo non arriverà certo prima di noi.”
“Magari non questa volta. Ma la prossima volta che succederà? Quando riusciranno a dimostrare quanto siamo superflui, smetteranno di affidarci qualsiasi tipo di lavoro.”
“Ma che stai dicendo?”
“Sto dicendo che dovremo cominciare a vedere come atterrare senza uno schianto, Barton.”
---
New York, la sua periferia, pioggia sporca che porta afflizione e la tecnologia che lentamente sta prendendo il posto della manodopera umana. Uno scenario dal sapore futuristico. Un'organizzazione da salvare. Pochi superstiti su cui fare affidamento.
Genere: Azione, Dark, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Sorpresa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimer: Occhio di Falco, Vedova Nera e tutti gli altri personaggi citati non mi appartengono, ma sono proprietà di Marvel e Disney. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

 

DARK RAIN

 

Con fierezza si alzarono gli Angeli, e mentre si alzavano un tuono profondo
rotolò sulle spiagge, bruciando pieno di sdegno con i fuochi di Orc.
(William Blake, “America”)

 

*

 

La pioggia, la pioggia.

Ci sono giorni che ti senti zuppo fin nelle ossa. L’umidità ti si impregna nei capelli, nei vestiti, nelle mutande.

Non una bella sensazione.

Soprattutto quando sei in debito di sonno e in più, dettaglio affatto trascurabile, di caffè.

Le strade fradice, le pozze d’acqua a rispecchiare un duplicato oscuro delle mura grigie dei palazzi. Le grondaie lacrimanti di pioggia nera, densa come sangue. I tombini che rigurgitano olezzi marcescenti di fogna e fumo caldo, oleoso.

Drappi inconsistenti a celare i dettagli nascosti. Non un luogo per persone felici.

Le ammiccanti luci al neon dei locali circostanti non fanno che aumentare il macabro contrasto con lo squallore circostante e, tuttavia, in quel grottesco ammasso di polvere e oscurità, dove corpi di passanti silenziosi non si riservano che sguardi sospetti e ostili, quando sei a bordo della tua macchina, con Miles Davis che dà fiato alle trombe, un po’ ti senti a casa.

 

I finestrini cominciavano ad appannarsi.

Eppure aveva lasciato aperta una feritoia a far entrare un po’ di quell’aria mefitica. Non che la situazione all’interno fosse migliore: i tessuti dei sedili, le lamiere, i suoi vestiti, impregnati da quell’odore stantio di fumo.

Aveva decisamente bisogno di una doccia. Di un bagno caldo. Se doveva sognare, che almeno lo facesse in grande. Un paio di candele profumate sul bordo della vasca da bagno. Una musica d’ambiente a richiamare il rumore di ruscelli, di uccelletti, di una cazzo di accidiosa cicala.

Le tettone di miss novembre sulla porta del bagno. Insomma, tutto il necessario per rilassarsi, allungare una mano proprio lì, dove risiede felice il signore del diletto e salutare l’alba con una gloriosa se-

“Barton!”

Trasalì con buona pace delle sue fantasie interrotte sul più bello. Il faccione di Coulson dall’altra parte del finestrino, ad alitare sui vetri puntellati di gocce di pioggia.

“Vaffanculo, mi hai fatto prendere un colpo.”

“Non dirmi che non mi aspettavi.”

“Mezz’ora fa. Salta su.” Lo spronò andando a liberare il posto del passeggero. Avanzi di una cena cinese da portar via e documentazione sparsa un po’ dappertutto. Da quanto ci teneva, la fece volare in planare sui sedili posteriori.

L’agente Coulson salì in macchina, portando con s’è l’odore tipico di cane bagnato, a sgocciolar quella merda sporca per tutti gli interni. Fra quello e l’odore di fumo, un mix quasi nauseabondo.

“Ma non ce l’avevi un ombrello?”

“Non mi piacciono gli ombrelli. Lo sai.”

“Anche a me non piacciono le mutande, ma c’è da ammettere che sono utili.”

L’uomo si passò una mano sulla zucca bagnata, tirando fuori dall’interno dell’impermeabile color sabbia una busta di plastica.

Bingo.

“Mi chiedo perché non abbiamo potuto vederci al solito bar all’angolo.” Una protesta minima, gentile, tipica di Coulson.

“Perché così fa più clandestino. Non la senti la spinta alla trasgressione?”

“L’unica trasgressione di cui ho bisogno, al momento, è quella di usare il tuo riscaldamento per asciugarmi i piedi. Bella musica, a proposito.”

“E' roba tua, amico…” gli sfilò i documenti dalle mani, frugando nella busta di plastica alla cieca, sorridendo appena nel tastare la superficie di quella che riconobbe immediatamente come una scatola.

Coulson spinse al massimo la ventola dell’impianto di riscaldamento, direttamente sui piedi, levandosi le scarpe.

“A-ah!” un’esclamazione carica d’entusiasmo, al contenuto del pacchetto. “Stavolta si va sul pesante, mh? No, non parlo dei tuoi piedi...”

La scatola conteneva una decina di punte di freccia, dalle forme e dimensioni più svariate. Disposte accuratamente una accanto all’altra. Un piccolo regalo. Un graditissimo upgrade alla sua collezione.

“Cazzo, non mi aspettavo le trovassi sul serio. Sono già configurate?” gli domandò rigirandosi fra le mani quella che aveva tutta l’aria di essere una bomba.

“Sono un tipo a cui piace mantenere le promesse. E comunque sì, sono configurate. Ti hanno fornito anche i chip. Con la strumentazione per l’accesso ai dati di cui hai bisogno per la missione.”

Clint sfilò dalla busta un paio di occhiali. All’apparenza innocui. Se li infilò senza dover nemmeno chiedere come azionare il meccanismo. Nel momento stesso in cui l’indossò, il chip all’interno ne riconobbe l’iride e comincio a passar informazioni direttamente sulla lente.

“Mh…”

“Qualcosa non va?”

“A parte la faccia da cazzo del tipo che mi è appena apparso in schermata? Perché occhiali e non lenti a contatto?”

“La conosci la reticenza di Fury alle lenti a contatto con i chip. Sai, per via dell'incidente al suo...” Phil agitò un po' le dita vicino al suo occhio, “Mentre la faccia da cazzo è il tizio che devi rintracciare.”

“Ma non mi dire. Credevo fosse il mio prossimo appuntamento.”

“Credevo ti piacessero le donne.”

“Nella vita non si può mai dire. Ma non credo sia il mio tipo. Magari dovremmo presentarlo alla Hill, che ne pensi?”

“Maria ti spaccherebbe la faccia.”

“Già fatto…” si indicò lo zigomo ancora un po’ ammaccato. I diverbi professionali erano quelli che preferiva. Di gran lunga più di quelli sentimentali.

“Sicuro non sia stata tua moglie?”

Ex moglie. E poi no. Ha smesso di picchiarmi. Ora si è data al ricatto.”

“La tua vita sentimentale è più disastrosa dell’interno della tua macchina.”

“Se pensi che la mia macchina sia disastrosa, dovresti vedere il mio appartamento…” si sfilò gli occhiali ributtandoli nella busta assieme a tutto il materiale fornito dallo SHIELD.

O quello che era rimasto... dello SHIELD dopo lo smantellamento dell'organizzazione. La mancanza di fondi, di necessità specifiche. Dopo il disastro di New York (del quale Clint aveva ricordi nebulosi) per il governo, ormai, erano estinti. Richiamati solo per svolgere i lavori sporchi in cui faticavano ad affondare le mani. Alcuni agenti erano stati riqualificati. I migliori invece, quelli che non si erano venduti al sistema, continuavano ad agire nell'ombra, sotto le direttive di Fury. Il figlio di puttana non si arrendeva. E con lui quei suoi uomini che, da sempre, riteneva i più fidati.

Clint modestamente si riteneva uno di quelli.

“Era un invito?”

“Phil, non ti montare la testa adesso.”

L’uomo gli rispose con una risata, abbassandosi appena per recuperare le scarpe. In condizioni vagamente migliori di quando era salito in macchina.

“C’è un’altra cosa, Barton…”

Quando Phil usava quel tono, non preannunciava mai niente di buono. Ma voleva essere positivo, voleva provarci, almeno. Sembrava anche accennasse a smettere di piovere, fuori. E poi mancavano solo un paio di ore all’alba. La veglia notturna sarebbe presto terminata.

Era arrivato il momento di mettere a nanna il Falco.

“Il Direttore Fury ha previsto un altro agente per l’operazione.”

Questa era una novità del tutto inaspettata. E piuttosto irritante. Fury aveva lo straordinario superpotere di fargli sempre girare i coglioni. Anche adesso che non doveva più chiamarlo Signore.

“Stronzate. Io lavoro sempre solo.”

“Non questa volta. Vuole piazzare uno di quelli giovani.”

“Una recluta?” la cosa cominciava ad assumere dei toni decisamente comici. Giovane significava recluta, a casa sua. Una recluta. Il direttore Fury doveva essersi bevuto il cervello. “Non faccio da baby-sitter a nessun cazzo di novellino, Phil.”

“E’ un ordine Barton”, la voce era dura, severa, come raramente ci si aspettava di sentire da uno come Coulson. “E poi non si tratta di un novellino…” l’occhiata che Phil gli riservò, rapida e rivelatrice, gli fece gelare il sangue nelle vene.

“No…” l’idea si era materializzata, tentacolare, in tutte le sinapsi. Avrebbe preferito morire affogato. Letteralmente, in uno dei tombini, piuttosto che lavorare con lei.

“E’ la Vedova Nera.”

Phil sentì dal profondo dell’animo, che una pacca sulla spalla fosse il gesto meno invasivo e più appropriato per dimostrargli tutta la sua più sincera solidarietà.

 

*

 

Bevve un altro sorso di caffè. Il tepore gli riscaldava le mani, un confortevole contrasto con le rigide temperature di quel piovoso novembre. Doveva essersi guastato il brutto tempo, perché uno spiraglio di nuvola si era diradato lasciando spazio a un unico raggio di sole.

Clint lo interpretò come un segnale negativo.

Alla pioggia ci era abituato. Alla pioggia e a quella sensazione di costante afflizione. Un raggio di sole sciupava l’umore che si era costruito addosso da quando aveva finito per stabilirsi in quella città. Tutta facciata, per la cronaca. Non riusciva mai a darla a bere quando si definiva un tipo fosco. Cupo. Il problema stava nel mimetizzarsi con tutta quella fauna. Con un buon parka e un cappello in testa, l’inganno risultava anche piuttosto convincente.

Fece per attraversare la strada quando la sirena della polizia gli sfrecciò di fronte, rapida e quasi inconsistente. Una scia rossa e blu a schizzargli addosso una montagna d’acqua.

“E quando pensi che non possa andare peggio…” si sentì battere sulla spalla e nel voltarsi, non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto.

Un altro di quegli aggeggi robotici dall’aria economica. Un tubolare di ferro, montato su quattro rotelle. E una testa a uovo con tanto di stemma del commissariato di polizia di zona.

Il peggio. Per l’appunto.

“Documenti prego.”

“Sul serio? Abito in zona, agente…”

Gli esperimenti robotici di ultima generazione avevano sostituito gli sbirri di quartiere da almeno una decina d’anni. E poi erano diventati antiquati anche loro, come la loro controparte umana. A girare per le strade di periferia c'erano solo gli scarti di magazzino. Quelli comodamente sacrificabili.

“Documenti, prego.” La voce gentile, preimpostata, con un lezioso accento britannico. Vagamente tremolante. Un microchip che andava sicuramente sostituito. Tutta quella pioggia avrebbe finito per annacquarne i circuiti. O magari lo aveva già fatto.

“D’accordo, d’accordo…” inutile discutere con un tubo di ferraglia.

Andò a tastarsi nella tasca della giacca per tirar fuori il cartellino identificativo: una vecchia tessera del reparto investigativo. Il chip veniva aggiornato mensilmente. Più che una doppia identità, un'identità che veniva direttamente dal passato.

“Sono un collega. Una specie… almeno.”

La luce a intermittenza sulla testa a uovo scansionò il cartellino identificativo.

“Detective: Clinton Francis Barton. Nome in Codice: Occhio di Falco. Nato in Iowa, il 18 giugno del-”

“Ehi, ehi, ehi”, ritirò il cartellino, con una certa urgenza, “non c’è bisogno di sbandierare i miei dati ai quattro venti, razza di bidone ambulante!”

“Identificazione accertata.”

“Bella forza… te lo avevo detto.”

“Il protocollo impone investigazioni occasionali su tutto il perimetro nell’arco delle ventiquattro ore di servizio.”

“Ti sei ingoiato il codice delle leggi della robotica, amico?”

“Non sono amico. Il mio codice di registro è: J.A.R-”

“Non mi interessa il tuo codice di registro. Abbiamo finito?”

“No.”

Una risposta quantomeno singolare.

“Il protocollo mi impone di sottoporla al riconoscimento visivo di un sospetto.”

“Sono fuori servizio.”

“Insisto.”

La cosa stava cominciando ad infastidirlo. Se prima si era detto che quel raggio di sole era arrivato a rischiarargli la giornata, ora quel cazzo di aggeggio, rischiava di farla precipitare di nuovo in una pozzanghera di pioggia nera.

“Grazie per avermelo chiesto con gentilezza. E allora, forza, se proprio dobbiamo farlo...” Lo spronò quindi con un gesto della mano, mentre l’altra teneva stretto il caffè che ancora non era riuscito ad assaporare con gusto.

L’ologramma si materializzò a un passo dal suo naso e tutto ciò che riuscì a identificare fu una nebulosa di pixel.

“No, non lo conosco.”

Disse, in tutta sincerità. Sicuro che venisse registrato dall’identificatore vocale. Quei cazzo di aggeggi avrebbero smascherato Gesù Cristo in persona.

“Un passo indietro, per favore.”

Cazzo di bidone ambulante.

Lo assecondò un po’ per istinto, un po’ per evitare che quella buffonata si prolungasse troppo a lungo.

Ora nell’ologramma era finalmente distinguibile il volto cereo di un uomo. L'espressione smaliziata, di sfida alla telecamera. Muoveva la testa a destra e a sinistra sullo sfondo bianco, candido quanto la sua pelle. Un cerone biancastro a camuffarne i tratti. Del trucco pesante  a decorargli gli occhi cerchiati di nero. E quel rossetto blu scuro sulle labbra a imitar un sorriso malriuscito. Aveva già visto quel travestimento. Affatto messaggero di gran bei ricordi. Un clown. Uno nemmeno ben fatto.

“Riconosce il sospetto, Barton?”

“Certo che ce n’è di psicopatici in giro.”

Tergiversare era il suo modo per eludere le domande dirette di quelle macchine senz’anima.

“Ha compreso la domanda, agente Barton?”

“Ti ho già risposto prima, agente. Non lo conosco. Non l’ho mai visto. Forse dovreste cercare in televisione. È pieno di spostati che lavorano nello spettacolo.”

Tipo il vostro creatore. Avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne. Sapeva perfettamente quanto fossero permalosi quegli ammassi di circuiti sul loro padre putativo.

La sua cazzo di insegna svettava, come una cattedrale nel deserto, su New York. Una tomba su quell’impero finito nelle mani degli sciacalli il giorno in cui Stark era morto.

Un giorno di tre anni fa.

Il robot sembrò valutare la risposta, scrutandolo col suo laser a grottesca imitazione di un occhio ciclopico e, solo dopo qualche istante fece svanire l’ologramma, così come era arrivato.

“La ringrazio per la collaborazione, detective Barton.”

“Per te solo detective, signor codice di registro vattelappesca.”

Lo vide girare sui tacchi – parlando esclusivamente per metafore –  e allontanarsi lungo il marciapiede, portando via la sua carcassa d’alluminio.

“Macchine.” Sbuffò qualcosa andando a cercar con le labbra il calore del caffè.

Fece una smorfia disgustata constatando che era ormai diventato freddo.

Lanciò quel che restava nel primo bidone della spazzatura che non era stato bruciato da bande di teppisti di quartiere e attraversò la strada in corsa, prima che la polizia tornasse a schizzarlo di fango e chissà che altra schifezza chimica.

Il cielo stava diventando viola… non era sicuro di voler arrivare dopo le tenebre.

Anche se l’indirizzo non era lontano. Giusto il tempo di guadagnare terreno.

 

*

 

Una fila di negozi disposti uno accanto all’altro, incassati in palazzi diroccati dall’aria tutt’altro che rassicurante.

Era sicuro di non ricordarlo così il quartiere, dall’ultima volta.

Era anche vero che l’ultima volta risaliva a qualcosa come quindici anni prima. Quando era ancora abbastanza giovane e incline ad una positiva trasgressione. Quella che ti porta nei localacci di periferia a bere alcolici illegali e ad ascoltar musica che stringe la mano al diavolo in libera uscita.

Bei ricordi. Spazzati via dall’urgenza di una disintossicazione e un richiamo all’ordine. Nonché la necessità di percepire uno stipendio. Si cresce, ad un certo punto, dicono.

Clint lo aveva fatto più rapidamente di quanto preventivato. Ci si sarebbe crogiolato parecchio volentieri in una ritrovata adolescenza. Purtroppo vivere in un mondo malato non facilitava la realizzazione del sogno.

Si infilò gli occhiali da sole. Una scelta singolare per un tempo come quello. Non avrebbe dato affatto nell’occhio… pensò con una certa dose di sarcasmo.

La lente gli rimandò l’indirizzo che andava cercando. L’ultimo palazzo sulla destra. Quello con l’insegna verde acido di un negozio d'antiquariato. Quello con…

Rumore di vetri infranti.

… il tizio che stava volando fuori dalla vetrina, a volo acrobatico, in un’esplosione scenografica di cristalli.

Lo schianto con l’asfalto fradicio non sembrò avergli fatto bene.

Rappresentativa la serie di gemiti sincopati.

Clint avvicinò blandamente il marciapiede, fissando il poveraccio che boccheggiava al suolo, dall’alto verso il basso. Doveva aver perso anche un paio di denti. Se per via dello schianto o di una batosta pregressa non era facile decretarlo.

“Q-quella p-puttana mi ha…” lo sentì gemere. Il fiato per insultare, chissà come, la gente lo trova sempre.

“Defenestrato? Ho visto. Carino da parte sua. Ringrazia non ti abbia spezzato il collo.”

Con le cosce. Glielo aveva visto fare un paio di volte. Non era mai stato un bello spettacolo. O forse sì. Di certo non quando era toccato a lui.

“Non ci parlare.” Una voce piatta di donna, riconoscibile fra mille, alle sue spalle.

Era sicuro ci fosse un che di perverso e contorto nel sorriso che si sentì affiorare sulle labbra.

“Giornata di inventario?” si rimise dritto, scavalcando il malcapitato, disinteressato al suo destino, per andarle incontro.

“Il mercoledì c’è la pulizia delle strade.” Gli rispose, in attesa, poggiata allo stipite del portone scrostato del negozio.

I capelli rossi, raccolti in una coda alta. Un pugno in occhio nel grigiume della città sul fare della sera. Improvvisamente non seppe dire se fossero passate settimane o mesi interi dacché non la vedeva: non era cambiata di una virgola.

“Romanoff.”

“Barton.”

“Che ha fatto quel disgraziato?”

“E questo... per quale motivo dovrebbe essere affar tuo?”

Si vide costretto ad alzare le braccia in segno di resa. Non era sicuro di voler cominciare con un litigio.

“E’ sempre un piacere rivederti.”

“Il piacere è tutto tuo.” Gli rispose con espressione indecifrabile, invalicabile. Dio, quanto gli dava sui nervi. O forse no. “Perché sei qui?” l’unica domanda che contava. A reclamare forse l’unica risposta… che contava.

“Se mi offri del caffè te lo dico.”

Il rumore della camionetta della polizia che si portava via il defenestrato giungeva a coprire l’ennesimo insulto.

 

*

 

Se c’era una cosa consolante nello scenario dello stanzino sopra il negozio di anticaglie, era il disordine. Felice di non essere l’unico agente dello SHIELD a disporre del suo appartamento come fosse un magazzino temporaneo.

Certo finché avesse preso come metro di misura l’appartamento di Phil Coulson... un uomo con dei problemi, se proprio doveva calcar la mano. Fra Coulson e un serial killer, la distanza di un test attitudinale superato con successo allo SHIELD.

Pile di libri a non finire, accatastati uno sull’altro da una parte all’altra del minuscolo bilocale, scatoloni dei traslochi ad improvvisar librerie artigianali. Al centro della stanza, sul tavolo del piccolo soggiorno una serie di macchinari elettronici di dubbia provenienza. Un paio di computer, almeno una decina di portatili e dispositivi digitali di ultima generazione. Più cavi. Cavi come ragnatele dispersi per il pavimento, rendendolo di fatto, una specie di percorso a ostacoli.

La chiamavano Vedova Nera per un motivo. O almeno anche… per quel motivo.

Natasha Romanoff era anche un hacker. Uno di quelli tosti. Uno di quelli che si era guadagnato una certa fama (negativa) fra le cariche governative. Ne aveva assorbito i segreti più marci e compromettenti e un giorno, senza discernimento, li aveva liberati in rete. Ricercata per tutti gli Stati Uniti e oltre. Fosse stato per le organizzazioni mondiali di sicurezza sarebbe stata rinchiusa nelle prigioni statali per il resto della sua vita. Lo SHIELD aveva deciso di sfruttarla come risorsa. Non prima di essersi battuto con tenacia e ardimento per averla. In tutti i sensi. Nello specifico dopo aver mandato sul campo uno dei suoi migliori agenti, che ne era uscito pesto, umiliato nel suo spirito di uomo, ma vincitore.

Un agente che, nemmeno a dirlo, faceva Barton di cognome. Una maledizione che Clint si portava dietro da qualche anno a quella parte.

“Vedo che ti sei sistemata alla grande.”

“Risparmiami il sarcasmo, ancora non mi hai detto che ci fai qui.”

“Ancora non mi hai servito il caffè.”

Ricevette in risposta una caffettiera e un barattolo di caffè della marca più scadente, dritte fra le mani.

“Una moka? Sei seria?”

“Quella o te lo vai a prendere al bar all’angolo. Non sono sicura abbia passato i controlli sanitari, però.”

“Che carina ad avermelo detto…” si avvicinò al piccolo cucinino. Un luogo che, per quanto minuscolo, aveva un’aria piuttosto desolante. Natasha non era un buon esempio di casalinga. O di cuoca. Probabilmente i fornelli non venivano usati dall’età della preistoria. Ad avallare la tesi, cartoni di pizza e cibo in scatola impilati ed accartocciati nel cestino della spazzatura, poco sotto il lavello.

“In realtà era un invito a usufruirne. Non sono sicura che non ci sia dello stafilococco in quella caffettiera. In entrambi i casi ne esco vincitrice.”

Clint sorrise. Il fatto che pronunciasse le frasi senza mostrare particolari stati d’animo gli regalava sempre quel brivido sul dubbio che non stesse scherzando affatto. Una volta l’avrebbe odiato. Ora invece ne traeva una sorta di masochistico piacere.

“Correrò il rischio.”

“È amore questo, agente Barton?”

“Per il caffè, l'unico e il solo.”

Dovette fare uno sforzo per ricordare come si usasse una moka. Eppure erano ancora in voga, come pezzi d'antiquariato... in qualche bar. Ricordava la fragranza che ne usciva. Quello era buono. Il filtro non molto.

“Sto aspettando.”

Nemmeno il tempo di ragionarci in modo meticoloso.

“Fury ha un lavoro per noi.”

“... noi?” l'incertezza, per una volta tanto, molto poco lusinghiera, nelle sue corde vocali.

“Noi, lo straordinario Team Delta. Di nuovo pronti a far faville.”

“Le uniche faville che Fury avrà saranno quelle dello schermo del suo computer quando andrà in tilt.”

“Oh, non c'è motivo di essere così drastica.”

“Davvero? Potevi dirlo subito che sarebbe bastato dire di no.”

La vide andare a sedersi alla scrivania o tavolo da lavoro. Il sibilo delle ventole in accensione. Non era sicuro di aver più visto scassoni del genere da... bè, dal tempo in cui non aveva visto una moka. Si sentiva improvvisamente vecchio. Antico per la precisione. La cosa buffa era che probabilmente Natasha non aveva fatto in tempo a vedere mai prodigi del genere dal vivo. Per lei erano buffi aggeggi vintage che si divertiva a sistemare e per i quali aveva, straordinariamente, una qualche ossessione particolare.

Per quello andava così d'accordo con Coulson. L'ultima volta che li aveva sentiti interloquire (dio, come amava tirar fuori paroloni), non avevano fatto altro che inneggiare alla penna a sfera. La penna. A sfera. Chi cazzo scriveva più a mano?

“In realtà si tratta di ordini, Natasha.”

“Ma non mi dire.” la voce ancora piatta, persino priva della vena di sarcasmo. L'idea doveva averla decisamente messa di pessimo umore.

“Ci hanno preparato degli aggeggi interessanti. Ho un sacco di frecce nuove e...”

“Fury sa che io lavoro da sola.”

Mai sentenza suonò più definitiva. E improvvisamente un moto d'irritazione andò a stuzzicargli la coscienza ancora intorpidita, priva della scarica adrenalinica del caffè.

“Sono passati quasi tre anni.” le parole gli erano uscite di bocca, prima che potesse frenarle. Scivolate sulla lingua, fra i denti, incontenibili.

“Contare i giorni non cambia quello che è successo.”

“Natasha...”

“E non... chiamarmi Natasha.” la voce adesso era dura. Sferzante. L'aria, fosse stata di piombo, l'avrebbe tagliata come burro.

Clint si morse la lingua. Non poteva biasimarla. Avevo perso il sonno per un anno. E poi ancora a giorni alterni a ridestarlo dall'anelato torpore.

Per quello lo definivano un animale notturno. Perché la notte non dormiva. Mai.

“Preferisci Nat?” avanzò con parsimonia.

“Vaffanculo.” La giusta risposta a un sarcasmo di merda.

“Senti…”, Clint avvicinò il tavolo da lavoro, consapevole del fatto che Natasha stesse armeggiando con il pc, piuttosto che guardarlo direttamente, “non ha entusiasmato nemmeno me questa sua decisione…”

“Incoraggiante. Questo sì che è iniziare alla grande.”

“Ha voluto noi perché siamo i migliori.”

“Non mi circuisci certo con le lusinghe.”

“Sei tu quella che circuisce, non io”, si era piegato sulle ginocchia a guardarla dal basso in su, cercando di cogliere stralci del suo viso piegato sullo schermo di quel computer antiquato, “se non vuoi il lavoro sta bene. Posso dire a Fury che non te la senti. Mi affibbieranno qualcun altro. Qualcuno di cui non mi fido, ma bravo abbastanza da sostituirti.”

“Nessuno può sostituirmi.” Adesso si era voltata, lieto di aver sfiorato i tasti giusti del suo orgoglio. “E non dovresti fidarti me.”

“Lo sai che non si controllano queste cose.”

La vide serrare le labbra, incerta, a scrutarlo negli occhi, come cercando una qualche menzogna o incertezza nello sguardo. Non sembrò trovarne e dovette esser grata al borbottio della caffettiera sul fuoco che lo distrasse, mentre il caldo aroma del caffè si sparpagliava per casa.

“A Fury questa cosa non piacerà comunque.” Il caffè, anche solo il suo profumo, era in grado di riportarlo sempre sui giusti binari. Perché al cospetto della Vedova Nera, non era una novità perdere la strada. Non per lui almeno.

“Con lui posso discutere di quello che mi pare…” era tornata al suo silenzioso lavoro, mentre Clint cercava una tazzina per bere quel caffè allo stafilococco… o alla polvere.

“Questo vostro rapporto privilegiato non l’ho proprio mai capito.” Mentì. Perché sapeva benissimo cosa li accomunava e perché. Fury era stato il primo a capire il suo potenziale e a comprendere la sua letale e tormentata natura. Pochi potevano vantare di aver avuto il direttore come mentore. Natasha era una di queste.

“Geloso?”

Due zollette di zucchero.

“Di te o di Fury?”

Un sorso.

Natasha sorrise.

“Non vuoi nemmeno sapere di che si tratta, Nat?” le domandò allora.

“Non mi freghi, Barton.” Nel momento stesso in cui avesse accettato di prender parte all’analisi dei file, non avrebbe più potuto tirarsi indietro.

“Facciamo così…” posò la tazzina sul lavandino e si frugò nelle tasche interne del parka, “qui c’è tutto il materiale di cui hai bisogno.” Posò sulla sua scrivania un dispositivo digitale della misura di una carta da gioco, a cristalli liquidi. “Se entro domattina non avrò tue notizie… dirò a Fury che non hai accettato di partecipare alla caccia.”

“Caccia?”

“Mh mh…”

“Non dovevi dirmelo.”

“Non ho detto niente.”

“Stronzo.” Nell’insultarlo, però, aveva attirato a sé il dispositivo, facendolo sparire in uno dei cassetti sotto la scrivania.

“Ci sentiamo domani.”

“Oppure no.”

Clint si strinse nelle spalle, senza risparmiarle un sorriso a cui lei non rispose.

“Grazie per il caffè.” Dichiarò solo, prima di allungare il passo per guadagnare l’uscita, quando qualcosa di peloso e grosso abbastanza da non essere un ratto, scivolò dalla porta dentro la stanza e poi fra le sue gambe in un concerto di fusa.

“Ehi…” fece solo, scrutando il gatto dal pelo d’ebano che alzò uno sguardo umido verso di lui, “ma non eri morto, tu?”

Si chinò quel tanto che bastava per rendersi conto che una delle zampe posteriori si muoveva in modo innaturale. E poi capì che non era altri che una protesi robotica piuttosto ben fatta.

Non ci voleva un genio a capire che tecnologia di quella portata poteva essere molto costosa. A maggior ragione il lusso di poterla sfoggiare su un animale domestico di quelle dimensioni.

“L’hai fatto tu?” domandò allora, sorpreso, sollevando da terra l’animale in vena di effusioni, guardando direttamente Natasha che si era rimessa in piedi rapidamente. Forse un po’ troppo… rapidamente.

“No.” Rispose criptica, recuperando di malagrazia il gatto, il tempo di far sparire quella sua zampa nel confortevole calore del suo abbraccio.

Clint sapeva di non dover insistere. Natasha non era certo priva di segreti. Non lo era mai stata...

“D’accordo, me ne vado.” si arrese allora, troncando la conversazione, prima che diventasse scomoda.

“Puoi fermarti ancora un po’… se vuoi.” una frase lanciata con una casualità sconcertante. Sempre nel momento sbagliato.

Quello sguardo. Così carico di sottintesi che non era mai riuscito a ignorare. Dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo, anche quella volta, per impedirsi di rimanere intrappolato nel suo gioco.

“Magari un’altra volta.” Rispose e lei non sembrò aversene a male. Non troppo, almeno.

Uscì dalla porta dell'appartamento con la sensazione che avrebbe avuto modo di maledirsi più tardi, quella notte, per quell’ennesimo rifiuto.

 

*

 

Note:

Sono tornata. Con una storia che sto scrivendo da un po’ . Qualcosa che inciampa nella fantascienza. Che si ritaglia un angolino di AU che volevo esplorare da tempo. Non indugio nelle spiegazioni, la storia parla da sé, spero. Ringrazio, come sempre (ormai chi mi legge da un po’ lo sa a memoria), la beta e socia Sere. E chiunque si sia fermato a leggere, incuriosito o meno.

Alla prossima.

  
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