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Autore: _Frame_    04/05/2015    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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34. La fatina e Il coniglietto volante

 

 

Italia scese la scalinata correndo, a falcate di tre gradini l’una. Impennò il braccio al cielo e sventolò la mano sopra il capo.

“Germania!”

Germania aveva ancora la mano aggrappata allo sportello dell’auto, le spalle leggermente ingobbite e nascoste nell’ombra dell’abitacolo. L’autista fece un passo indietro, tirò la maniglia dello sportello e si mise in disparte. Il raggio di sole investì Germania, costringendolo a sollevare un braccio per ripararsi la fronte.

“Ita –”

Le braccia di Italia si allacciarono al collo, gli mozzarono il fiato. Italia gli saltò addosso facendolo barcollare all’indietro, le gambe intrecciate, e Germania chiuse la mano sullo sportello per non cadere. La presa di Italia si strinse, le dita si aggrapparono alla giacca, le punte dei piedi spinsero verso l’alto, il viso affondò nell’incavo del collo. Germania gli cinse le spalle con il braccio libero, poggiando la schiena all’auto.

Italia emise il primo respiro, in silenzio. Il fiato soffiò tra i capelli, il petto si alzò, pulsando contro il suo. I piedi scivolarono verso il basso e restarono sulle punte, schiacciando quelli di Germania.

Si tenne aggrappato alle sue spalle, piegò il viso di lato e gli sorrise. “Bentornato!” Gli occhi brillarono contro il raggio di luce che strisciava di lato. “Sei venuto a trovarmi per complimentarti?”

Germania socchiuse le labbra. Una lieve piega di rimprovero gli corrugò la fronte. “Io...”

“Mhm, hai visto, adesso sono anche io come te.” Italia fece un saltello sulle punte dei piedi, forzando i talloni verso l’alto. Le mani di nuovo strette attorno al suo collo, le braccia poggiate sulle spalle, il petto premuto contro il suo. “Sono stato coraggioso, vero? Non mi dici bravo?”

Germania storse un angolo delle labbra verso il basso. La vena di rimprovero sbiadì, scoprendo un’espressione insicura e perplessa.

E io che ero venuto qui con quella di sgridarlo.

Italia continuava a sorridergli. Sbatté le palpebre, gli occhi scintillanti in attesa, le punte dei piedi sempre più tese, l’abbraccio soffocante, più vicino. Il cuoricino che batteva di impazienza.

Germania abbassò le palpebre, sospirando. Non ce la fece.

“B...” Voltò il capo, nascondendo lo sguardo arrossito. Tolse la mano ancora appesa allo sportello e gli aprì il palmo sul capo. Gli strofinò i capelli con gesti rapidi e profondi. “Bravo.”

Italia sobbalzò. “Yei~!” Saltò rimbalzando sui piedi di Germania, l’abbraccio strinse, lo spinse contro l’auto.

Il viso di Germania finì immerso tra i suoi capelli. Italia rise, e Germania sentì le vibrazioni del suo corpicino trasmettersi al suo petto, espandersi fino alle braccia che lo tenevano stretto. Chiuse gli occhi. Il calore dell’abbraccio si propagò come un’onda, lo avvolse sciogliendo il macigno che premeva sul cuore.

Italia districò l’intreccio di dita. Le mani scivolarono giù dalle spalle, il palmo si aprì e percorse il braccio. Strinse la mano di Germania.

“Vieni, dai,” lo tirò dietro di sé, saltellando verso la scalinata, “mi devi raccontare com’è andata e così anche io ti racconto della cerimonia.”

Germania esitò. Il braccio si tese, la mano di Italia stringeva forte sulla sua, lo tirava verso di lui. Lanciò un’occhiata alle sue spalle. L’autista richiuse lo sportello dell’auto, tornò al posto di guida e chinò le spalle immergendosi sotto il tettuccio.

Italia salì i primi due gradini. Si voltò tornando a guardare Germania, gli strinse il braccio con entrambe le mani e continuò a percorrere la scalinata all’indietro. Stese il sorriso.

“Dovevi vedermi,” esclamò. Staccò una mano dalla presa e ne poggiò il fianco sul busto, facendola correre fino all’anca. “Avevo una divisa tutta stretta qui,” sventolò il braccio scoprendo il polso, “ma le maniche erano larghissime e il sarto aveva detto che me le avrebbe accorciate, poi però si è messo a misurare e ha scoperto che avrebbe dovuto...”

 

.

 

“... e poi io smesso di salutare ma loro hanno comunque continuato ad applaudire e a gridare di gioia.” Italia terminò la piroetta, i piedi si intrecciarono, tentennarono di due passi di lato, e lui stese le braccia per non cadere. Ridacchiò. Si prese la fronte e scosse la testa. Gli occhi ancora stropicciati per i capogiri.

Italia fece correre la mano tra i capelli, le dita corsero e si fermarono sulla nuca. Il braccio restò alzato, il gomito piegato nascondeva il viso arrossito. “Quando poi ho visto le foto sul giornale mi sono un po’ imbarazzato, su quella terrazza mi sentivo tutto strano.”

Germania sporse il braccio oltre il bracciolo del divano e posò il bicchiere di vino sul tavolino. Il bordo del calice mezzo vuoto tintinnò contro la pancia della bottiglia, sfiorò il vetro dell’altro bicchiere già svuotato sollevando un sottile eco simile a uno scampanellio. Il bagliore della lampada a cono filtrava attraverso i pizzi che ornavano la campana attorno al bulbo di luce, si rifletteva sul vetro della bottiglia, la scintilla scendeva lungo il collo, percorreva l’etichetta dorata – Chianti, annata 1930 – e abbracciava il livello più scuro del vino avanzato. Era a meno di due dita dal fondo. Una sottile goccia di un rosso intenso scivolò dalla bocca di vetro rotolando verso il rigonfiamento della pancia.

“Tu hai visto le foto?” chiese Italia. Si chiuse le spalle, arricciò la punta del naso in una smorfia di imbarazzo che gli imporporò le guance. “Ero un po’ strano, vero?”

Germania abbassò gli occhi. Si guardò le mani intrecciate, poggiate sulle ginocchia. “Sì, ho...” Prussia gli apriva il giornale davanti alla faccia, gli premeva le pagine spiegazzate sul naso, riempiendogli le narici del tanfo di inchiostro. La foto di Italia riempiva la metà superiore della facciata di destra. Una mano stretta sul cornicione del balcone, una aperta sulla parte sinistra del petto, sopra il cuore. Le maniche troppo larghe arrivavano fin sopra i polsi. Gli occhi fermi puntati sulla folla, la bocca socchiusa, l’espressione tenace. “Ho visto le foto.” Germania sollevò lo sguardo, incrociò quello di Italia rivolgendogli un’espressione sincera. “La divisa ti stava bene.”

Italia spalancò le palpebre. Gli occhi si riempirono di luce, brillarono come la scintilla che percorreva i calici di vino. “Davvero?” Si prese le guance, volse la fronte di lato. “Grazie! Sai, sei l’unico che me l’ha detto.”

Fece due passi verso il divano, ondeggiò a destra e a sinistra. Germania sollevò di istinto le braccia, tendendo le mani verso di lui in un rapido scatto. Italia incrociò i piedi e rimase in equilibrio. Increspò la fronte, gonfiò le guance simulando un broncio, e fissò il soffitto.

“Nemmeno Romano mi ha fatto i complimenti.” Altri due passi. Italia si tuffò sul divano, le braccia di Germania gli sfiorarono i fianchi e lo guidarono verso l’imbottitura del bracciolo. Rimbalzò, rotolò di fianco e sprofondò nello schienale. Annuì. Il broncio era svanito. “Ma secondo me anche a lui stava bene.”

Fece un piccolo sospiro. Il corpo che si tendeva e tornava a rilassarsi fece cigolare le molle del divano, la stoffa sotto il suo peso emise un lieve fruscio.

Germania spostò lo sguardo di lato. Le mani intrecciate sulle ginocchia si strinsero, le nocche divennero bianche, le unghie graffiarono la pelle. Abbassò la fronte, tenne gli occhi nel buio, lontani dai ricordi. L’ultima occhiataccia di Romano che lo trafiggeva nel buio della foresta tornò a colpirlo al petto come lo scocco di una freccia. La punta metallica colpiva la corazza di pietra attorno al cuore, si incrinava, gemeva in un piccolo stridio, e lasciava la superficie liscia e intatta. Nemmeno un graffio. Germania si concentrò sulla goccia di vino che rigava la bottiglia. La linea rossa scese fino all’etichetta, ne bagnò un angolo, sporcò il disegno del galletto a becco spalancato nell’ovale dorato, e un alone scarlatto si allargò fino alla lettera C dell’insegna.

Italia si mosse. Il peso sull’imbottitura del divano si spostò verso Germania. “A...” Piccolo saltello. I pantaloni frusciarono sulla stoffa del divano. “A proposito.” Un piccolo tremito scosse la voce. Era bassa, intimorita, non rideva più.

Germania voltò lo sguardo.

Italia tenne gli occhi bassi e lontani, le guance ancora imporporate – più per il vino che per l’imbarazzo – e le dita intrecciate sulle ginocchia, a far giocherellare le unghie contro i polpastrelli. “Grazie per...” Si chiuse nelle spalle. Piegò le ginocchia verso la pancia, sollevando i piedi da terra. “Per aver riportato a casa Romano sano e salvo, dopo...” Un piccolo spasmo di dolore gli fece aggrottare le sopracciglia. Le guance sbiancarono e tornarono rosse. Italia si pizzicò un labbro. “Dopo l’incidente,” finì con un mormorio.

La tensione sul viso di Germania si sciolse. Snodò la stretta delle mani sulle ginocchia e il sangue tornò a fluire, scaldò le braccia.

I ricordi e la rabbia scomparirono.

Germania sospirò. “Lui sta bene?”

Italia annuì. Poggiò a terra le punte dei piedi, diede una piccola spinta e raccolse le ginocchia contro la pancia. “Sì, era solo un po’ agitato ma adesso credo che sia tutto apposto e che gli sia passata.” La bocca toccò le ginocchia. Gli occhi e la fronte rimasero bassi. “All’inizio ero davvero preoccupato, però, e mi sono spaventato moltissimo.” Un tremore gli scosse la schiena, lo fece rabbrividire come sotto una zaffata di vento gelato.

Germania tornò a guardarsi le mani. Il costante ticchettio delle unghie di Italia riempiva il silenzio. Gli sembrava quasi di sentire il suono del vino che strisciava lungo la bottiglia di fianco a lui, della carta che assorbiva la goccia, della colla che si spellava dal vetro come una lingua appiccicosa.

Un sottile tintinnio gli solleticò l’orecchio. Proveniva dal suo bicchiere.

La sbavatura di vino scese dal bordo, percorse il rigonfiamento del calice, e la goccia si unì alla superficie piatta del lago scarlatto. Tre cerchi concentrici sollevarono piccole onde che si ingrossarono e riflessero le immagini di quel giorno. Il corpo di Romano stretto dal braccio di Spagna, il gomito piegato, la canna della pistola affondata tra i capelli scuri sopra l’orecchio, la cattura, le mani di Spagna che si alzavano in segno di resa, il risolino sulle sue labbra che poi si mossero lentamente a comporre la parola ‘grazie’ mentre veniva portato via. I pugni di Romano stretti contro i fianchi, la schiena tremante di rabbia, l’espressione d’odio immersa nel buio. La figura ingobbita che spariva alle sue spalle, scortata dal generale.

Le onde concentriche raggiunsero i bordi, il vino tornò piatto. Le immagini svanirono.

Germania chiuse le palpebre. Sospirò. “Italia.”

Italia gli rivolse lo sguardo. Sollevò le sopracciglia in un’espressione interrogativa. “Mhm?”

Gli occhi di Germania rimasero bassi, rivolti al pavimento. “Lui ti ha...” Storse le labbra, serrò le dita fino a farle sbiancare. La voce uscì in un borbottio insicuro. “Spiegato tutto quello che è successo?”

Italia sbatté le palpebre, ci pensò per qualche attimo guardando il soffitto, e scosse la testa. “Non tanto,” disse. Fece un saltello di lato. La sua spalla sfiorò quella di Germania, le ginocchia batterono l’una sull’altra. “Ma non mi va di parlarne più.” Un piccolo tremito, e riacquistò un timido sorriso. Piegò il capo rivolgendogli il viso sorridente. “Ormai è passato, no?”

Lo sguardo di Germania tornò verso la luce della lampada a cono che si allargava sul tavolino. “Sì.” Il vino era calmo, la superficie piatta, lucida e rossa. Niente onde, niente immagini, niente ricordi. Germania abbassò le palpebre. “Sì, hai ragione, scusa se te l’ho chiesto.”

Italia tornò a scuotere il capo. “Non farlo.” La voce riprese la vena di allegria. Italia si appese al braccio di Germania, poggiò la guancia alla sua spalla e si accoccolò. “Mi piace quando ti preoccupi.”

Germania gli rivolse un’occhiata storcendo un sopracciglio.

Il viso sereno e sorridente, le guance lievemente arrossate, le ciocche della frangia sparpagliate sulla fronte.

Un nodo ghiacciato gli strinse lo stomaco.

“Perché hai deciso di entrare in guerra?” chiese di colpo.

Italia sbatté le palpebre. Una leggera espressione confusa gli appiattì le labbra.

Germania distolse lo sguardo. Sollevò il braccio che Italia non stringeva e strofinò la mano sulla nuca con piccoli gesti nervosi. “Voglio dire,” borbottò, “così all’improvviso, e anche dopo tutto quello che è successo...”

Italia strinse la presa sul suo braccio. Il suo peso si spostò più vicino, premette sul fianco. “Non vuoi che ti aiuti?” Germania sentì il suo respiro avvicinarsi, farsi più caldo contro il collo.

Scosse il capo con un gesto deciso. “No, no, non è questo.” Germania rilassò la tensione sul viso e sulle spalle. Gli rivolse un’occhiata apprensiva. “Ma sai che non ti avrei mai obbligato a farlo.”

Italia strinse l’abbraccio sotto la spalla. Guardò in basso, mosse piano le labbra, ne pizzicò un angolo, come stesse cercando le parole. “Uhm...” Sfregò le gambe, la punta di un piede andò a strofinarsi contro la caviglia, grattò sull’orlo dei pantaloni. “L’ho fatto...” Un braccio scivolò dal nodo sotto la spalla di Germania. Italia si toccò la sua, la mano si aggrappò alla maglia, scese alla base del collo, le dita si aprirono sulla scapola. Uno spasmo di dolore lo fece irrigidire, come avesse preso una scossa. Italia scrollò via l’espressione sofferente, la mano lasciò la spalla, e lui tornò a rivolgersi a Germania. Gli sorrise. “Per proteggere te.”

Germania corrugò anche l’altro sopracciglio. Gli lanciò un’occhiata perplessa trattenendo un’esclamazione tra i denti.

Italia tornò ad appoggiare la fronte alla sua spalla. Rannicchiò le gambe alla pancia, spinse i piedi sull’imbottitura del divano e si fece piccolo contro il suo braccio. Il suo respiro, umido e tiepido, soffiava sulla stoffa della maglia, riscaldava la pelle.

“Quel giorno, quando Romano è tornato a casa, mi sono sentito così debole, sentivo come se non potessi fare niente per aiutare sia lui che te.” Sollevò le spalle, Germania sentì le labbra piegarsi in un piccolo sorriso contro il suo braccio. “E allora ho deciso.” Sfregò la fronte, poggiò il mento sulla spalla. Il suo respiro aveva ancora l’aroma frizzante e leggermente asprognolo del vino. Italia infossò il sorriso nelle guance arrossate. “Così, se fosse successo di nuovo qualcosa di simile, anche io sarei potuto intervenire, aiutarti e proteggere tutti e due.”

La presa sulla spalla si sciolse, le braccia si stesero, avvolsero il busto di Germania. Le dita si intrecciarono dietro la sua schiena. Italia poggiò la guancia sul suo petto, chiuse gli occhi, rilassò il corpo contro il suo. Quando Germania respirava, le braccia si allargavano e si stringevano seguendo i movimenti del suo busto. Italia sfregò la guancia, poggiò la fronte, e premette l’altro lato del viso contro il sul petto, spingendolo ad appoggiarsi con la schiena al bracciolo del divano. Germania si stese tenendogli il braccio stretto dietro le spalle. La sua schiena che si chinava verso il tavolino oscurò la luce della lampada.

Italia spinse il capo più insù, e Germania finì con il mento tra i suoi capelli. “Il giorno della cerimonia io ero ancora un po’ preoccupato per Romano,” disse Italia, tenendo la guancia premuta sotto la sua gola, “ed ero anche spaventato per quello che avrei dovuto dire davanti a tutti, avevo tanta paura di fare brutte figure o di non riuscirci.” Intrecciò le braccia sul petto di Germania, poggiò il mento nel punto in cui si incrociavano i polsi e sollevò la punta del naso. Gli sorrise dall’ombra. “Poi però sono salito sulla terrazza, e allora ho pensato a come avresti parlato e come ti saresti comportato tu, e così sapevo che avrei fatto il discorso nella maniera giusta. Mi sono sentito forte e deciso.”

Germania sollevò un sopracciglio. “Davvero?”

“Mhm-mhm,” annuì Italia. Piegò il capo di lato. “Mi sarebbe piaciuto che ci fossi stato anche tu a vedermi, ma adesso che so che sei fiero di me è tutto apposto, e ho capito di aver fatto la cosa giusta.”

Germania sospirò a fondo. Sentì il peso di Italia che si alzava e si abbassava guidato dal lento movimento del suo petto. “Avresti dovuto avvisarmi comunque,” borbottò.

Italia abbassò gli occhi. Nascose la bocca contro il dorso della mano. “Avevo paura che mi avresti detto di non farlo.”

“Be’, avrei...”

Avrei avuto buoni motivi per impedirtelo.

Italia sbirciò da sotto il buio della frangia, aspettando la fine della frase. Quando gli sguardi si incontrarono, in quella tenue e calda penombra che ancora profumava di vino appena stappato e della vecchia stoffa del divano, Germania sentì un tuffo al cuore. Senza pensarci, lasciò scivolare il braccio dalle spalle di Italia. La mano corse verso il suo gomito, scese, si strinse delicatamente al suo polso e sciolse una mano dall’intreccio sotto il mento che premeva sul suo petto. Gli sollevò la mano, stese l’indice e il medio contro il suo palmo fino a premere sui rigonfiamenti dove nascevano le dita. Italia sollevò gli occhi, seguì i movimenti e una scintilla di curiosità gli balenò tra le pupille.

Germania mosse il pollice attorno al polso, gli carezzò il dorso della mano, il polpastrello si fermò sulle nocche.

Queste mani non sono fatte per la guerra.

La sensazione delle grandi mani ruvide e fredde contro le sue, piccole, calde e dalla pelle sottile e delicata...

Germania chiuse la presa. Spinse il pollice sul palmo, carezzò i rigonfiamenti della pelle, ne seguì la forma che si incavava verso il centro, e tornò ad avvolgergli il polso, incrociando solo l’indice e il medio alle sue dita.

Non lo saranno mai.

Sentì il cuore di Italia pulsare attraverso la mano. Il battito colpì il suo palmo.

“Hai intrapreso una scelta importante, lo sai?”

Italia distolse gli occhi dall’intreccio delle mani. Gli rivolse uno sguardo confuso, ancora perso in quella sbavatura incuriosita.

Germania gli lasciò andare lentamente la mano. Il braccio tornò attorno alle sue spalle.

“Hai preso un impegno che coinvolgerà direttamente sia te che il tuo popolo.” Chiuse le palpebre e scosse la testa. “Affrontare la guerra direttamente sulla tua pelle non è come viverla in disparte solo nelle parti di mio alleato.”

Tornò l’odore acre della polvere da sparo che pizzica le narici, il sapore pesante del ferro, del sangue, che riempie le guance e scivola in gola, stringendo lo stomaco, il suono degli spari, l’eco delle cannonate, la sensazione del terreno che vibra sotto i piedi, delle trivellate al suolo che si propagano a onde, e il freddo del metallo stretto tra le mani e il calore bruciante che arroventa e sfrigola contro la pelle.

“Sei disposto ad accettarne i rischi?”

Italia abbassò gli occhi. L’ombra tornò a calare sulla fronte. Strinse i pugni, le braccia incrociate sotto il mento si irrigidirono. Un lieve tremito scosse entrambi i corpi.

“Non...” Poggiò la bocca sul polso. “Non ho paura.” Stava mentendo. Germania sentì altri brividi percorrergli la schiena e trasmettersi al suo petto. Italia ridacchiò, sollevando vibrazioni più piccole e profonde. “Be’, forse un pochetto sì.” Appunto. Italia riprese a sorridere, si vide il rossore delle guance accentuato dalla luce della lampada, nonostante l’ombra. “Ma se ci sarai sempre tu, allora so che andrà tutto bene e che non dovrò preoccuparmi. Questa volta non...” Guardò in basso di scatto. Germania trattenne il fiato come lui, e Italia strinse un pugnetto. “Non scapperò, qualunque cosa succeda.” Sollevò la fronte. La luce della lampada disegnò il profilo delle iridi, la luce dorata si fuse con il color nocciola, spennellando rapidi riflessi ambrati. “Te lo prometto.”

Restarono a guardarsi per qualche istante. Germania fu il primo a cedere e a scostare lo sguardo di lato, a palpebre chiuse.

“Devi prometterlo a te stesso.”

Italia piegò il capo, confuso.

La mano di Germania che si posò tra i suoi capelli gli fece socchiudere un occhio. “Una promessa del genere devi farla a te stesso prima che a me.” Tornò a guardarlo nel nero delle pupille. La mano si mosse tra i capelli, le dita raccolsero la frangia, gliela scostarono dalla fronte, e le ciocche tornarono a ricadere sulla pelle colorata dalla luce della lampada. “Ricordatelo.”

Le labbra di Italia si inarcarono verso l’alto in un dolce sorriso. Annuì. “Sì.” Si accucciò tornando a poggiare la guancia sul suo petto. L’orecchia premeva dove batteva il cuore.

Germania sfilò le dita dai suoi capelli. Tornò a tuffare la mano nella frangia, la spinse all’indietro carezzandogli il capo fino alla nuca. Il ciuffo arricciato rimase avvolto tra l’indice e il medio, Germania lo arrotolò tra le punte delle dita e lo stese, riavvolgendolo più volte di seguito. Italia risucchiò un mugugno nel sorrisino, come stesse trattenendo il solletico, e strinse la presa delle braccia, raggomitolando le gambe.

Germania fermò il tocco, lasciando la mano sepolta tra i capelli.

Italia sollevò gli occhi. “Il fratellone Francia stava bene?”

Un piccolo spasmo fece irrigidire la mano dietro il suo capo. Il tocco tornò morbido, scese sulla pelle del collo. “Sì.” Germania diede una piccola spinta con le gambe, premendo le spalle contro il bracciolo. Italia sempre stretto, avvinghiato sul suo petto. “Ha perso, ma è vivo. Non gli è accaduto nulla.”

Italia sorrise. “Meno male.” Le braccia incrociate dietro la schiena risalirono fino alle spalle, si aggrapparono al tessuto della giacca. Italia poggiò le labbra sul petto, e Germania sentì il calore e le vibrazioni della sua voce avvolgergli il busto. “Non scomparirà, vero?”

Germania scosse la testa. “No.” Il palmo corse lungo il collo, tornò ad aprirsi sulla nuca, sfregando tra i capelli. “Abbiamo fondato uno stato di rappresentanza sul suo territorio, ma lui non ha cessato di esistere come nazione, anche se siamo noi ad averne il controllo.”

“Oh, ho capito.”

L’aroma del vino stava lentamente svanendo. Germania chiuse gli occhi e inspirò piano, sentendo solo il profumo dei capelli di Italia. Mosse la mano e le ciocche si arricciarono attorno alle dita, morbide e sottili, mentre il suo battito pulsava sul petto in un suono basso e ovattato che faceva vibrare la cassa toracica.

... l’unico pretesto...

Chiuse la mano senza accorgersene. Il braccio fasciato attorno al busto di Italia strinse, premendo sul bacino, strappandogli un respiro più corto e profondo.

... qualcuno che ami al tuo fianco.

“I-Italia...”

Italia sollevò gli occhi senza scollare la guancia dal petto. “Sì?”

Germania distolse lo sguardo di lato. “Se...” Rimuginò.

Le mani di Prussia unite a formare due becchi che si scontravano in piccoli e rapidi scatti. Il sorriso che si stendeva da guancia a guancia, gli occhi e i denti che scintillavano. “Voi due, soli soletti...”

Una spolverata di rosso si stese sulle guance. “Se io... no, cioè, se noi...”

Italia piegò il capo di lato. Sbatté le palpebre, non capendo.

La mano di Germania aperta sulla sua nuca ebbe un fremito, il braccio attorno al suo busto si irrigidì.

Germania prese un respiro. Le palpebre socchiuse traballarono, gli occhi erano lontani, fissi sul pavimento. “Se noi non fossimo alleati, tu...”

Il respiro soffiò più vicino al viso, costrinse Germania a voltare lo sguardo verso di lui.

Italia continuava a guardarlo con la stessa espressione interrogativa, le sopracciglia sollevate, un lieve barlume che brillava negli occhi, il capo piegato, il ciuffo arricciato che toccava la spalla.

Germania sentì una fitta al cuore.

E se fosse davvero così?

Sollevò la mano, raggiunse il suo viso, gli tolse i capelli dalla fronte, portandoli dietro l’orecchio. Italia strizzò una palpebra e sorrise di nuovo come stesse soffrendo il solletico.

Se io avessi dato inizio alla guerra solo per riaverlo accanto?

Italia inclinò il capo lasciando scorrere la mano di Germania tra i capelli. Chiuse gli occhi.

Questo sarebbe... La fitta al cuore divenne un’onda di dolore che si espanse per tutto il petto. Un gesto egoista e imperdonabile da parte mia.

“Mhm?” Italia socchiuse una palpebra. “Io cosa?”

Germania fermò la mano. “Ni...” Sospirò. Il tocco scese, lento e morbido. “Niente.”

Meglio non pensarci.

Italia rotolò su un fianco, scivolò nell’incavo del gomito di Germania che si strinse contro il suo fianco. Il viso a sfiorare il collo. “È stata una battaglia tanto difficile?”

Germania irrigidì per un istante sentendo la sua voce così vicina all’orecchio, e il movimento delle labbra che sfiorava la guancia. Scosse il capo. “È stata dura, ma ho avuto di peggio. Francia ha commesso molti errori che hanno permesso di concludere il tutto velocemente.” Si strinse le spalle, lo sguardo volò verso il tavolino, attirato dai riflessi rossi spalmati sui bicchieri. “Forse è stato meglio così.” La goccia che imbeveva l’etichetta della bottiglia attraversò il lato corto del rettangolino di carta, e lacrimò verso il fondo di vetro. “Ha ceduto quasi subito.”

Italia annuì. “Ho capito.” Il tono era sbavato da una punta di malinconia.

Strinse le braccia, schiacciando le mani tra la schiena di Germania e il divano. Mosse le gambe, rannicchiò i piedi, e le ginocchia si incrociarono.

“Sei stanco?” gli chiese, parlandogli vicino alla guancia.

Germania scosse il capo. “No.” Gli occhi ancora fissi sui calici di vino, la vista ipnotizzata dalle scintille rosse che galleggiavano sulla superficie del bicchiere mezzo vuoto. “Non molto.”

Le braccia di Italia strinsero. Le mani si intrecciarono dietro la sua schiena. “Puoi dormire qui se vuoi.”

Germania inarcò un sopracciglio. “Me lo stai chiedendo solo perché sei tu quello che vuole mettersi a dormire?”

Italia sobbalzò contro di lui. “Ah, no, non è vero, lo giuro!” Distese le gambe, rotolò di nuovo sul suo petto, allungò le braccia, fece emergere le mani da dietro la schiena e le posò sulle sue spalle. Si sdraiò su di lui e nascose il viso. “Mi metto solo disteso sopra di te con gli occhi chiusi.” Sollevò la fronte, socchiuse una palpebra. “Vedi, non dormo.” Un angolo delle labbra si piegò verso l’alto.

“S...” Germania irrigidì di nuovo. Una vena gonfia di stizza e imbarazzo pulsò sulla fronte, arrossandogli le guance. “Sei...”

La risata di Italia gli fece vibrare il petto.

“Scherzo.” Le mani tornarono dietro il collo, si strinsero, e il viso di Italia si avvicinò al suo. Le punte dei nasi si sfiorarono. “Bentornato a casa.”

 

♦♦♦

 

I passi di Inghilterra battevano lenti e profondi sul pavimento, scandivano la camminata lungo le piastrelle del corridoio premendo forti colpi con il tacco e la punta delle suole. Destro e sinistro in egual misura. Il piede ferito era guarito.

“‘... pertanto si richiede la valutazione di un’eventuale e prossimo trattato di reciproca non belligeranza...’” Restrinse le sopracciglia alla radice del naso, storse verso il basso un angolo delle labbra. La mano che impugnava il foglio davanti al naso si schiuse, tenne sospeso un angolo della pagina solo tra indice e pollice. “‘Da parte di entrambi i paesi,’” finì di leggere. Inghilterra guardò il foglio stretto tra i polpastrelli come se stesse tenendo in mano un fazzoletto lercio di fango e sputo.

Sospirò, la camminata proseguì senza rallentare lungo il corridoio, e abbassò le palpebre. Il pugno inghiottì il frusciare della carta che si appallottolava contro il palmo. Inghilterra strinse la mano, mosse le dita stropicciando per bene il foglio scrosciante. Ne rimase solo qualche sprazzo bianco visibile tra gli spazi delle dita chiuse a pugno. Inghilterra piegò il gomito, disegnò una parabola con il braccio dal basso verso l’alto, e gettò la palla di carta all’aria.

“Puf!”

La palla rimbalzò due volte, fece da eco al suo sbuffo.

Inghilterra si strofinò le mani e piegò un sorriso d’orgoglio.

“Ecco dove va a finire la tua non belligeranza.” Lanciò una veloce occhiata alle sue spalle. La pallina di carta era incastrata in una rientranza del pavimento tra due piastrelle. La piccola ombra rotonda si stendeva contro la parete, immobile.

Inghilterra fece roteare gli occhi. Schioccò la lingua tra i denti in un gesto irritato.

“Idiota,” sbottò. Il suono dei passi si intensificò, la camminata si appesantì. “Sapevo che ci avrebbe provato, ma non mi sarei davvero aspettato una mossa tanto ingenua da parte sua.” Incrociò le braccia al petto, sollevò la punta del naso e mostrò un ghigno di soddisfazione al soffitto. “Oh, be’,” soffiò via un ciuffo della frangia dalla fronte, “è un chiaro invito a farmi partire fin da subito con il piede giusto.”

Una ciocca di capelli tornò a muoversi, questa volta vicino all’orecchio. Un fresco vento frizzò sulla pelle della guancia, il profumo intenso della lavanda gli riempì le narici, fece solletico alla gola. Un paio di piccoli piedini nudi sguazzarono sull’aria, le punte si tesero, rimbalzarono di pochi passi verso il basso, e sfiorarono la sua spalla con le punte degli alluci. Il panno viola della gonna sventolò attorno ai polpacci, seguì le curve delle gambe, e ricadde sulle caviglie. La fatina posò i piedi sulla spalla di Inghilterra. La gonna di seta viola si sgonfiò, scivolò sulle gambe, sfiorata dal nastro blu che le cingeva la vita sotto l’ombelico. Una cascata di capelli biondi ricadde dietro le spalle, fluì sulla schiena, in mezzo all’attaccatura delle ali, e si intrecciò al fiocco blu che scendeva da una tempia.

La fatina stropicciò un broncio col nasino, prese la ciocca avvolta dal nastrino blu e la spostò dietro l’orecchio. Sbuffò. “Glielo facciamo vedere noi a quel gradasso cosa ce ne facciamo delle sue stupide scartoffie.” Sciolse le dita pettinandosi i capelli dietro la spalla, e strinse la manina a pugno. Sollevò il braccio mostrando un gesto di minaccia al soffitto. “Provi solo ad avvicinarsi a noi e gli spacchiamo il muso.”

Inghilterra le lanciò un’occhiata compiaciuta. Annuì. “Ben detto.”

La fatina chiuse gli occhietti e stese un sorriso inorgoglito. Le ali batterono due volte, spargendo una polverina al profumo di lavanda.

Lo scalpitare di zoccoli al trotto contro le piastrelle coprì i passi di Inghilterra. Clop, clop, clop, clop. Battevano come grossi ciottoli scagliati su un pavimento di pietra. Un battito d’ali spostò un’ondata d’aria. Un battito più soffice e leggero rispetto a quello della fatina. Una piuma color menta vorticò dentro lo spostamento d’aria e si adagiò a terra.

“Wah, i-io però non scarterei così velocemente l’idea,” esclamò una vocina.

Inghilterra e la fatina voltarono gli sguardi.

Il coniglietto volante spalancò le ali, stese le zampette, planò davanti al muso dell’unicorno che trotterellava, e puntò il foglio accartocciato, sbattuto in un angolo del corridoio. Agguantò una delle pieghe e strinse la pallina di carta sul pancino. Sbatté le ali, accelerò il volo, e stese il foglio lisciando i bordi tra le unghiette. Il musetto gonfio e concentrato.

“Insomma, se Germania ci sta offrendo la possibilità di non combattere e di salvare delle vite...”

La fatina gli rivolse il pugno contro. “Stai dicendo che vuoi arrenderti come un coniglio codardo?”

Il coniglietto scosse il capo facendo ciondolare le orecchie. “No, certo che no.” Finì di stirare il foglio. Volò di lato portandosi di fianco al muso dell’unicorno, gli porse un’estremità del lato corto, infilandogliela tra le labbra. Il testo battuto a macchina era un ammasso di lettere sbilenche inghiottite tra le pieghe della carta. Il coniglietto diede un battito d’ali, stese le zampette, e forzò un sorrisetto. “Se non si inizia nemmeno a combattere non è come arrendersi, giusto?”

La fatina infossò il broncio incavando una fossetta nella guancia. Prese i capelli tra gli spazi delle dita e li pettinò dietro la spalla con un gesto rapido e nervoso. “Be’, un corno che ci lasciamo sottomettere così.” La mano fluì dalla pioggia bionda. La fatina sollevò un sopracciglio e lanciò un’occhiata d’intesa all’unicorno. Gli mostrò i palmi in cenno di resa. “Senza offesa.”

L’unicorno tese il collo, abbassò il muso, scosse la criniera e borbottò un nitrito allargando le narici. Il foglio sgualcito sempre stretto tra le labbra.

Inghilterra scoccò un’occhiata di rimprovero alla fatina e le posò la punta dell’indice sulla testolina.

“Ehi, piano con le parole, signorina.”

Le guance della piccola si imporporarono. La fatina si chiuse nelle spalle, guardò il piede che si strofinava alla caviglia, contro l’orlo della gonna, e si portò un indice alle labbra. “Scusa,” disse con voce da bimba.

Il battito d’ali del coniglietto si avvicinò, gli spostamenti d’aria scossero i capelli di Inghilterra, gli rinfrescarono la nuca. Il peso delle zampette si adagiò in cima alla sua testa, il coniglietto chiuse le ali e stese il pancino accoccolandosi tra i suoi capelli. Le piume delle ali gli sfioravano le orecchie, le zampe posteriori premevano sulla nuca, quelle più piccole, anteriori, si aggrapparono alla fronte.

Inghilterra prese un forte respiro che gli gonfiò il petto. “Noi non ci arrenderemo mai.” Trattenne l’aria. Ascoltò il suono dei suoi passi che tornò più forte, sovrapponendosi al trotto dell’unicorno. “Né a Germania e né all’idea di combattere.”

“Sì, però...” La voce del coniglietto gorgogliò, insicura. La peluria della pancia borbottò contro il capo di Inghilterra. “Forse, se già immaginiamo quello che succederà quando Germania saprà del nostro rifiuto...” La frase si perse in un mormorio.

La fatina si aggrappò a una ciocca di Inghilterra, si mise sulle punte dei piedi e sollevò lo sguardo verso il coniglietto. Batté piano le ali, il tessuto della gonna si mosse lento, e il profumo di lavanda uscì più leggero.

Inghilterra sollevò gli occhi come per guardarsi la fronte, e tornò a fissare la fine del corridoio. “Ci stiamo preparando appunto per resistere a tutto questo, no?” L’unicorno trottò al suo fianco. Il muso basso, la criniera fluente che si adagiava ai muscoli del collo, e il foglio ancora penzolante dalla bocca. Inghilterra annuì. “È vero, se combatteremo, probabilmente molti uomini perderanno la vita, e anche io rischierei parecchio.” Svoltarono un angolo. Il tono di Inghilterra divenne più fermo e cupo, le palpebre socchiuse stesero una lieve ombra sul viso che accerchiò le palpebre. I passi lenti e profondi. “Ma parlo a nome del mio popolo se dico che preferisco la morte piuttosto che scendere a patti del genere.” Scosse le spalle – la fatina si tenne aggrappata ai capelli – e una smorfia infastidita gli storse la bocca. “Sarebbe come rinchiudermi da solo in un’umiliante e degradante prigionia.”

Il musetto del coniglietto si chinò verso la fronte. Il nasino umido sfregò contro la pelle. “Ma saresti vivo.”

“Ma sarei in prigione.” Inghilterra aprì un palmo e lo batté sul cuore. La vibrazione del colpo si estese per tutta la cassa toracica, come un sussulto dell’anima. La smorfia innervosita si inarcò verso l’alto, snudò un sorriso aguzzo, gli occhi splendettero nell’ombra. “E l’Impero Britannico non si è mai lasciato mettere in catene da nessuno. Se Germania crede di riuscirci così su due piedi si sbaglia di grosso.” La mano scivolò dalla giacca, stese la stoffa arrivando alla vita. Inghilterra appiattì le labbra. “Combatterò.” Ultima spazzolata. Guardò dritto davanti a sé. “Combatterò e salverò l’Europa.”

La fatina sollevò una mano posandosi le dita sulle labbra. “Pfft!” ridacchiò, rossa in viso. Stese l’indice contro la guancia di Inghilterra. “Parli come America.”

Inghilterra ruotò gli occhi sulla sua spalla. Una vena di stizza e imbarazzo pulsò sulla fronte, le guance divennero viola.

L’ombra del corridoio divenne più fitta, gli spigoli delle pareti più neri, il pavimento più scuro, come avvolto da un velo di nebbia. I muri si restrinsero. Una porticina li attendeva alla fine del corridoio.

Raggiunsero la porta. L’ombra di Inghilterra si stese sul legno, toccò la cima sfiorando il soffitto, la sagoma nera delle ali spiegate del coniglietto si abbassò dal capo, sfiorò l’ombra più piccina della fata in piedi sulla spalla, con le ali da farfalla divaricate. Si unì anche l’ombra dell’unicorno. Inghilterra strinse il pomello, chiuse gli occhi, e spinse la porta che si aprì con un cigolio.

Una forte zaffata di odore di polvere, di ferro e plastica, li investì spazzando via il profumo della lavanda. Quattro lampade brillarono agli angoli della camera, i fasci di luce scesero dalle pareti, puntarono verso il centro e illuminarono il tavolo rettangolare che sfiorava le pareti laterali. Radio, quadranti spenti, manopole e ricevitori incollati al muro sottoforma di piccole torrette, scintillarono contro l’abbaglio delle lampadine.

La fatina spiccò il volo. Il vento di lavanda le circondò la schiena, agitò la gonna sui fianchi, il nastro sulla pancia, e i capelli ondeggianti contro le spalle. Si chinò in avanti, strinse i pugnetti sui fianchi e svolazzò verso il tavolone centrale.

“Ooh, bello,” esclamò. “Un tavolo da gioco!” La piccola ombra scivolò sui contorni verdi, oscurò la scritta ‘North Sea’ sulla riva della costa, e toccò l’isola britannica. La fatina chiuse le ali sulla schiena e si lasciò scivolare sull’aria verso il basso. I piedini atterrarono sulla seconda linea rossa che circondava la nazione. I contorni scarlatti si gonfiavano a piccole protuberanze, come due nuvolette una dentro l’altra attorno all’isola. Cinque sezioni dividevano il territorio britannico. La fatina fermò il passo in quella centrale, sfiorò la scritta ‘Fighter Commander Group 12’, tra Nottingham e Coventry, e abbassò lo sguardo. “Questi siamo noi?”

Il coniglietto si eresse sulle zampine. “Sì,” esclamò. Sbatté le ali e scese dalla testa di Inghilterra. Atterrò in mezzo al Mare del Nord, fece un timido passetto in avanti, superando le due linee rosse a forma di nuvola, e tese la zampina verso la sezione di destra più bassa. “Guarda,” disse. “Qui c’è Londra.” L’unghietta batté sull’insegna in grassetto della capitale. La scritta in basso, ai confini della costa, diceva: ‘Fighter Commander Group 11’. Il coniglietto arretrò, ritirando l’ombra dalla nazione, e si grattò una zampetta dietro l’orecchio. Stropicciò il musino. “Sono segnati un sacco di altri punti oltre alle città.”

Piccoli cerchi rossi macchiavano le coste. Dai segni schizzavano linee dello stesso colore che si gonfiavano, disegnavano parabole lungo il mare, e tornavano a ritirarsi nel punto successivo, unendo i confini in una forma a nuvola.

Inghilterra fece un passo avvicinandosi al tavolo. Le braccia conserte al petto.

“Sono tutte basi aeree.”

La fatina sollevò la fronte. Storse un sopracciglio, l’espressione confusa, e un filo di capelli fluì da dietro l’orecchio, finendo sulla guancia. “Basi aeree?” Batté le ali, prese il volo. La sua piccola ombra si avvicinò alla Manica. “Io pensavo che avremmo combattuto in mare.” Posò i piedi nello stretto di mare, camminò verso il confine francese. Segni neri di forma quadrata macchiavano la costa nemica, una linea nera tratteggiata divideva due regioni: ‘Luftflotte 2’ e ‘Luftflotte 3’. La fatina puntò l’indice verso il basso. “Germania non ci invaderà con le navi?”

Inghilterra scosse il capo. “No.” Gli occhi attenti, fermi sulla mappa. “Non per il momento, almeno.” Chinò le spalle in avanti e si aggrappò al bordo del tavolo, stendendo la sua ombra lungo la superficie della cartina. Il muso dell’unicorno gli toccò il fianco, il fiato umido e tiepido soffiato dalle narici gli scaldò la stoffa della giacca. “Forse potrebbe anche essersi montato la testa dopo tutte le conquiste in Europa, ma persino lui non è così idiota da provare a mettersi contro di me in una battaglia marina.” Inghilterra allungò una mano, toccò la regione francese, nel punto in cui si raggrumavano i quadratini neri. “L’invasione per mare ci sarà, dopotutto non c’è altro modo per raggiungermi,” impennò l’indice e fece scivolare il polpastrello lungo la Manica, fino alla costa inglese, “ma non lo farà prima di aver demolito la mia difesa sulle coste, e su tutto il territorio.”

“E lo farà con gli aerei?” chiese la fatina.

Inghilterra annuì. “Credo proprio di sì.”

Il coniglietto si raggomitolò ai bordi della mappa. Strinse le zampine sopra il capo, schiacciò le orecchie ciondolanti che toccarono la carta, e si nascose il musino.

“Io inizio già ad avere paura.” Rabbrividì, scuotendo la coda a batuffolo. “Aerei che sputano bombe, si scontrano nel cielo e si fanno esplodere a vicenda...” Chiuse le zampe, portò le orecchie davanti agli occhi. “Solo l’idea mi fa salire i brividi.”

Inghilterra stese un sorriso. “Niente paura. L’aviazione tedesca potrebbe anche essere...” Sollevò gli occhi al soffitto. Si masticò le parole, mugugnò qualcosa tra le labbra, stropicciò lo sguardo in un’espressione sofferta. “Migliorata un pochino negli ultimi anni.” Una vena infastidita gli scurì lo sguardo. Inghilterra scosse il capo, il viso riprese colore, e si batté la mano sul petto. “Ma noi abbiamo vantaggi ben più grandi dalla nostra.”

La fatina sgranò gli occhi. Sbatté le ciglia. “Davvero?”

“Però saremo da soli,” intervenne il coniglietto. Scostò un’orecchia dal muso, e la luce di un occhio brillò come una gocciolina di petrolio. “Se dovessimo trovarci in difficoltà non potrà esserci nessuno ad aiutarci, però, e dovremo contare solo sulle nostre forze. Tutti i nostri alleati sono già stati sconfitti.”

Il sorriso di Inghilterra non sbiadì. Inghilterra emise un piccolissimo sbuffo e arricciò la punta del naso.

“Ormai non ci riguarda.” Staccò una mano dal bordo del tavolo. Il braccio scese, affondò nella tasca dei pantaloni. Agitò le dita scuotendo un tintinnio metallico ovattato dal tessuto. Il pugno di Inghilterra riemerse stringendo il modellino di un Hurricane. Il muso di ferro sbucava tra indice e medio, tre pale nascevano dalla punta metallica. Una delle ali usciva dallo spazio tra pollice e indice, tre cerchi concentrici – blu, bianco e rosso – erano tatuati sulla vernice gialla e verde. Inghilterra avvicinò la mano alle labbra, la bocca sfiorò il freddo metallo del modellino. “Combatteremo pensando al bene della nostra nazione, senza preoccuparci di altri vincoli o legami.” Socchiuse le dita, abbassò il braccio. Aprì il palmo e l’ombra dell’Hurricane si stese sulla regione inglese. “Siamo noi e basta.” Inghilterra posò l’aereo sul Gruppo di Comando 11, coprì l’insegna di Londra. “Come è sempre stato e come ha sempre funzionato.” Le dita rimasero strette al modellino, le unghie grattarono la vernice, risalirono lungo il rigonfiamento della cabina di pilotaggio. “Niente alleati, solo nemici. E poi, le forze di combattere non ci mancano.” Lasciò l’aereo, ritirò il braccio e lo annodò al petto insieme all’altro. Aggrottò la fronte. Gli occhi bruciavano, mirando ai confini francesi macchiati dalle basi tedesche. “Adesso farò capire a Germania cosa succede quando si inizia a giocare con i grandi.”

La fatina e il coniglietto si avvicinarono.

Inghilterra stese un angolo della bocca verso l’alto. Sollevò il pugno immergendolo nella luce delle lampade.

Long live Britannia!”

La fatina e il coniglietto imitarono il gesto. “Long live Britannia!”

L’unicorno nitrì dalle narici.

La fatina piegò i gomiti, strinse entrambi i pugni davanti al petto e spalancò le ali. “Spacchiamogli il muso!”

Il coniglietto rizzò il pelo sulla schiena. “Fatina!” esclamò, indignato.

L’Hurricane emanò una scintilla silenziosa che splendette sulla costa inglese.

 

 

   
 
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