Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    28/04/2015    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
---
[On going: dicembre 1941]
---
[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

N.d.A. Chiedo scusa per il ritardo dell’aggiornamento. Purtroppo ho avuto problemi con internet che potrebbero ripetersi. Farò di tutto per impedire che ciò accada ma, se dovesse capitare di nuovo, tenterò di aggiornare comunque il più in fretta possibile. Grazie a tutti per la comprensione!




33. L’armistizio e Il vagone della vendetta

 

 

22 giugno 1940, Parigi

 

La luce del mattino riflessa sul metallo della Torre Eiffel stendeva lunghe e nette pennellate rosse che ne percorrevano il profilo, ingrossavano le ombre sui contorni dei bulloni, scintillavano sugli spigoli di ferro. Il palmo di Francia risalì una delle travi d’acciaio, scivolò piano, passando sui riflessi scarlatti come se fosse stato lui a guidarne la stesura. Le dita arrivarono a uno dei bulloni, i polpastrelli ne circondarono il bordo e tastarono la superficie liscia e fredda, ancora lievemente umida per la condensa della notte. Francia lasciò scivolare il pollice giù dal bullone, e ne scoprì l’abbaglio rosso. La luce del sole si abbassò, la scintilla percorse il profilo tondo della vite e morì una volta raggiunta l’estremità più bassa. L’immagine del sole, un disco rosso, basso e fermo all’orizzonte, si riflesse sull’acciaio.

Francia fece un passo all’indietro. La mano scese dalla trave, restò ferma a ciondolare sul fianco. Sollevò la fronte, risalì il profilo della torre con lo sguardo, socchiudendo le palpebre per ripararsi dalle luci scarlatte. La punta di ferro svaniva perdendosi nel cielo, non si vedeva la cima.

Il rombo di un’auto vibrò alle sue spalle. Il suono del motore in avvicinamento si indebolì, le ruote macinarono il terreno più a fondo e lentamente, facendo scricchiolare il cemento a intervalli più lunghi. Francia non si voltò. Lo stridio dei freni gli fece risalire un brivido gelato lungo la schiena. Il motore dell’auto restò accesso: un goffo e pesante vibrare che sbuffava piccoli fiotti di fumo in alternanza con lo scoppiettare della marmitta.

Francia chiuse gli occhi. Inspirò il profumo del mattino primaverile che sapeva di rugiada fresca, di boccioli appena schiusi, mescolato all’odore di ferro della torre e al fumo dell’auto ferma alle sue spalle. Aspettò.

Tre sportelli si aprirono uno dietro l’altro. Due si richiusero, e il rumore secco delle porte che sbatterono insieme allo scatto delle serrature lo fece sobbalzare. I pugni si strinsero. I nervi a fior di pelle formicolavano tra le dita, risalivano le braccia ingessate e si accumulavano sulle spalle come un carico di massi sulla schiena.

Passi sul cemento. Leggero tintinnio metallico unito allo scricchiolare delle suole di cuoio contro la strada.

Francia inspirò, espirò. L’aria gli riempì i polmoni e una fitta gli trafisse il petto. Gli sembrava di avere ancora il peso del proiettile conficcato tra le costole.

I passi si fermarono. Tre ombre si allungarono contro di lui, risalirono il profilo della torre e il buio delle sagome spense il colore dei riflessi solari contro l’acciaio.

Francia si voltò. Tenne gli occhi socchiusi, il sole basso all’orizzonte si apriva tra le figure di due di loro, scuriva le sagome degli uomini, e batteva contro gli occhi. Un cerchio rosso dietro a tre figure nere in tenuta militare.

L’uomo al centro fece un altro passo avanti. La sua immagine uscì dall’abbaglio del sole e le ombre si infossarono tra i suoi lineamenti, schiarendone il viso. Gradi da generale brillavano di rosso sulle sue spalline. Il generale prese la frontiera del cappello e lo sfilò dal capo, posandolo al petto. Scoprì un viso stanco e sciupato. La luce che batteva alle sue spalle infossava le rughe attorno agli occhi, sugli zigomi, e il riverbero scarlatto scuriva la pelle, facendola apparire più vecchia. Scambiò un rapido sguardo con Francia e gli occhi gli rivolsero una profonda espressione d’afflizione.

Il generale non disse nulla. Piegò il capo di lato e indicò l’auto ancora accesa posteggiata contro il profilo del sole.

Francia sorvolò la spalla del generale con lo sguardo, inquadrò l’auto, il nero della carrozzeria, lo sportello anteriore lasciato aperto, e le due piccole bandiere francesi che sbucavano dalla punta del cofano.

Tornò a chiudere gli occhi, lasciò uscire un debole sospiro. Alzò il braccio, diede due ultime, piccole carezze alla gamba della torre, e camminò verso gli ufficiali.

 

.

 

Francia lasciò sprofondare la nuca sul sedile dell’auto. L’imbottitura era vecchia ma ancora morbida e profumata. Il tiepido calore dell’abitacolo aveva appesantito l’aroma del cuoio che scendeva morbido e denso lungo la gola, assumendo quasi la consistenza di un sapore speziato.

Svoltarono una curva, il motore rombò, diede un piccolo ruggito, e l’auto accelerò facendo vibrare il suolo sotto i piedi e i sedili. La luce del sole scivolò sul finestrino, passò attraverso la parte anteriore del mezzo e la lama di raggi rossi colpì il profilo del generale alla guida. Il volante scivolò sotto i suoi palmi, si assestò, e l’auto procedette in linea verticale. Le mani dell’uomo tremarono per un istante e tornarono a stringersi. Le nocche sbiancarono per la pressione.

Francia aggiustò la posizione sul sedile centrale, si spinse verso lo schienale urtando le spalle dei due ufficiali che occupavano i posti laterali. Quello a destra sollevò la mano aperta contro il finestrino per ripararsi dal riflesso del sole. Le gambe di quello di sinistra martellavano piccoli colpi a terra, i tacchi degli stivali che battevano sollevarono altre piccole vibrazioni che si unirono a quelle del motore. L’uomo piegò il gomito e lo poggiò sul ginocchio. Strinse il pugno, lo spinse sulla guancia e aprì subito la mano, coprendo metà del viso. La fronte ferma, rigida, assorbita dal palmo. L’espressione indecifrabile.

Il generale alla guida prese un piccolo respiro. Ruppe il silenzio. “Possiamo concederle solo una sosta durante il viaggio, signore.”

Francia sollevò un sopracciglio. Incrociò le braccia al petto e tornò ad appoggiare la schiena contro l’imbottitura di cuoio.

Il generale decelerò, guardò a sinistra, imboccò una curva, e raddrizzò il mezzo. “Dobbiamo arrivare a destinazione entro le quindici e mezza.”

Francia aggrottò anche l’altro sopracciglio. Una piccola smorfia gli storse un angolo delle labbra. “Una sosta?” Gli occhi volarono fuori dal finestrino di destra. La luce che passava attraverso gli spazi delle dita dell’ufficiale era ancora rossa, bassa e intensa, e tiepida. Il cielo scuro dell’alba. Francia scosse il capo e tornò a rivolgersi al generale. “Quanto potrà volerci per arrivare a Versailles?”

Un piccolo spasmo fece irrigidire l’ufficiale di sinistra. L’uomo stese le dita sul viso come se avesse voluto sprofondare nella mano.

Il generale non rispose. Il rombo dell’auto e lo scricchiolare delle ruote sull’asfalto riempirono il silenzio. L’auto avanzava, l’aria nell’abitacolo si faceva più densa, pesante nei polmoni come fossero ancora stati pieni del piombo del proiettile.

Gli occhi del generale erano incollati al parabrezza, fermi e lucidi come quelli di una bambola.

Francia vide il suo riflesso sul vetro.

L’uomo prese un piccolissimo respiro. Un lieve tremito gli fece socchiudere le palpebre. “Non siamo diretti a Versailles, signore.” L’ombra tornò a coprirgli il volto.

Francia fece scattare un sopracciglio verso l’alto. “Uh?” Si spinse in avanti sul sedile, staccando la schiena dal cuoio. “Ma l’armistizio...” Avvicinò il viso alla spalla del generale. Non riusciva comunque a vedergli il volto. “Non verrà siglato lì?”

Il generale deglutì. La luce del sole scivolò dal suo volto, svelò la pelle del viso che era diventata rigida e grigia come quella di una vecchia statua screpolata. Una riga di sudore gli corse lungo il collo. Le braccia tese lungo il volante tremarono, facendo vibrare le mani strette al cerchio. “Nossignore.” Scosse la testa. La voce riacquistò una vena di sicurezza. “Abbiamo un percorso di circa settanta chilometri al di fuori di Parigi.” Voltò la guancia. Un occhio stanco e lucido assorbì il riflesso del sole che morì inghiottito dalla pupilla. Le ramificazioni delle rughe si infossarono agli angoli delle palpebre, tremarono con lui, quando il generale mormorò la frase. “Immagino che possa aver capito da solo dove siamo diretti.”

Francia aggrottò la fronte. Un’espressione di confusione gli attraversò lo sguardo.

La strada riflessa sul vetro del parabrezza si divise in una biforcazione, come la lingua di un serpente. Insegne bianche a scritte nere erano impalate nel punto centrale in cui le due strade prendevano direzioni opposte. Francia sollevò gli occhi. Ne lesse solo una. Il primo cartello bianco, mangiucchiato da sottili granelli di ruggine agli angoli più bassi, lievemente storti e bacati.

Il cuore cadde nello stomaco. Nell’abitacolo dell’auto scese il buio, la luce del sole si spense, le sfumature rosse scivolarono dalle pareti, si sciolsero come cera e lasciarono solo una scura e fredda aria nera. Niente suoni, niente vibrazioni del motore, niente rumore di suole che battevano il tempo sul pavimento.

L’auto si avvicinò al bivio, le scritte sui cartelli si ingigantirono come racchiuse in una lente d’ingrandimento. Francia rilesse l’insegna.

 

Compiègne 65 km

 

Un amaro sbuffo di risata lo fece sussultare.

Il generale prese la strada di destra indicata dall’insegna di Compiègne. Francia si lasciò cadere nell’abbraccio dello schienale, si fece assorbire dal profumo e dall’imbottitura del cuoio. Aprì un palmo, lo stese sul volto guardando con un occhio solo attraverso lo spazio tra due dita. Un filo di capelli sfuggì da dietro l’orecchio e si intrecciò toccandogli le nocche. Francia gorgogliò di nuovo quella goffa e rauca risatina che gli fece vibrare lo stomaco. Un nodo gli strinse la pancia, ingrossò un groppo alla gola, e un peso bruciante gli pizzicò le guance e le palpebre. Gli venne da ridere, gli venne da piangere.

L’auto prese una buca, l’abitacolo sobbalzò.

Un altro colpo di proiettile gli centrò il cuore.

 

♦♦♦

 

L’aria nell’ombra della foresta era più limpida e fresca, profumava di muschio, di legno umido, e dell’aroma speziato delle foglie appena sbocciate. Sottili e tenui raggi di sole passavano tra i rami, colpivano le cime degli olmi, aprivano sottili triangolini di luce spezzettata tra i rami, scendevano e carezzavano i fusti dei pini, più scuri e in ombra, con la corteccia avvolta da macchie di licheni. Due fasci di luce bianca avvolsero il tronco di un olmo. Le screpolature della corteccia salirono in rilievo, una fogliolina si staccò da un ramo e sventolò davanti all’aria bianca, aprendo rapide scintille verdi prima di piovere a terra. I due raggi di luce si posavano sul suolo della foresta, strisciavano sullo sterrato, e risalivano lungo i lastroni di granito rosa che componevano il monumento. Germania si avvicinò di un passo. Le suole degli stivali frantumarono un grappolo di sassolini che si sbriciolò sotto la pressione. Si fermò davanti al memoriale. La sua ombra si allargò, stese un velo nero sopra la luce rosa del marmo schiarito dalla carezza del sole. Germania abbassò lo sguardo.

Fitte parole erano scalfite nella pietra, l’ombra si infossava in ogni lettera, scurendone la forma.

 

Aux héroïques soldats de France défenseurs de la patrie et du droit glorieux libérateurs de l’Alsace e de la Lorraine.’

 

L’immagine dell’aquila ad ali spiegate – becco e artigli spalancati – e della spada era incisa sopra la frase, nella parte superiore dei lastroni.

Germania aggrottò la fronte, restrinse gli occhi incrociandoli con quelli piccoli e sottili dell’aquila. Una fitta di rabbia gli chiuse lo stomaco, lo fece rabbrividire.

Il borbottio delle voci in lontananza, assorbite dalla densa aria di bosco, si infittì allo stridere delle ruote sul terreno. Il rombo di un’auto si avvicinò, borbottò tre giri di motore e si spense, facendo tornare il brusio di voci e lo scalpitio dei passi scricchiolanti sul suolo di ghiaia e terra.

Germania voltò la coda dell’occhio alle sue spalle. L’ombra dell’auto appena arrivata si unì a quella delle cime degli alberi ammassate sopra di loro.

Deboli passi gli si avvicinarono. Un ufficiale in uniforme blu della marina militare gli posò la mano sulla spalla.

“Sono arrivati, signore.” Gli parlò vicino all’orecchio.

Uni sportello si aprì e Germania si voltò verso l’auto. Era parcheggiata di fianco al vagone. La luce del sole che passava di striscio tra i fusti degli alberi colpiva il muso della carrozzeria lucidato di nero, scendeva al suolo e brillava contro il mozzicone di rotaia del binario morto, unito alle ruote d’acciaio del vagone. Il generale francese scese dal sedile del guidatore, tenne la frontiera del berretto bassa, a coprirgli gli occhi, e strinse la maniglia posteriore, tirando lo sportello verso di sé. Il primo ufficiale scese dall’auto e si mise in disparte, dietro la schiena del generale, lontano dagli sguardi dei tedeschi.

Due piedi scivolarono via dall’ombra dell’abitacolo, posarono le punte a terra, e calpestarono il suolo della foresta. La mano di Francia si appese al bordo dello sportello, il braccio si irrigidì e lo trascinò fuori dall’auto. Il generale fece un passo all’indietro, tese la mano offrendo il palmo aperto. Francia non lo guardò nemmeno. Sollevò la fronte, il pallido sole che filtrava attraverso gli alberi si posò sul suo viso, illuminò la pelle bianca, l’unica ciocca di capelli che era rimasta sulla guancia a sfiorare le labbra.

Gli sguardi si incontrarono. Due rapide scintille azzurre che si unirono come un gelido ramo di elettricità in mezzo al bosco.

Il vento soffiò, agitò i capelli di Francia sulle guance, davanti alla bocca e alle palpebre. Francia camminò in avanti, lontano dall’auto, si prese due delle ciocche sventolanti con un lento movimento delle dita, e le spostò dietro l’orecchio.

Bonjour,” disse, rivolto a Germania.

Il generale richiuse lo sportello. Il terzo ufficiale era sceso dall’altra parte dell’automobile.

Francia inarcò lievemente le sopracciglia. Una piccola piega infastidita gli attraversò lo sguardo, lo rese più sottile e tagliente. Sbuffò e mostrò la guancia a Germania. “Potresti anche fare una faccia migliore, considerata la situazione.”

Il soldato in uniforme della marina tedesca strisciò di un passo di lato, togliendo l’ombra da Germania. Una scintilla rosa si accese sul lastrone di marmo, il raggio di sole tornò a tracciare il profilo delle parole, morì inghiottito dalle incisioni sulla pietra. Francia abbassò gli occhi, fissò il memoriale, e un primo brivido di cedimento fece traballare le palpebre. Gettò lo sguardo di lato. Raccolse i capelli, li sventolò dietro la spalla, e camminò verso l’entrata del vagone.

“Le mie ginocchia stanno bene, a proposito.”

Germania lo seguì. Mani rigide dietro la schiena, espressione gelida rivolta alla carrozza ferma sul binario. Francia si fermò di fronte ai gradini, tra due ufficiali tedeschi fermi sull’attenti come due soldatini di stagno. Rivolse lo sguardo alle sue spalle, l’espressione sciolta, quasi annoiata, guardò Germania di striscio.

“Ah, e anche la ferita al petto si è cicatrizzata quasi del tutto.” Piegò un angolo della bocca in un sottilissimo ghigno. Abbassò le palpebre, facendosi scuro in volto. “Non sei felice per me? Dopotutto, è sempre stata tua intenzione risparmiarmi per arrivare a questo, o no?”

Germania gli passò di fianco senza guardarlo. Salì sui gradini, entrò nell’ombra del vagone e il grigio chiaro dell’uniforme divenne color cemento. Gli mostrò la schiena, voltò solo il capo, lanciandogli un’occhiata di sbieco.

“Entra.”

Sparì dentro la cabina.

Francia irrigidì i pugni sui fianchi. Un’ondata di rabbia gli fece piegare le spalle in avanti, lo tenne avvolto in una morsa di ferro.

Bastardo. Non ti darò la soddisfazione di cedere così davanti ai tuoi occhi.

Smise di tremare. Sollevò un piede, pestò il primo passo sul gradino, facendo squillare un eco metallico, e si aggrappò al bordo dell’entrata.

Accetterò la sconfitta.

Si spinse sull’altro piede. Calpestò il secondo gradino e sentì la prima zaffata del profumo del vagone arrivargli in faccia. Trattenne il fiato, raccolse le energie sulle gambe, sui muscoli dei polpacci, ignorando il dolore martellante alle ginocchia.

Ma mi rifiuto di mostrarmi debole di fronte a te.

Salì sul treno.

 

.

 

Il vagone odorava di cera appena laccata sulla superficie dei tavoli, di pelle vecchia scaldata dal sole, e di uniformi inamidate. Non passava un filo d’aria, le finestre erano chiuse, e l’atmosfera era umida e pesante da respirare.

Francia strinse il pugno attorno al corpo della penna fino a sentire il rilievo in acciaio entrargli nella carne. Il braccio tremò. La punta metallica macchiata d’inchiostro restò sospesa sopra la linea nera tracciata sotto i punti del trattato e la firma di Germania. Il fascio di luce bianca entrava dalla finestra alla sua sinistra, passava tra i due ufficiali fermi di fronte al tavolo, e strisciava lungo il foglio, illuminandolo come si fosse trovato sotto un riflettore.

Un velo opaco appannò la vista, una scossa di vertigini rimestò le righe dei quattordici punti, fuse i numeri romani in un’unica colonna nera di fianco al muro di testo sfocato.

Francia scosse il capo e distaccò lo sguardo dal foglio del trattato. Sollevò lo sguardo dal tavolino verde, incrociò gli occhi bassi di Germania fissi su di lui dall’altro lato del banco. Gli rivolse una smorfia e guardò il piccolo corridoio illuminato dalla doppia fila di finestre. Le lampade a muro – lunghi petali di vetro chiusi attorno al bulbo della lampadina – erano spente. Sottili tendine di velo bianco tappavano i vetri, trattenevano l’abbaglio del sole che si scontrava sulla pelle rossa delle sedie e sulla morbida colorazione delle pareti in mogano. Tre ufficiali erano fermi davanti alla parete divisoria che separava i due scompartimenti del vagone. Uno di loro mosse un passo di lato, infilò due dita in una tendina, scostò il velo e sbirciò fuori. Lasciò il panno e si rimise sull’attenti tra i due colleghi.

Francia ribaltò la penna e tamburellò il tappo sulla superficie del tavolo, sull’angolo buio, immerso nell’ombra della scatola del telefono. Una radio di forma rettangolare – quadrante stretto e sottile diviso da una freccia rossa – era piazzata nella parte di tavolo di Germania. Radio e telefono erano rimasti zitti per tutta la riunione. Come il resto dei partecipanti.

Il rumore della penna che batteva sul tavolo era come il lento, costante e incessante ticchettio di un orologio. Francia si prese la fronte in un palmo, piegò il gomito sul bordo del tavolo, e tornò ad abbassare gli occhi sul foglio del trattato. La luce del sole si era lievemente abbassata. La carta aveva assunto un colorito arancio. Lo sguardo di Francia corse subito all’ultima riga, poco più sopra della pesante firma di Germania.

 

‘Questo accordo di armistizio è firmato nella foresta di Compiègne, giugno 22. 1940, alle 6:50 pm, ora legale tedesca.’

 

Sorvolò la firma di Germania e lo spazio ancora vuoto riservato alla sua. Andò all’appendice.

 

‘La linea accennata nel II articolo dell’accordo dell’armistizio inizia a est, sul confine Franco-Svizzero...’

 

Chiuse gli occhi, strinse il pugno sulla penna, e si stropicciò le palpebre facendo pressione con le nocche. Cominciavano a pizzicare, gli occhi bruciavano, si stavano appesantendo e facevano fatica a rimanere aperti.

Francia passò il palmo lungo il viso, raschiò via il velo di stanchezza, e chinò le spalle sul tavolino.

Inforcò la penna. Spinse la punta contro la riga vuota, la mano corse con un gesto secco e rabbioso. Si sentiva l’estremità metallica spingere sulla carta e grattare contro il legno del tavolo.

 

France

 

Un piccolo ghirigoro tremolante sbavò la lettera ‘e’ finale.

Schiuse le dita. La penna scivolò dalla mano, rimbalzò sul foglio, rotolò al bordo della pagina e si fermò scontrandosi con la base del telefono.

Qualcuno si mosse alle sue spalle, Francia sentì il suono delle suole di gomma che scricchiolavano sul legno del pavimento e del frusciare dell’uniforme.

Due braccia fasciate dalla divisa tedesca comparvero al suo fianco, le mani si allungarono e raccolsero il fascicolo di carte stese sotto il suo naso.

“Questo era l’ultimo.” L’uomo allineò i fogli e batté i lati corti sul tavolo per pareggiare le carte. “Avete compreso ogni punto del trattato?”

Francia tornò a prendersi la fronte nel palmo. Voltò lo sguardo nel punto in cui il bordo del tavolino si univa alla parete, proprio dentro il fascio di luce che entrava dalla finestra. Il profilo della penna scintillava. Francia posò gli occhi sulla punta ancora macchiata di nero che toccava la base del telefono, e sospirò.

“Sì.” Il tono amaro e rassegnato.

L’ufficiale tedesco imbracciò le carte, le tenne strette sul fianco. “Qualche domanda?”

Francia gorgogliò una risata. Voltò il capo senza togliere la fronte dal palmo, i capelli fluirono di lato e si raccolsero tra le dita e sulle nocche. Scoccò una rapida occhiata all’uomo. Inasprì il tono, parlandogli da dentro la penombra. “Questo avresti dovuto chiedermelo prima di farmi firmare.”

L’uomo sussultò. Un leggero spasmo lo fece sbiancare, e lui strinse i fogli con più forza.

Francia ruotò gli occhi davanti a sé senza spostare la posizione del capo. Sollevò le sopracciglia, simulando un’espressione di rimprovero rivolta a Germania. “La tua rappresentanza non sa nemmeno amministrare un semplice armistizio?” Un leggerissimo sorriso di sfida gli piegò le labbra.

Germania aggrottò la fronte e non aprì bocca.

Si guardarono. La luce della finestra brillava sui visi di entrambi, ma erano solo gli occhi di Germania a bruciare come ghiaccio rovente.

Francia lasciò scivolare il palmo dalla fronte alla guancia, restò poggiato di peso sul gomito, e rivolse lo sguardo al muro di lato, dove era rotolata la penna.

“Nulla da ridire,” biascicò. Sollevò la mano libera e la sventolò contro l’ufficiale tedesco come stesse scacciando una mosca. “Portate via queste scartoffie.”

L’ufficiale irrigidì. La carta sotto il suo braccio frusciò. “Sissignore. Cioè...” Tossicchiò, girò i tacchi e trapassò il raggio di luce andando verso gli uomini fermi all’entrata. “A-andiamo.”

La sedia all’altro capo del tavolo sfregò le gambe al suolo, l’ombra di Germania si stese sulla parete, si immerse nella lama di sole che filtrava dalle tendine.

Francia ruotò un occhio, seguì il suo profilo che si allontanava, dandogli la schiena. Una piccola scossa di vitalità lo pizzicò alla base del collo, come un morso.

“Ricordati il mio discorsetto, Germania.”

Germania voltò il capo all’indietro. Gli occhi freddi come sfere di ghiaccio erano immobili, bordati dall’ombra delle palpebre.

Francia lasciò scivolare la mano dal viso, le dita corsero attraverso i capelli, sfiorarono il collo, e tese l’indice verso di lui.

“Un giorno, quando sarai tu a cadere, ti pentirai di non averlo ascoltato.”

L’occhiataccia di Germania arrivò come un altro colpo di pistola al petto. Si voltò di scatto. La sua voce bassa e lenta tagliò in due l’aria fitta e pesante del vagone.

“Addio, Francia.”

I passi batterono sul pavimento di legno, scesero i gradini, fecero cigolare il metallo, e morirono in un sottile e lontano eco che si disperdeva sul suolo della foresta. Scesero anche gli ufficiali tedeschi. Rimasero il generale francese – ancora fermo all’entrata del vagone – e gli altri due ufficiali che lo avevano accompagnato in auto.

L’intenso odore di pelle e cera per legno iniziava a bruciare la gola. Francia abbandonò le spalle sullo schienale della sedia, e l’imbottitura ammortizzò il colpo. Occhi bassi, opachi, seguivano il fluttuare dei grani di polvere accumulati nel fascio di luce che strisciava sul tavolo e si arrampicava sulla parete. Il luccichio della penna continuava a scintillare sotto il telefono.

Il tavolo era vuoto. Una grande piana di legno su cui sembrava essere rimasta la lucida impronta rettangolare dei fogli. E quella dannata penna ancora scappucciata, sporca di lurido inchiostro sulla punta che aveva toccato quelle pagine, ferma nell’angolo, brillante come stesse strizzando l’occhiolino.

Francia piegò entrambi i gomiti sul bordo della tavola e si prese il capo tra i palmi. I capelli scivolarono tra le dita, avvolsero le mani come lunghi e sottili tentacoli biondi.

Finito. Tutto finito.

“Signore.”

La voce di uno dei due ufficiali ancora alle sue spalle gli fece sollevare un occhio. Una scintilla azzurra lo osservò da uno spazio tra le dita.

L’ufficiale si chinò in avanti, aprì una mano e gli sfiorò la spalla.

“Va...” Una piega di preoccupazione gli intristì il volto. “Va tutto bene, signore?”

Francia annuì con un sospiro. “Sì, chere. Lasciatemi...” Tornò a guardare il tavolo. I grani di polvere divennero una macchia grigia sfocata. Gli angoli delle palpebre pizzicarono, un pesante velo opaco si stese davanti agli occhi. “Lasciatemi da solo per qualche minuto.”

Lo sfioro dell’ufficiale gli lasciò la spalla. “Come desidera.”

Le figure dei tre uomini abbandonarono il vagone come tre ombre, scesero dal treno lasciandolo vuoto, silenzioso.

La polvere continuava a ondeggiare, il sole continuava a riscaldare il tavolo, a schiarire il legno con riflessi mielati, la penna continuava a scintillare addosso al telefono. Francia sollevò un braccio, lentamente, ascoltando il tiepido frusciare dell’uniforme che sfregava la pelle. Aprì il palmo tremante sul petto, spinse le dita contro le cuciture della tasca sinistra. Il cuore continuava a battere. Timido, debole. Il peso sulle costole si aggravava a ogni palpito. Ma batteva. Francia socchiuse le labbra, inspirò ed espirò con la bocca, i piccoli sibili gonfiavano il petto che alzava e abbassava la mano aperta sull’uniforme. Un altro battito pulsò contro il palmo. La vibrazione si espanse attraverso una violenta scossa, risalì il collo e si strinse alla gola come una zampa artigliata.

Con un sospiro, Francia si accasciò sul bordo del tavolo, immergendosi proprio dentro il fascio di luce. Incrociò le braccia, tuffò il viso negli incavi dei gomiti, e i capelli fluirono sul ripiano di legno. Sfregò la guancia contro il braccio, socchiuse un occhio guardando da dietro una ciocca che era rimasta a ciondolare davanti al viso. L’occhio inumidito traballò. L’azzurro dell’iride si schiarì, brillò sotto la luce, e si sciolse in una piccola goccia di lacrima.

L’unica linea di pianto scese lenta e silenziosa, rigò il viso, e finì assorbita dalla stoffa della manica.

 

♦♦♦

 

Il fascio di luce proveniente dalla finestra si era tinto di blu. Una luce bassa e scura, un indaco sfumato da sottili riflessi verdi emanati dalle chiome degli olmi e degli abeti. Il raggio del tramonto seguiva una diagonale che divideva il vagone in due, risaliva il tavolino delle trattative, brillava sul capo di Francia ancora tuffato tra le braccia incrociate, e allungava l’ombra del telefono lungo la parete. La penna scapucciata non scintillava più. L’inchiostro sulla punta si era seccato.

Francia socchiuse una palpebra, guardò attraverso i capelli che fluivano sulle guance, ricadevano sulle braccia annodate e si spargevano sul tavolo, e inquadrò la luce della finestrella. La tendina si era colorata di blu. Le ombre dei rami si erano ingrossate, le sagome nere si allargavano come radici lungo il sottile panno steso davanti al vetro. Francia sbatté le ciglia, emise un lungo sospiro. Voltò il capo verso la parete e tornò a chiudere gli occhi.

Dei passi che premevano sul suolo della foresta, facendo scricchiolare i sassolini e i ramoscelli piovuti dagli alberi, gli pizzicarono le orecchie. Il rumore della camminata si avvicinò. I tacchi degli stivali batterono sui gradini metallici, espansero piccole vibrazioni lungo il pavimento della carrozza. Francia sentì il primo groviglio di irritazione ingarbugliarsi nel petto, premere sulle costole. Tre passi. I piedi si appoggiarono al tappetino che rivestiva il corridoio.

“Ehi.”

La voce di Inghilterra gli annodò lo stomaco. Una mano di Francia stesa sul tavolo, raggrumata sotto l’intreccio di braccia, si strinse a pugno. Le unghie scalfirono un sottilissimo strato di legno lasciando cinque segni gialli sul mogano. Francia storse una smorfia ancora prima di sollevare il viso dall’incavo dei gomiti. Ruotò verso l’alto gli occhi affaticati, fece strusciare la fronte contro le braccia, e sbatté le palpebre un paio di volte per far svanire la patina opaca che gli appannava la vista. L’immagine sfocata di Inghilterra, fermo tra i due scompartimenti del vagone, gli fece salire un conato di rabbia.

Francia sbuffò, inclinò il capo di lato. “Che ci fai qui?” Groppi di capelli scompigliati si adagiarono sul viso. Francia non li toccò.

Inghilterra incrociò le braccia al petto. Poggiò la spalla allo stipite dell’entrata divisoria, e accavallò le ginocchia, sollevando la punta del piede.

“Visita di passaggio.” La luce del tramonto che passava dalla finestra lo colpiva di lato. Riflessi blu coloravano la guancia, scurivano le ombre dei ciuffi della frangia sparpagliati sulla fronte. “Quando ho saputo dell’armistizio sono partito subito, ma non posso trattenermi a lungo.”

La smorfia infastidita di Francia si capovolse in un accenno di sorriso. La punta di amarezza rimase. “Oh,” piegò un gomito sul tavolo e spinse le nocche contro la guancia, “sei venuto solo per infierire.” Non era una domanda. Assottigliò le palpebre. Gli occhi brillavano nel buio della penombra.

Inghilterra aggrottò la fronte. “Piantala,” sbottò. “O lo farò veramente.”

Francia scosse le spalle con uno sbuffo. “Pft...” Prese due fili di capelli tra le dita – la mano tremava ancora leggermente – e li spostò dietro la spalla. I capelli ricaddero sul viso. Francia arricciò la punta del naso. “Questo tuo falso sentimentalismo è raccapricciante.”

Gli occhi di Inghilterra rotearono al soffitto. Inghilterra diede un piccolo colpo d’anca alla parete e poggiò a terra il tallone del piede che teneva sollevato sulla punta. Il ginocchio cedette in un piccolo spasmo e la gamba tornò dritta. Era il piede colpito dal proiettile di Germania.

“Gli ufficiali fuori sono preoccupati.” Inghilterra fece due passi avanti, si immerse nel raggio di luce bluastra che gli scivolò sul fianco come un panno. Si fermò davanti al tavolino. Il viso scuro, il tono indurito. “È da ore che sei chiuso qua.”

Francia voltò lo sguardo, rimanendo appoggiato sul pugno affondato nella guancia. Fece schioccare la lingua e sventolò la mano. “Tanto non andiamo da nessuna parte.” Tornò a incrociare le braccia sul tavolo e si immerse nell’intreccio. La voce uscì ovattata dalla stoffa, ma conservò la vena stizzita. “Che io resti ingabbiato qui o che ritorni a Parigi non fa alcuna differenza.” Sospirò. La schiena si gonfiò, tornò bassa, le spalle si accasciarono.

Inghilterra spostò lo sguardo di lato, attirato da una minuscola scintilla d’argento che brillava vicino alla parete, ai piedi della scatola sostenitrice del telefono. Il beccuccio della penna sporca d’inchiostro era rivolto verso di lui, stretto, sottile e appuntito come una freccia. Sullo strato di inchiostro seccato si accumulò una piccola goccia nera. Una punta di luce brillò sulla perla di inchiostro, scese, e ne accompagnò la caduta. Una macchia nera si aprì sul tavolo, sporcò il legno tirato a lucido. Era una freccia già sporca di sangue.

Inghilterra abbassò le palpebre e sospirò. “Senti.” Passo in avanti. I piedi calpestarono il pavimento con più decisione. “Sono venuto per dirti che...”

Francia sollevò la fronte.

Inghilterra aspettò che i loro sguardi tornassero a incrociarsi prima di proseguire. Prese un respiro più profondo, gonfiandosi il petto, e sollevò il mento. “Io ho intenzione di combattere.”

Francia aggrottò un sopracciglio. La bocca rimase nascosta nell’incavo dei gomiti, la punta del naso sfiorava le braccia.

“Io sono con ogni probabilità il prossimo obiettivo di Germania, ora che ha finito con te,” disse Inghilterra. Strinse le braccia al petto e voltò gli occhi verso la finestra al suo fianco. La luce blu gli abbagliò il viso. “Sicuramente cercherà di persuadermi, tenterà prima un approccio pacifico cercando di convincermi a un accordo di pace, raggirandomi con qualche trattativa.” Scrollò le spalle. “Voglio solo che tu sappia fin da subito che non cederò a questo. Lo sconfiggerò e riporterò l’ordine in Europa,” piccolo respiro, il tono di voce divenne più basso, “anche se la mia decisione dovesse mettere a rischio la sicurezza di qualche altro paese.”

Il nodo allo stomaco tornò ad aggrovigliarsi, salendo fino al petto. Francia sentì di nuovo il proiettile, la consistenza dura e metallica conficcata nel polmone, che sbatteva a ogni respiro tra le costole incrinate, bloccando l’aria in gola. Ignorò la fitta di dolore e prese un forte respiro dalle narici. Premette le mani sul tavolo. La fronte bassa, nascosta nell’ombra.

“Oh. Dunque...” Si alzò. Le gambe della sedia strisciarono lentamente all’indietro. “Tu arrivi qui, dopo il termine di una campagna logorante che mi ha quasi ucciso,” si spostò davanti a Inghilterra, lo guardò in faccia, dritto negli occhi, a sopracciglia corrugate, “solo a dirmi che non intendi far fare alla tua nazione la miserabile fine della mia.” I primi tremori scossero i pugni stesi sui fianchi.

Inghilterra abbassò le palpebre. Il viso disteso e rilassato. “È giusto essere onesti.”

Il pugno arrivò dritto sulla guancia, le nocche spinsero contro lo zigomo e ribaltarono il capo di Inghilterra fino a fargli toccare la spalla con il mento. Francia stese il gomito. La spinta del pugno sbatté Inghilterra alla parete, facendogli scontrare il fianco sulla cornice della finestrella. Inghilterra barcollò, aprì le mani al muro, si tenne aggrappato con le dita, e rivolse lo sguardo intontito a terra. Sbatté le palpebre. Una scossa di sorpresa gli balenò tra gli occhi. Staccò una mano dal muro e aprì il palmo sulla parte di viso già gonfia e arrossata. Le dita sfiorarono lo sfregio del pugno, un lieve scatto delle sopracciglia gli stropicciò lo sguardo in una smorfia di dolore.

Francia si voltò di scatto, mostrandogli il profilo. Raccolse il pugno vicino al petto e si massaggiò il polso.

“Questo è per lo schiaffo che mi hai rifilato nella foresta.” Tenne pollice e medio uniti attorno al polso, a massaggiare le ossa. Piegò un sottile sorriso che gli incavò due fossette nelle guance. “Di solito agli schiaffi reagisco in tutt’altra maniera.”

La mano di Inghilterra ferma sulla guancia tremò. Inghilterra strinse i denti, premette le dita contro la pelle del viso e sollevò il pugno vicino alla bocca.

“E quello lo chiami pugno?”

Si spinse via dalla parete con una spallata. Pestò un passo, piegò il gomito di fianco, e rifilò il colpo di nocche sul viso di Francia, dal basso verso l’alto. Francia balzò all’indietro di un passo, posò il dorso della mano sulla guancia, ma restò in piedi. Tenne il fianco della mano accostato al viso, come a nascondere il segno del pugno, e trafisse Inghilterra con un’occhiataccia.

Inghilterra raddrizzò le spalle. Prese due rabbiosi respiri che gli gonfiarono ulteriormente la guancia colpita. Sollevò anche l’altro pugno, tenendolo davanti al petto. L’altro a proteggere il viso.

Inghilterra inasprì il tono arrochito dai respiri affannati. “Se avessi usato le mani in questo modo durante la battaglia adesso non saresti qui a piangerti addosso!”

Sotto il fianco della mano, la bocca di Francia si piegò in un sorriso aguzzo. Un lampo attraversò lo sguardo. “Oh, questo è certo.” Fece strisciare le nocche sulla parte rigonfia della guancia, e chiuse le dita in uno scatto. “I pugni migliori li ho risparmiati per te.”

Si slanciò in avanti. Inghilterra scivolò di un passo all’indietro, alzò i due pugni per riparare il viso. La mano di Francia gli sfiorò i polsi, passò tra le due braccia e prese in pieno la bocca. Inghilterra gettò il capo di lato con un mugugno, rimbalzò di nuovo alla parete e si aggrappò al muro.

Francia ritirò il pugno. Un sottilissimo strato di saliva gli bagnava le nocche.

Inghilterra arricciò le labbra. Passò la mano sulla bocca e raschiò via una striscia di sangue che sgorgava dal taglio sulla carne. Una smorfia di disgusto gli storse il naso. Si morse il labbro assorbendo il sapore ferroso del sangue, e tornò a mettersi con le spalle dritte, sotto il raggio di luce.

“Pensavo che non avessi bisogno di un pestaggio per mandare al tappeto qualcuno...” Incrociò due passi storti di lato, barcollò verso la finestra, e tornò in equilibrio. Spalancò le braccia, inchinò le spalle. Una smorfia di disprezzo deformò il ghigno e storpiò la voce. “Nazione dell’Amore.”

Francia sollevò un sopracciglio. Le dita che massaggiavano il polso scivolarono dal braccio, si aprirono al soffitto. “Vuoi che ripeta il gioco anche con te?”

Un piccolo spasmo di indecisione attraversò lo sguardo di Inghilterra. Il volto rimase per metà nel buio e per metà contro luce del tramonto. L’ombra della mano era ancora alta davanti alla bocca.

Francia raddrizzò le spalle. Il passo traballò di lato, i piedi si incrociarono, il fianco batté sul tavolo, ma lui rimase in piedi.

“Dopotutto...” Aprì il palmo sulla guancia e massaggiò la pelle arrossata. “Tu e Germania non siete poi così diversi.” Scrollò le spalle e guardò di lato. “Orgoglio, testardaggine...” La mano si fermò, le dita premettero sullo zigomo. “Come hanno rischiato di affondare te in passato affonderanno anche lui. Anche se combattete per motivi diversi.”

Inghilterra fece stridere i denti. “Non ci provare,” ringhiò. Pestò un passo in avanti, il piede ferito vacillò, e Inghilterra dovette aggrapparsi al bordo del tavolo. Affilò lo sguardo. Il labbro ferito lacrimò una sottile riga di sangue che scese da un angolo della bocca. “Germania si sarà anche bevuto la tua brodaglia sentimentale, ma dovresti sapere che con me non funziona.”

Gli sguardi tornarono a incrociarsi.

Le ombre riflesse sul velo della tendina si stesero, le sagome dei rami si unirono, allungarono una macchia nera che immerse il vagone nel buio.

“Sai cosa gli ho detto, quella volta?” chiese Francia. Sollevò un piede, spostò un passo verso la finestra.

Gli occhi di Inghilterra lo seguivano, le pupille ruotavano nel buio, accerchiate dal sottile filo verde dell’iride.

“Gli ho detto che la guerra è il suo unico pretesto per stare affianco a colui che ama.” Francia si fermò contro la parete, dietro il raggio di luce blu. Prese un respiro. “Con te è l’opposto.” Sollevò gli occhi, li immerse nel fascio. “Tu ci provi gusto nel farti nemico il mondo, ti vanti dell’isolamento, del tuo distacco dagli altri. Tu lotti apposta per questo, per tenerti a distanza.”

Le braccia di Inghilterra cominciarono a tremare. Le sottili vibrazioni si trasmisero al bordo del tavolo, le unghie graffiarono il legno.

Francia alzò la voce. “E sai perché?”

Inghilterra restrinse lo sguardo, gli lanciò una secca occhiata di sfida. La tensione gli strozzava la gola, chiudeva le parole nel petto.

Francia tolse la spalla dalla parete e aprì il palmo sulla finestra. Dall’ombra che si infossò nella tendina schizzò una corona di raggi blu che lo immerse nella luce del tramonto. Francia inspirò, si gonfiò il petto di aria bruciante. “Questo è perché ti fa troppo male quando vieni inevitabilmente scaricato!”

Fiamme vive si accesero negli occhi di Inghilterra. Il fuoco gli divorò il viso, infiammò le guance già rosse per il pugno, inglobò lo sguardo in un abbraccio rovente.

Il pugno stretto sul tavolo pulsò, le nocche sbiancarono, le unghie raschiarono via cinque profondi solchi sul legno. Inghilterra raccolse il pugno sopra la spalla, inspirò tra i denti stretti che sapevano di sangue, trattenne il fiato nel petto, dove la rabbia ribolliva, e scaricò il peso sul passo pestato in avanti. Scaraventò il colpo di nuovo sulla guancia. Il viso di Francia si ribaltò, ma lui non si mosse dalla parete. Riaprì gli occhi. Il braccio di Inghilterra era ancora steso davanti ai suoi occhi. Gli agguantò il polso, abbassò il suo pugno, e si avvitò all’indietro, rifilandogli un colpo sul naso. Inghilterra emise una smorfia di dolore. Si piegò sulla pancia, chiudendo una mano a coppa dove lo aveva colpito. Gli occhi strizzati per il dolore. La riga di sangue che usciva dal labbro aveva raggiunto il mento.

Francia emise uno sbuffo di soddisfazione. Si ripulì la guancia colpita, il palmo sempre aperto vicino alla finestra, e sollevò gli occhi.

“Arrivi da me...” Respirò a fatica. Il braccio sollevato verso il viso tremò. L’aria entrava e usciva sibilando, come dopo una corsa. “A farmi la predica sul piangermi addosso...” Altri affanni risucchiarono le parole.

Inghilterra tornò a voltarsi. Tolse la mano dal naso e ne poggiò il dorso sullo spacco delle labbra da cui usciva il sangue. Restò in attesa, ingollando anche lui pesanti respiri a bocca aperta.

Francia strinse le dita sul muro. Piegò le spalle, rigettando il fiato in un impeto di rabbia. “Chi c’era a batterti la mano sulla spalla quando eri tu a farlo?”

Inghilterra si morse il labbro. Altro sangue gli invase la bocca, scese la gola e inacidì la voce. “Bastardo.”

Si gettò in avanti. I pugni macchiati di rosso già stesi contro la luce della finestra.

 

.

 

Non passava più luce attraverso la tendina. Il fitto e freddo buio della foresta si specchiava contro il vetro della finestrella, addensando il nero che riempiva il vagone del treno. Era notte.

Francia cadde di schiena sul pavimento. Braccia spalancate, una mano a sfiorare la gamba del tavolo, pancia e viso rivolti al soffitto. Il capo sfiorò la spalla di Inghilterra, le orecchie si toccarono, si trasmisero le vibrazioni dei respiri pesanti e arrochiti dagli sforzi della lotta. Le bocche socchiuse risucchiavano la densa aria speziata del vagone che scendeva ad arrochire le gole, a gonfiare i polmoni doloranti. Francia non riusciva a vedere il corpo di Inghilterra sussultare dalla fatica, ma sentiva i tremori correre sul pavimento e battere contro la sua schiena. Francia aprì e chiuse le dita sull’aria come stesse spremendo due sfere di gomma. Le screpolature delle nocche bruciavano, le giunture delle dita scricchiolarono scaricando forti scosse di dolore.

Inghilterra prese un respiro più profondo. Si bagnò il palato, probabilmente ancora sporco di sangue del labbro, e buttò fuori l’aria. “Ma che diavolo stiamo facendo?”

Francia ridacchiò. “Gli idioti.” Si toccò la guancia destra, sul rigonfiamento più pronunciato, e fu come darsi un pizzicotto con una mano artigliata. Strizzò l’occhio per il dolore. “Oh, be’, all’idiozia non c’è limite.” Sollevò la mano immergendola nel buio, cercando uno sprazzo di luce in cui affondare la pelle per esaminarla. Rigirò il palmo, rimestando la mano nel nero. Tornò ad abbassarla e la posò sulle labbra. La pelle era asciutta, non aveva perso sangue. Francia tornò a braccia spalancate, come inchiodato a una croce, e scrollò le spalle urtando quella di Inghilterra. “Non ce le davamo di santa ragione da...”

“Dall’inferno di Verdun.” Il respiro di Inghilterra divenne più lento e regolare. Sollevò il braccio spostando un soffio d’aria vicino all’orecchio di Francia, e si sfregò la manica sulla faccia. “Eravamo bloccati in trincea da una settimana, uno appiccicato all’altro senza mangiare e senza dormire. Sfido che poi eravamo impazziti.”

Francia rise di nuovo. Una risata più soffice e naturale, ogni traccia di amarezza e disprezzo era svanita come la luce del sole.

“Be’, ogni tanto ci vuole,” disse con un ultimo sbuffo divertito.

Inghilterra emise un debole grugnito di disapprovazione. “Abbiamo scelto il periodo meno adatto.” Lasciò scivolare il braccio dal viso, tornò a spalancarlo e le dita si intrecciarono a una ciocca di Francia sparpagliata sul pavimento. Inghilterra emise uno sbuffo con una vena sarcastica. “Pestarci a vicenda...” Scosse il capo – Francia sentì la sua testa sfregargli la spalla – e liberò un sospiro sconsolato. “Ci manca davvero solo questa.”

“E comunque ho vinto io, tu sei atterrato per primo.”

Inghilterra fece schioccare la lingua tra i denti. Voltò il capo dalla parte opposta a quello di Francia e schiacciò la guancia sul pavimento. “Ci sono andato piano solo perché sei già messo abbastanza male.”

“Ooh...” Francia rotolò su un fianco. Staccò un braccio da terra, allungò l’indice e gli punzecchiò la guancia in un punto dove non scottava per i pugni incassati. “Quelle bonté, Angleterre.” Lo schiaffo di Inghilterra gli fece ritrarre il braccio.

Francia ritornò in posa da crocifisso, fissando il nero del soffitto. Aprì di nuovo il palmo sulla guancia, nello stesso punto di prima, e massaggiò lo zigomo gonfio e screpolato. Bruciava ed era caldo. Francia piegò una smorfia. “Tra tutti i posti in cui potevi colpirmi, hai insistito proprio in faccia.” Lasciò scivolare la mano a terra. “Il mio povero viso è preso un po’ troppo di mira ultimamente.”

Inghilterra sbuffò. Il capo rimase voltato, il respiro più lento e regolare soffiava dalla parte opposta del viso di Francia. Mosse la mano stesa sul pavimento, districò le dita dai capelli di Francia, glieli lanciò sul viso, e tornò ad aprire il palmo.

C’era silenzio. Il legno del vagone scricchiolava a piccoli singhiozzi, assorbendo l’umido e il freddo della notte della foresta. Le imposte delle finestre gemettero sotto il vetro che diventava più freddo e il metallo dei cardini che si restringeva.

Inghilterra prese un piccolo respiro. “Adesso che farai?” La voce era ancora lievemente arrochita. Il taglio sul labbro e i rigonfiamenti sulle guance dovevano bruciare.

Francia tenne gli occhi aperti. Fissò il nero. “Prima di tutto metterò su un bel movimento di resistenza.” Scrollò di nuovo le spalle, piegando un amaro sorriso che né lui né Inghilterra potevano vedere. “In fondo, la mia intera vita si basa sulle proteste.” Le labbra tornarono piatte. Il tono serio e profondo. “Adesso sarò anche diventato il fantoccio di Germania, ma non mi farò mai trattare come tale,” strinse un pugno sul pavimento, anche se la pelle bruciava, “dovessi davvero morire per impedirglielo.”

Inghilterra annuì. “Questo è lo spirito.”

Francia sfregò la nuca per terra, sollevò il mento e inarcò il collo all’indietro cercandogli il viso. Un sottilissimo raggio di luce più chiara percorreva il corridoio del vagone, si allungava arrampicandosi sul corpo di Inghilterra, e sbiadiva sul biondo dei capelli arruffati sulla fronte sudaticcia. Era ancora voltato. Francia gli vide solo la guancia arrossata – un livido più scuro, color melanzana, circondava la palpebra – carezzata dalla tenue luce della luna.

“Hai...” Francia tornò a rilassare i muscoli della schiena. Fronte al soffitto. “Hai davvero intenzione di gettarti a capofitto nella lotta o lo dicevi così per stuzzicarmi?”

Inghilterra sbuffò una risata. Voltò il capo, l’orecchio sfiorò quello di Francia. “Ti sembra la faccia di uno che scherza?”

Francia strisciò di un saltello di lato per guardarlo meglio. I respiri si mescolarono. Il raggio di luna batteva sul viso martoriato di Inghilterra, addensava le ombre sulle guance sfregiate, anneriva i lividi viola bordati da aloni verdastri che toccavano le palpebre, brillava sul labbro inferiore lucido di sangue. Inghilterra aggrottò le sopracciglia, corrugò la fronte, e le ciocche spettinate si mossero davanti agli occhi. Le fiamme verdi che avevano bruciato durante la lotta non si erano ancora spente.

Francia chiuse gli occhi e tornò a rivolgere il naso al soffitto. “No, mi sembra la faccia di uno che le ha prese di brutto e che sta per prenderle di nuovo.”

“Ah!” Inghilterra lo imitò, tornando a guardare in alto. “Questo lo vedremo.” Strinse un pugno, colpì il pettorale sinistro. “Vedremo con che faccia Germania oserà fronteggiare la potenza dell’Impero Britannico.”

Un sottile ma sincero sorriso stese le labbra di Francia, increspò una delle botte sulla guancia. “Distruggilo.” Chiuse anche lui il pugno, e lo rivolse di lato, porgendolo a Inghilterra. “Distruggilo e portaci fuori di qua.”

Inghilterra esitò per un istante. Anche lui sorrise. Un sorriso sfacciato, gonfio di orgoglio e sfrontatezza. Sollevò il pugno dal petto e batté le nocche contro quelle di Francia.

“E c’è da dubitarne?”

I pugni rimasero uniti dentro il fascio di luce. Una sottilissima gocciolina di sangue scese dagli sfregi che sbucciavano la pelle di entrambi, scorse tra le nocche, bagnò le dita, e precipitò a terra. L’ultima goccia di sangue versata durante la campagna francese aprì un piccolo disco rosso sul pavimento imbiancato dalla luce lunare.

 

.

 

Diari di Francia

 

Aah, la faccenda del vagone letto! So che suonerà strano, detto da me, ma non ho mai sofferto per un’umiliazione come in quel momento. Credo che questa sia una raccolta di testimonianze serie, dunque cercherò di andarci piano con i termini e con i doppi sensi. Per quanto mi sia possibile.

La storia del treno in realtà è ben più complicata di quello che sembra. Mi costringe a tornare indietro, credo fosse l’undici novembre del Diciotto, o giù di lì, sempre alla fine del Primo Conflitto, comunque. Germania a quel tempo poteva già definirsi sconfitto, gli eserciti si stavano sciogliendo, i territori stavano tutti tornando in mano nostra e, dopo il gran colpo di spada, ora era la volta della penna. La firma di un armistizio è sempre un avvenimento molto pesante e contrastante da affrontare, sia che tu ti trovi da una parte che dall’altra. Io stesso non nego di aver provato un gonfio senso di soddisfazione e – questo posso dirlo? – una certa libidine, la prima volta, nel vedere Germania piegato sul tavolo, a capo chino rivolto sul documento, mentre firmava il trattato che avrebbe stabilito la mia vincita nei suoi confronti. Eravamo proprio nel vagone di Rethondes, posteggiato sul binario morto nella stessa foresta di Compiègne. Credo che, in quel lontano novembre, Germania abbia letto quel sottile senso di soddisfazione sul mio viso. Era effettivamente un armistizio come un altro, nulla di più che una semplice resa formale, ma il fatto di aver inscenato tutto quasi teatralmente e di aver fatto di quello stesso treno un simbolo della supremazia del mio paese... Non so, credo che gli sia rimasto come un piccolo e pungente sassolino nella scarpa che non era mai riuscito a togliersi, anche dopo anni trascorsi dal fattaccio. Probabilmente avrei dovuto aspettarmi una qualche reazione da parte sua. Insomma, il treno poi è finito in un museo, ho fatto addirittura deporre una targa di commemorazione nel punto in cui si era tenuta la firma del trattato. Forse, uhm, potrei averne un pochino approfittato. Inghilterra ha addirittura insinuato che sono andato a cercarmele. Aveva già storto il naso a suo tempo, quando ero corso da lui sventolando il trattato e raccontato del ricevimento. Ha piantato un broncio che gli è rimasto incollato per settimane, ha brontolato qualcosa sullo strafare, sul non venire a lamentarmi del fatto che poi questa cosa si sarebbe rivoltata contro di me, e io gli ho detto: “Oh, dai, sai che mi piacciono le cose rudi!”

In ogni caso, quello che ha fatto Germania in seguito non ha nulla a che vedere con il mio atteggiamento... non lo definirei esattamente provocatorio, uhm, magari punzecchiante, questo sì. La mia non voleva essere un’umiliazione nel senso stretto del termine. Lui l’ha fatta diventare tale. È come se, rievocando lo stesso ambiente, la stessa atmosfera nello stesso treno e nella stessa foresta avesse voluto dirmi: “Ecco, ora sei tu dall’altra parte del foglio.” Si è trattata di pura e semplice vendetta, nulla di più. Ottima toccata, devo ammetterlo. Avevo già il morale sottoterra per com’era andata la campagna, per la sconfitta e la fuga a Dunkerque, la fondazione di Vichy e, Mon Dieu, per il fatto di averle prese anche da Italia!

Chiamare quello ‘colpo di grazia’ non rende il senso del termine. È semplicemente stata l’ultima umiliazione per mettermi definitivamente fuori gioco. Concedimelo, ti prego, ma è stato davvero l’orgasmo finale dopo il mega amplesso. Ah, questi paragoni rendono sempre!

Tornando con i piedi per terra, per me quello è stato davvero il momento più degradante dell’intero conflitto. Prendendola personalmente, mi ha toccato forse ancora di più che il successivo massacro in Normandia.

C’era già qualcosa che era profondamente cambiato in Germania. Io possiedo una certa sensibilità innata, ma non sarebbe stato difficile capirlo comunque. Il... piccolo confronto che c’era stato tra me e lui nel bosco di La Marfée era stato la conferma iniziale. Mai in tutta la mia vita avevo visto occhi del genere. Quello non era semplicemente lo sguardo di qualcuno in cerca di vittoria, no, quello era lo sguardo di qualcuno che sarebbe stato disposto al massacro per averla. Non so cosa gli stesse frullando per la testa in quel momento, quello che so è che non mi avrebbe mai lasciato morire senza prima avermi umiliato. Rimorsi? Neanche per idea! Se qualcuno potesse pensare che noi Alleati ce la siamo cercata per la questione dei trattati di Versailles e delle restrizioni territoriali, be’, lasci che lo mandi cortesemente a – Credo di essermi già esposto più del dovuto, ma immagino che il concetto sia arrivato.

La mia versione dei fatti? Tutto è partito dalla semplice realtà che Germania è obiettivamente una nazione molto più giovane rispetto a noi. Tutti abbiamo attraversato quelle fasi, i momenti in cui ci si sente invincibili, in cui si crede di poter conquistare il mondo intero e starsene seduti sulla vetta con uno scettro scintillante stretto in mano. Bambinate, insomma. Poi si cresce e la cosa finisce lì, capiamo che ciò che una nazione deve dare al suo popolo è ben altro che un piedistallo dorato su cui erigersi. Germania ha semplicemente sperimentato tutta questa bufera interiore in un’epoca difficile, che gli ha permesso di scatenare il disastro globale che poi è esploso in tutta la sua brutalità sia fisica che morale. Prussia Le guide che aveva alle spalle, poi, non sono di sicuro state d’aiuto alla sua stabilità. D’altronde, non tutti possono permettersi di avere fratelloni affascinanti e in gamba quanto me.

Tornando a quel giorno, ricordo che, quando stavo viaggiando in auto ero ancora fermamente convinto che mi avrebbero condotto direttamente a Versailles per la firma del trattato. Poi però mi sono reso conto di dove i tedeschi mi stavano portando, e allora ho rischiato il crollo. Forse sarei addirittura potuto scoppiare a ridere. Ridere o piangere, era una di quelle situazioni così, dove non sai proprio cosa fare. Mi è ritornato in mente tutto, la fine del primo conflitto, il pomeriggio di novembre nel vagone. Ecco, mi sono detto, ora mi torna tutto contro, ma non per questo ero pentito. È un sentimento a suo modo contrastante, lo ammetto, ma ha anche un che di drammatico e poetico. Credo che quello sia stato il vero istante in cui ho pienamente realizzato che tutto si stava esattamente ripetendo per la seconda volta.

Quello è stato uno dei pochi momenti di tutta la mia vita in cui ho davvero avuto paura.

Questa volta, non sapevo proprio come sarebbe potuta andare a finire. Per tutti noi.

 

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_