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Autore: vegeta4e    05/05/2015    2 recensioni
Haytham e Connor sono alla ricerca di B. Church, colpevole di aver tradito l'Ordine Templare e di aver sottratto a Washington i rifornimenti destinati all'Esercito Continentale. Il birrificio di New York è palesemente abbandonato e questo piccolo dettaglio obbligherà padre e figlio a collaborare, costringendo il Gran Maestro a lavorare separatamente sia con Charles sia con il figlio. Successivamente Haytham li convincerà a cooperare, tentando di metter da parte l'odio tra Assassini e Templari per raggiungere uno scopo più grande, desiderato da entrambe le fazioni: vincere la guerra contro gli Inglesi.
Ma non sarà questo l'unico intoppo. Torneranno vecchie conoscenze, vecchi problemi che H. Kenway credeva di essersi lasciato alle spalle. A cosa dare la precedenza? Ad una richiesta d'aiuto o a Washington che, battaglia dopo battaglia, sta perdendo sempre più terreno?
Questi eventi coinvolgeranno anche Connor e Charles Lee, nel bene e nel male.
Dal testo:
Charles e Connor entrarono nella sala, notandomi assente e pensieroso.
«Signore? Che succede?» Sospirai nuovamente, premendomi due dita alla base del naso.
«Temo di dovervi lasciare soli nelle prossime missioni. Devo tornare in Europa» annunciai tornando in posizione eretta per darmi un contegno.
Genere: Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Charles Lee, Connor Kenway, Haytham Kenway, Jenny Kenway
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Capitolo 37

«Come sarebbe sparito?» La voce di Jenny, forte e chiara, mi arrivò alle orecchie nonostante la porta della mia stanza fosse chiusa, attraversandomi il cervello in una fitta lancinante, con la facilità che avrebbe avuto una lama nel tagliare un blocco di gelatina. «Esigo una spiegazione!» Nelle sue urla riuscii a cogliere una punta di preoccupazione, e il mio tentativo di abbandonare il letto venne prontamente sabotato da un capogiro. Riatterrai sul cuscino con un tonfo, la tempia sinistra dolorante, la vescica piena e lo stomaco vuoto. E per mille diavoli: come ci ero tornato a Fort George? Avevo vaghi ricordi dell’ultima volta che ero stato cosciente, e il bernoccolo sulla tempia sinistra mi fece intuire che, forse, la mia presenza a Bunker Hill non aveva migliorato la situazione.

Nonostante il mal di testa mi alzai, infilando gli stivali senza la forza di aprire gli occhi. Ah, Dio, se un colpo in testa era riuscito a ridurmi in questo stato avrei dovuto iniziare a preoccuparmi seriamente.

«Oh, cielo, ti sei svegliato?» Mi voltai verso la porta, trovando Jennifer accanto allo stipite. Sembrava allarmata. «Ti senti meglio? Dio, ci hai fatti preoccupare.»

«Ti ho sentita strillare, è successo qualcosa?»

«In effetti sì. Charles è sparito» socchiuse la porta avvicinandosi al letto, sedendosi poi sulla sedia alla mia scrivania. «Lui e Connor ti hanno trovato a Boston, eri svenuto. Dopo averti portato qui, dei colleghi di Charles sono venuti a parlargli e...»

«Artemas?» La interruppi. «Artemas Ward è stato qui?»

«Non ne ho idea! Come puoi pretendere che sappia i nomi dei comandanti dell’esercito?» Alzai una mano per farla tacere. Le fitte non sarebbero cessate con lei intenta ad urlarmi nelle orecchie.

«Le guardie» portai due dita alla base del naso. «Le guardie sapranno qualcosa. Con chi stavi parlando prima?» Jenny agitò una mano, lasciandola poi ricadere sulle gambe.

«Con il giovane che l’ha aiutato a portarti fin quassù. Lo stesso che gli ha annunciato la visita.»

«So io dov’è…» ci voltammo di nuovo verso l’entrata, scorgendo la sentinella poco più che ventenne che aveva avuto l’onore di tirare un po’ di spada con Charles. «Li ho seguiti di nascosto, ma non ho avuto il coraggio di intervenire.»

«Ti ascolto» allargai le braccia reprimendo la voglia di schiaffeggiarlo. Dopotutto era l’unico a sapere dove fosse Lee.

 

«Chi non muore si rivede, non è così, Kenway?» Gli augurai di strozzarsi con quel cazzo di sigaro un paio di volte e mi avvicinai a lui tentando di mantenere la calma.

Ignorai la sua ironia e avanzai ancora, fermandomi a mezzo passo da lui e unendo le mani dietro la schiena, sotto il mantello. «Dove avete portato Charles?» Le ciglia tremarono per riflesso involontario, tradendolo in un istante. «Avanti, non ho tempo da perdere con te.»

«Cosa ti fa credere che io sappia dove sia finito?» Afferrai Putnam per il bavero e lo misi spalle al muro con forza. Se credeva di prendermi per il culo solo perché aveva gli amici di Washington dalla sua, beh, si sbagliava di grosso. Mi credevano davvero così sprovveduto? Così facile da eliminare?

«Pensi che abbia usato il plurale per risultare ossequioso? So che Ward si è fatto aiutare da te e da quell’altro leccaculo. Non vi conviene farmi incazzare, quindi te lo chiedo per l'ultima volta» feci scattare la lama celata, pungendogli il collo. «Dov'è Charles?» Il pomo d'Adamo si alzò e abbassò velocemente. Forse comprese in quell'istante che non scherzavo affatto. Se c'era Lee di mezzo non scherzavo mai, volevo fosse chiaro.

Mostrò entrambi i palmi, accennando un sorriso tirato. «Ehi, calma, amico»

Gli strappai dalle labbra quel cazzo di sigaro e lo gettai a terra con stizza. «Non sono tuo amico, e adesso parla.»

«D’accordo, d’accordo. Va’ in fondo alla strada, c’è un vicolo sulla sinistra» strinse le labbra, cercando forse di capire quanto fossi deciso a spingermi oltre per ottenere le informazioni che mi servivano. «C’è una porta sola, è lì dentro.» Lo mollai malamente facendo rientrare la lama celata e gli riservai l’occhiata più compassionevole che conoscessi mentre lo osservavo aggiustarsi la giacca per ridarsi un contegno.

«Credevo che tu fossi il meno peggio, Israel. Mi sono fidato della stima che Charles provava nei tuoi confronti. Evidentemente ho fatto male.» Ciò detto mi allontanai nella direzione indicatami da Putnam, il passo svelto per timore di arrivare troppo tardi, il cuore in gola, impaziente di vedere Lee vivo.

Entrai in una specie di cantina, l'aria viziata intrisa di polvere e l'odore dolciastro del sangue, l'interno illuminato da un timido raggio di sole proveniente dal finestrella sulla parete opposta alla porta.

«Santo Dio» non riuscii a dire altro quando intravidi Charles supino al centro della stanza, legato a una sedia ribaltata, le braccia piegate dietro lo schienale sotto il peso del corpo, i polsi stretti da una corda, una gamba appoggiata al sedile e l'altra a terra. «Cosa ti hanno fatto?» Mormorai. Lo chiesi più a me stesso, consapevole di essere il solo responsabile del suo dolore. Mi avvicinai incredulo, notando che sanguinava dal pettorale sinistro. In verità l'intero busto era martoriato, ma con po' più di attenzione vidi che la ferita maggiore era in corrispondenza del buco che aveva al posto del capezzolo. Cristo.

«Charles» mi inginocchiai e gli misi una mano dietro la testa, sollevandola di poco e mettendolo finalmente in una posizione naturale «Charles, avanti. Rispondi, per carità di Dio» gli colava sangue dal sopracciglio destro, le labbra erano spaccate e secche. Da quanto non beveva? Gli diedi un paio di schiaffi leggeri sperando che prendesse conoscenza. Perché era vivo. Doveva. «Charles!» Trattenni la mano sulla sua guancia fredda e umida, lasciando che la sua barba mi solleticasse il palmo.

Di scatto il medio e l'indice si posarono soli sulla giugulare, e in cuor mio pregai che non fosse morto. Non l'avrei sopportato. Sentii i polpastrelli appiccicosi percepire il battito debole.

Sangue, pensai. Sangue di Charles, del mio pupillo, del mio ragazzo.

Serrai la presa sulla sua nuca, stringendogli i capelli tra le dita tremolanti e un lamento flebile raggiunse i miei sensi, nonostante l'unica cosa che sentissi da un paio di minuti fosse il sangue rimbombare nelle orecchie.

Era cosciente «Resisti, ti porto fuori di qui.» Non ci pensai due volte e gli liberai i polsi con la lama celata, portando le braccia indolenzite lungo i fianchi. Diedi una rapida occhiata in giro, e alla vista del tavolo alla sinistra di Lee mi piegai in due, colto alla sprovvista da un crampo allo stomaco. Mi chiesi se fosse il ripiano dove i suoi carnefici avessero lavorato, e una seconda fitta mi fece intuire di sì. Tentai di ignorare gli oggetti per non immaginare nessuna scena, concentrandomi sulla ricerca di qualcosa di utile, come il secchio in fondo. Fa' che sia potabile. Ah, quanti problemi. Sarebbe morto comunque, disidratato o avvelenato, tanto valeva provare.

Tornai da Charles ancora agonizzante, accostando il bordo del secchio alle labbra spaccate. Al contatto con l'acqua sembrò rinascere, aprì gli occhi e tese il collo verso il metallo freddo e sporco, tentando di ingurgitare quanto più liquido possibile dopo giorni di fame e sete. Provai qualcosa di simile alla pietà, ma sapevo che Charles era l'ultimo che avrei voluto e dovuto compatire. Volevo piangere, uscire da lì e urlare al mondo che l'assassino del loro amato Washington ero io, e che per vendicare la sua morte avevano quasi ammazzato un innocente. Il senso di colpa mi chiuse lo stomaco ancora in subbuglio. L'odore acre del sangue non mi aveva mai schifato, ma sapere che fosse di Charles era tutta un'altra faccenda. E doveva esserne uscito tanto, troppo, per impregnare in quel modo le pareti della cantina. Ringraziai che fosse vivo, nonostante tutto.

«Signore...» stentai a credere che fosse lui, troppo abituato a vederlo scattante e pieno di energie. Mi rifiutavo di credere che fosse lo stesso uomo che, in quel momento, era a terra, senza voce e senza forze, senza dignità, pestato a sangue per un sospetto dai suoi stessi colleghi.

Putnam. E dire che quel bastardo mi era sembrato il più ragionevole dei tre. Stronzate. Poteva essersi limitato a spegnere il suo cazzo di sigaro sul petto di Charles, girare i tacchi e andarsene, lasciando il lavoro sporco ad Artemas e Philip.

«Zitto, ti porto fuori di qui» lo sollevai piano sperando non avesse ossa rotte, e azzardai a mettergli un braccio intorno al mio collo per aiutarlo a camminare.

Una volta in piedi iniziò a lamentarsi e a contorcersi e, preso dall'ansia, controllai che non sanguinasse da qualche parte. «Che c'è?» Chiesi preoccupato, notando solo in quel momento la mano poggiata sul ventre a torturare la carne. Non era ferito e non vedevo segni. «Ti fa male?»

«Ho bisogno...» spalancò di più la bocca per calmarsi e prendere fiato

«Di cosa?» Si conficcò i denti nel labbro inferiore, già in pessimo stato.

«Ho bisogno... Ho bisogno di un catino» si accartocciò su se stesso e feci fatica a credere a ciò che la mia mente formulò in un istante.

«Da quant'è che non urini?» A pensarci non vedevo tinozze e nella stanza non c'era cattivo odore. Che l'avesse trattenuta per tutto quel tempo?

«Tre... Tre gior-ni» gli tremava la mano, che istintivamente portò sulla patta dei pantaloni, stringendo.

«Gesù» girai facendolo voltare e avanzai verso il muro in fondo «sei pazzo»

Soffocò un singhiozzo, trascinando i piedi e cercando di sballottare la vescica il meno possibile. «Ho una dignità» ringhiò con rabbia, i denti serrati e la mano sempre sotto la cintura. «Non mi vedranno mai in quello stato pietoso, coi calzoni pisciati o affogato nel mio stesso sangue» oh, già, meglio con la vescica implosa, vero?

Mi tolsi il suo braccio dalle spalle e gli poggiai la mano al muro, scoprendola insolitamente arrossata. «Svuotati» mi voltai di spalle e lo sentii armeggiare con la cintura, immaginando la mano agitata e impaziente aprire il bottone dei calzoni. Poi nel silenzio si udì un getto debole, accompagnato da mugolii sofferenti e gemiti. Doveva far male, eccome.

Un aahh più acuto degli altri mi costrinse a deglutire. Non girarti, per carità di Dio.

Come avevo potuto permettere un tale scempio? Come avevo potuto lasciare che facessero una cosa del genere a Charles? Lanciai un'occhiata alla sua schiena, lacerata qua e là senza criterio, e mi si strinse il cuore. Era colpa mia, Cristo. Sarebbero bastate tre semplici parole per evitare che gli facessero del male: sono stato io. Artemas voleva un colpevole, che fosse Charles o qualcun altro non credo avrebbe avuto importanza. O sì? Magari era una scusa, era tutta una farsa per sfogare su qualcuno la frustrazione per non essere stato scelto per guidare il Continentale.

No. No, assolutamente. Ward non era interessato al comando. Nessuno di loro lo era. Volevano solo vendicare Washington, diamine, e il coraggio di dire la verità forse non l’avrei mai trovato.

Lanciai ancora un’occhiata alla carne lacerata di Lee, i solchi di sangue secco a rigargli la schiena fino ad imbrattare i pantaloni. Lo guardai in silenzio mentre si richiudeva la cintura, quindi mi avvicinai per aiutarlo a camminare.

Gli presi di nuovo il polso destro, portandomi il braccio intorno alle spalle. «Cosa ti hanno fatto?» Mormorai incredulo. In realtà non lo volevo sapere, faceva già abbastanza male così.

Lui scrollò la testa accennando un sorriso, come se avesse una banalissima ferita da arma bianca. «Nulla di tremendo. Hanno testato la mia resistenza.» Ci voltammo verso la porta avanzando piano, ed io deglutii senza staccare lo sguardo dal pavimento.

«Cristo santo, Charles, dimmi che stai scherzando» serrai la presa sul suo polso e lo guardai. Due profonde occhiaie gli cerchiavano gli occhi stanchi e seri e Dio, questo non mi aiutava ad ignorare i sensi di colpa.

«Non ho detto niente, sta’ tranquillo. So che è questo che ti preoccupa»

«Stronzate!» Inchiodai bruscamente. «Davvero credi che per me la priorità sia salvarmi il culo?»

. Serrai i denti sorvolando sul commento della mia coscienza, obbligandomi a guardarlo in viso. Il fatto che non mi fissasse e che indugiasse nel rispondere confermò ciò che, in fondo, pensavo anch’io.

«No» deglutì piano, passandosi con cautela la lingua sul labbro spaccato. «Non l’ho mai pensato, ma è normale che foste preoccupato. Lo sarebbe stato chiunque. Si sarebbero divertiti in ogni caso, tanto valeva stringere i denti e non mandare all’aria il piano, no?»

Annuii debolmente. «Credo di sì.» Era stato coraggioso. D’impulso lo abbracciai, girandogli il busto e tenendolo stretto col braccio sinistro. Non avrei mai dovuto dubitare di lui. Mai. Se non mi fossi fidato di lui di chi altro avrei potuto farlo? Gli avrei affidato la mia vita altre mille volte.

Lo sentii respirare debolmente contro la mia spalla, staccandolo poi con garbo.

Iniziai a sbottonare la redingote, notando solo dopo qualche secondo l’espressione stralunata di Charles. «Non farti strane idee, voglio solo darti la mia camicia» appallottolai la veste tenendola tra le ginocchia, finendo di aprire i bottoni.

«Oh, no. Non posso, la macchierei di sangue»

«Non sarà la fine del mondo.» Sfilai entrambe le maniche, porgendogli poi l’indumento di cotone. «Avanti, indossala. Non puoi girare così.» Dopo un attimo di esitazione accettò, infilando le braccia e macchiando la trama di rosso in meno di cinque secondi.

 

 

Boh, niente, stavolta sarò sintetica al massimo, lol.

Un biscotto a chi continua a leggere e due biscotti a chi recensisce, aw.

 

 

   
 
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