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Autore: Blood Candy    05/05/2015    0 recensioni
Un avvenente ricco avvocato, giovanissimo, per una questione d'affari si trova a bere con un cliente in un bar. Qui rimane colpito dallo stile audace e speciale di un cameriere, e decide, per sfida personale, che riuscirà a conoscerlo e nel migliore dei casi stringere amicizia con lui...
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 8 – Scaffali di dischi e copertine floreali

Dopo un po’ che vagavamo senza tappa decisi di spezzare il silenzio che si stava facendo imbarazzante, e domandai dove si sarebbe potuto andare.
«Beh, Capo, ci sono tanto posti! Vorrei farle vedere quello che considero il mio rifu… - si bloccò, e cambiò in fretta argomento, per un motivo pressoché ignoto – le va di andare al negozio di dischi? Sa, ho acquistato un giradischi ma non ho nulla da far suonare, quindi avevo giusto preso i soldi per un bel disco, per lei va bene?» 
Ero indifferente, in tutta sincerità, probabilmente reduce dell’imbarazzo e terrore infinito che avevo sperimentato poco prima, perciò colorii la mia risposta con un po’ di entusiasmo fasullo, che però non guastava.
«Oh, Certo! Volentieri» sorrisi.
Quando ci voltammo in direzione del negozio, Ryan estrasse un cappello, che fino ad allora era stato accartocciato in una tasca della giacca.
Era di lana, seppur sottile, ed aveva la tipica forma dei copricapi dei "ragazzi dei giornali"; era, pensai, probabilmente reduce di un vecchio impiego.
Il tragitto verso il negozio non fu lungo, dal momento che questo era vicino al centro della città (nonché dove ci trovavamo noi), così non ci fu alcuna conversazione nel mentre, a causa anche dell’imbarazzo che si era prodotto. Arrivati mi ricordai di quando, ancora bambino, ero andato in quel luogo con papà, poiché lui aveva trovato lavoro per riparare grammofoni. Lì avevo scoperto il pianoforte, e da allora avevo avuto questo sogno: imparare a suonare; così, una volta ottenuti abbastanza soldi per permettermi un pianoforte a corda (era stato davvero molto difficile, dato che nei primi tempi, durante la guerra, la burocrazia era impiegata ad altro e non s’interessava ai piccoli crimini sui quali potevo lavorare io, appena laureato… Ma, una volta finita la guerra, tutti questi crimini erano saliti alla luce e così io avevo ottenuto non solo ricchezze, ma anche successo! Mi persi ancora una volta a pensare, ed allora cominciai a girare per il negozio cogliendo ogni dettaglio che potevo ricordare. La stanza era poco illuminata, e tutta la luce, che s’infrangeva tra gli scaffali creando mille ombre diverse, arrivava dalle grandi finestre in parte nascoste dalle mensole colme di dischi d’ogni genere. In fondo c’era un piccolo angolo dove un grammofono ben lucidato suonava musica allegra, che si diffondeva per tutto il negozio, e lì accanto l’anziano venditore stava fermo ad attendere qualche cliente godendosi le melodie da lui scelte.
Ryan era rimasto all’entrata, e con lo sguardo luccicante come quello di un cucciolo al ritorno del padrone ammirava quei vinili impolverati. Quando capii che era il caso d’interrompere il flusso di pensieri fuori luogo e mi resi conto di aver lasciato indietro il mio compagno, lo raggiunsi chiedendogli quale genere piacesse a lui, giusto per sapere cosa cercare. «Beh Capo, non saprei! A me piace tutta la musica: la musica classica, il jazz, ma anche la musica da cabaret…» si fermò, pensando ad altri generi da aggiungere all’elenco, ma una volta resosi conto che non riusciva a settare altri esempi decise di continuare. Scosse quindi un po’ il capo, facendo ondeggiare i capelli mossi delicatamente, e riprese «Sì, non ho un genere preferito, ma non sono venuto qua a caso: qualche tempo fa entrai, alla ricerca di un economico grammofono da acquistare, ed in quel momento stava suonando un bellissimo disco la cui musica era solo di chitarra. Ecco, io ho messo da parte i soldi per prendere quel disco! Solo che non so il nome…»
«Riesci perlomeno a ricordarne l’artista?» lo interrogai speranzoso.
Il ragazzo si volse verso gli alti scaffali colmi di dischi, e dopo averli osservati scenicamente, abbassò lo sguardo fissando il nulla concentrato.
Dopo poco si destò, e voltandosi verso di me dichiarò non riuscire a ricordare il nome, nonostante fosse certo di averlo sentito.
Iniziammo quindi la ricerca: era stato accordato che io avrei, dal momento che non potevo sapere quale fosse il fatidico disco, estratto dagli scaffali tutti i vinili contenenti musica integralmente di chitarra, e dopo averli divisi Ryan li avrebbe controllati tentando di discernere tra tutti il ricercato.
Terminammo in fretta la ricerca nello scaffale dei dischi nuovi, poiché questo era piuttosto sfornito, ed allora privi di risultati ci spostammo ad analizzare lo scaffale dei vinili veterani, tutti quei dischi che da tempo immemore attendevano d’essere acquistati.
Non appena mi trovai accanto a quelle copertine ingiallite dal sole pallido che penetrava dalle tende socchiuse capii che sarebbe stato consigliato cominciare un dialogo: sarebbe stato un lungo processo.
Il mobile di legno che reggeva il peso di tutti quei 33 giri era diviso in quattro ripiani, ed era il più grande di tutto il negozio; i dischi erano posati disordinatamente in ogni dove, e straripavano come l’acqua dagli argini di un fiume in piena.
Mi rimboccai le maniche, e prima di iniziare esordii: «Se ne avrà per molto, a quanto pare».
Tutto ciò che ottenni in risposta fu però una disinteressata scrollata di spalle, seguita da un incerto cenno con il capo ed un sussurrato «Già…», tanto era concentrato nella sua analisi di quei titoli.
Esitai un secondo, forse ancora inconsciamente speranzoso di ricevere una risposta più esaustiva ed entusiasta, ma sconsolato tornai ad esaminare i vinili che mi trovavo accanto.
Tuttavia trovai consolazione nella musica che riscaldava quel luogo solitario con il suo ritmo allegro e vitale.
Stavo infatti terminando la ricerca nel primo scaffale, quando s’insinuò nel mio orecchio la nota d’una melodia da me ben conosciuta: l’Habanera.
Adoravo la Carmen: quell’opera era stata colonna sonora di tante esperienze nella mia infanzia da essere ridefinita come più vivido ricordo musicale di essa.
Ed in particolare quel brano, così allegro e bello, fu il primo che imparai al pianoforte.
Ricordai tutto il tempo che avevo speso cercando di imparare- munito solo di tanta voglia di fare, qualche spartito recuperato da vecchi libri di amici ed un grande coraggio- a suonare quello strumento tanto affascinante quanto complesso che è il pianoforte, e così quasi involontariamente mi fermai, ed iniziai a canticchiare le note sotto voce.
Con le dita intanto, per un impulso istintivo, ricreai i movimenti che avrei fatto se mi fossi trovato accanto i tasti bianchi e neri da me ben conosciuti.
Quando poi mi resi conto di quanto potevo parere sciocco, nel fare ciò che stavo facendo, mi limitai ad una piccola risata per pura autoironia, ed al tornare a lavorare. 
Ryan però notò il mio risolino, ed allora distruggendo l’enorme concentrazione in cui s’era rivestito, mi fissò con un’espressione in cui confusione e serietà conciliavano meravigliosamente, nei suoi grandi occhi scuri.
«Che succede, Capo?» la sua voce bassa vibrò, e pareva che quasi avesse paura di disturbare qualcuno: ma chi, se eravamo i soli- eccezione ovviamente fatta per il negoziante- in quel luogo?
Apparì un sorriso sul mio volto, per qualche allora ignota ragione, e risposi quasi con imbarazzo.
«Oh, senti la musica? Ecco, questo brano è stato il primo che ho imparato al pianoforte, e pensa che mi è così familiare che persino, involontariamente, la suono!» 
Dal momento che Ryan, dopo aver sillabato un misero "Ah" era rimasto immobile ad osservarmi, perso probabilmente a sognare o pensare - proprio come spesso avevo fatto io- decisi di non badare a quell'altro unico presente che era il vecchio venditore, troppo impegnato a dormire su una sedia accanto al grammofono per poterci vedere, ed allora mi misi a ballare, stringendo a me un'invisibile dama.
Lo sguardo del ragazzo si levò, riscossosi da quello stato sognante, verso di me, ed ancora una volta mi squadrò confuso.
Imperterrito continuai nelle mie danze, anche quando l’espressione dapprima confusa che avevo accanto si colorò di divertimento, sino a sfociare in una soffocata risata.
«Capo…cosa diavolo sta facendo?!» la voce si ruppe in una singola risata scandita, candida e cristallina come quella di un bambino.
Sorrisi anch’io, contagiato forse da quel sorriso luminoso, o probabilmente contento dell’essere riuscito a portare un po’ di gioia in quella stanza diventata fin troppo triste, o perlomeno troppo triste per quello che era il mio parere.
«Non si vede? Sto danzando! Adoro questa musica, inoltre qua non c’è nessuno, perciò…perciò non vedo alcun problema! Vuoi unirti a me?» seguitai a ballare con fare scenico, facendo roteare tra le mie braccia quella compagna immateriale che gentilmente m’aveva offerto l’onore d’una danza insieme.
Ryan mi fissava ancora, e il suo viso ancora divertito tornò un frammento di confusione.
Teneva la bocca socchiusa in un accenno di sorriso e gli occhi, ben aperti e scherzosi, roteavano assieme a me tra gli scaffali.
«No grazie, Capo: non che non abbia voglia, sia ben chiaro! Solo che ho paura di far cadere qualcosa…sa, non sono molto aggraziato io…» spostò lo sguardo verso se stesso, osservando con sufficienza il suo fisico allampanato, e poi tornò a posare gli occhi su di me, che cosciente dell’imminente fine del brano avevo frenato l’ardore nel mio ballare.
«Non vedo alcuna complicazione in ciò: neppure io sono un ballerino! Però un problema c’è, dal momento che la musica è prossima a finire…»
Mi fermai allora proprio come il disco, che era giunto al termine, e conclusi con una piccola riverenza.
Il ragazzo che m’era stato spettatore applaudì giocoso, e poi il silenzio colmò la stanza.
Un piccolo brivido mi corse lungo la colonna vertebrale, velocissimo, e raggelò il mio intero sistema nervoso.
Sentii dell’imbarazzo crescere e, nonostante sapessi quant’era consigliabile correre ai ripari da questo, rimasi immobile e zitto.
«Mh Capo, venga un po’ qua» Ryan si scrutò attorno guardingo, e mi fece cenno con la mano di avvicinarmi.
Mi limitai ad obbedire muto, ed accostandomi al bordo della sedia su cui il ragazzo aveva comodamente preso posto durante la ricerca del disco lo osservai muto.
«Allora: dato che mi pare che qui al proprietario importi ben poco - attaccò, guardando verso il soggetto interessato un attimo, per poi ricongiungere il suo sguardo al mio - che ne dice, con la massima discrezione ovviamente, se mettiamo al grammofono uno di questi vecchi vinili che sono qua?» 
Indicò la pila di dischi che si era formata accanto a lui, e squadrai le copertine di cartone dipinto, impolverate e sgualcite che giacevano sul parquet vecchio e sporco.
«Perché no? Va bene; prendiamo uno di questi?» risposi tendendo le braccia verso i vinili accanto a me.
«Non so...io pensavo di mettere qualcosa di jazz, però come va meglio a lei, Capo!» 
Ritrassi subito le mani dal disco che già avevo agguantato, e mi raddrizzai.
«Va benissimo!» Ryan si voltò, dirigendosi verso un vinile che pareva aver già notato precedentemente, e senza troppe esitazioni lo estrasse dal fitto scaffale.
Soffiò sopra alla copertina facendo volare il sottile manto di polvere che la ricopriva, e il pulviscolo che roteava nell’aria s’intravedeva nella luce debole che entrava dalla finestra.
Mi ravvicinai alla mensola dove avevo prima interrotto la mia ricerca, e osservai la figura del ragazzo sparire dal mio campo visivo, mentre si dirigeva quanto più prudentemente potesse al grammofono dietro di me.
Nonostante non lo vedessi riuscii a figurare ogni mossa: sentivo distintamente i passi scricchiolare sul suolo, poi la puntina che veniva accuratamente alzata, poi il disco che si posava sul piatto apposito…
E poi, per finire, la musica riprese a suonare allegra.
Nonostante tutto però decidemmo di continuare la ricerca, dato che era chiaro si sarebbe protesa ancora un po’, così tornammo a svolgere le nostre mansioni concentrati.
S’era sì ristabilita la taciturnità che prima mi aveva infastidito, ma ora il mio cuore era più sereno, poiché cosciente che non c’era alcun imbarazzo da temere.
Tranquillo continuai a lavorare, sino a che non sentii un movimento dietro le mie spalle.
Seguitò quindi un allegro urletto che decantava vittoria, emozionato, e poi di nuovo il cigolare di scarpe che avevo conosciuto prima.
Una mano fredda collise con la mia spalla, e sentii la tensione raggrumarsi in quel punto, come se tutta la mia sensibilità nervosa fosse racchiusa in quel palmo gelido.
Un colpetto mi richiamò all’attenzione, e mi girai prontamente: Ryan, immobile accanto a me, sfoggiava un enorme sorriso, mentre stringeva tra le mani un vecchio 33 giri la cui copertina avrei giurato essere persino più scolorita delle altre.
Il cartone era decorato con disegni floreali dal colori pastello, e in caratteri dal colore vivace – rosso o arancione, se non ricordo male – illustravano il titolo della traccia che il disco portava: Northern Downpour.
«È questo? Era questo il disco che cercavi?» domandai altrettanto contento.
Lui tutto gagliardo si dipinse un sorriso enorme in viso, e con voce -a suo modo- acuta ed enorme enfasi, rispose: «Sì, proprio lui, Capo!»
Era finita quella ricerca, finalmente.
Proposi di dirigerci presso la cassa cosicché, pagando, avremmo ufficialmente dato pegno d’aver terminato quella –se così la si può definire- avventura d’un pomeriggio.
«Pago io» esordii non appena ci trovammo accanto al bottegaio.
Ryan distolse veloce lo sguardo dal disco, e questo si fece confuso.
Non realizzò all’istante l’accaduto, ma quando comprese che mi ero appena offerto di regalargli il vinile, prontamente si oppose alla mia affermazione, eppure quella non era una proposta, bensì un’imposizione!
Avevo infatti già estratto dalla tasca nella giacca il portafoglio, e con mano veloce mi cingevo ad estrarre il danaro dovuto.
«Mi oppongo: il disco lo pago io, Capo» attaccò quindi, per poi continuare a farneticare sul fatto che non dovessi fargli questo favore e simili.
Ma già, nel mentre del suo parlare, avevo pagato e senza dire parola gli porsi lo scontrino, e così smise di parlare e si chiuse in un’espressione seria.
«Grazie…» disse, mentre parodiava questo suo fastidio stringendo le braccia al petto come un bambino, ed enfatizzando l’espressione con un broncio infantile.

Uscimmo trionfanti dal negozio e Ryan stringeva a se quel disco come un piccolo tesoro, tenendolo con una cura indescrivibile.
Eravamo stati dentro abbastanza e, sebbene avessi perso la concezione del tempo, me ne accorsi a causa dell’imbrunire che aumentava con un’incredibile velocità.
Respirai quell’aria pura, con gesto teatrale me ne riempii i polmoni: l’odore della carta misto al particolare profumo del vinile, ed il tutto condito con un forte caldo e puzzo di chiuso, mi avevano quasi nauseato.
Mentre sulla soglia della bottega io mi sistemavo la giacca, con la coda dell’occhio osservai il ragazzo accanto a me che immobile ammirava la copertina, scrutandone ogni millimetro ed assaporando ogni dettaglio.
Distolse poi lo sguardo dal disco per posarlo su di me, e goffamente tentò di ringraziarmi «Grazie Capo…ehm…grazie davvero, proprio non doveva!» 
Stavo riallacciando concentrato i gemelli della camicia, ma potei sentire i suoi occhi fissi su di me, aspettanti una risposta, così sorrisi e mi ricomposi.
«Figurati! Però lo voglio ascoltare anche io, a questo punto. Come fare?»
Notai in quel momento quanto il stessi cambiando, solo per aver passato un po’ di tempo con Ryan: il mio parlato nel giro di due giorni era mutato in maniera incredibile!
«Oh, certo Capo, non c’è problema, ho un giradischi per una ragione, non crede?» ribatté, mentre ci incamminavamo coscienti che saremmo dovuti andare nelle rispettive case.
L’imbrunire cresceva, e le luci iniziavano ad accendersi tutt’intorno, mentre le strade si sfollavano.
Non avevo idea di che ora fosse, ma neppure mi interessava in quel momento: si stava così bene, mentre l’aria fresca segnava l’avvicinarsi della primavera!
Mi scrutai un attimo attorno e notai che quel posto m’era familiare: era lì che, qualche giorno prima, ci eravamo salutare per imboccare strade diverse… 
Decisi di non dare considerazione alla cosa: in fin dei conti non avevo alcun impegno, e quanto distante poteva abitare, dal momento che ogni giorno faceva la strada a piedi (per quanto ne sapessi, almeno)?

Mentre camminavamo e dialogavamo riguardo ad ogni cosa il tempo scorreva imperterrito, e la sera incombeva implacabilmente.
Tanto era fitta la conversazione che neppure mi resi conto di quanta strada avessi percorso, e mi destai solamente quando Ryan sì fermò.
S’era fatto certamente tardi, ma essendo stranamente sprovvisto d’un orologio da taschino, non seppi con certezza dire che ore fossero.
Mi squadrai attorno e non capii dove mi trovassi: tutto ciò che notai fu un quartiere uguale a mille altri, composto di case rovinate e strade sporche; uno di quei quartieri che mai avevo visitato sino ad allora. Non che fossi classista o altro, sia chiaro! Semplicemente non avevo mai avuto occasione o motivo di visitare luoghi come quello.
Ryan s’accingeva a salire i pochi gradini che lo dividevano dal malmesso portoncino d’ingresso (che dava accesso ad un corridoio – potei constatare – sul quale si affacciavano varie porte di corridoi ed una rampa di scale) e subito prima di infilare le chiavi nella serratura tenendo in equilibrio sotto il braccio il disco, si voltò verso di me.
«Uhm…- esitò, probabilmente riflettendo su cosa dire- vuole…vuole entrare Capo? La avviso però che la stanza è piuttosto disordinata e malconcia…non vorrei sembrare scortese…» 
Notai nel sguardo un certo imbarazzo, simile a quello che vidi le prime volte che parlammo al bar, così capii che declinare la proposta era la cosa giusta da fare.
«No, grazie mille in ogni caso: è piuttosto tardi, farei meglio a rincasare e preparare la cena» risposi sorridendo disinvoltamente.
«Oh, okay…» m’apprestai a dirigermi verso casa ma notai che il ragazzo era ancora immobile, pensieroso accanto alla porta.
Tentando d’essere il meno invasivo possibile domandai se ci fosse qualcosa che non andava, e solo allora lo sguardo di Ryan incrociò il mio, e con un sorriso convinto, chiese: «Senta Capo, le va se domani andiamo in un posto che conosco io, ed ascoltiamo questo vinile? Sempre che non abbia da fare, ovviamente! »
Nella sua voce sentii tornare la spigliatezza che m’era tanto piaciuta la prima volta che avevamo conversato.
«Certamente! A che ora dovremo incontrarci e dove?» 
«Mh…davanti al bar dopo pranzo? Tipo sulle due, due e mezza? Per lei va bene?»
Notai che quasi era ansioso di rientrare, e decisi di finire il discorso in quel punto.
«Perfetto, a domani allora! Arrivederci e buona serata»
«A domani, e buona serata pure a lei, Capo»
Sentii dietro di me la porta richiudersi, e in quel momento mi resi conto di non aver idea di come tornare a casa mia.

   
 
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