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Autore: Francine    05/05/2015    2 recensioni
Toutes les grandes personnes ont d'abord été des enfants. (Mais peu d'entre elles s'en souviennent.)
(Antoine de Saint-Exupéry,
Le Petit Prince, dedica a Léon Werth, 1943)
[Note:Baby!Saint]
Genere: Avventura, Commedia, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Caleidoscopio'
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V.
Una marsina non troppo stretta
(Cancer Manigoldo, Pope Sage)


6 Marzo 17XX



«Sacerdote, mi avete mandato a chiamare?»
«Vieni, vieni pure, Ragazzo. Finisco questa, e sono da te», gli dice, sollevando gli occhi per un istante. È sporco, impolverato e con dei vistosi graffi rossi sul viso. E Sage si chiede cosa ne penserebbe suo padre se lo vedesse in questo momento. Gli prenderebbe un colpo. E poi gli liscerebbe il pelo a suon di bastonate, pensa. Sorridendo dentro di sé.


Il Ragazzo – come lo chiama lui – gli ha raccontato la sua storia strada facendo. Non parlava da mesi con anima creata e macinava parole ad una velocità impressionante. Lui l’aveva lasciato fare, tenendogli la mano stretta nella sua per evitare che gli sfuggisse via, come un panno unto d’olio.
Suo padre si chiamava Giuseppe ed era una persona importante, nonostante al villaggio la pensassero diversamente. Oh, di fronte erano tutti sorrisi e moine, ma alle spalle volavano sputi e segni della croce. E qualcuno faceva scivolare una mano in tasca per gli scongiuri del caso.
«Meglio temuti che compatiti», diceva lui, che aveva ereditato il mestiere da suo padre e che sperava di passarlo al figlio, un giorno. Quando sarebbe stato grande a sufficienza da tenere in mano la scure.
Suo padre non usciva mai di casa senza marsina o senza aver lustrato i suoi stivali di cuoio con la massima cura. E lo stesso doveva fare lui. Guai a tenere la camicia troppo morbida o addirittura fuori dai calzoni, guai a rientrare a casa con un bottone penzolante o le scarpe impolverate. C’era un bel bastone nodoso accanto alla porta che l’aspettava, lo stesso con cui suo padre abbatteva i conigli e cercava di far entrare un po’ di sale in zucca a quel figlio scapestrato con troppe favole nella testa e sempre pronto a scendere al ruscello per catturare grilli, rane, salamandre, e tornare a casa coperto di fango.
«L’abito non fa il monaco e la chierica non fa il frate», diceva lui, mentre la pezza di lana andava e veniva sulla pelle un po’ consunta dei suoi stivali. «Ma  diffida di un monaco senza abito o di un frate senza chierica.»

Tutte quelle regole e quelle attenzioni all’aspetto e alla buona educazione per quel bambino erano come una marsina troppo stretta che gli serrava le spalle e la schiena e che tirava pericolosamente ogni qualvolta che respirava, minacciandolo con un severo strrr. Un avvertimento a non tirare troppo una corda pronta a spezzarsi per molto, molto meno. Eppure, ubbidiva, trattenendo il fiato e l’impulsività finché poteva, adattandosi ai voleri di un padre che non usciva di casa senza il fazzoletto ben annodato al collo, la marsina spazzolata, la camicia immacolata, i calzoni al ginocchio e le calze pulite. Nonostante fosse il boia.
«Proprio perché sono il boia», gli aveva risposto una volta, annodandosi un fazzoletto con l’orlo di pizzo, ricordo del padre, un piccolo vezzo che ostentava in occasioni importanti, come quando doveva andare a parlare con lo sceriffo o con il prete. «È una questione di educazione», aveva aggiunto, posando il cappello da caccia le cui piume sarebbero sembrate eccessive. «Non siamo noi, l’immondizia, ma i condannati. Sono loro ad aver infranto la legge. Ecco perché incontrano la mia scure, prima o poi.»

La falce della Nera Comare s’era portata via tutto il villaggio in una notte sola, nessuno escluso. Giustizia o non giustizia. Ridendo dei modi compassati di suo padre, delle sue calze nerissime e dei ricami sui polsini della marsina buona.
L’aveva trovato affamato e stanco mentre i fuochi fatui danzavano attorno a lui. Azzurrissimi e delicati come fiocchi di neve. Decisamente fuori luogo in quel delirio di case distrutte e sangue rappreso per la strada, da cui persino i cani randagi erano fuggiti, uggiolando alla luna una volta che le scorte di cibo – ed i cadaveri – erano finiti. Solo lui era rimasto in zona, nascosto oltre i muretti bassi che delimitavano le case.

Tutta la vallata sapeva cos’era successo in cima alla collina e guai anche solo a pensare di ricostruire qualcosa, lassù. I Borbone avevano deciso di lasciare un paradigma a quella gente, un esempio cosicché agli indecisi o ai temerari del circondario sarebbe bastato alzare gli occhi, in caso di dubbio. Eppure, qualcuno passava ancora da quelle parti. Qualche viandante che non aveva quattrini da spendere nelle costose locande dabbasso, o sufficientemente furbo da pensare che nessuno l’avrebbe seguito, lassù, dove nemmeno la polvere dava fastidio agli spiriti inquieti dei morti, che il vento portava a spasso tra le tegole e i vicoli stretti nelle notti senza luna.

Qualcuno aveva persino visto il diavolo ballare assieme agli spiriti, lassù sulla collina, ma nemmeno allora desistevano.
«Superstizioni», aveva ribattuto Sage del Cancro, Grande Sacerdote di Athena, che agli occhi di quelle persone doveva essere sembrato uno strano vegliardo un bel po’ tocco. Aveva sorriso, aveva agitato la mano come a scacciare una mosca fastidiosa dalle ciliegie mature, prima di prendere la strada che portava alle rovine annerite dal fumo in cima alla collina. Dove, tra i rovi ed i mirti, abitava davvero il diavolo con il suo codazzo di fuochi fatui attorno e una marsina ricamata sulle spalle. Un diavolo dall’aspetto di bambino e dal sorriso da assassino.
 
«Allora, che ne dici, nonnetto?», gli chiede, sorriso spavaldo e mani sui fianchi.
«Si vede che era destino», mormora, dando un’occhiata distratta a quel gatto randagio che ha bisogno di una bella insaponata e di un sana dormita, ma Sage deve sapere una cosa, prima di congedarlo.
«Adesso che hai ottenuto l’armatura, vuoi avere un nome sacro? O vuoi mantenere il tuo», gli chiede, mentre la penna corre sulla pergamena.
«Nah, Vincenzo non mi è mai piaciuto», dice, facendo spallucce. «Ne porterò uno sacro. Come i preti.»
«E sarebbe?»
«Manigoldo.» Lo dice con una naturalezza sconcertante. «Alla fine, ho ereditato il mestiere di mio padre.»
«Marsina compresa?»
Un sorriso sghembo gli si disegna sul viso.
«Tranquillo, nonnetto. Sono un Santo di Athena, adesso. E la marsina di mio padre non è poi così stretta.»



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
Galleggiando galleggiando, l'esteriorità. Delle piume del pavone ve ne ho già parlato qui, e non mi ripeterò. Lasciamo spazio a Manigoldo, al suo codazzo di fuochi fatui e alla marsina di suo padre.

Marsina stretta è il nome di una novella di Pirandello apparsa su rivista nel 1901, messa poi su pellicola nel 1954 con uno strepitoso Aldo Fabrizi (e vi parla una che Fabrizi non lo ama. Affatto.).
La marsina era l'antesignana della giacca, con i risvolti sui polsi e decori sempre più eleganti a seconda delle tasche di chi la indossava.

Da fan approvo la scelta del termine manigoldo per designare il boia di Athena; ma da italiana mi rifiuto di credere che qualcuno abbia pensato di battezzare qualcun'altro con questo nome e che il prete gliel'abbia permesso. Vabbé, vabbé, ma a tutto c'è un limite!

   
 
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