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Autore: BlueButterfly93    06/05/2015    11 recensioni
(REVISIONE STORIA COMPLETATA)
MIKI: ragazza che, come il passato le ha insegnato, indossa ogni giorno la maschera della perfezione; minigonna e tacchi a spillo. È irraggiungibile, contro gli uomini e l'amore. Pensa di non essere in grado di provare sentimenti, perché infondo non sa neanche cosa siano. Ma sarà il trasferimento in un altro Stato a mettere tutta la sua vita in discussione. Già da quando salirà sull'aereo per Parigi, l'incontro con il ragazzo dai capelli rossi le stravolgerà l'esistenza e non le farà più dormire sogni tranquilli.
CASTIEL: ragazzo apatico, arrogante, sfacciato, menefreghista ma infondo solamente deluso e ferito da un'infanzia trascorsa in solitudine, e da una storia che ha segnato profondamente gli anni della sua adolescenza. Sarà l'incontro con la ragazza dai capelli ramati a far sorgere in lui il dubbio di possedere ancora un cuore capace di battere per qualcuno, e non solo..
-
Lo scontro di due mondi apparentemente opposti, ma in fondo incredibilmente simili. Le facce di una medaglia, l'odio e l'amore, che sotto sotto finiranno per completarsi a vicenda.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ubriaca d'amore, ti odio!'
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Capitolo 22

La bella addormentata






MIKI

Ed eravamo lì, l'uno affianco all'altra. Così vicini eppure così lontani, non passava un minuto senza che i suoi occhi finissero per sfiorare il mio corpo. Nessuno dei due proferiva parola eppure c'era intimità nei nostri sguardi. Eravamo lontani, o meglio lui era lontano. Era impegnato, amava un'altra ed era stato tanto codardo da non riuscire a rivelarmelo. Avevo lasciato il mio cuore nelle sue mani tuttavia non era stato capace di accoglierlo. E ritrovarlo lì ancora una volta, così vicino senza poterlo toccare, faceva male, malissimo. La nostra era diventata quel che si potrebbe definire una vicinanza proibita. Una lontananza necessaria.

Mi ero addormentata sulla sua possente spalla a causa del lungo viaggio. Lui non mi aveva spostata non si era comportato con il solito atteggiamento spocchioso, anzi, aveva accolto la mia vicinanza come un regalo. Continuavo a non capire i suoi comportamenti e per giunta non comprendevo neanche i miei. Avevo passato una settimana intera a tormentarmi, ad impormi di stargli lontano e poi era bastato un posto vicino in aereo per farmi rimangiare ogni parola. Appena le mie narici si erano inumidite del suo profumo, appena i suoi occhi si erano posati su di me, ogni sicurezza apparve svanita. Ero come stregata dalla sua presenza, ma questo non potevo più permetterlo. Non se volevo restare viva fino alla fine del viaggio.

Mi svegliai definitivamente e sollevai la testa di scatto, cercai di evitare i suoi occhi, anzi cercai di non guardarlo proprio. Così mi voltai dal lato del piccolo finestrino dell'aereo e mi persi nella vista del cielo chiaro. Era un effetto pazzesco. Le nuvole apparvero talmente soffici ai miei occhi da desiderarle, per sonnecchiare, al posto del letto. 

«Il pisolino ti ha fatto male? La mia spalla non era abbastanza comoda?!» mi distrasse dal mio scacciapensieri la voce irritante e scostumata di Castiel. Ma cosa voleva ancora da me? Non poteva continuare ad evitarmi come anche lui aveva fatto per una settimana?

Non gli risposi, pensai che sarebbe stato meglio ignorarlo. Ed infatti il mio pensiero almeno per una volta risultò esatto. Dopo quella mezza battuta non ne susseguirono delle altre.

Mi appoggiai comoda sul sedile morbido di pelle, ma inevitabilmente il mio cuore spinse gli occhi a squadrare il ragazzo affianco a me. E così feci... Finii per guardarlo. Osservavo ogni suo centimetro di pelle scoperta dai vestiti rozzi, e nell'immaginarlo nudo dei brividi mi percorsero tutta la schiena.

Anch'egli era nella mia stessa posizione, ma a differenza mia teneva gli occhi chiusi. Aveva lo stesso mp4 di quando lo avevo conosciuto. Ascoltava musica rock e tra l'altro ad alto volume. Certo, i nostri generi musicali erano totalmente diversi, eppure percepivo una strana vicinanza a lui. Non sapevo come spiegarlo, ma sentivo che nonostante fossimo opposti infondo ci somigliassimo su qualcosa. Forse avevamo qualche tratto caratteriale simile, forse entrambi avevamo passato un'infanzia solitaria, forse a era a causa di quegli aspetti che ritornavo da lui -nonostante tutto- ogni volta. 

Quando aprì gli occhi, io subito li chiusi. Non potevo farmi cogliere in fallo, fargli capire che lo stessi ammirando. Ma da lì mi sentii osservata, quasi come se lui mi stesse guardando, come se si fosse alternato a me.

Volevo esserne sicura, così riaprii lentamente metà occhio sinistro, quello più vicino a lui. Ma non riuscii a vedere niente; impaziente li dischiusi entrambi.

Trovai i suoi occhi grigi su di me. M'imbarazzò molto quello sguardo attento sul mio corpo, ma nello stesso tempo fui contenta, soddisfatta. Quando capì di esser stato colto in flagrante sgranò lievemente quegli occhi magnetici e un leggero rossore gli si formò sulle gote, ma riuscì a ricomporsi subito come il furbo che era. 

S'inventò una scusa: «No, nulla... Volevo avvisarti che stiamo per atterrare»

«Ti hanno nominato hostess e non mi dici niente?! Mi sento profondamente offesa. Credevo ci dicessimo tutto.. Odio i bugiardi!» cercai di metterlo in imbarazzo e nello stesso tempo di lanciare frecciatine sulla nostra ultima discussione avvenuta quel maledetto mercoledì sera. 

«In realtà non ti ho mentito; ho rifiutato il lavoro. Il gonnellino sono abituato a levarlo alle donne, non ad indossarlo!» sollevò un angolo della bocca con la convinzione di chi sapeva di averla appena avuta vinta. Maledetto, aveva sempre la risposta pronta!

M'irritai e non risposi, voltandogli le spalle guardai nuovamente il finestrino dell'aeromobile. Inevitabilmente l'immaginarlo con altre ragazze mi provocò una forte orticaria.

***

Il rosso non aveva avuto tutti i torti, dalla sua affermazione all'atterraggio passarono solo pochi minuti.

Ed eccomi di nuovo lì nell'aeroporto della mia città natale. 

Erano passati appena cinque mesi dall'ultima volta che le mie scarpe avevano toccato il pavimento marmoreo di quella stazione. E ritrovarsi lì a distanza di tempo sortì in me una specie di malinconia e tormento interiore, sensazioni che non avrei voluto riprovare. Avevo lasciato quella terra nella speranza di ricominciare una nuova vita, nella speranza di evitare problemi, ma non era stato così. Con il cambio di Stato erano sì cambiate alcune cose, alcuni aspetti della mia personalità e della mia vita, ma ancora non riuscivo a capire se in meglio o in peggio. 

Già dall'istante in cui le piccole rotelle dell'aereo si erano staccate dalla terra ferma, nell'ormai lontano cinque Settembre duemilaquattordici, tutto era cambiato. Perché quel giorno, accanto al posto numerato del mio sedile si era accomodata la persona più scorbutica del mondo. Un ragazzo dagli insoliti capelli e con un look fuori dalla portata di tutti aveva fatto breccia nel mio cuore, lì dove nessuno prima d'allora aveva osato essere. E lo scherzo del destino aveva voluto che io ritornassi nella mia terra natale proprio con lui.. proprio lì dove tutto era cominciato.

Avevamo già prelevato i bagagli dal nastro trasportatore quando Castiel iniziò la ricerca sfrenata della nostra futura assistente. La direttrice ci aveva informati che sarebbe stata una donna la guida che ci avrebbe fatto da Cicerone, per tutta la settimana di permanenza a Roma. Certo, io non ne avrei avuto bisogno ma forse Castiel sì.

Nell'aeroporto regnava il caos. Tanti signori e signore, troppi, attendevano i passeggeri dei vari voli, fu difficile trovare la nostra guida. 

«Cazzo» sbuffò «dove cazzo sta?» e sbuffò nuovamente Castiel, già spazientito di cercare la persona di nostro interesse.

«No ma vai tranquillo, aggiungi pure un'altra parolaccia ora che ti trovi...» alzai gli occhi al cielo. 

«Porco cazzo di quella put-» non gli permisi di concludere la marea di parole volgari perché lo raggiunsi e sollevandomi sulle punte per arrivare alla sua altezza, gli tappai la bocca con entrambi le mani. Lui sgranò sorpreso gli occhi per la sorpresa di quella vicinanza e di quel gesto, mentre il mio cuore scalpitò. Mi allontanai spaventata per aver sorpassato involontariamente la distanza di sicurezza tra noi. 

«Dov'è finita?» borbottò come per niente toccato dal mio gesto di pochi secondi prima, e continuò a camminare disorientato da una parte all'altra alla ricerca della guida perduta.

«Cosa vuoi che ne sappia io? Sono qui con te, purtroppo!» agitai le braccia e accentuai pesantemente l'ultima parola, come per fargli capire che fosse un sacrificio stare in sua compagnia. "Sì sì, come no; un enorme sacrificio!!!" la coscienza riprese, intanto, i suoi commenti.

Lui non rispose. Restai immobile in un punto fisso, non seguii il rosso, non lo aiutai, roteando solamente il volto cercai di seguire la sagoma di Castiel spostarsi da una parte all'altra, irritato. La pazienza e l'attesa non erano il suo forte.

Passarono un bel po' di minuti e quando anche il rosso aveva smesso di cercare l'ignoto, ecco alcuni movimenti anomali.

Una donna paffuta e di bassa statura si stava facendo spazio tra la gente per farsi vedere da qualcuno. Quando trovò finalmente uno spazio vuoto ci si stazionò sollevando un cartello enorme con su scritto:

"DOLCE AMORIS garszon. Reux and Reginè deux Ballus du Natal!"

Sicuramente avevo letto male. Sollevai le sopracciglia incredula: «Secondo te è lei?»

Vedendo che non giunse alcuna risposta dall'interlocutore bacato con cui avevo a che fare, mi voltai nella direzione del pomodoro e capii il motivo del suo silenzio. Si stava trattenendo per non scoppiare a ridere. Castiel non era tipo da risate a crepapelle, e in quell'occasione mise tutta la sua forza per evitare di essere come tutti gli altri ragazzi della terra. Doveva essere una delle sue regole da bad boy quella di non poter ridere apertamente. Ma perlomeno quel piccolo gesto mi aiutò a comprendere di non essermi sbagliata.

La nostra futura assistente non aveva azzeccato neanche una lettera delle parole francesi che avrebbe voluto scrivere. Praticamente aveva riportato correttamente solo il nome del liceo. Quel piccolo particolare confermò la mia convinzione nel credere alle parole della direttrice sulla carenza di fondi del liceo in quel periodo. Una guida conoscitrice di lingue doveva essere parecchio costosa. 

«Dovevano pur risparmiare in qualcosa no?!? Hanno assunto un'interprete mediocre per la carenza di fondi» pensai ad alta voce.

«Speriamo in un albergo discreto, almeno..» sogghignò Castiel. Era proprio divertito da quella scena e da quel soggetto. 

Tra battute e lamentele varie ci dirigemmo verso la nostra futura guida per farne conoscenza. 

Ci si presentò davanti una signora sulla quarantina, bassa e tonda. Per la corporatura ricordava parecchio la preside del liceo. Ma se messe accanto, la direttrice sarebbe stata scambiata per Miss Mondo. La nostra cicerone era abbastanza, anzi direi troppo, trasandata. Sul volto le si potevano intravedere degli orribili baffetti neri tra il labbro superiore e il naso, per finire delle sopracciglia parecchio irsute. Degli occhiali spessi e tondi facevano da contorno a quel volto poco femminile. E per finire, la ciliegina sulla torta, ecco spuntare un apparecchio d'acciaio scuro sui denti. L'abbigliamento, poi, non aiutava neanche ad immaginare una bellezza nascosta. Indossava una gonna larga e lunga fino alle caviglie con fantasie geometriche, ed un maglione dalle maniche larghe. Gli stivali poi, avrebbero fatto invidia solamente ad una strega uscita da una favola horror, erano neri e a punta.

Ed ecco formarsi, sotto i nostri occhi, con tutte le caratteristiche necessarie: le regole della befana perfetta!

«Go suisss Stefanià Lambertò and vui?!? Comm'en vius appelles?» ci porse la mano paffuta.

Gliela strinsi con un sorriso finto dipinto sul volto. Oltre a non saper scrivere in francese non riusciva neanche a spiccicare una parola con accento corretto. Di bene in meglio. Castiel, alla fine non riuscì più a trattenersi e scoppiò a ridere proprio davanti al volto della povera donna. Dalla bocca del rosso volò persino un po' di saliva, che involontariamente andò a finire sul volto della signora.

Di sicuro lei non era stata d'aiuto a non farsi prendere in giro da un tipo come Castiel. Aveva sbagliato tutto, a partire dall'accento a finire alla pronuncia. Aveva parlato un misto tra inglese e chissà quale lingua. Se si fosse trattato di una donna che non avrebbe avuto alcun obbligo di parlare il francese, la questione poteva presentarsi come ragionevole. Ma la situazione divenne ridicola quando lei era stata definita "interprete" dalla stessa preside. Ricordai che durante il colloquio -prima della partenza- erano state proprio quelli i termini: "a farvi da guida per tutto il viaggio, ci sarà un'interprete italo-francese".

«Signora Lamberto, io sono Micaela Rossi, piacere. Sono originaria di Roma, se vuole posso fare io da interprete per il signor Castiel Black!» le proposi per aiutarla.

Lei restò di sasso. Divenne totalmente rossa in volto e assunse un espressione molto disagiata.

«Ma che ti sembro un inetto, per caso?» mi guardò di sbieco Castiel parlando un italiano perfetto.

E dopo una tale battuta quella che restò di sasso fui io. Non avevo mai valutato la possibilità che Castiel potesse parlare la mia stessa lingua. Lo avevo incontrato nel mio stesso aeroporto, a Roma -cinque mesi prima- vero, ma sin dall'inizio avevamo parlato usando la lingua francese. Non aveva mai accennato a quella sua attitudine, si era conservato quella sua capacità per sorprendere e ci era riuscito completamente. 

Senza intromettersi nelle questioni personali, Stefania tirò un sospiro di sollievo «Benissimo; allora la nostra lingua ufficiale per la vostra permanenza a Roma, sarà l'italiano!» 

Entrambi annuimmo. 

«Adesso venite con me. Seguitemi. Fuori ci sta aspettando un auto che ci porterà nell'albergo dove alloggerete!»

Cercai di trascinare le due valige, ma non ci riuscii. Fu in quel minuto che ammisi di aver portato troppi vestiti, inutili per solo una settimana di vacanza. Avevo portato di tutto e di più. Non sapendo a quali eventi eravamo invitati o cosa avremmo visitato, avevo portato dagli abiti eleganti agli shorts per la discoteca.

Vedendomi in seria difficoltà, Castiel mi soccorse strappandomi dalle mani il manico di una valigia ed iniziando a trascinarla dietro di sé.

«Dà qua! Ho solo una valigia come le persone comuni di questa terra, io!» iniziò a deridermi. Aveva più che ragione per quella volta.

Proseguimmo il percorso seguendo la signora Lamberto in totale silenzio ed io, contrariamente da come si aspettava Castiel, non risposi alle sue provocazioni, mi limitai solamente a ringraziarlo.

Dopo qualche secondo di silenzio cambiò apparentemente discorso «Commetti sempre gli stessi errori, hai già dimenticato la storia delle valigie? E menomale che sarei dovuto essere io il vecchio...» stranamente il rosso aveva voglia di ricordare il passato di cinque mesi prima.

"Ma come, come avrei potuto dimenticare quel giorno? Al contrario... pensavo che tu avessi dimenticato, che io non fossi abbastanza importante, per te, da ricordare" avrei tanto voluto dare quella risposta, eppure qualcosa me lo stava impedendo. Come se ci fosse un'altra persona oltre noi due che evitasse di farmi commettere errori.

Stefania intanto ci aveva distanziati. Eravamo soli: io, lui e l'aeroporto.

Castiel aspettava una risposta, ma quella non arrivò. Iniziò a scrutarmi come per intuire i miei pensieri, poi allungò un angolo della bocca sorridendo verso me. Era di buon umore quel giorno, il signorino. 

«Non immagini neanche che genere di persona mi eri sembrata in quell'aereo...»

Corrugai le sopracciglia. Non capivo dove volesse andare a parare. Comprese anche quella mia espressione e come un indovino che schiera sul tavolo le sue carte, continuò:

«Una di quelle Escort pronte ad abbordare i pezzi grossi per farli divertire, durante i viaggi, nei bagni degli aerei e dei treni» la sua probabilmente voleva essere una battuta infelice, giusto per infastidirmi.

Ma sbagliò tutto. Quella battuta non potevo incassarla e stare in silenzio, no. Non quella volta. Mi voltai, come un felino, nella sua direzione e con tutta la forza che possedevo in corpo, nel cuore e nell'anima, gli mollai uno schiaffo in pieno viso. «Escort ci sarà la tua ragazza!» sibilai con rabbia.

Non fu un semplice schiaffo, no, ma uno di quelli potenti. Uno di quelli che lasciano il segno. Aveva un'espressione esterrefatta, non mi avrebbe mai immaginato capace di quel gesto in pubblico. 

Ancora incredulo poggiò la mano sulla guancia massaggiandosela. Un gesto così estremo era inaspettato da parte mia. Solitamente stavo al suo gioco, ma quella volta aveva oltrepassato ogni limite. Quelle battute non potevano più essere accettate, non se provenivano da lui. Non le meritavo. Non meritavo le sue cattiverie. Non meritavo le sue parole. Lui avrebbe dovuto costruirmi una statua per il bene che gli avevo dato, ed invece al contrario, ogni qualvolta lo aiutavo venivo derisa maggiormente. Dopo lo schiaffo continuai a guardarlo immobile e con uno sguardo duro. In quel momento l'odiavo, lo stavo odiando con tutta me stessa. E dentro di me era scomparsa persino la cellula rossa sempre pronta a difenderlo. 

Poi poggiai entrambe le mani sui fianchi ed incominciai a sbattere energicamente il piede sinistro contro il pavimento, senza staccare un secondo gli occhi da lui. Quella posizione oltre ad apparire spazientita era una posizione in attesa di qualcosa. Ed in effetti, io ero in attesa. Ero in attesa di una sua semplice richiesta di perdono, semplice ma della quale forse Castiel non ne conosceva l'esistenza. Le cinque lettere così fondamentali per me, non arrivarono. "Scusa", bastava quello e invece niente. 

Senza aspettare un minuto di più roteai di scatto con tutto il corpo e m'incamminai velocemente per raggiungere Stefania. Non sapevo e non avevo intenzione di scoprire cosa avesse fatto lui, non m'importava più.

«Venite ragazzi. Questa è l'auto che ci porterà all'hotel!» giunti al di fuori dell'aeroporto, la voce della nostra tutor c'indicò quale macchina ci avrebbe portati a destinazione.

Non solo l'interprete, ma anche l'auto era mal ridotta. Era una Fiat 500 vecchio tipo. Quadrata, piccola e per niente spaziosa. Viola come il colore delle melanzane.

"Ma non sarebbe stato meglio chiamare un taxi?" chiesi tra me e me, dandomi da sola ragione.

«Scusi signora Lamberto, ma io dove le metto tutte queste valigie?» le chiesi con grande serietà, come se stessi per affrontare il più grande dilemma della storia.

«Mi chiami signorina grazie. Comunque faremo due viaggi!» ribatté ovvia.

«No, no! Farò in modo di farle entrare tutte!» affermai con gran terrore. Non avrei lasciato per nessun ragione al mondo i miei vestiti abbandonati nelle mani del destino. Dove andavo io, mi avrebbero seguito loro.

Lo schiaffo fortunatamente aveva ammutolito Castiel. Continuava a stare in silenzio senza fiatare.

Escogitai un piano per salvare i miei indumenti e dopo varie proposte trovai quella più appropriata e fattibile. Feci accomodare in auto sia Castiel che la signorina Lamberto, che eseguirono in silenzio i miei comandi. Posai una valigia nel minuscolo bagagliaio della 500. Aprii lo sportello posteriore dove sarei dovuta entrare e lanciai letteralmente la valigia addosso al rosso.

E lui agitando le braccia: «Te l'avrei anche tenuta la valigia... ma cazzo bastava chiedere. Che modi sono questi?!» si riferì al mio modo sgarbato di lanciare il bagaglio. Ben gli stava.

«Ho imparato questi modi da te; Dal miglior coglione della storia mondiale. Quindi evita le lamentele, grazie!» gli sorrisi innocentemente.

«Non tollero questo genere di termini. Moderatevi!» cercò di farsi sentire la signorina Lamberto, interrompendoci.

Castiel aveva iniziato a parlare l'italiano in modo impeccabile. Aveva accenti e pronuncia francesi, quella tipica "r" pronunciata male, ma nonostante questo restai sbalordita. Sembrava quasi che avesse mentito sulle sue origini, quasi come se fosse originario dell'Italia. E probabilmente era così. Forse non conoscevo il suo passato realmente, forse Adelaide non mi aveva raccontato tutto.

Prima d'infilarmi nella piccola automobile ne pensai davvero tante, troppe.

Un altro piccolo particolare confermò quanto il Dolce Amoris si fosse impoverito. La signorina Stefania si mise alla guida della 500, giustificandosi: «L'auto è mia. Non volevo che qualcuno la rovinasse». 

Dopo quella specie di battuta involontaria, Castiel ghignò. In effetti cosa poteva esserci da rovinare in una macchina in quelle condizioni? La vernice in alcuni punti sul tettuccio era sbiadita, per non parlare delle condizioni all'interno. I sedili erano trasandati e scuciti, s'intravedeva la spugna morbida e giallastra posta al di sotto del tessuto.

Tra rimproveri, derisioni e incomprensioni varie, la signorina Lamberto finalmente mise in moto l'auto che inizialmente ebbe difficoltà ad accendersi, ma dopo tre giri di chiave eccola sprizzare ancora di salute. Castiel spostò il mio bagaglio avanti, al posto conducente approfittando del fatto che fosse vuoto. 

Il rosso ed io eravamo vicini, non riuscivo a guardarlo negli occhi, ero ancora delusa per le precedenti parole. Mi avevano fatto male, e non importava se qualcuno mi avrebbe definito suscettibile o altro. Forse se fosse stato un altro ragazzo a fare quelle battute ci avrei passato sopra, infondo era quello che volevo apparire agli occhi degli altri, ma con Castiel no. Era come immaginavo. Non avevo dato neanche a lui una buona impressione. Eppure.. eppure gli avevo mostrato il mio cuore. Avrebbe dovuto dimenticare il primo segno lasciato in lui dopo tutti i miei sacrifici. E invece no, io continuavo ad essere solo: "una di quelle Escort che faceva divertire i pezzi grossi sugli aerei ed i treni!"

Intanto, tra mille riflessioni, ammiravo la bellezza di quella città. Di affetti non ne avevo più in quel posto, tuttavia Roma aveva un qualcosa che ancora mi apparteneva, un qualcosa che non avrei mai e poi mai lasciato o abbandonato: la cittadinanza e quindi l'appartenenza all'Italia. L'Italia era il paese con più storia e tradizione di tutti. In Italia si mangiava bene, dei pranzi che in Francia neanche potevano permettersi di sognare. Gli italiani erano calorosi, accoglievano chiunque. E per accettarsi di questo bastava andare a fare un giro in centro Roma, si potevano intravedere tanti turisti provenienti da qualsiasi parte del mondo, che gli italiani facevano sentire a casa propria.

Ad interrompere il mio discorso mentale ed ideologico fu un lieve bruciore proveniente dalla coscia sinistra. Abbassai di scatto il volto e intravidi una mano fuggire dal luogo del delitto. Non ci fu neanche il bisogno di voltarmi, l'artefice era stato lui. Castiel forse non sapeva come chiedere scusa, anzi non era proprio nel suo gene farlo.. Tuttavia quel gesto significava tanto per chi lo conosceva approfonditamente. Quel cenno nascondeva dispiacere, e lo sembrava davvero. Era dispiaciuto per quella battuta di cattivo gusto, ed era amareggiato perché non era riuscito a rimediare al danno. Si percepiva nell'aria eppure lui era così orgoglioso da non volerlo ammettere. Cercava di raggranellare il male provocato rimpiazzandolo con dispetti simpatici. Mi rammollì un po' quel suo segno, ma non lo diedi a vedere. Ero orgogliosa.

Continuai ad evitare di rivolgergli la parola guardandolo solamente di sbieco per poi rigirarmi a destra verso il finestrino per ammirare la bellezza della mia ex città.

Come al solito il traffico fungeva da padrone, e quando i tratti di strada erano liberi, la poca pratica nella guida della signorina Lamberto impedì alla puntualità di diventare protagonista nel viaggio. In poche parole arrivammo in hotel con un'ora di ritardo dall'ora prevista sul calendario che ci aveva distribuito la preside prima della partenza.

L'hotel non aveva nomi. Si chiamava semplicemente "Hotel". Aveva un'insegna con il nome riportato sopra, banale e bianca. Si trovava in un palazzo di pietra. Già solo la vista esteriore non premetteva nulla di buono. E la stessa cosa la pensò anche Castiel, che scendendo dall'auto dopo di me e mettendosi a guardare con attenzione il posto nel quale avremmo alloggiato per una settimana, si scosse con le mani i capelli in segno di frustrazione.

La signorina Stefania ci fece cenno di aspettare mentre lei avrebbe preso le valigie dal bagagliaio. Aveva esplicitamente affermato che avrebbe voluto fare tutto sola, ma forse non aveva guardato con attenzione i miei bagagli. Erano stati, persino, imbarcati separatamente perché avevano superato i nove chilogrammi premessi ad ogni passeggero.

Quando cercò di sollevare i trolley, la goffa signora, cadde sull'asfalto davanti alla nostra vista. Castiel non perse un attimo per deriderla, ma non appena riuscì a controllarsi corse in soccorso della povera Stefania. Anch'io cercai di fare lo stesso, ma lo impedì Castiel che mi lanciò la sua valigia, come se quella fosse una palla da basket ed io il canestro da centrare. Afferrai il bagaglio lasciando incustodita una delle mie. La presa non fu difficile tanto che era leggera. Non mi capacitavo di come avesse fatto entrare gli abiti e gli occorrenti che sarebbero serviti per una settimana, in una valigia così piccola.

Appena Castiel giunse dietro al cofano dell'auto, Stefania si fece aiutare ma con il broncio. Sin da subito, infatti, era nata un'antipatia reciproca da parte di entrambi. Quella della Lamberto era più che giustificata. Si sentiva ridicolizzata in ogni istante da uno studente, e se non fosse stato per quel poco di stipendio percepito grazie a quella gita, lei avrebbe di sicuro risposto con altri mille insulti nei confronti del rosso. Quelle sensazioni, quei pensieri si percepivano nell'aria, negli sguardi.. e quelli valevano più di ogni altra parola.

Quando finalmente tutti i bagagli erano difronte al cosiddetto hotel, la signorina Lamberto, prima di entrare c'impose delle regole.

«Come vi ha già anticipato l'illustrissima preside, in albergo sarete disposti in un'unica camera. Quest'ultima ha due letti singoli che sono stati adibiti appositamente per voi. Di lato al letto avrete delle tende che fungeranno da separé in modo tale da dover condividere solamente il bagno..»

Non aveva un linguaggio colto, e non sembrava avere la sua età. Non sapeva dare spiegazioni. Insomma ci avrebbe atteso una settimana comica e nello stesso tempo devastante.

«In poche parole.. ehm.. con tutto questo giro di parole volevo dirvi che... non tollero alcun tipo di rapporti amorosi all'interno della camera. Io sarò nella stanza accanto alla vostra! Anche se credo che con voi non avrò problemi di questo tipo.. Ho potuto constatare che non andate molto d'accordo e questo me l'ha riferito anche la preside del vostro liceo! Comunque uomo avvertito, mezzo salvato!»

Nel pronunciare quelle frasi ebbe molto timore e vergogna, infatti restò per tutto il tempo con lo sguardo rivolto verso il basso e con il volto in fiamme. A dir la verità anch'io provai una sorta d'imbarazzo in quel momento. "Ho potuto constatare che non andate molto d'accordo.." era vero, ma tra noi c'erano stati dei precedenti e la preside ne era a conoscenza sin dalla sera del ballo di Natale. Per un attimo mi balenò in testa il fatto che la stessa direttrice potesse essere una sostenitrice dell'eventuale coppia Castiel-Miki e che -da inguaribile romantica qual era- avesse architettato di proposito di farci inserire insieme in camera. Cercai di eliminare sùbito quell'idea insana dalla mente.

Castiel dinanzi a quelle frasi emise un ghigno divertito, e dopo avermi sogguardata maliziosamente riprese a camminare entrando nella hall dell'albergo. Io lo seguii con un lieve rossore sulle guance.

Le porte girevoli, tipiche entrate degli hotel, ci portarono davanti ad enormi vetrate dal colore dell'acqua marina con su dipinti fiori dalle più svariate sfumature di colore. Erano disposte sia a destra che a sinistra in modo tale da formare una specie di traiettoria da percorrere. I vetri colorati proseguivano dritti e ad un certo punto svoltavano a destra. Dopo ancora qualche metro ecco che terminavano. Il percorso ci portò davanti ad un bancone tradizionale della reception. Lì ci accolse un signore sulla sessantina dai baffi e capelli bianchi, che subito c'intrattenne parlando un francese perfetto.

Ci spiegò tutte le regole dell'hotel e sùbito dopo ci porse le chiavi della nostra futura camera. Castiel lasciò che la prendessi io. Mi ritrovai tra le mani una piccola chiave ed un enorme e pesante aggeggio, che fungeva da portachiavi, color oro con su scritto un numero: 93. Il numero così elevato mi fece intuire che avremmo alloggiato in una delle stanze più in alto dell'edificio.

Sapere che quella chiave avrebbe aperto la porta alla stanza nella quale dove io e Castiel avremmo dormito sotto lo stesso tetto e quasi nello stesso letto, m'incusse una sensazione strana. Mi sentii avvampare e nel medesimo lasso di tempo le mani emisero più sudorazione del dovuto tanto da inumidire le chiavi. In quello stesso istante Castiel me le strappò.. tempismo perfetto, direi!

«Ma che caspita sei, un lama?!?» affermò stupito nel vedere le chiavi bagnaticcie.

Non replicai.. divenni solamente più rossa di come già ero.

Un altro tizio impiegato dell'hotel, ci portò dinanzi alle scale e all'ascensore che avrebbe dato accesso alle camere. Ci si presentò uno spazio abbastanza striminzito, abbellito da un tappeto persiano, grande quanto tutta la stanza. A sinistra vi erano due ascensori e a destra le scale. Appena si aprì l'ascensore mi sentii soffocare alla sola vista, talmente che era piccolo. Non che le scale fossero più spaziose, ma di sicuro meglio quelle.

Mi posizionai davanti alle scale ma prima di salire Castiel mi fermò con la sua voce «Inizia a salire. Io aspetto Ugly Betty e..» lo interruppi.

«Ehi» lo bacchettai «abbi un minimo di rispetto. Si chiama Stefania Lamberto, starà dietro a noi per una settimana, sù smettila..»

«Sì certo paladina, lascia qui le tue mille valigie. Le salgo io!» nel pronunciare quella frase evitò di guardarmi negli occhi. Tenne lo sguardo puntato sui bagagli posati sul tappeto.

Sembrava quasi avesse percepito il mio timore di entrare in ascensore, come se volesse farmi un favore, come se un minimo ci tenesse a me.. e infondo un po' stavo iniziando a crederci. Insomma, aveva espresso parole negative nei miei confronti in aeroporto, ma erano pur sempre parole del passato, parole che forse non pensava più. Valutai l'opzione di dargli l'ennesima possibilità di farsi perdonare.

Senza aprire bocca annuii con la testa ed iniziai a salire in camera tramite le scale. Soffrivo da sempre di claustrofobia e non riuscivo, quindi, ad entrare in luoghi troppo piccoli o troppo bassi, e l'ascensore era uno di quelli. Preferivo di gran lunga sgranchire le gambe con un po' di movimento, piuttosto che avere crisi di panico.

-


CASTIEL

Non appena le porte dell'ascensore si erano aperte, Miki era rimasta scossa, in stato di shock. Quei comportamenti mi fecero, automaticamente, ricordare quelli di mia madre che da perfetta claustrofobica non riusciva ad entrare in un saliscendi senza avere crisi. Avevo quindi deciso, senza troppe cerimonie, di accollarmi il trasporto delle valigie fino alla camera che ci avrebbe ospitati, in modo da permettere a Miki di salire prendendo le scale.

Mentre Ugly Betty era andata a medicare le parti di gamba rimaste lese dalla caduta storica al nostro arrivo, io me ne stavo come un deficiente ad aspettare la più stupida assistente di tutti i tempi.

Passarono parecchi minuti e ancora non si vedeva arrivare, così decisi di seguire l'istinto e di salire da solo. Avrei voluto portare i suoi bagagli deponendo, in questo modo, l'ascia da guerra, ma dovevo per forza rimandare la faccenda escogitando un futuro gesto caritatevole.

Il personale dell'hotel non era per nulla cordiale, anzi se poteva si scansava il lavoro. Appena ci avevano visti con molti bagagli si erano volatilizzati tutti, tranne il povero vecchiaccio dietro la reception. Così tutto il duro lavoro venne lasciato a me, povero cristo, unico uomo in quella vacanza da sfigati.

Infilai tutti i bagagli nel minuscolo ascensore e dopo essermi assicurato di non averne lasciato nessuno fuori, feci per entrare e salire, ma trovai il masso d'acciaio già chiuso. Spinsi con tutta la forza contro il bottone di quell'affare che invece di aprirsi iniziò ad elevarsi. Mi apparvero infatti, sul bottone, delle freccette verdi con il segno verso l'alto ed i vari numeretti man mano che la scatola meccanica saliva.

Decisi di aspettare lì fermo sperando fino all'ultimo che nessuno mi avrebbe giocato brutti scherzi derubando le valigie.. altrimenti chi l'avrebbe sentita Miki?!?

Quando l'elevatore si fermò, mi accorsi che lo fece al sesto piano. Noi avremmo alloggiato al settimo ed ultimo piano, quindi premetti nuovamente contro quel maledetto bottone, ma dopo miliardi di tentativi capii che il problema non era l'ascensore ma il bottone. Provai a prenotare l'altro saliscendi che si trovava accanto a quello sfortunato, ma una scritta su foglio A4 m'informo: "ASCENSORE GUASTO!". Bene, nessun ascensore era funzionante. Mi sarebbe toccato salire a piedi. Nonostante la pigrizia e la stanchezza di un viaggio in aereo appena affrontato, mi presi di coraggio ed iniziai a scalare i primi sei piani.

Arrivai a destinazione dopo qualche minuto. Ripetei i gesti di poco prima -pigiando i bottoni- e questa volta l'ascensore si aprì. Ma senza correre altri rischi e per non passare per il coglione di turno, tirai fuori tutte le valige. Le avrei salite a piedi. Mancava solo un piano. Mi aveva spazientito quell'aggeggio da quattro soldi.

Ponendo i bagagli difronte alle scale, iniziai a salirli una ad una.

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MIKI

La prima impressione nel vedere l'ambiente, non fu pessima. Era una semplice stanza d'albergo anonima, ma nello stesso tempo accogliente, forse era stata la familiarità con il parquet a renderla tale. La stanza era sui toni del blu. La coperta, la sedia della scrivania, la mantovana della tenda, i lampadari, erano tutti dello stesso tono. Le pareti erano dipinte in celeste, quel celeste chiarissimo, quasi bianco. Accanto alla porta, a sinistra vi erano i letti e a destra il bagno. Le brande erano separate da una tenda che di divisione aveva ben poco.. era persino trasparente. Di fronte al lettino, che per mia scelta sarebbe stato di Castiel, vi era una scrivania con su una televisione piccola e di vecchia fabbrica. Vicino alla scrivania vi era un armadio in legno chiaro. Ai lati dei letti si trovavano dei comodini con sopra delle abat-jour. Poco distante dalla branda del rosso vi era una grande finestra con delle tende molto carine.

Dopo aver dato un'occhiata veloce alla stanza, m'intrufolai nel bagno. Era posto su un gradino. Anch'esso sui torni dell'azzurrino, aveva una vasca, un water, un lavandino ed una doccia. Almeno quello era abbastanza spazioso.

Castiel ritardava ad arrivare. Ero preoccupata ma nello stesso tempo non auspicavo a farmene accorgere. Non volevo che lui pensasse di avere come compagna di viaggio una rompiballe apprensiva, così evitai di correre alla sua ricerca.

Ma ero ansiosa, molto, troppo ansiosa. Non capivo per quale ragione ma persistevo ad avere dei brutti presentimenti.

Per spezzare l'attesa decisi di fare un bel bagno caldo. Sul letto c'erano posizionate un set di asciugamani con del sapone sopra. Iniziai a squadrarle nei minimi dettagli e solo dopo averle guardate per bene mi rassicurai di poterle utilizzare perché pulite. Erano una buona alternativa all'accappatoio situato nelle valigie che al momento non avevo con me.

M'infilai così nella vasca da bagno cercando di rilassare i nervi il più possibile.

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CASTIEL

Quando finalmente riuscii a salire l'ultima valigia sul piano della stanza, venni disturbato. Quella vacanza era partita già troppo male, ero esausto.

Qualcuno mi stava tirando dal colletto della giacca, irritandomi. Mi liberai come una furia e senza vedere di chi si trattasse, mollai un pugno all'indietro.

Nessuno parlava.

Di nuovo libero, mi voltai per capire chi potesse essere l'artefice di quel gesto. Pensavo si potesse trattare di un ladro scappato alle guardie anziane dell'hotel, ma tutto era tranne che quello.

Non era un ladro, non era Miki.. era qualcuno che, invece, non avevo la minima volontà o intenzione di vedere durante quel viaggio. Anzi, addirittura inizialmente avevo accettato di partecipare a quella villeggiatura per staccarmi un po' da quella situazione asfissiante, da quella persona divenuta così insistente e petulante. 

E invece no, mi era impossibile farlo, distaccarmi, dimenticarmene. Ormai ero segnato. Perché era una persecuzione e in quel momento si trovava proprio davanti ai miei occhi.

Che ci faceva lì? Che voleva ancora? Maledizione!

Debrah se ne stava lì, imbambolata. Non si aspettava quella mia reazione brusca, forse si aspettava quel Castiel. Il ragazzo che le sarebbe saltato addosso davanti ad un gesto del genere, quel Castiel che l'avrebbe sbattuta contro il muro e baciata con passione, quel ragazzo che l'amava senza riserva, che non aveva occhi per nessun'altra ragazza oltre lei. Quel Castiel che evidentemente non esisteva più. 

Perché forse, quel Castiel era morto con la sua storia d'amore. Era morto con il tradimento della donna, che un tempo era, la più importante della sua vita.

Ritornando sui miei passi avevo creduto che lei sarebbe cambiata, che lei avrebbe posto fine ai suoi continui piani diabolici; credevo fosse tornata da me pentita, amareggiata, innamorata di me, desiderosa di farsi perdonare, ma purtroppo mi ero sbagliato ancora una volta. Ero stato un completo imbecille nel concederle una seconda possibilità. 

Roma mi sarebbe dovuta servire come luogo di riflessione, avrei dovuto rispondere ai mille interrogativi rimasti in sospeso da ormai qualche mese, ma con Debrah a pochi metri di distanza sarebbe stato tutto inutile. Mi sentivo mancare l'aria da quei suoi nuovi comportamenti ossessivi e nello stesso tempo possessivi, non sapevo quanto ancora avrei resistito senza allontanarla definitivamente da me. 

«Cosa ti sta accadendo in questo periodo, amore?! Sai che con me puoi parlarne...» mi sussurrò come la migliore falsa ingenua esistente al mondo, mentre mi carezzava la spalla sinisrtra.

Sì certo, come no. Con lei potevo parlare di tutto. Di tutto tranne che della mia vita. Ma sebbene stesse facendo la finta tonta, sapeva bene cosa mi stava accadendo. Semplicemente le faceva comodo fingere quella farsa.

Sospirò «Ti ho promesso che sarei cambiata, lo farò credimi. Dammi solo del tempo, permettimi di farlo. Abbassa il muro che hai innalzato, ti scongiuro..»

Le sue parole sembrarono sincere, ma io stesso avevo provato sulla mia pelle quanto quella ragazza potesse essere bugiarda e diabolica. Con addosso solo una vestaglia di seta bianca, s'inginocchiò facendo intravedere dei pezzi di pelle, dei pezzi proibiti. Voleva giurarmi amore eterno lì, in quell'albergo dove lei non era legittimata a stare. Era stata egoista, aveva occupato anche quei pochi spazi che avevo chiesto. Era gelosa della ragazza che mi stava aspettando nella stanza 93, e mi aveva seguito in un altro Stato per non perdermi definitivamente. Sapeva ci fosse il rischio. E come darle torto? Miki era una persona meravigliosa. Se fossi stato un ragazzo meno problematico e incasinato, avrei rischiato più volte di perderle la testa per lei. 

In quel momento, nonostante le parole di Debrah, nonostante l'umiliazione che lei da sola aveva deciso di subire inginocchiandosi ai miei piedi, non mi fece alcun effetto. Ma non demorse; prese le mie mani e le strinse tra le sue. Poi senza liberarmi, si alzò da terra e mi trascinò dentro una stanza. Era la numero 89.

«Ho prenotato una stanza accanto alla tua, ho rinunciato ad un'ottima opportunità lavorativa per seguirti, per stare insieme a te, e voglio dimostrarti ancora tanto, credimi. Ma tu mi stai rendendo le cose parecchio difficili... tu non puoi trattarmi così, non sei mai stato così freddo, distante come in questi giorni. Non è giusto!» mi rimproverò. «Perché mi fai questo, Castiel?»

«Prima di puntare il dito, guarda te stessa, fatti un esame di coscienza», replicai con un tono esageratamente duro.

Da degna testarda qual era, si slacciò la vestaglia e la fece cadere delicatamente sul parquet. Come immaginavo, sotto, era nuda. Del suo fisico non si poteva dire nulla, anzi al contrario, era una delle più belle ragazze che avessi mai visto.

«Perché non lo facciamo insieme quest'esame di coscienza?» ammiccò provocandomi, con le mani sui fianchi, esponendomi tutta la sua mercanzia.

Debrah Duval non aveva mai perso una battaglia, combatteva con tutte le sue forze, avrebbe fatto di tutto per vincere. Ma io per lei non sarei stato un avversario facile da battere. Non più.

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MIKI

Il bagno era stato tutto fuorché rilassante. Avevo avuto, per tutto il tempo, la percezione di sentire la porta della camera chiudersi, o di udire passi di quelle Timberland che ormai conoscevo a memoria. Avevo passato ben quindici minuti in quelle condizioni. Aprivo e chiudevo continuamente il rubinetto, illudendomi. Mi ero proprio auto-convinta che lui fosse lì fuori quella porta ad aspettarmi.

Per non farmi trovare sorpresa e nuda, avvolsi il mio corpo, dal seno fino alle cosce, in un'enorme asciugamano che l'hotel ci aveva donato gentilmente in omaggio. Poi infilai delle infradito di gomma ai piedi ed uscii speranzosa dal bagno.

«Cass... Castiel...» iniziai così a chiamarlo invano, quasi come se fossimo all'aperto. Ero convinta che se non avessi urlato, non mi avrebbe potuto sentire. Ma avevo tralasciato il fattore più importante: lui non c'era e qualora ci fosse stato lo avrei già visto dall'uscio della porta.

Ero quasi delusa di non averlo trovato. Non m'importava dei bagagli o che a quel punto non mi sarei potuta vestire, che sarei dovuta rimanere avvolta da un asciugamano, a me importava solo di lui, di averlo affianco. Sebbene avessimo battibeccato, sebbene fossi in collera con lui, non tolleravo la sensazione di mancanza, di smarrimento che provavo quando non era accanto a me. 

Castiel era la mia ancora di salvezza in quella città sommersa da un mare di brutti ricordi.

Amareggiata, dopo aver girovagato per tutti gli angoli della camera, mi accorsi che in quelle condizioni non sarei potuta andare da nessuna parte per cercarlo; quindi non mi restava nient'altro che attenderlo lì, nella nostra stanza. Mi accoccolai rassegnata su quello che sarebbe diventato il letto del rosso e chiusi gli occhi.

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CASTIEL

Durante il tragitto che mi avrebbe portato dalla stanza di Debrah alla mia, riflettei sullo brutto scherzo giocatomi da qualche ragazza con cui ero stato a letto. Prima della partenza per Roma, avevo ricevuto un messaggio anonimo, sapevo per certo che non potessero essere stati i miei amici, mi conoscevano e non avevano la minima intenzione di avere a che fare con la versione di un Castiel nervo-isterico. Di altro non sapevo chi pensare. Di certo non poteva essere vero ciò di cui mi accusavano. In ogni rapporto avevo sempre utilizzato precauzioni. Giusto?!

Ma ogni mia perplessità e problema si offuscò quando, aprendo per la prima volta la porta della mia futura stanza, trovai la bella addormentata

Micaela.

Il cuore senza avvertimenti incominciò ad aumentare i suoi battiti.

Ed io d'istinto gettando tutte le valigie, dappertutto, mi avvicinai a lei. M'inginocchiai dal lato in cui potevo ammirare meglio il suo volto perfetto.

Era così bella, bella e fragile. Dormendo esprimeva la dolcezza che, invece, da sveglia aveva sempre cercato di nascondere mostrando a tutti un caratteraccio arrogante. Ma in quel momento si trovava lì, ad un millimetro dalle mie mani, con solo una leggera asciugamano addosso. Sarebbe bastato soltanto un piccolo gesto, per sciogliere quella specie di nodo che teneva legate le due estremità di stoffa, per vederla finalmente nuda.

La desideravo, maledettamente la desideravo.. ma non sarebbe stato giusto, non così, non con lei.

Era vero, inizialmente l'avevo classificata come ragazza facile, ma non lo era mai stata. Lo sapevo bene. Ed ero stato uno stupido poche ore prima, in aeroporto, a dirle il contrario in quel modo grezzo. Lei non mi meritava. Avevo la stupida fissazione di allontanare qualsiasi persona che mostrava un minimo d'interesse reale verso di me. Non potevo di nuovo far entrare una ragazza nel mio cuore ormai divenuto di pietra. L'avrei ferita, perché io non ero più capace di amare, e lei... Miki; lei non era la ragazza giusta neanche da scopare. Mi avrebbe fatto perdere la testa e abbandonato, avrebbe fatto come Debrah. Lei non...

«Castiel... Cass...», Miki parlò nel sonno. Mi stava sognando?

«Cass, dove sei? Torna qui! Io... Io ti amo, non puoi lasciarmi, ti prego!»

Davanti a quelle sue parole mi sollevai da terra, di scatto, e restai immobile in stato di shock. Lei... lei aveva detto di amarmi. Ma lei, lei non poteva volere me sul serio. Io non potevo darle niente, non potevo ricambiare i suoi sentimenti. Cazzo! Infilai disperatamente entrambe le mani tra i capelli. Ero frustrato.

"D'accordo Castiel calmati, respira! Era solo un sogno" mi suggerì la coscienza. Dovetti darle ragione, e placai il mio affanno. Magari era persino un altro Castiel quello che stava sognando ed io da grande babbeo ero entrato in confusione per uno stupido fraintendimento.

Tuttavia mi sentii strano per quelle parole sussurrate dalla sua voce. Come se quello a sognare, a dormire, in quel momento fossi io. Percepii la terra mancare sotto ai piedi e la ragione abbandonarmi lentamente, avrei potuto fare qualsiasi cosa e non me ne sarei neanche accorto o ricordato in futuro. Quasi come se fossi statoubriaco.

Così, d'istinto e continuando a sognare -forse-, mi avvicinai pian piano al viso della piccola donna, senza più alcun timore. M'inginocchiai e poggiai le gambe nuovamente sul parquet. Le cominciai ad accarezzare i capelli con una dolcezza che non sapevo mi appartenesse, come per volerla svegliare. Volevo che lei sapesse, che lei ricordasse qualsiasi cosa sarebbe accaduta da quel momento in poi. Perché io non resistevo più.

Le sue labbra mi chiamavano, mi chiamavano e richiamavano ancora. Non potevo più farle aspettare.

Mi alzai nuovamente e piegandomi per avvicinarmi, sfiorando il suo corpo, le schioccai un bacio a stampo.

E lei, così come la bella addormentata risvegliata dall'incantesimo, aprì gli occhi...

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MIKI

Lo stavo sognando. Lo cercavo, volevo dirgli di amarlo. Ma lui non c'era, lo intravedevo ma poi fuggiva. Scappavo per tutta Roma, girai tutti i posti più comuni e non, ma lui non c'era. Ero esausta e con il fiato corto. Nel bel mezzo di Via Condotti mi piegai poggiando le mani sulle ginocchia. Qualcuno ad un certo punto prese a carezzarmi i capelli, come per rassicurarmi. 

Era un movimento dolce, quasi come se imitasse quello di un'altalena, la mano andava su e giù tra i capelli. Le dita fungevano da pettine, il pettine più dolce che avessi mai posseduto.

Dopo qualche istante mi sentii solleticare il braccio da un qualcosa che sembrava essere una fredda cerniera di una giacca.

E dopo ancora le mie narici s'inebriarono di un profumo; un profumo inconfondibile che forse ancora non era in vendita. Era ivre.. Il profumo della pubblicità, il mio ed il suo profumo.

Senza, però, riuscire a connettere totalmente, fui nuovamente distratta. Anche se quella distrazione -dovetti ammettere- mi piacque molto, segnò il mio KO finale. Le labbra appartenenti al corpo dalle mani dolci, le labbra appartenenti alla persona che indossava il giubbotto, sfiorarono le mie.

Finalmente l'avevo trovato; non era in Via Condotti, non era al Colosseo, non era fuggito da me.. lui era lì nella mia stessa stanza pronto ad aspettarmi.

Aprire gli occhi e materializzare realmente che lui fosse lì, mi rese la persona più felice al mondo. Mi ero ritrovata i suoi occhi grigi ad un millimetro dei miei, la sua bocca invitante ad un millimetro dalla mia, il suo cuore unito al mio... o perlomeno in quell'istante fu così.

«Pace?!?» mi propose con una voce talmente dolce e roca che rimpiansi di non avere un registratore a portata di mano per imprimerla e tenerla per sempre come ricordo.

Non gli risposi, non ce ne fu il bisogno, gli occhi lo fecero al posto mio. E poi mi spuntò un sorriso involontario, uno di quei sorrisi sinceri, fatti con il cuore. 

Senza connettere più, ad un tratto mi sollevò. Mi legai con i piedi intorno ai suoi fianchi e mi lasciai trasportare da lui. Non capivo se lo avesse fatto di proposito ma la mia asciugamano in quella posizione cadde, inevitabilmente. Ero nuda, nuda per la prima volta davanti ad un ragazzo, nuda davanti a Castiel... "Castiel, signori. Diamine!" iniziai ad urlare dentro di me colta da una felicità improvvisa, come l'adolescente che in realtà ero ma che non ero mai stata fino in fondo. 

Ebbene sì, dopo l'ennesimo nostro litigio, forse stava per giungere quel fatidico momento: la mia prima volta. "Oh cazzo! La mia prima volta", davanti a quel piccolo particolare che la mia mente riuscì a ricordare, avvampai. Divenni rossa più dei capelli di Castiel. Non ero pronta, e forse in realtà non lo sarei mai stata.

Ma lui non mi lasciò il tempo di riflettere. Mi spinse contro il muro freddo continuandomi a tenere sollevata, quasi come se fossi una piuma. Poi iniziò a baciarmi insistentemente come se stesse aspettando quel momento da tanto tempo. Accettai i suoi baci, li desideravo anch'io. Ma in quell'istante, una volta presa coscienza della situazione, provai una vergogna assurda, non riuscivo ad essere a mio agio sapendomi nuda davanti a lui. Insomma non lo ero mai stata prima d'allora davanti ad un uomo. E quell'uomo in particolare non doveva assolutamente sapere che fossi vergine ed inesperta. Non potevo permettermi di mostrargli anche quella mia debolezza. 

«Ehi, che succede?! Tutto okay?» si preoccupò per me. Si accorse all'istante che qualcosa non andava, non mi sarei mai aspettata quella delicatezza da parte sua. 

«Mhmh... Ti dispiacerebbe farmi scendere?» 

"Stupida! Stupida! Stupida! Ma che razza di domande fai?!?" 

Castiel giustamente corrugò le sopracciglia confuso «non era di tuo gradimento quello che stava succedendo?» il cuore perse un battito per come sembrò restarci male. Ero ufficialmente la ragazza più deficiente al mondo. Come avevo potuto lasciarmi sfuggire un'occasione come quella? Cretina!

«Certo che mi piaceva...» arrossii per l'assurdità del momento. Stavo chiacchierando nuda davanti al ragazzo per cui avevo una cotta da mesi, avevo fantasticato ore o ore su nostri ipotetici approcci intimi e proprio quando stava per accadere realmente, lo avevo rifiutato, liquidato. Patetica. «È solo che... Sono sicura che la Lamberto passerà di qui tra poco e non vorrei ci trovasse in situazioni ambigue» mascherai la scusa con un finto sorriso, dando la botta finale a quello che era accaduto.

A quel punto lui non rispose, apparì deluso. Mi ero comportata da codarda, più del solito. Non avevo il coraggio di dirgli di essere vergine ed ero passata per la tipica ragazza che ne aveva già viste tante di quelle cose nella vita, e che al momento non ne aveva voglia.

Raccolsi l'asciugamano dal parquet e con essa, ripresi, anche la mia verginità. Aprii la prima valigia che mi capitò tra i piedi, presi dei vestiti comodi e mi precipitai in bagno sotto lo sguardo bruciante di Castiel. Indossai di fretta e furia un jeans ed una maglia rossa, uscii dal bagno nello stesso istante in cui qualcuno bussò alla porta. 

Corsi ad aprire, sapevamo benissimo fosse Stefania, ed io non volevo farla aspettare, non volevo potesse pensare a male.

«Allora... La camera è di vostro gradimento?» ci chiese appena entrò.

Avvampai all'istante. Se solo avesse saputo cosa era accaduto in quella stanza cinque minuti prima, ci avrebbe pensato due volte prima di fare quella domanda equivocabile. Nonostante l'imbarazzo risposi affermativamente, mentre Castiel non si scompose minimamente. 

Continuò a stare immobile poggiato alla finestra, accanto al suo letto, ed a braccia conserte. Dopo il mio rifiuto, dopo quello che era accaduto, non si era spostato neanche di un centimetro. Si era solo limitato a sollevare il cellulare dalla tasca dei suoi jeans e a giocarci... o forse stava semplicemente scrivendo alla sua ragazza che il viaggio era andato bene.

Stefania, invece, dopo la domanda entrò nella stanza chiudendo la porta alle sue spalle. Poi si sedette comodamente su quello che sarebbe diventato il mio letto e si sistemò la lunga gonna assicurandosi che non le si fossero fatte quelle fastidiose pieghe.

Subito dopo, poggiando le braccia sulla linda gonna iniziò a girare i pollici. Con tutta la calma del mondo, per ultimo, c'informo: «Per volontà della preside avrete questa giornata libera. Io avrei optato per una sorveglianza a distanza, ma lei ha insistito! Quindi il coprifuoco sarà a mezzanotte... Uscite, fate ciò che volete visto che entrambi conoscete già Roma, ma se ritardate di anche solo un minuto sappiate che trascorrerete una vacanza da incubo!»

Con quelle ultime parole cercò d'incuterci timore, con me ci riuscì ma con Castiel probabilmente no. Infatti non si scompose neanche di un millimetro, continuò a giocare con il cellulare e non fece neanche un cenno di saluto quando la signorina Lamberto uscì dalla porta.

Quelle frasi mi avevano fatto riflettere sulle tante contraddittorietà del Dolce Amoris. Ci avevano assegnato un tutor, una guida che ci potesse osservare e controllare durante il viaggio, ma poi alla prima occasione ci avevano dato il via libera e potevamo persino uscire quando e dove ci sarebbe capitato. Nello stesso tempo, ci avevano assegnato un'unica stanza trascurando il fatto che sia io che Castiel eravamo di sesso opposto, ma poi la prima raccomandazione che ci avevano fatto stava nel non avere inciuci.

Così feci presente le mie perplessità a Castiel per spezzare il ghiaccio che si era formato tra di noi.

«Certo che il Dolce Amoris è contraddittorio forte, eh?!»

«Già... Stasera facciamo un'uscita a tre o esco da solo?» non mi aveva calcolata per niente. Non aveva sollevato neanche un attimo il volto dal cellulare. Sembrava mi stesse invitando ad uscire con lui solo per non sentirsi in colpa. E poi perché aveva detto "tre"?! Fino a prova contraria io e lui eravamo due persone, non tre.

«Hai per caso intenzione d'invitare la Lamberto con noi? Non sono sicura sia di buona compagnia, me...»

«No. C'è Debrah qui!» con quell'affermazione bloccò le mie parole e la mia leggera risata provocata dall'idea di un'uscita a tre con la nostra tutor.

Ma da ridere non c'era proprio nulla. Nell'udire quel nome persi un respiro, mi mancò un battito ed una fitta lancinante colpì il mio povero cuore. Non sapevo cosa dire, come reagire. Non sapevo niente. M'innervosii all'istante. Avrei dovuto sopportare quella palla al piede anche a Roma. Ero incredula.

«C-che? Cosa mi sono persa?» furono le uniche lettere che riuscii a pronunciare, balbettando.

Sembrava quasi che avessi visto qualcuno a me caro morire.. quasi come se un po' stessi morendo anch'io.

«Lei è a Roma.» mi comunicò semplicemente, senza ulteriori spiegazioni. «Allora, hai deciso cosa fare? Non posso stare una giornata appresso a te!» nonostante il mio tono di voce tremante non si era scomposto.. come se il ragazzo apprensivo che mi aveva accarezzata mezz'ora prima fosse stata un'altra persona. Con il mio rifiuto di poco prima avevo innalzato un muro tra noi, ma a quel punto avevo fatto più che bene. Aveva intenzione di avere una tresca con due ragazze contemporaneamente? Con la sottoscritta non sarebbe mai accaduto. Aveva sbagliato di gran lunga persona. 

Eppure Debrah mi aveva avvertita, avrebbe fatto di tutto per allontanarci, per farmela pagare, ma allora per quale motivo ci ero rimasta così male? Be' la risposta risultò semplice. Mi ero totalmente dimenticata di lei e della sua mente diabolica. Pensavo fosse solamente una minaccia, la sua, pensavo che in realtà non l'avrebbe fatto, ma avevo sbagliato i miei calcoli; come sempre del resto.

Incassando anche quell'ultimo colpo, corsi a sdraiarmi. Mi distesi sull'estremità del letto dandogli le spalle, lui non mi avrebbe dovuto vedere.

Senza volerlo, la prima lacrima mi solcò il viso.. dovevo pur togliere, in qualche modo, un po' di veleno che mi si era formato, in un baleno, nel corpo. Ed il miglior modo per farlo era quello. Non amavo piangere, prima di trasferirmi a Parigi non lo facevo da anni.

Quando mi sentii in grado di rispondere a quella sua specie di proposta, lo feci, senza però guardarlo negli occhi. Quello era un modo per ripagarlo con la sua stessa moneta.

«Non mi va di uscire. Sono stanca. Preferisco rimanere in camera, da sola. Divertiti!» accentuai le ultime due parole che risultarono dette con acidità.

Come faceva da ormai mezz'ora m'ignorò anche davanti a quella espressione. Ed io lo lasciai fare; ero divenuta forzosamente, abbastanza orgogliosa da non calcolarlo più.

***

Dormire non era servito a niente. Mi ero addormentata pensandolo e risvegliata allo stesso e identico modo. Non sapevo se fosse uscito o se fosse ancora lì impegnato a scrivere alla sua amata ragazza. Capirlo però fu facile. Mettendo un po' di orgoglio da parte, mi voltai verso la finestra trovando solo quel muro che nascondeva le impronte della nostra quasi passione. Lui non c'era. Non era sul suo letto e né in bagno.

Così ne approfittai, feci per alzarmi ma appena drizzai il corpo un forte capogiro mi fece cadere sul parquet fresco.

Non avevo forza per alzarmi, così restai lì poggiando solo la schiena contro il muro. Subito lo sguardo cadde su quella parete, la parete, il momento che molto probabilmente avrebbe segnato la rovina del mio viaggio sereno a Roma.

Appena pensavo a lui, inevitabilmente piangevo. Non seppi spiegare quella reazione, ma in quei momenti lo stavo associando ai dolori più amari.

Le lacrime continuavano a scendere, erano giunte all'estremità della bocca. Su quella bocca che poche ore prima era stata di Castiel ora giacevano semplici e stupide lacrime, provocate sempre dallo stesso protagonista.

Le lacrime avevano un sapore salato, salato come il conto che avevo dovuto pagare rifiutando il rosso. Più minuti passavano e più mi rendevo conto di aver sbagliato. Ero di una contraddittorietà assurda. Avevo sbagliato, ero una codarda, perché lui sicuramente avrebbe capito, lui mi avrebbe insegnato a fare l'amore se solo glielo avessi permesso. L'amore per me, il sesso per lui. Ovvio. Ma... Se solo avessi accettato, se solo avessi zittito la mia bocca, lui non sarebbe corso da Debrah e probabilmente quella sera l'avremmo trascorsa insieme, noi due, soli. Quelle che rigiravano nella mia mente erano solo ipotesi, ma ripensando agli accaduti apparivano come più corrette che mai. Lui aveva voglia di stare con me, desiderava il mio corpo perlomeno, perché se fosse stato il contrario sarebbe entrato in quella stanza e mi avrebbe lasciata dormire. Dopo quelle convinzioni restava da capire solo una cosa: l'avrebbe fatto per semplice vizio o perché infondo gli interessavo io come persona? 

Dopo tutte quegli interrogativi senza risposta ebbi il cervello in fiamme. E stare lì chiusa in quella stanza, che mi parlava solo del mio vero e più grande punto di domanda, non mi avrebbe aiutata. Senza riflettere un secondo di più mi alzai di scatto con un'idea in mente. Per placare le mie ansie e i miei dolori sarei dovuta recarmi in un luogo che di dolori ne aveva visti anche troppi: la mia casa. Solo in quel modo, la stupida cotta per Castiel e i relativi problemi legati a lui, mi sarebbero apparsi un niente in confronto a quelli vissuti per tutta l'infanzia. Portavo sempre con me le chiavi, anche andando in giro a Parigi le portavo con me. Era un modo per avere dietro un pezzo di Roma che infondo era ancora la mia città. Un modo per ricordarmi chi ero. 

Questa volta senza alcun giramento di testa, m'infilai in fretta e furia delle converse rosse e indossando una borsetta a tracolla corsi in direzione della fermata più vicina. Sapevo di aver detto che avrei chiuso definitivamente con quella casa una volta cambiato Stato, ma ora sentivo il bisogno fisico e mentale di tornarci. Forse agli occhi degli altri, semmai lo avessi raccontato a qualcuno, sarei apparsa masochista, una ragazza che ama farsi del male, ma non potevo farci nulla..

Dovevo tornare nel luogo dei miei mali per aprire gli occhi e smetterla di soffrire per uno stupido ragazzo. Solo la visione di quel luogo mi avrebbe riportata coi piedi per terra, a quando mi ero imposta di non far entrare nessun uomo nel mio cuore.

Dopo qualche minuto trascorso alla fermata con, forse, una ventina di persone di tutte l'età, l'autobus arrivò pieno zeppo di pendolari. Dovevo immaginarlo. Gli autobus di Roma alle sei di sera, in orario di punta, non si potevano avvicinare ed anzi ad alcune fermate, gli autisti, neanche si fermavano. Per fortuna però, quel giorno incappai in un'autista dal cuore generoso, che pur vedendo molte persone, alla fermata dove mi trovavo io, si fermò ugualmente.

Salii e fui catapultata nell'inferno di Dante Alighieri. Ero finita per errore nel girone dei puzzolenti, un nuovo girone, dove c'erano tutte le puzze inimmaginabili. Girandomi a destra avevo ritrovato i puzzolenti di ascella, girandomi a sinistra i puzzolenti di piedi, davanti a me i puzzolenti di anziani peti e dietro di me un misto dei precedenti puzzolenti. Insomma un divertimento mai provato prima. Fui comunque fortunata perché scesi poche fermate dopo, passai quindi solo dieci minuti in quella sottospecie d'inferno.

Ed in un batter d'occhio eccomi giunta a destinazione. A pochi passi dalla fermata avrei ritrovato di nuovo quella casa che era stata mia per sedici anni. M'incamminai a passo indeciso e quando ebbi il palazzo nella visuale, le mani iniziarono a sudare freddo. Ero in uno stato di forte ansia, avevo il timore di ritrovare lì la donna che mi aveva partorito. Avevo la paura che lei avesse saputo della mia partenza e si fosse trasferita nuovamente in quella casa. E ancora una volta la mia tendenza innata di farmi film mentali non mi stava aiutando.

Man mano che i passi di distanza dal portone d'entrata diminuivano, l'ansia ed i formicolii nello stomaco aumentavano, di conseguenza.

Dopo qualche attimi di secondo eccomi di nuovo lì. Era rimasto lo stesso e identico portone d'entrata di vetro e alluminio dorato. Affianco, la lista di nomi e cognomi sui citofoni non era cambiata. Ma lì dove proprio qualche mese prima c'era stanziato il mio nome, si leggeva uno spazio bianco. Uno spazio bianco che valeva più di tante spiegazioni o parole: lei non era tornata, la mia cosiddetta madre, aveva continuato la sua vita senza pensare minimamente a me. Era proprio quello che avevo sempre voluto ma infondo un po' ci speravo di rivederla. Anche solo per riempirla di parole orribili, anche solo per riguardare i suoi occhi incoscienti, mi avrebbe fatto bene rincontrarla dopo otto anni di lontananza.

«Otto anni sono tanti...» pronunciai con amarezza come se stessi dialogando con qualcuno.

Mantenendo il volto basso entrai dentro il portone. Salii tutte le rampe di scale e finalmente giunsi alla mia porta. Era come l'avevo lasciata, di legno scuro massiccio con su una targa, in oro, che riportava il cognome Rossi, della famiglia di mio padre e di conseguenza il mio.. Quell'uomo, di suo, mi aveva lasciato solo quello, oltre al male provocatomi. 

Prima d'infilare la chiave dentro la serratura emisi un sospiro d'incoraggiamento, quando mi ritenni pronta girai le chiavi.. ma proprio quando avrei dovuto fare l'ultimo giro, mi fermai.

Inevitabilmente la ripensai. Non sapevo per quale motivo, ma ora come non mai, rimpiangevo di non aver avuto una guida, di non aver avuto lei come madre. Non avrei voluto avere una mamma totalmente diversa, no quello no, io di lei sarei stata capace di accettare anche gli enormi difetti pur di averla, affettuosa, affianco. Sarei stata capace di accettare persino il suo lavoro poco dignitoso se solo lei mi avesse, in cambio, amata. E invece no, non era mai accaduto niente di tutto quello. Lei non era stata in grado di aiutare una figlia, di proteggerla, di accudirla, amarla. Lei non era stata in grado di fare nulla se non solo scappare con il primo che le aveva promesso una vita sicura.

«Chissà se lei ora ha un'altra famiglia, chissà se ora è capace di amare, chissà se mi pensa ogni tanto, chissà se è viva...» un magone all'altezza dello stomaco mi provocò ansia al sol pensiero che anche lei non ci fosse più sulla terra. Avevo ricominciato a parlare ad alta voce, ma prima che la vecchietta pettegola e vicina di porta uscisse, di fretta feci l'ultimo giro di chiavi e la porta di casa si aprì.

L'entrata era proprio come l'avevo lasciata. Spalancai d'istinto la porta del mio luogo preferito, il salotto, ed ammirai ogni cosa. Sparse per i mobili c'erano le tante foto di paesaggi o che mi raffiguravano da sola, e insieme a Ciak. Amavo fare foto.

Purtroppo per questione di spazio non ero riuscita a portarmi a Parigi, quei collage enormi di autoscatti, e quindi erano rimasti lì, su quelle mura bianche e spoglie. Era rimasta immobile anche l'enorme libreria difronte al divano. Mi avvicinai, proseguendo, ad un posto ben definito. In uno scompartimento c'era un cassetto, dentro a questo una foto. La presi.

Le lacrime ricominciarono a scendere ininterrottamente. In quella foto, mia mamma giovane e ancora innocente sorreggeva tra le braccia una bimba di appena sette mesi. Quella bambina ero io. In quella foto mia mamma era felice di avere una figlia, in quella foto, nonostante i problemi non avrebbe mai pensato di abbandonarmi.

Ed invece il destino aveva scelto per noi due strade separate che probabilmente non si sarebbero mai più incontrate. Io e lei saremmo per sempre rimaste due rette parallele incapaci di scontrarsi. 

«Adesso dove sei, mamma?» chiesi ancora ad una persona che non mi avrebbe mai e poi mai sentita.

Con tutto il dolore del mondo, poggiandomi contro la libreria, lasciai cadere il mio corpo sul pavimento. E intanto piangevo, piangevo e piangevo ancora. Negli otto anni trascorsi senza di lei avevo trascorso altri momenti simili, momenti di debolezza che poi erano sfociati in forza. Con il passare degli anni, con il dolore, avevo costruito una corazza che mi potesse proteggere dagli altri, dalle delusioni e dagli amori. Creando quella maschera un po' volevo somigliarle.. infondo era quella l'unica cosa che mi aveva insegnato. Lei era una prostituta ed io di conseguenza mi ero sfacciata per ragazza facile. Lei mi aveva abbandonata dimostrando un menefreghismo assurdo, ed io di conseguenza avevo assunto quegli aspetti caratteriali con tutti. Non mostravo le mie emozioni, ero distaccata dal resto del mondo.

Eppure cambiare città mi aveva trasformata. Non ero più la ragazzina orfana e triste di Roma. Qualcuno aveva abbattuto la mia corazza, aveva levato la mia maschera, ma giunti a quel punto non sapevo più quale versione di Miki fosse la migliore. Soffrivo in ogni caso. Mostrare emozioni, sentimenti rendeva deboli ed io non ero diventata nient'altro che quello. Una debole. Una pedina, una monetina nelle mani del giocatore d'azzardo. Che tristezza.

Dialogavo sola come una matta fissando un punto fisso e vuoto.

Dopo essermi resa conto che stavo esagerando con quella scenata, scossi la testa e prendendo, anche questa volta, forza dal dolore, mi alzai di scatto.

Volevo visitare la casa come se la stessi vedendo per la prima volta. Mi trovavo nel lungo corridoio quando una luce improvvisa mi spinse a recarmi in cucina con timore.

Quello che trovai fu qualcosa di straordinariamente distruttivo, di straordinariamente strano da auto-convincermi che potesse trattarsi di pura immaginazione. Pur di negare quello che stavo vedendo, pensai che rivisitando il passato ero entrata in una suggestione tale da immaginarmi realtà che non potevano esistere.

Nel mondo surreale, nella mia vecchia cucina, intravedevo un tavolo apparecchiato per due. Una tovaglia bianca con su ricamati dei fiori di seta che rendevano tutta la stanza elegante. Un enorme candelabro in Swaroski riducevano tutti gli altri centrotavola del mondo miseri dinanzi a lui. Delle posate e dei piatti, degni da gran gala Rabanne, rendevano la tavola ancora più lussuosa. Per non parlare poi delle tante leccornie presenti, dall'antipasto al dolce, tutto era sofisticato e dall'aspetto appetitoso.

Il candelabro era acceso, quindi nella mia fantasia doveva esserci qualcuno in casa oltre me.

Iniziai così a scrutare ogni angolo e mi accorsi di esser valida, nonché degna sostituta del Detective Conan. Anzi a dirla tutta avrei potuto rubargli il mestiere.

Vivendo ancora nella suggestione e nelle sensazioni acute, entrai in tutte le stanze della casa.

Superando ogni limite, squadrai anche ogni angolo nella stanza dei giochi della mia cara mamma. Ripensandoci, forse l'autrice della trilogia Cinquanta Sfumature aveva preso spunto da lei. Ironie a parte, in quella casa non c'era davvero nessuno oltre la sottoscritta. Quindi le cose erano due: o ero diventata pazza o dovevo cercare altri indizi sulla tavola. Da perfetta detective scelsi la seconda opzione. Volevo cercare altre prove e se non ne avessi trovate, allora, avrei dovuto far visita ad un bravo psichiatra.

In punta di piedi e con mille occhi al posto di due mi recai nuovamente sul luogo del delitto. Era proprio lì che avrei dovuto trovare le prove. Squadrai con dettaglio ogni minimo particolare della tavola e trovai realmente qualcosa. Ringraziai mentalmente Italia unoper avermi tramandato una grande cultura con tutte le puntate del cartone Conan, e riguardai la prova.

Sotto al tovagliolo di stoffa in raso spuntava un foglietto piccolo con su scritto in stampato: CASTIEL.

Non capivo. Dovevo sicuramente avere gli occhi appannati, o forse con tutte le lacrime mi era diminuita la vista. Per evitare ulteriori sbagli, strizzai gli occhi con entrambi le mani, era giunto tempo di capire e vederci chiaro.

Poi sollevai il foglio dal tovagliolo e mi accorsi che non era riportato solo un nome, ma anche una frase.

Quelle parole erano dedicate a Castiel. Stavo per sentirmi male, seriamente.

Perché ogni volta che provavo ad allontanarmi da lui, inevitabilmente il fato ci legava nuovamente?! Quel circolo vizioso nel nostro rapporto, era qualcosa di altamente distruttivo. Il mio cuore non ne poteva più.

Lessi e rilessi il contenuto del messaggio, non potevo, non riuscivo a capire come fosse finito a casa mia.


CASTIEL,

so di averti ferito in passato,

ma oggi sono qui per dimostrarti

quanto in realtà tengo a te.

SEI LA MIA UNICA RAGIONE DI VITA..

TI AMO

Debrah <3


Non capivo. Non capivo come diamine avesse fatto ad avere le chiavi di casa mia. Se avesse forzato la serratura me ne sarei accorta, le finestre oltre ad essere ancor ora sigillate non potevano essere percorse a causa del piano alto in cui abitavo.

Delle calorie improvvise, poi, mi avvamparono il volto. Improvvisamente avevo caldo, tanto caldo. Forse per lo spavento, forse perché non avevo più la situazione sotto controllo, forse perché ero impaurita.. ma stavo avendo sensazioni ed intuizioni che non volevo per nessuna ragione al mondo avere. Ogni cosa mi era sfuggita di mano. 

Dopo neanche un minuto, sentii la porta d'entrata aprirsi. Dovevo proteggermi, dovevo prendere qualcosa tra le mani, all'istante. La prima cosa che notarono gli occhi fu quel meraviglioso candelabro. Senza pensarci due volte, lo presi e mi recai a passi lenti verso l'entrata.

Ma prima che potessi intravedere chi fosse, delle voci mi fecero sussultare.

«Come hai avuto le chiavi di questo posto?» era lui. Castiel.

Era lui, cazzo, lui, lui a casa mia. Ma come? Come? In quel caso, più le domande aumentavano e più la testa girava. Sentivo lentamente le forze mancare, stavo male come non lo ero mai stata. Ero in totale stato di shock. 

Senza capire come, urtai un vaso poggiato al muro, accanto alla porta della cucina. Si ruppe.

Inevitabilmente gli ospiti inaspettati, mi sentirono. 

«Che succede? Chi c'è?» urlò lei come un'oca starnazzante.

Proseguii di qualche centimetro verso le loro voci, ma subito dopo, furono loro a trovare me.

Ed io urlai con voce stanca e un po' troppo debilitata «Sorpresa!»

Il volto di Castiel fu un misto tra stupore, incredulità e spavento. Quello di Debrah non feci in tempo a guardarlo.

Le forze che pochi minuti prima stavano per mancarmi, perirono del tutto. Mi sentii scarica, senza energie. Subito, il cuore iniziò a battere fortissimo, avevo una tachicardia inarrestabile, e la fronte sudò fredda.

Non percepii più la terra sotto i piedi, non avevo equilibrio. Sembrava che qualcuno stesse per spostare il pavimento, come se con esso, mi dovessi spostare anch'io.

Poi all'improvviso la vista mi si appannò, la sua voce magnetica che pronunciava il mio nome. Eppure il suono era lontano, quasi ovattato.

«Miki, Miki..» non sembrava più nervoso, ma preoccupato e dolce. Musica per le mie orecchie. 

«N-non s-smettere d-di chiamarmi. A-a-amo...» non capivo cosa stavo farneticando.

Poi, il vuoto totale. La testa mi si svuotò e vidi tutto nero.

-


CASTIEL

Da degna bella addormentata qual era, Miki, svenendo, cadde in un sonno profondo. Se le stupidaggini delle fiabe -inculcate ai bambini- fossero state vere, si sarebbe potuta risvegliare, nella beatitudine, solamente con il bacio del vero amore.

Ma purtroppo per lei, eravamo nel mondo reale al momento, e non sarebbe mai potuto accadere.

  
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