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Autore: Lusivia    09/05/2015    2 recensioni
[STORIA IN VIA DI REVISIONE: primi SETTE capitoli aggiornati.]
Un tempo credevo che quelle piccole sferette bianche fossero la sola cosa che mi impedisse di impazzire, quel filo stretto attorno alle rovine della mia mente, e tutto ciò che dovevo fare per evitare il collasso era chiudere gli occhi e buttarle giù.
Per diciotto anni avevo vissuto nella convinzione che fosse giusto così, che non poteva esserci via d'uscita da quella villa nascosta tra le colline, ma spiriti antichi avevano cominciato a sussurrare le loro verità.
Un giorno, da un debole atto di ribellione scoprii che ciò che vi era dentro di me era molto più che il riflesso della malattia; era qualcosa di più antico, l'eco del sangue versato in nome di quell'eterna battaglia che continuava ad emettere i suoi clangori, ma l'umanità era ormai troppo giovane per ricordarne il suono.
Ho dovuto vivere le favole narrate dalle antiche voci nella mia testa per scoprire la verità su di me, sul mondo, sull'autentica faccia dell’umanità, e ancora non sono sicura che sia davvero tutto.
Ma ora dimmi, Laura: quanto indietro vuoi tornare per scoprire che la tua vita è, ed è sempre stata, una bugia?
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Kadar Al-Sayf, Malik Al-Sayf, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo ispirato alla cover by Fismoll della canzone “ Breathe Me – Sia”.


                                                 
                                                                              Capitolo 12
                                        
                                                      Non si è mai veramente soli.

                                        




Malik intrappolò il suo nemico all’interno delle sfere nere nei suoi occhi, quasi fosse la cosa più naturale del mondo.
Allargò il petto in un respiro per calibrare il lancio, socchiuse le irridi luminose dietro le ciglia, umettò la bocca carnosa con la lingua, e lasciò che la lama schizzasse diritto verso il suo obiettivo.
Il dardo affondò in un tonfo strozzato nel panciotto di paglia del bersaglio, il colpo andato a segno provocò la mia usuale ammirazione e, come sempre, non mi astenni da fargli un fischio d’apprezzamento che lo imbarazzò.
Ricordavo che quel pomeriggio di fine Aprile Kadar era stanco e che per questo mi chiese di rimandare gli allenamenti, nulla sapendo che in questo modo aveva dato l’occasione perfetta a suo fratello maggiore di tenermi come ostaggio per un’intera giornata di allenamenti e studio in biblioteca.
– Dovrai imparare a farlo anche tu. – intimò austero lui mentre tornava a sedere, freddando all’istante qualsivoglia tentativo da parte mia di entrare un po’ più in confidenza con il mio maestro.
Annuii apatica mentre lui si sedeva al mio fianco e reclamava con la mano tesa la borraccia d’acqua, dunque gliela porsi sovrappensiero e, mentre Malik si dissetava, io mi concedetti un momento per rilassarmi sotto l’ombra rinfrescante dell’armeria.
Premesso che la scoperta sulla mia identità non era avvenuta nel migliore dei modi per lui, Malik si era comunque impegnato con Kadar di cucirmi addosso la scomoda veste dell’Assassino cui ruolo stavo interpretando, nonostante ciò non fu raro che mordesse il freno a causa della mia cocciuta resistenza nell’imparare.
All’inizio il nostro rapporto non fu affatto facile, spesso mollavo l’allenamento con la scusa del caldo o del dolore alle gambe quando, in verità, scappavo da lui e dal suo inflessibile programma d’allenamento e ciò provocò parecchie discussioni con suo fratello minore, che invece insisteva sul mio presunto talento naturale.
Alla fine, Malik capì che avrebbe preso più mosche con il miele che con l’aceto e decise che mi sarebbe venuto in contro spostando le lezioni in orari in cui il sole non era al suo zenit, ovvero quando la leggera frescura di prima mattina colpiva la fortezza da nord, e concedendomi pause più lunghe ed esercizi meno serrati.
Superati i dissapori iniziali, finimmo con il funzionare come un meccanismo perfetto: lui riusciva a tirare fuori il mio lato competitivo alternando richiami con sporadici incoraggiamenti, si sforzava di ripulire le spiegazioni delle definizioni tecniche e azzardava del contatto fisico qualora fosse necessario per mostrarmi una posizione, ed io rispondevo con cocciuto impegno, entusiasmo, concentrazione e voglia di mettermi alla prova.
Ciononostante, nessuno dei due si curò mai di conoscere affondo l’altro, soprattutto Malik.
Dovendo rimanergli accanto per la maggior parte della giornata, scoprii che il più grande degli Al-Sayf era un tipo decisamente riservato, dedito al lavoro e poco incline ad intrattenersi con le donne, come dimostrò un pomeriggio quando rifiutò davanti a me una giovane badante che si era invaghita dei suoi bei occhi metallici e aveva tentato invano di attirare la sua attenzione in corridoio.
Sapeva che erano molte le donne di Masyaf che spasimavano per lui, tuttavia Malik preferiva di più la gioia di un combattimento che quella concessa da un paio di cosce.
Iniziavo a pensare che fosse un essere asessuato.
– Quando m’insegnerai a lanciare con i pugnali, Malik? – domandai nell’osservare ammirata la precisione con cui il suo pugnale era affondato nel fantoccio.
Lui allontanò la borraccia dalla sua bocca, deglutendo prima di dire – Per oggi hai fatto abbastanza. Non sforzare il tuo corpo oltre i suoi limiti, altrimenti starai male.
– Ce la faccio.
– Kadar mi uccide se stai male, quindi, preferirei rimandare a domani. O la nostra piccola favorita dell’Ordine non vuole aspettare?
Lo squadrai mentre riponeva il contenitore al suo fianco, fronteggiando il suo sguardo intimidatorio come ormai avevo imparato a fare se volevo tenergli testa.
– Attenderò. – brontolai dunque.
Lui mi scrutò tenendo i gomiti puntati sulle ginocchia e i piedi che deviavano in direzioni opposte, per qualche motivo rimase piacevolmente colpito da quell’umile bagliore di fierezza nel fondo dei miei occhi e per questo mi concedette un’amichevole pacca sulle spalle.
Istintivamente toccai il punto colpito con aria offesa e lui rispose sogghignando.
– Devo ammetterlo, hai fegato. Una donna non dovrebbe fronteggiare così un uomo, eppure tu lo fai senza timore. Non so se esserne irritato o compiaciuto, sorellina.
Schernii quella sua affermazione con aria sprezzante.– Solo perché sono donna, dovrei stare in casa e fare figli, invece di esser qui, a imparare a combattere?
– Certo. Una donna non dovrebbe combattere, non gli si addice, invece tocca all’uomo prendersi cura di lei.– replicò austero, riuscendo a solleticare il mio orgoglio a tal punto che a stento seguii ciò che blaterò dopo.– Non so cosa ne pensiate voi cristiani, ma qui l’uomo ha il dovere di curare la fragilità della sua sposa e lei deve ripagarlo con la sua dedizione. Siamo diversi, ed è giusto così. Ma tu sei una straniera, quindi può anche passare il tuo comportamento.
– Quindi, non mi consideri una tua pari, Malik?
Lui fece spallucce. – Cosa ti renderebbe così diversa dalle altre da convincermi a trattarti come mia pari?
Lo squadrai con fare di scherno.
– Puoi anche non farlo. – dissi – A me non importa, perché io so chi sono e non ho bisogno della tua approvazione. Ma, a mio avviso, saresti un idiota.
Visibilmente contraddetto, Malik arcuò un sopracciglio e nascose la smorfia della bocca pressando su di essa con la punta delle dita, dunque mi schernì con una vaga sfumatura d’ammirazione e, infine, sorrise.  
– So che è male dare la possibilità a una donna di ciarlare a sproposito, ma non posso negare d’esser fastidiosamente intrigato dai tuoi modi, Laura. –ammise, picchiandosi la coscia con il palmo– Kadar ha ragione, ne vali la pena. Credevo che insegnarti poche sciocchezze sarebbe bastato per metterti a tacere, tuttavia, adesso, sarebbe un enorme spreco non insegnarti tutto ciò che c’è da sapere. Ma richiederà il doppio dell’impegno fin ora messo.
– Io mi sono sempre impegnata. Sei tu che non mi ha mai presa sul serio.
– Vero, ma adesso mi sono ricreduto. Che ne dici, Laura? Puoi concederti di abbassare per un attimo la tua impenetrabile difesa e fidarti del tuo maestro?
Finsi di meditarci su – Una resa incondizionata, eh?
– Puoi anche rinunciare, se vuoi.
A quel punto, la mia sicurezza cominciò a vacillare: accettare significava prendere un impegno verso di lui, verso di me, verso l’Ordine degli Assassini, insomma, significava prendere una direzione.
Rinunciare, invece, dare la conferma della mia inettitudine.
– D’accordo. Posso provarci, per Kadar.
Malik ghignò malevolo, tuttavia ero sicura d’aver scorto una favilla d’orgoglio nei suoi occhi.

*  *   *

Riemersi da quel ricordo luminoso con un sobbalzo, chinando lo sguardo in basso mentre cercavo di zittire i borbottii capricciosi del mio stomaco che reclamava qualcosa di commestibile, e sbuffai.
Era passata all’incirca un’ora da quando avevo avuto quella discussione con Al Mualim dopo che mi ero ritrovata nella stanza di Kadar, priva di sensi e con un bel bernoccolo in testa, ma non passò molto prima che venisse a visitarmi un medico.
Era un uomo sulla cinquantina, con un paio di occhi verde ceruleo e folte sopracciglia brizzolate, che mi visitò con zelo e rispetto per la mia persona, commentando, alla fine della visita, la mia mirabile impudenza nell’aver ostacolato la mano punitrice del Gran Maestro.
Io non risposi, mi limitai a sospirare distratta mentre quello raccattava la sua roba e si licenziava con un cenno della mano.
Attesi pochi attimi, il tempo sufficiente perché il medico si fosse allontanato, poi gettai di lato le coperte, infilai i piedi negli stivali, riposizionai il mio cappuccio sulla testa e uscii dalla camera.
Girovagai per un po’ tra i corridoi, sgusciando e correndo da una copertura all’altra per evitare alcuni Assassini che confabulavano tra di loro sugli ultimi avvenimenti della giornata, tra cui, senz’altro, spiccava la punizione di Altaïr e la scioccante scoperta sulla vera identità di quel Novizio sbucato fuori dal nulla.
Per fortuna, mentre vagavo smarrita lungo i portici del giardino di palme nell’ala sud, una badante mi aveva riconosciuto, ormai anche lei a conoscenza di quanto accaduto dalle voci di corridoio, e con un cenno incerto della mano m’invitò ad accostarmi.
– In nome del cielo, cosa ci fai qui? – domandò angosciata.
– Cerco mio fratello, Malik Al Sayf. Sai dov’è?
Lei spalancò le irridi marroni. – Sì, lo so. È lì, vedi? Terza porta in fondo al portico, nell’infermeria. Ma non so se sia sveglio.
Scrutai da lontano la porta scrostata che mi aveva indicato, tornai sulla ragazza e la ringraziai con un sorriso interrotto al centro dal diastema, dopo di che marciai verso l’uscio.
L’infermeria era semibuia e appestata dall’odore di disinfettanti e sangue secco che era assorbito in parte dalla presenza di erbe mediche e profumate riposte in alcune ceste sugli scaffali a destra, mentre sotto la finestra erano illuminati degli strumenti chirurgici appena lavati e lasciati ad asciugare su un lungo tavolo.
Proprio davanti a me, Malik era rannicchiato sul letto dell’infermeria e la sua aitante figura era nascosta da una pesante mantella verde scuro che proiettava un alone intorno al suo corpo, parendo come una figura evanescente intrappolata lì per il sorgere del sole.
Lo affiancai senza ricevere un solo sguardo da parte sua, neanche la benché minima importanza, e questo mi turbò a tal punto da non riuscire a pronunciare una sola di quelle belle parole pensate tra me e me mentre gli andavo incontro, perché mi parvero inutili.
Tesi la mano bianca sul suo volto ricoperto di lividi e croste, vidi il riflesso delle mie dita stendersi lungo le sue orbite nere, queste scattarono stizzite verso di me e qualcosa di indescrivibilmente sinistro mi portò a indugiare.
– Non…non mi toccare, Laura. – sussurrò caliginoso l’Assassino.
Ritrassi la mano, con gli occhi strabuzzati. – Perché? – chiesi.
Quello non rispose, si limitò a rimanere di profilo contro la flebile luce dell’esterno che creava un alone verde sui suoi capelli, neri e lucenti come piume di corvo.
– Malik, perché?
– Vattene.
– Ti prego, non mi scacciare…
– Non le voglio le tue scuse, lo capisci? Te lo ripeto un’altra volta. Vattene.
– Perché?
– Lo sai benissimo il perché, maledetta!
Improvvisamente, Malik calciò via le lenzuola che aveva addosso e scese dal letto con così veemenza che mi ritrassi in un balzo, poi mi afferrò per un polso e, sebbene incontrò la resistenza del mio braccio, riuscì ad avvicinarmi quel tanto che bastava per gridarmi addosso con tutta la voce che aveva.
–Guardami, dannazione, guarda che cosa hai fatto! Kadar è morto, lo capisci? Cazzo è morto!
Tremai nel sentire la morsa della sua mano piegare il mio polso. – Ti prego, calmati...
 – La colpa è tua!– strillò e la sua gola s’ingrossò d’aria – È colpa tua se Kadar è morto! Colpa tua e di quel sacco di merda, che osa calpestare tutto ciò per cui la Confraternita lotta solo perché crede di essere un dio! Voi avete permesso che lo uccidessero!
– Io non volevo che Kadar morisse!– obbiettai con gli occhi rossi di lacrime, strattonando senza successo il polso a tal punto da provocarne un rumore poco rassicurante.     Malik, però, non lasciò la presa neanche quando mi vide storcere la bocca dal dolore.
In un ultimo disperato tentativo, conficcai le unghie nel suo polso, affondando poco nella speranza che il dolore lo invogliasse a mollare la presa, ma fu come se Malik avesse perso la sensibilità e, senza batter ciglio, riprese a strillarmi addosso.
– Maledetto il giorno in cui Kadar ti ha portato da Damasco! Maledetto me, che vi ho permesso d’incontrarvi di nascosto anche quando era pericoloso, anche quando sapevo che prima o poi ti avrebbero scoperto e avrebbero punito tutti e tre!
– Malik, lasciami!
Colpii il suo viso fortissimo, lui gettò per un attimo la testa di lato ma non accennò ad allentare la presa, anzi, improvvisamente mi ritrovai a piroettare su me stessa e a cascare sotto il peso del suo corpo che m’immobilizzò tra le lenzuola del lettino, ritrovandomi senza fiato.
Lui era sopra di me e mi teneva entrambi i polsi con una sola mano, cosa strana perché era evidente quando fosse faticoso tenermi ferma senza l’ausilio dell’altro braccio.
– Io volevo bene a Kadar... – provai con stanca rassegnazione a farlo ragionare un’altra volta, ma per qualche ragione quelle parole sembrarono false perfino a me.
Lui scosse i capelli con un gesto di dissenso, facendo cascare dal suo sopracciglio un rivolo di sangue dalla ferita che avevo riaperto con il colpo delle mie nocche.  
– No. Io lo volevo bene. E ora è morto.
Improvvisamente, Malik afferrò il mio braccio destro e mi costrinse a impugnare saldamente un coltellino chirurgico preso dagli altri sul tavolo, stringendo le sue dita sulle mie per portare a fatica la lama contro la sua gola scura.
– Ti prego…– sussurrò piano – Ti prego, non posso vivere nella consapevolezza di non aver potuto far nulla per salvarlo… di esser sopravvissuto a lui. Non ce la faccio.
Sentii le sue dita premere contro le mie, la lama riuscì a stillare una minuscola goccia rossa sulla sua pelle e a quella vista tirai subito indietro il polso, prendendo a dimenare le gambe e a spingere il gomito libero contro il suo petto, ma lui era troppo forte .
– Malik, sei fuori di te, non puoi esser serio! – cercai disperatamente di far leva contro la sua spalla ma finii solo col trascinare in basso la sua mantella verde.
Il tessuto cascò sulle sue gambe, qualcosa di anomalo catturò il mio sguardo, guardai verso la sua spalla e mi ritrovai davanti al resto del suo braccio sinistro, amputato di fresco e ancora arrossato nonostante le accurate medicazioni.
Non appena sentì la corazza di tessuto esporre la sua vergogna, Malik mollò subito la presa dal mio polso e corse a ricoprirsi con la mantella, scendendo dal letto così velocemente che ancora non avevo riabbassato la lama dal punto in cui un secondo prima si trovava la sua gola.
Gettai il coltellino a terra, mi misi a sedere sul bordo del letto e cercai la sua figura, ritrovandola rifugiata nell’ombra della libreria in fondo alla stanza.
Sapevo che la mia espressione fosse disgustata, eppure non riuscii a smettere di fissarlo neanche quando lo vidi chinare il capo per la vergogna.
– Cosa… – faticai ad articolare le parole, ma alla fine sputai – cosa ti hanno fatto, Malik?
– Non sono affari tuoi. – sibilò infastidito.
Più sorpresa di prima, mi alzai in piedi e avanzai verso di lui, tuttavia fui costretta a fermarmi quando vidi Malik ritrarsi di scatto contro l’angolo della libreria, facendo cascare alcuni volumi a terra.
– Se non vuoi aiutarmi, vattene. – intimò e con il corpo ritroso m’indicò la porta, segnando definitivamente la fine di quella conversazione e di quelle future.
Non lo avevo mai visto così smarrito, così terrorizzato.
Il Malik che conoscevo non avrebbe mai mostrato la sua vulnerabilità, non avrebbe mai pensato di rinunciare alla sua vita, non mi avrebbe mai supplicato di far cessare il suo dolore in quel modo.
Ma ora era lì, davanti a me, ed era franato in se stesso.
Sapevo che sarebbe affondato ancora se avessi proteso oltre quella tremenda umiliazione, per questo decisi di ritirarmi.
– Va bene. Va bene, Malik, me ne vado. Non preoccuparti.
Mi diressi a testa bassa verso l’uscita, arrivata davanti alla porta tentennai, ma poi immaginai i suoi occhi piantati tra le mie scapole e per questo uscii sbattendomi la porta dietro.
Al sicuro dal suo sguardo corrosivo, abbandonai la fronte contro l’entrata chiusa e lasciai che la tensione di quegli attimi scivolassero dalle mie membra tese, ritrovandomi per l’ennesima volta a dovermi ancorare all’unica cosa che ormai riusciva a fornirmi conforto.
Staccai gli occhi umidi dalla malinconica contemplazione del bracciale di Kadar solo quando udii la giovane badante di prima avvicinarsi con fare un po’ incerto, annunciandosi con un colpo di tosse prima che mi voltassi a guardarla.
– Va…va tutto bene, cara? – domandò.
Di tutta risposta, lasciai cadere la mano penzoloni lungo i fianchi e la guardai sconsolata, un chiaro messaggio che lei colse al volo.
Infatti, dopo aver azzardato una carezza veloce sulla mia spalla, lei si dileguò di nuovo nelle sue faccende.

*  *  *  

Dopo aver lasciato l’infermeria, mi ero diretta a testa bassa nell’ufficio del Gran Maestro come d’ordine, con i pensieri distratti e ancora nervosi per lo stress a cui ero stata sottoposta in infermeria,  per questo poco mi curai di un Assassino che mi osservò infastidito mentre passavo davanti all’armeria.
Non potevo ancora credere alla richiesta di Malik.
Come poteva quello stesso uomo, così fiero e sicuro di se, chiedere a me, una donna, un essere a detto suo fragile e inferiore, di porre fine alle sue sofferenze con un coltello?
Ma, soprattutto, perché proprio io?
Immersa com’ero nelle mie riflessioni giunsi in prossimità dell’ ufficio quasi per forza d’inerzia, capitando lì proprio quando Al Mualim stava già ricevendo qualcun altro.
La corporatura familiare di quel giovane mi convinse a dare una seconda occhiata attraverso gli scaffali della libreria e fu allora che riconobbi Altaïr, il quale se ne stava piantato davanti alla scrivania del vecchio mentre questo lo osservava riposare in un sonno surreale, indotto con chissà quale artificio d’erba o droga.
Improvvisamente, Al Mualim socchiuse la fessura della sua bocca, ispirando. – Il sonno –ordinò – è finito.
Udite le parole del vecchio, l’Assassino si ridestò dall’incantesimo con aria intontita e rimase tra l’illusione e la veglia ancora per qualche secondo, finché, strizzate le ciglia, individuò un uomo seduto sulla grande sedia della scrivania.
Altaïr fissò Al Mualim per un po’e doveva essere parecchio confuso, perché esordì – Non credevo che il Creatore avesse un volto così famigliare.
Immediatamente, il più anziano sorrise mesto – Cosa ti fa credere d’esser degno di incontrare il Creatore, Altaïr?
Il giovane tacque.
– Ma allora, non son morto, Maestro?
– No, non lo sei. Ma vivi ancora.
Altaïr scosse la testa, incredulo. – Com’è possibile? Io ho visto…
– Io ti ho fatto vedere ciò che volevo che tu vedessi, Assassino. Né più né meno.
L’altro serrò le labbra. – Perché mi avete lasciato in vita?
– Ucciderti sarebbe stato uno spreco inutile di talento e risorse per la Confraternita, quindi ho pensato di darti un’altra possibilità, sperando che questa volta tu non deluda le mie aspettative.
– Suppongo che abbiate qualcosa in mente, allora.
Quello rimuginò. – Certo. Ma prima, vorrei che si unisse a noi anche la mia figlia prediletta. Che dici, cara? Vuoi venire avanti dal tuo nascondiglio?
Sobbalzai, guardando attraverso gli scaffali il Gran Maestro che roteava gli occhi nella mia direzione, mentre Altaïr faceva altrettanto, e deglutii.
Staccai le unghie dal legno e mi portai a destra, mostrandomi apertamente ai loro occhi, dopo di che Al Mualim mi fece cenno d’avvicinarmi ed io obbedii.
Oltrepassai lo sguardo sospettoso di Altaïr, mi posizionai all’angolo opposto al suo e non esitai ad ostentare il mio disprezzo per lui squadrandolo truce, solleticando in questo modo gli angoli decadenti del sorriso di Al Mualim.
– Vedo che andate d’amore e d’accordo. – azzardò il Gran Maestro.
Nessuno dei due osò proferire parola.
E lui rinunciò con un sospiro insoddisfatto. – Peccato, perché siete così equilibrati insieme. L’uno Assassino esperto ma arrogante, l’altra bambina imperita e dotata. L’uno forza, l’altra umiltà. Furia e pietà, esperienza e volontà, uomo e donna. Così affini…e così diversi. Potreste imparare molto dall’esperienza dell’altro, se non passaste il vostro tempo a mordervi come cani rabbiosi e ad accusarvi.
– Con tutto il rispetto, Maestro. – la mia interruzione attirò i loro sguardi su di me e, mentre Altaïr parve contrariato, il Mentore fu ben più paziente e mi diede il consenso di continuare.– Io e lui non abbiamo assolutamente nulla da condividere, soprattutto se consideriamo gli effetti catastrofici delle sue decisioni nel Tempio.
– È stato un incidente.– obbiettò l’Assassino.
Lo guardai disgustata – Come può essere considerato un incidente fuggire e lasciare i tuoi confratelli a morire nelle catacombe del Tempio?
– Non potevo salvarli.
– Sì, invece, se solo avessi voluto! E non sarebbe accaduta questa tragedia se tu non avessi agito da sconsiderato e arrogante! Malik ha perso un braccio a causa tua!
– Zitti, tutt’e due! – Al Mualim c’interruppe sbattendo la mano sul tavolo e, quando ebbe catturato di nuovo la nostra attenzione, incalzò – Non fate altro che tirarvi i capelli e piagnucolare con il moccio che vi cola dal naso! Adesso, ascoltate me. Le colpe vanno pagate, e questo vale per entrambi. Altaïr per la sua inettitudine al Tempio, e tu, ragazzina, per esserti travestita da uomo e aver partecipato senza il mio consenso all’Ordine! Vi ho promesso una via di redenzione, perché, per quanto non vi sopporti sentirvi frignare, siete due Assassini abili e potreste servire alla Causa. Non vi tollerate l’un l’altro? Ebbene, vorrà dire che dovrete imparare a collaborare. Ho disposto una lista di bersagli per te, Altaïr. Nove uomini che fomentano la guerra con i loro loschi affari e minano la serenità della nostra gente, ragion per cui devono esser eliminati.
Altaïr sorrise un poco, come risollevato da quella notizia, perché voleva dire che non era ancora fuori gioco, che non aveva perso del tutto la considerazione del suo Mentore.
– Se nove vite sono il prezzo da pagare per la mia redenzione, partirò oggi stesso…
– Non ho finito.
Il ragazzo corrugò la fronte.
– Giacché sei tornato a nuova vita, dovrai ricominciare dal basso. Sei stato spogliato dei tuoi averi e del rango e, dal momento che i Novizi sono come bambini bisognosi di controllo, lei verrà con te. Sarà la tua priore.
Quella deliberazione del Maestro fu come un fulmine a ciel sereno, né io né l’Assassino immaginavamo una tale decisione ma, a essere onesti, l’idea di tiranneggiare su Altaïr mi entusiasmò alquanto e per questo sorrisi.
–Ma, Maestro, ma lei non è assolutamente all’altezza…
– Paura di esser comandato, Altaïr? – schernii la sua preoccupazione con altezzosità e, mentre lui mi lanciò un’occhiataccia, Al Mualim rise di gusto.
– Bene, bene, così voglio vedervi! Comunicativi! Ma ora basta, ho pazientato anche troppo. Voi due farete quanto ho stabilito e non ammetto ritrattazioni. Ora, parliamo del vostro bersaglio.

*   *   *

– Partiremo tra un’ora.
– Puoi scordartelo.
Altaïr si fermò davanti alla sua stanza, roteando il busto di tre quarti.
Io proseguii con quell’atteggiamento indifferente, fingendo di controllare distrattamente qualcosa tra le unghie. – Decido io quando si parte, Novizio…– continuai.
– Non mi chiamare così.
– …ed io decido che partiremo quando lo riterrò opportuno. Magari, tra un mese.
– Cosa? – spazientito, Altaïr scese velocemente le scale e si piantò a pochi centimetri da me, costringendomi a ritrarmi con la mano stretta all’altezza dell’ombelico. – E perché mai dovremmo partire così tardi?
Lo fissai un po’ meno convinta di prima, poi farfugliai – Malik. Lui ha bisogno di me.
Mi guardò.
– Va bene. – e si ritrasse.
Strabuzzai gli occhi, osservandolo mentre si allontanava verso camera sua.
– Tutto qui?
Altaïr si fermò.
– Dopo quello che hai fatto…– dischiusi gli occhi in un moto di disgusto – …dopo quello che hai fatto a me ,Altaïr. Tutto ciò che ti viene da dire è…va bene?
L’Assassino rilassò un po’ le spalle ricurve in avanti, alzò il viso all’aria per prendere un bel respiro, e si voltò.
– Che cosa dovrei dirti? – domandò – Che non sapevo che tu fossi lì? Che sono stato arrogante? Che potevo far di meglio e battere il mio nemico?
Chiusi gli occhi. – Che ti dispiace. – mormorai.
– Mi dispiace.
– No. No, è vero. Per favore, almeno abbi la decenza di non prendermi in giro.
Avvertii il tocco ruvido delle sue dita contro la guancia. – Ascolta…
Spalancai gli occhi. – Non osare toccarmi, bastardo! – gridai, colpendo la sua mano tesa con violenza – Se provi a rifarlo, Cristo Santo, giuro sulla memoria di Kadar che ti ammazzo con queste mie stesse mani!
–Laura, adesso calmati.
–No, non mi calmo! Io non dovrei essere qui, non dovrei esser coinvolta in tutto questo, non dovrei sentir dolore per ciò che è accaduto, perché non è reale! Ma io avevo già visto ogni cosa, seppur in maniera confusa…Kadar, Malik, perfino te! Mi rifiutavo di ricordare, di accettare ciò che sapevo sarebbe successo a breve, tuttavia ora non so come far tacere il dolore! Ed è tutta colpa tua! Tua e di quei dannati occhi da demonio!
– Laura… ma cosa stai dicendo? – Altaïr mi fissò attonito – Di che stai parlando? Laura, guardami!
– Lasciami stare! – scacciai stizzita le sue mani tese ad acciuffarmi, incespicai per pochi secondi e, quando ebbi riacquistato l’equilibrio, scattai in una corsa per allontanarmi da lui.
Fuggii finché non fui sicura d’averlo seminato nei piani superiori, dunque mi appoggiai contro il muro per riprender fiato, e nel trarre il primo respiro intuii d’esser prossima alla cucina.
La cuoca doveva aver già acceso le fornaci, perché il corridoio era pervaso dall’aroma di legna e pane caldo, che scivolò fin dentro la mia gola e fece brontolare capricciosamente il ventre.
Lo zittii con una mano, mentre con l’altra mi asciugavo il sudore dalle guance.
Da quando non mangiavo un pasto decente?
Entrai nella cucina quatta quatta, quasi come una servetta che s’intrufola nella sala da pranzo del suo padrone prima che questi scenda per cena, e con la mano stretta sul braccio gettai occhiate veloci per controllare che non ci fosse nessuno.
–La cucina è chiusa.
La cuoca stava impastando all’angolo della stanza ciò che sembrava la preparazione di una focaccia, e non tirò fuori le mani dalla pasta neanche quando mi vide scattare sull’attenti, chiazzata in viso per l’imbarazzo.
La mia reazione la fece sorridere.
– Ma tra donna si può anche chiudere un occhio. – disse e m’indicò con il mento un vassoio di focacce che odoravano di carne – Prendi un po’ di Fata'ir, hai l’aria un po’ smunta. Se vuoi, puoi portarne un po’ anche a tuo fratello dopo. Quello sciocco, continua a rifiutarsi di mangiare e a trattare male le governanti che mando da lui.
Poi tornò ad affondare le dita olivastre nell’impasto, invogliandomi con la sua gentile distrazione ad avvicinarmi al piatto e, volendo approfittare della cortesia, non me lo feci ripetere due volte.
Dunque mi accomodai dietro il tavolo, feci un sospiro stanco, e presi a mangiare.

*  *  *

Mi risvegliai dal sonno con le fauci secche e la guancia segnata dal tessuto del braccio su cui mi ero appisolata, poco più in là i resti della Fata'ir che avevo consumato e il bicchiere di caffè che la cuoca aveva condiviso con me tra una pausa e l’altra finché, ormai sazia e riscaldata dal tepore della fornace, mi ero addormentata.
Ora, però, il fuoco era stinto e la cenere era illuminata dalla pallida luce della luna nel cielo, mentre la finestra sul davanzale era socchiusa e lasciava entrare gli spifferi.
Mi alzai con gli occhi ancora incollati dal sonno, stiracchiai il corpo tirando le braccia in alto e, quando ebbi ripreso il controllo delle gambe, lasciai la cucina per addentrarmi nel buio della fortezza ormai addormentata.
Non sarei andata nella camera di Kadar, e forse mai più si sarei entrata, perciò decisi che avrei fatto una visita veloce a Malik, dopo di che avrei pensato dove coricarmi.
Quella notte, il cielo era stranamente sinistro, illuminato dall’aura lattiginosa della luna che scompigliava con il suo soffio la chioma spinosa delle palme, riempendo l’aria di fruscii oscuri e ombre che si contorcevano al passaggio del vento.
Mi affrettai a chiudere la porta dell’infermeria alle mie spalle per lasciare nel portico quei brividi lungo la schiena, ma l’inquietudine di quel luogo intriso dall’odore di sangue e ferro sterilizzato tese ulteriormente i miei nervi.
Forse non era il caso di fargli visita a quell’ora, però la richiesta di quel pomeriggio aveva destato in me una pena tale da impedirmi di pensare ad altro se non alle sue grida graffianti, alla vulnerabilità per cui si era piegato come uno stelo d’erba, all’odio nei suoi occhi quando mi guardavano.
Malik era seduto su di una sedia e riposava nell’alone della luna che si riversava in un cerchio dalla finestra, l’unica fonte di luce in quel piccolo antro buio, avvolto nella sua mantella verde come un rapace notturno che si nasconde tra il piumaggio delle sue grandi ali.
Rimasi in contemplazione della manica vuota che cascava in basso, delle folte ciglia che tremavano al movimento dei suoi sogni, dei capelli neri corvini che gli ricadevano sulla fronte aggrottata, e mi sentii subito in colpa d’aver anche solo pensato d’interrompere il suo sonno.
– Non dovresti esser qui…
Mi rivoltai indietro proprio per scorgere Malik mentre appoggiava il mento sulla sua spalla, fissandomi di profilo con gli occhi stanchi ma severi più che mai.
– Dimenticavo il tuo udito sottilissimo.– cercai di abbozzare un sorriso –Scusa, non volevo svegliarti.
Lui sospirò stancamente, e tornò a guardare dinnanzi a se.
Corrugai la fronte. – Malik, qualcosa non va?
Il ragazzo mosse piano i piedi in avanti per stendere le gambe, stiracchiò il collo a sinistra, chiuse gli occhi sotto il bacio della luna e declinò quella mia domanda con un sospiro.
Provai a ignorare l’orgoglio ferito deglutendo a vuoto.
– Sono preoccupata per te, Malik. – insistetti – So che non potrò mai capire fino in fondo il tuo dolore, ma so anche che è più faticoso affrontare le difficoltà se si è soli, perché…perché io stessa ho dovuto combattere per lungo tempo contro qualcosa.
Mi bloccai perché avvertii uno strano senso di colpa che mi premeva contro lo sterno, scossi la testa e, dopo che ebbi gettato indietro le lacrime, avanzai lentamente verso di lui.
– Sai, neanche io ho mai voluto aiuto, perché credevo che nessuno avrebbe potuto comprendere, darmi forza come solo io potevo fare. Eppure, ho avuto ugualmente la fortuna di ricevere aiuto da chi non ha mai smesso d’amarmi, anche quando credevo che mi avesse abbandonato. Lo capisci? Ecco perché non posso abbandonarti, ecco perché ti offrirò il mio aiuto anche quando mi scaccerai, anche quando mi griderai contro d’esser l’artefice della morte di Kadar.  
– Va bene…– Malik si voltò a guardarmi di sbieco – va bene, accetto il tuo aiuto. Vuoi aiutarmi? Allora… impugna quel dannato coltello e metti fine a questo dolore.
Mi bloccai a pochi metri dalla sedia su cui era seduto.
– Non lo farò mai.
– E allora non mi servi.
Lui tornò a guardare dinnanzi a se, mentre io presi a fissare la sua nuca intensamente, tormentandomi tra un pensiero e l’altro il labbro con i denti.
– Ma cosa ti è successo? Un mese fa non mi avresti mai permesso di prendere una decisione simile al posto tuo, non avresti mai chiesto a una donna di porre fine alla tua vita. Dicevi che gli uomini sono più forti, che possono sopportare meglio la sofferenza.
– Ho detto tante cose di cui ora... non sono più sicuro.
– Non importa! Kadar non avrebbe mai voluto che tu facessi una cosa del genere!
Alzai la voce senza volerlo e, quando me ne resi conto, mi punii stingendo gli occhi fino a sentir male, fino a sentire le lacrime scivolare in gola e portare via la bile che corrodeva la mia voce e la rendeva così aggressiva, così disperata, così sconvolta, tornando a guardarlo in silenzio.
– Kadar…lui aveva davvero ragione.– ansimò poi Malik. – Tu non sei come le altre. Ecco perché…ti ho chiesto di fare ciò che non avevo avuto il coraggio… di fare da solo. Ma adesso, non dovrai…più angustiartene.
Sussultò in un gemito di dolore, piegandosi pericolosamente in avanti, e sarebbe caduto dalla sedia se non fossi accorsa a spingere le mie mani contro il suo petto, trattenendolo con tutta la forza che avevo mentre lui si avvinghiava al mio corpo con l’unico braccio che aveva.
Le sue ginocchia cascarono sul pavimento, la mantella scivolò e lo stesso coltello di quel pomeriggio cadde a terra in un tonfo liquido e vischioso, smuovendo un improvviso tanfo di ferro e sale che mi otturò le narici e mi costrinse a guardare in basso.
Sangue, una pozzanghera enorme.
Proprio mentre la mia bocca si spalancava per gettare un grido, Malik tese la mano verso l’alto e poggiò il polso squarciato da tre tagli netti di lama sulla mia spalla, macchiando le mie vesti con abbondanti rivoli di sangue che colarono fino al pavimento.
Mi stava fissando negli occhi, eppure il mio sguardo non riusciva a rispondere.
– Dimostrami che…mi sbagliavo… – ansimò.
– Cosa ti è saltato in mente? – strillai, eppure la mia stessa voce mi parve così lontana, così distante da ciò che stava succedendo.
– Dimostrami…
– Cosa?
Lui strizzò gli occhi, poi abbandonò esausto la testa contro il mio ventre e la mano cascò in basso.
– Malik! – disperata, lo afferrai sotto le ascelle e strattonai il suo corpo in sù, puntando con lo sguardo il letto poco più in là.
Sebbene rischiassi di rimanere schiacciata sotto il suo peso, riuscii ad arrancare fino al giaciglio e a spingerlo sulle lenzuola, indietreggiai di qualche passo e mi ritrovai a fissare il mio sguardo dentro il suo.
Il suo volto era cereo e il corpo avvilito e immobile, ma ciò che davvero mi preoccupò fu la stanca rassegnazione che trapelava dalle sue palpebre socchiuse.
La stessa rassegnazione che vidi negli occhi azzurri di Kadar il giorno in cui comprese che non avrebbe più rivisto il cielo fuori da quelle gallerie.
No, non lo avrei permesso.
Non avrei lasciato andare anche lui.
Senza die una parola, corsi verso gli scaffali in fondo alla stanza e mi arrampicai per tastare il fondo delle ceste, dunque incappai nella punta acuminata di un ago e nella forma tubolare di un rocchetto e, afferratogli saldamente, balzai a terra.
Studiai ciò che avevo intorno, avvistai sul tavolo una lanterna a olio e corsi ad accenderla, illuminando la pozza a terra e il sangue sui miei vestiti bianchi, dunque guardai di nuovo Malik.
Era sempre più pallido, però continuava a fissarmi.
Bene, finché aveva gli occhi aperti, c'era speranza di salvarlo.
– Che…che stai facendo? – Malik era sempre più debole e confuso, ragion per cui m’affrettai ad illuminare il letto con la lanterna e preparare ago e filo per saturare i tagli.
Poi, però, mi accorsi d’aver dimenticato le garze e il disinfettante, dunque lasciai l’ago nel rocchetto e tornai a rovistare all’angolo dell’infermeria.
Tornai poco dopo con una bottiglia contenente un liquido all’olfatto acre e incolore, una cordicella e con parecchie garze, dunque tirai via il tappo della bottiglietta con i denti, guardai per un attimo Malik e rovesciai sopra la ferita il disinfettante.
I suoi occhi si sgranarono per il dolore, grugnì selvaggiamente trai i denti in vista e faticò a mantenere i piedi fermi, ma non appena la vista si rischiarì non esitò ad allontanare la mia mano con il gomito.
– Non…non voglio il tuo aiuto! – sbottò.
Spazientita, lo afferrai per la spalla e lo costrinsi a stare giù. – Ti avverto, se non mi lasci lavorare sarò costretta a immobilizzarti!
Lui provò a obbiettare, ma la debolezza fu tale che alla fine si abbandonò alle mie cure, continuando, però, a scrutarmi con le palpebre semichiuse anche ora che la vista cominciava ad affievolirsi.
Soddisfatta della sua resa, arrotolai la cima della cordicella tra le dita e la legai all'altezza del suo avambraccio, per bloccare l’emorragia dal polso, dopo di che presi le garze e cominciai a passarle dentro e fuori il taglio con movimenti incerti, spesso andando troppo in profondità o strofinando troppo forte.
Lui, però, non mosse un solo muscolo, non accennò ad alcuna smorfia facciale, ma mi fissava rassegnato.
Anche io mi fermavo a guardarlo, dopo di che tornavo alla medicazione più concentrata che mai.
I primi minuti si squagliarono velocemente nella debole fiamma della lampada, i miei movimenti divennero più rilassati e anche l’espressione si addolcì, poiché ormai Malik era caduto in un sonno leggerissimo e mi mancava poco per completare, dunque ricucii le ultime membra squarciate con estrema delicatezza.
– Alquanto pare…mi ritrovo sempre a dipendere dalle tue cure, eh. – osservò d’un tratto Malik.
Sorrisi debolmente.
–Dove…hai imparato?
Alzai la fronte per un istante, incrociando il suo sguardo semichiuso.
– Ho imparato osservando mia madre mentre curava le mie ferite. – risposi e tornai alla medicazione.
Malik rise con un suono gutturale. – Perché, ti picchiavi coi bambini al mercato?
– Perché mi facevo del male.
Silenzio.
– Come mai?
Esitai. – A volte, avevo delle crisi. Mi difendevo da cose che in verità non esistevano e capitava che mi ferissi con gli oggetti che avevo attorno. Fortunatamente non ho memoria di quegli episodi, però qualche cicatrice sparsa qua e là mi ricorda chi sono, e la fatica che ho fatto per oltrepassare quel muro insormontabile che mi ero creata da sola.
Scossi la testa, strappando con i denti il filo in eccesso, e lui mi osservò con la sua solita attenzione chirurgica, un po’ più colorito ora che il sangue aveva smesso di fuoriuscire dal suo corpo e le forze si stavano lentamente raccogliendo.
– E poi? Cosa ti è successo, Laura?
– Ho imparato a fidarmi di chi mi voleva bene e ho lasciato che mi aiutassero. – spiegai e legai le garze ben strette attorno al suo polso. – Per un po’ sono stata bene e quei fantasmi hanno smesso di tormentarmi, ma la mia vita era diventata così vuota che ho dovuto fuggire. Ma dubito che potrò mai più tornare a casa.
Soddisfatta della medicazione, ritrassi le braccia con un sospiro e, mentre lui controllava silenziosamente il mio lavoro, io chinai la testa sulle mie gambe e carezzai distrattamente le decorazioni in rilievo del bracciale sotto l’orlo della manica.
– Kadar mi ha aiutato molto a superare i miei limiti. – confessai poi.
Malik osservò quel gesto delle mie dita sul bracciale, inespressivo.
Il fuoco all’interno della lampada a olio scoppiettò in un balzo verso l’alto, illuminando maggiormente il petto inzaccherato di sangue, poi il braccio mancante, infine lo sguardo intenso dell’Assassino.
Mi ci trovai stranamente a mio agio, come se ci fossimo sempre guardati negli occhi in quel modo.
Per la prima volta, mi vide come una sua pari.  
– Come ti senti? – chiesi sovrappensiero.
– La testa non mi gira più.
Sorrisi – Meno male.






Angolo autrice:

Chi non muore si rivede! Eccomi tornata dopo questo lungo periodo d’inattività, con un capitolo in cui Malik ci lascia un po’ sorpresi, eh. Devo ammetterlo, inquadrare il suo personaggio è stata una sfida, perché mi ero resa conto di non avergli dato ancora una linea precisa e per questo non sapevo con esattezza quale poteva essere la sua reazione. Ma poi, ho letto il testo della canzone sopra citata, Breathe Me di Sia, e ho ritrovato in esso la storia di Laura, ma anche i sentimenti di Malik. Spero che possa aiutarvi a capire meglio.
Baci, Lusivia.













   
 
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