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Autore: Writer_son of Hades    09/05/2015    3 recensioni
In un passato lontano, gli uomini stavano distruggendo la terra. Gli dei, vedendo queste atrocità, scesero nel mondo e devastarono l'umanità. Solo un uomo e una donna, per ognuno degli dei esistenti, vennero salvati per diventare figli del dio che li aveva scelti.
Nel loro sangue di mortali, scorreva anche una parte dell'icore dorata degli dei. Generazioni e generazioni di discendenti si precedettero, portando pace e rispettando per gli dei e per la terra dove vivevano.
Mille anni dopo, una ragazza mortale, discendente di nessun dio, si ritrova a dover affrontare il suo destino.
Sarà veramente pronta ad abbracciare il ruolo così importante che le spetta?
(per questa storia ho preso spunto da alcuni aspetti della saga di "Percy Jackson")
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo II







               Iniziai a correre.
               Corsi più veloce che potevo.
               E corsi.
               E corsi.
               Anche quando sentii che i polmoni esplodevano.
               Corsi.
               Anche quando sentii le gambe tremare.
               Corsi ancora.
               E continuai a correre.
 
Quando mi fermai ero già quasi arrivata in periferia.
Imbucai una stradina deserta sulla destra e mi accovacciai su di un ammasso di cartoni. Cercai di riprendere fiato. Contai lentamente: 1 … 2 … 3 … 4 ….
                Stavano per prendermi.
Sono stata così stupida a non controllare! Sarebbe andato tutto liscio se fossi stata un po’ più attenta.
Rimasi in quella posizione, in quel vicolo abbandonato e mi addormentai, stremata.
 

Mi strinsi nel giubbotto ancora a brandelli dalla sera precedente e mi tirai su il cappuccio della felpa nera. Il vento freddo entrava lo stesso e mi faceva tremare fino alle ossa.
Le vie della periferia di Nuova Roma erano deserte. Normale, l’orario del coprifuoco era passato da diverse ore. Ma non potevo fare tardi.
Velocizzai il passo per arrivare al confine il prima possibile, se qualcuno mi avesse vista, come minimo sarei finita in prigione.
Mi ero risvegliata poco prima, quando la notte era già iniziata, con uno strano odore e quando avevo aperto gli occhi avevo trovato un barbone fare pipì di fianco a me. Ero corsa via e mi ero diretta verso la periferia per arrivare in tempo al mio appuntamento.
                Riuscii a vederla, la rete metallica e due uomini. Uno era seduto sul fango e l’altro lo guardava dall’alto. Quello che era in piedi, con un cappello nero, alzò lo sguardo verso di me. – Ciao Skia. – mi salutò con la voce gracchiante.
Io feci semplicemente un veloce segno di saluto alzando il mento e poi lanciai il sacchetto che tenevo al sicuro in tasca.
                – 150. – dissi.
I due uomini raccolsero il sacchetto ed estrassero il contenuto per controllarlo. Quello che mi aveva salutato esaminò una fialetta che conteneva la polvere nera. Si mise ad annuire compiaciuto.
                – Ottimo lavoro, ragazzina. – disse passando la fialetta nelle mani dell’altro. – Se non ti conoscessi potrei dire che sei discendente di Ermes. – e rise di gusto.
Io non mi feci confondere. – 150. – ripetei.
                – Sono solo tre. – commentò l’uomo avvicinandosi a me. – Ognuna costa almeno 30 al mercato.
                – Sì, ma queste sono vere. E ho dovuto rubarle nel tempio dei sacerdoti di Ade. – ribattei io, arrabbiata. – Hai idea di quanto sia difficile recuperare qualcosa dal tempio più antico di Nuova Roma?
                Ma l’uomo non si mosse. – Tanto ormai non c’è più nessuno lì. Il massimo che possiamo darti è 90, 100 per l’impegno se proprio vuoi.
Strinsi la mascella, adirata. – 150 dracme è il mio prezzo. Se no mi riprendo il pacco. – mi avvicinai al suo complice per riprendermi il sacchetto.
Lui rise e si librò in volo. Solo allora notai le scarpe alate ai piedi. Era ad un metro e mezzo da me e svolazzava con il sacchetto nella mano destra.
                – Vieni a prenderlo. – mi incitò. Io sbuffai. Stupidi discendenti di Ermes.
                – Datemi quello che mi spetta. – ringhiai.
                – Oppure? – mi canzonò quello ancora a terra. – Non hai poteri.
Strinsi i pugni. Era vero, non avevo poteri, non ero una mezzosangue come solo. Come tutti in quella stupida città. Ero mortale.
Ma una cosa l’avevo imparata. Quando i ragazzi più grandi cercavano di prendermi quel poco che avevo rubato, avevo imparato a difendermi da sola.
Mi voltai di scatto verso l’uomo a terra e gli piantai il mio pugno in mezzo alla faccia. Questo si tenne il naso con entrambe le mani e per poco non cadde. Quello in volo, vedendo la scena, mi piombò addosso colpendomi le costole con un calcio. Mi rialzai immediatamente tenendomi il fianco con un braccio e gli tirai un calcio nelle palle, lui si piegò in due e gemette per il colpo.
Ammettiamolo: è troppo facile mettere ko un uomo.
Feci per prendere il sacchetto con le fialette che aveva lasciato cadere poco lontano, ma qualcosa di freddo e duro mi premeva dietro alla testa.
                – No, no, no. – canticchiò quello a cui avevo tirato il pugno puntandomi una pistola alla testa. Maledetti discendenti di Ermes con i loro sporchi trucchi. E maledetta io a fidarmi di loro. – Gordias! Dalle 70 dracme, visto che si è comportata male. – ordinò all’uomo che si era appena alzato, anche se un po’ agonizzante. Quello estrasse un sacco di velluto che tintinnò quando mi atterrò davanti.
                – E ora vattene, mortale. – mi sputò, gettandomi a terra.
Caddi su di una pozzanghera di una fogna. Sentì gli uomini allontanarsi ridacchiando. Io rimasi a quattro zampe sulla terra fredda e umida, con i vestiti che puzzavano e i capelli fradici. Mi misi in ginocchio e presi la mia ricompensa con le mani che tremavano dal freddo. Estrassi le dracme dal sacco di velluto. Tutto quel lavoro per solo 70 dracme. Certo, mi sarebbero bastate per qualche giorno, ma dopo?
                Mi alzai a fatica, tenendomi il fianco dolorante con un braccio. Misi il sacchetto al sicuro in tasca del giubbotto e mi diressi lentamente verso una locanda ancora aperta. Cercai per molto fra le vie periferiche di Nuova Roma, ma poi trovai un piccolo hotel, un po’ fatiscente, ma a me sarebbe bastato. Entrai e vidi la pelata del proprietario che era stravaccato su di una orribile poltrona verde davanti alla tv. Stavano trasmettendo il telegiornale.
                – Il grande tempio dei sacerdoti di Ade ha deciso di chiudere prossimamente… – diceva la voce femminile fuori campo mentre le immagini del grande tempio passavano sullo schermo. – per via della mancanza di discendenti e della completa nullità di comunicazioni con il dio da più di cento anni. Il Gran Consiglio ha deciso che ben presto…
                – Siamo chiusi. – disse l’uomo sentendo la mia presenza.
                – Ho soldi. – risposi estraendo il sacchetto e facendo tintinnare le dracme al suo interno.
Il grassone si voltò per guardarmi. Quello che vidi nel suo sguardo fu compassione. – C’è una stanza libera al piano superiore. Terza porta a destra. – mi spiegò ritornando ad osservare lo schermo luminoso.
Io annuii. – Quanto per una notte?
                – Per questa volta niente. – disse l’uomo, chiudendo il discorso.
Io sbuffai, infastidita. Una cosa che detestavo era quando gli altri mi davano compassione. A casa serve? Niente!
Ma mi avviai lo stesso verso il primo piano e trovai la porta aperta con la chiave sulla serratura. Quel poco che ero riuscita a racimolare dovevo tenermelo il più lungo possibile ed ero troppo stanca per discutere. La aprii e quella emise uno strano scricchiolio.
La stanza non era molto grande. I muri erano completamente ricoperti da carta da parati verdastra rotta in parecchi punti. Al centro c’era un letto singolo con delle lenzuola bianche ed un copriletto rosa antico con a fianco un piccolo tavolino e una lampada. Il pavimento era di legno vecchio e l’odore di chiuso mi fece venire il voltastomaco. Corsi alla finestra di fronte al letto e la spalancai.
La notte era fredda, certo, ma l’aria era pulita.
La respirai per un po’ e poi mi avviai verso il piccolo bagno sulla sinistra. Vidi una doccia e mi spogliai immediatamente per lavarmi. Appoggiai gli scarponi, i calzini, i jeans vecchi, la felpa, la canottiera, l’intimo ed il giubbotto (tutto rigorosamente nero) sul letto e misi lo zaino a terra. Entrai nel bagno nuovamente e accesi l’acqua entrando nella doccia.
L’acqua era gelida, ma a me non importava. Uscii dopo qualche minuto e mi protesi per prendere un asciugamano. Il mio sguardo cadde per sbaglio sopra al lavandino.
Mi specchiai verso quel ammasso di vetri messi a caso che doveva assomigliare ad uno specchio. I capelli neri bagnati ricadevano pesanti sulle spalle per arrivare fino a poco sopra il seno. Gli occhi: due pozze nere dove sprofondare. E la pelle in netto contrasto, di un pallore inquietante e finalmente pulita da tutte quelle macchie scure dovute dal fango e dalla fuliggine della strada.
Non mi succedeva spesso, anzi, quasi mai, ma iniziai a pensare alle ragazze della mia età. Le vedevo spesso che si aggiravano a braccetto con le loro amiche per il centro storico di Nuova Roma. Ragazze di diciassette o diciotto anni con tuniche di lino, orecchini di diamanti, colane d’oro e acconciature elaborate, per trovare un ragazzo carino che si innamorasse follemente di loro.
Pensai a quanto fosse diversa la mia vita. Che per mangiare mi toccava rubare ogni giorno. Che all’amore, proprio non ci credevo.
Mi voltai di lato per rivedere il mio tatuaggio. Me lo ero fatta mesi prima in un negozietto nella periferia da un discendente di Iride. Erano due ali nere che sembrava mi uscissero dal costato sulla schiena. Andavo fiera di quel tatuaggio. Mi dava forza e coraggio.
Tornai con il volto verso lo specchio e notai il livido sulle costole dove l’uomo mi aveva colpita. Lo sfiorai e mi fece rabbrividire. Non mi ero rotta niente, ma avevo bisogno di una fasciatura.
Andai in camera, mi misi il reggiseno e un paio di mutande e dallo zaino estrassi una benda di garza ingiallita. Poteva andare. Tornai davanti allo specchio e mi fasciai il costato.
Mi guardai ancora. Le braccia irrobustite, nemmeno un segno di grasso, le gambe muscolose, le spalle dritte. E la spalla sinistra.
Erano sempre lì. Tre grosse file parallele che mi percorrevano la clavicola per poi scendere fino a metà schiena. Le cicatrici erano in bella vista ed indelebili. Ma non facevano male, non più ormai.
L’unica cosa che riuscivo a pensare vedendo il mio corpo, era a quando tutto era diverso. Al triste ricordo che avevo della mia infanzia.
                Vivevo bene a Nuova Roma, avevo una famiglia. L’unica cosa che mi piaceva ricordare della mia vita passata era quel pomeriggio nel giardino di casa mia. Io stavo correndo tra le braccia di mio padre e mia madre stava chiacchierando con mia nonna di non so cosa sotto ad un grande ombrellone. Sedevano su delle sedie di ferro bianco e sorseggiavano tisana da delle graziosissime tazzine dipinte a mano.
Ero felice. Ridevo e quando mi ritrovai fra le braccia di mio papà, lui mi strizzò le guancie paffute.
                 – Sei una bellissima bambina. – mi aveva detto sorridendo. Io mi ero aggrappata ai suoi ricci neri e mi ero messa a giocarci come facevo sempre.
                 – Amore mio, – mi aveva chiamata mamma. – Vieni all’ombra, ti scotterai.
                 – Sta bene, Vasilissa. – la rassicurò mia papà voltandosi verso sua moglie. In greco “vasìlissa” significa “regina”. E per mio padre, mia mamma era la sua meravigliosa regina.
La donna scosse la testa, ma sorrise.
                 – Sarà come te un giorno. – aveva detto mia nonna. Io non conoscevo il significato di quelle parole e non lo comprendo nemmeno adesso.
E poi, quella notte…
                Un rumore dalla camera mi fece sobbalzare e tornare immediatamente alla realtà. Mi affrettai ad uscire dal bagno e quando varcai la porta vidi una figura accovacciata sotto alla finestra.
                – Chi sei? – chiesi senza paura nella voce.
La figura non rispose. Si alzò così potei notare le scarpe da ginnastica sgualcite, i jeans tutti strappati e il giubbotto di tessuto impermeabile scuro. Alle mani aveva dei guanti senza dita e uno zaino sulla schiena. Ad occhio e croce avrebbe potuto misurare un metro e ottanta o poco meno. I lineamenti del mento davano l’idea di un ragazzo.
Non disse niente. Face cadere il suo zaino e si avvicinò al mio. Io d’istinto mi fiondai su di lui. Lo scaraventai per terra, prendendo il mio zaino e buttandolo al di là del letto. Appena mi voltai verso di lui mi prese un braccio e lo me lo fermò dietro la schiena costringendomi a voltarmi. Avendo la schiena scoperta, sentivo il suo giubbotto ruvido e freddo contro la mia pelle e il suo respiro caldo sul collo.
Gli pestai il piede e approfittai del suo momento di confusione per liberarmi e per prenderlo e buttarlo sul letto. Lui era a pancia in su e io gli tenevo ferme le braccia.
Poi, non so di preciso come, mi ribaltò, così mi ritrovai io sotto e lui sopra di me a tenermi ferma. La sue mani erano ruvide, ma leggere allo stesso tempo. Cercai in tutti i modi di liberarmi, ma la sua stretta era rigida e forte. Mi agitavo senza nessun risultato.
                Lui iniziò e ridacchiare. Così io smisi di muovermi e lo fissai.
                – Stai ridendo? – gli chiesi stupita.
Lui stava sorridendo. Si levò il cappuccio che copriva il volto mostrando una chioma castana e poi due occhi verdi.
                – Bé, sono sopra ad una ragazza che porta solo la biancheria intima, la situazione è parecchio ridicola. – affermò continuando a sorridere.






Spazio dell'autrice: ehilà! Sono tronata e perdonatemi il ritardo, ma sono stata via tutto il pomeriggio con mia cugina e mia sorella (ma chi te lo ha chiesto?! Bé, scusami...). In ogni caso ecco il secondo capitolo;) Spero vi piaccia (ovviamente) e che non vi faccia cagare (non sei ripetitiva.....no....).
Un bacione a tutti voi
Silvia



P.s.: Sì, ho cambiato di nuovo nome.... non riuscirò mai a decidermi  
   
 
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