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Autore: Helena Kanbara    10/05/2015    2 recensioni
Sono stata una bambina ubbidiente per ben sedici anni, poi ho smesso improvvisamente di eseguire gli ordini del “mondo” e mio padre ha cominciato a chiedersi dove avesse sbagliato con me. Ecco perché sono qui in isolamento, insieme ai delinquenti. Ecco perché passo le mie giornate sola in questa schifosissima cella ad aspettare il mio diciottesimo compleanno per essere giustiziata. Perché non ho voluto seguire gli ordini. Sapete cosa penso? La vita sull’Arca fa schifo. E preferirei di gran lunga la morte.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Murphy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The heart wants what it wants'
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8.   THIS IS WAR
 
To the right, to the left
we will fight to the death.
To the edge of the Earth
it's a brave new world, from the last to the first.

Ritornare al campo mi era servito a capire che fossi ridotta molto peggio di quanto non credessi. Oltre che visibilmente dimagrita e con un paio di occhiaie che avevano quasi fatto rabbrividire Monty e Jasper – i quali però avevano cercato di dissimulare, limitandosi ad accogliermi “a casa” con un sorriso grato – mi ero riscoperta infatti anche piena di graffi sanguinanti, non solo sul viso ma anche sulle mani martoriate. Clarke non se l'era fatto ripetere due volte e da brava crocerossina qual era si era affrettata a medicare e disinfettare il più possibile mentre parlava, parlava, parlava. Non l'avevo mai sentita parlare così tanto e immaginai che fosse tutto perché era contenta di vedermi respirare – così avrebbe avuto una morte in meno sulla coscienza – e perché voleva a tutti i costi che fossi aggiornata sui recenti sviluppi, così che tutti potessero fingere ben presto che non me ne fossi mai andata e che nulla di tanto spiacevole da spingermi ad abbandonare il campo fosse successo.
Avrei dovuto odiarli per quella loro codardia, ma me ne riscoprii incapace. Perché d'altronde, volevo anch'io fare finta di nulla. Volevo evitare l'argomento Murphy a tutti i costi. Ecco perché sviai ogni domanda allusiva di Clarke e non rivolsi la parola a Bellamy, evitando anche di stargli troppo vicina – a meno che non fosse strettamente necessario. Non volevo più avere contatti con nessuno del gruppo né tanto meno passare tutto il mio tempo al campo, ecco perché sgattaiolavo via ogni volta che potevo. Qualsiasi scusa per farlo mi andava bene, dall'uscire per recuperare acqua o noccioline o anche solo dire che andavo a fare un giro perché avevo bisogno di un po' d'aria. Clarke mi salutava ogni volta come se fosse l'ultima – aveva paura che scappassi di nuovo – ma mai m'impedì di lasciare il campo.
Durante la mia assenza i Cento avevano dovuto dire addio ad altri tre compagni, l'avevo scoperto in occasione di una delle mie tante uscite giornaliere, quando passando per il cimitero improvvisato avevo trovato cumuli di terra a segnalare la presenza di tombe nuove. Erano tutti ragazzi che non conoscevo quelli che i Terrestri avevano ucciso, ma mi sentii comunque in colpa per come le cose erano finite per loro. E parlando di Terrestri... Questi esistevano davvero, ed erano una minaccia. Una minaccia che era molto più vicina di quanto non sembrasse, tanto che addirittura uno di loro occupava il secondo piano della navicella che aveva scortato noi prigionieri sulla Terra – o meglio, nel posto infernale che però ancora ci ostinavamo a definire così.
I Cento – aveva ancora senso chiamarli in quel modo? – avevano dunque perso tre ragazzi, ma ne avevano guadagnata un'altra direttamente dall'Arca. Clarke mi aveva detto durante uno dei suoi monologhi – definirle chiacchierate non sarebbe stato giusto, giacché io mi limitavo semplicemente a fingermi attenta e sciorinare monosillabi solo se costretta – che il suo nome fosse Raven, ma più di questo non ero riuscita ad afferrare – anche perché la Griffin diventava magicamente indisposta al solo nominarla e puntualmente sviava l'argomento ch'era una bellezza. Io poi non avevo mai visto nessuna Raven in giro da quand'ero tornata al campo: pareva che quest'ultima si fosse trasferita in pianta stabile nella tenda di Finn e che non si scollasse da lì nemmeno a pagarla. Magari una vecchia fiamma?
Se avessi avuto la mente libera e leggera credo che avrei cercato una risposta sensata a tutte quelle domande, fatto sta che di leggero c'era ormai poco nella mia vita. Ergo, quesiti irrisolti a volontà. Non mi dispiaceva, però. Non ero interessata più ai gossip del campo, pensavo solo alla mia sopravvivenza e basta. Così giustificavo le numerose uscite alla ricerca di cibo: dovevamo prepararci all'inverno imminente e dovevamo farlo adeguatamente, raccogliendo quante più provviste possibile.
Ero appena tornata da un'altra delle mie escursioni quando Clarke mi corse in contro con un sorriso. Stava puntando a me e lo capii subito, tanto che trattenere uno sbuffo infastidito mi costò una fatica immensa.
“Ho parlato con tuo padre, poco fa”, raccontò non appena mi ebbe raggiunta – come se mi interessasse, poi – evitando qualsiasi tipo di convenevole.
Di tutta risposta mi limitai a scrollare le spalle, liberandomi della sacca che ero riuscita a riempire di bacche durante l'uscita di quel mattino stesso. Clarke capì subito che come al solito non le avrei dato corda e provò ben presto ad attirare la mia attenzione portando avanti la conversazione per conto suo. Ormai ci era abituata.
“Raven ha ristabilito i contatti con l'Arca. Te l'avevo già detto, no?”.
Annuii, senza mai cercare il suo viso illuminato dai raggi del sole. Avevo cose molto più importanti da fare che spettegolare con lei.
“C'è anche il collegamento video, è bellissimo poterli rivedere tutti”.
“Immagino”, borbottai, fallendo nel mio tentativo di mostrarmi tranquilla e rilassata. Per dissimulare, ripresi subito a sistemare le bacche in sacchettini appositi, preparati da chissà chi.
Dall'altro lato del campo, Jasper e Monty facevano altrettanto con delle noccioline. L'intero campo era in movimento.
“Sono stati organizzati dei turni cosicché tutti possano parlare coi propri genitori”, aggiunse ancora Clarke, perfettamente tranquilla a differenza della sottoscritta. “Mi pare che ora dentro ci sia Miller. Non so a chi tocca dopo, ma posso dirgli di aspettare. Così potrai parlare con tuo padre”.
Inutile dirlo ma rabbrividii, preda di sensazioni non ben identificate ma senz'altro negative. L'idea di parlare con mio padre non mi piaceva nemmeno un po'.
“Passo”, mormorai difatti, continuando imperterrita a svolgere il mio compito senza farmi distrarre.
Cosa che ovviamente Clarke mi rese impossibile.
“Ma come?”, trillò, con una vocetta stridula che mi innervosì e non poco. “Non vuoi sentirlo?”.
Feci spallucce, proprio come al solito.
“Non ho niente da dirgli”, annunciai spicciola. Ed era l'assoluta verità: non avevo niente da dire a Marcus Kane. “E non scavalcherò nessuno, grazie comunque”.
Non l'avrei fatto nemmeno se avessi voluto parlargli, in effetti. Ero stanca di tutti quei privilegi che mai avevo chiesto a nessuno di darmi. Io meritavo tanto quanto gli altri, e non c'era ragione per cui dovessi parlare con mio padre prima di qualsiasi altro mio compagno. Clarke sospirò, di già abbattuta. Ma non mollò la presa.
“Brayden, tu devi parlargli. È distrutto al pensiero di averti persa!”.
Ovviamente, quelle parole mi fecero sobbalzare sorpresa – per quanto avessi cercato di dissimulare come mio solito. Non appena Clarke finì di parlare dovetti smetterla per un attimo di sistemare le bacche che avevo raccolto solo poche ore prima: le mani mi tremavano così tanto che mi riscoprii all'improvviso incapace di lavorare. Sollevai lo sguardo chiaro sulla Griffin, riservandole un'occhiata a dir poco risentita.
“Tu che ne sai?”, sputai arrabbiata. Sapevo che mi stesse mentendo e la cosa non mi piaceva nemmeno un po'. Non c'era verso che mio padre mostrasse le sue emozioni a qualcuno, perciò Clarke non avrebbe mai potuto sapere di come veramente si sentisse al pensiero che fossi morta.
A quanto pareva mi sbagliavo.
“Mi ha chiesto di te quando ancora non eri tornata al campo. E ho dovuto dirgli che non sapevo dove fossi. È stato straziante”, raccontò Clarke, abbassando la voce un po' di più ad ogni parola, finché il suo timbro non sfumò in un sussurro che percepii a malapena.
Anche quelle parole mi colpirono e non poco, ma provai a nasconderlo e mi limitai a fare spallucce. Proprio come se niente fosse. Feci anche per dire qualcosa come “Non è un problema mio”, ma Clarke me lo impedì continuando a parlare.
“Ascolta”, ordinò in un sospiro sconfitto. “So che pensi abbia fatto un sacco di errori, e so anche che hai ragione a crederlo. Ma per quanto possa aver sbagliato... tuo padre non si merita di crederti morta. Non potrai punirlo all'infinito”.
Di nuovo cercai i suoi occhi azzurri nella luce accecante del sole mattutino. All'improvviso non avevo più paura di un confronto visivo.
“Mettimi alla prova”, quasi ringhiai, sperando di spaventarla.
Obbiettivo che però non raggiunsi.
“Dico sul serio, Brayden. Tra poco tempo tuo padre sarà qui. Per quanto ancora pensi di riuscire ad ingannarlo?”.
Non avevo una risposta per quella domanda e me ne resi conto a malincuore, rinchiudendomi in un silenzio inaspettato mentre mi limitavo a deglutire impercettibilmente e distogliere lo sguardo dal viso di Clarke. Probabilmente si accorse anche lei della mia resa, perché si limitò a sospirare quasi dispiaciuta.
“Ne riparliamo quando torno, va bene?”, propose poi dopo attimi di silenzio pacifico nei quali mi ero tranquillizzata tanto da essere di nuovo capace di mettermi a lavoro con la divisione delle bacche.
“Dove stai andando?”, le chiesi; non perché mi interessasse sul serio ma più che altro perché volevo sempre tenere d'occhio la situazione.
Non guardavo più Clarke in viso, ma la sentii comunque sorridere. Pensai che illusa com'era doveva essersi convinta del fatto che sul serio m'importasse qualcosa di lei.
“Tuo padre mi ha parlato di un bunker che potrebbe contenere risorse utili. Ho bisogno di andare lì a dare un'occhiata”.
“Da sola?”.
“Certo che no”. La sentii sorridere ancora, e reputandolo un fatto stranissimo anche per una come lei non potei fare a meno di guardarla nuovamente. Ciò che vidi alzando lo sguardo sulla sua figura mi lasciò a dir poco spiazzata. Clarke non sorrideva a me. Bensì – proprio da come scoprii seguendo la traiettoria del suo sguardo azzurro – a Bellamy, che se ne stava – totalmente inconsapevole dello sguardo di Clarke – fermo all'ingresso della navicella ancora occupata dal Terrestre.
Non potei far altro che aggrottare le sopracciglia. Cosa diavolo mi nascondevano quei due? L'ultima volta che avevo controllato, Bellamy voleva uccidere Clarke e lei faceva pensierini dello stesso genere su di lui. Tornando al campo li avevo trovati a sfiorarsi le mani, e ora tutto questo... C'era qualcosa di molto misterioso in quella situazione. Ma ancora una volta non chiesi nulla, e Clarke si occupò personalmente di porre una fine al mio solito silenzio.
“Ho bisogno che tu resti qui a monitorare la situazione. Aiuta Raven a medicare Finn, se necessario. Dà un'occhiata ad Octavia”.
Mi pareva tutto un grande e fastidioso déjà vu.
“Puoi farlo per me?”.
Feci spallucce. “Penso di sì”.
Clarke non ebbe bisogno di sentire nient'altro, semplicemente mi sorrise un'ultima volta e poi mi diede le spalle per dirigersi proprio da Bellamy. L'osservai per un po' nella sua camminata decisa, poi distolsi lo sguardo e ripresi a lavorare per conto mio. Ma il sentirla chiamare il mio nome ancora una volta mi distrasse nuovamente. Sollevai gli occhi sul suo viso, incitandola a parlare con un mugugno indefinito.
“Grazie per essere tornata”, si limitò a dire lei con un ultimo sorriso.
Poi mi voltò le spalle una volta per tutte e sparì nella folla che ci circondava, mentre io scacciavo via quella fastidiosa sensazione di spiazzamento arrivata a cogliermi. Al contrario infatti finsi che non fosse successo proprio nulla.
“Non l'ho fatto per te”, borbottai a bassa voce mentre chiudevo l'ennesimo sacchettino colmo di bacche e cercavo disperatamente di tenere la mia mente ben lontana dal pensiero di John Murphy.

 

Credevo che i Cento non avrebbero mai smesso di stupirmi, ma ebbi la conferma inconfutabile della cosa solo nel tornare al campo quel pomeriggio.
Dopo aver finito di sistemare accuratamente tutte le bacche, ero uscita di nuovo, quella volta per andare a cercare un po' d'acqua. Ogni scusa era buona per partire alla ricerca di sana solitudine.
La vista che mi ritrovai di fronte non appena rientrai al campo, comunque, mi fece rischiare di rendere vani tutti i miei sforzi. L'acqua che avevo raccolto con tanta fatica, infatti, rischiò di scivolarmi dalle mani nel momento in cui mi ritrovai di fronte gruppi di ragazzi intenti a combinarne di ogni senza nessun buon motivo.
C'era chi rideva a crepapelle tra sé e sé, chi volteggiava da ogni parte – talvolta piangendo – e chi si... spogliava? Realizzai la cosa con orrore, deviando all'ultimo la felpa rossa che un ragazzo sconosciuto aveva appena finito di sfilarsi, lanciandola nella mia direzione per liberarsene. Gesù, cosa stava succedendo a tutti quanti? Era uno sfacelo. Un'euforia generale che proprio non riuscivo a giustificare.
Inizialmente pensai che fossero ubriachi, ma realizzai ben presto che il whiskey magico di Monty non fosse abbastanza per stendere più di novanta ragazzini. Dunque, cosa avevano combinato quella volta? Cosa diavolo mi ero persa? Continuai a chiedermelo ripetutamente mentre facevo di tutto per salvare l'acqua e soprattutto per evitare ogni contatto con uno qualsiasi dei ragazzi. Erano tutti e all'improvviso così fastidiosamente espansivi – lo si capiva dalla grossa quantità di vestiti che volavano all'aria minuto dopo minuto – che subito cominciai a temere per la mia incolumità.
E purtroppo – giusto perché non c'era mai limite al peggio – scoprii guardandomi intorno che non ci fosse nessuno di cui mi fidassi abbastanza da chiederne l'aiuto. Clarke era quella che era – e ormai non c'erano più dubbi – ma sapevo bene che in una situazione del genere avrei potuto contare su di lei per uscirne. O su Bellamy. Peccato però che fossero assenti entrambi. Chi mi restava? Finn era moribondo nella sua tenda, Jasper una delle tante vittime di quello strano virus – lo osservai che piangeva a dirotto nascosto in un angolino e non osai avvicinarmi a lui – e Monty... dove diavolo era Monty?
Non ebbi tempo di chiedermelo a lungo, perché finalmente un viso conosciuto mi apparve dinanzi. Era Octavia Blake, e il vederla per poco non mi fece tirare fuori un lunghissimo sospiro sollevato. Sembrava essere lucida – almeno lei – ma non potevo esserne sicura. Ecco perché feci per chiederglielo, ma lei mi anticipò.
“Dimmi che non hai mangiato anche tu quella roba, ti prego!”, esclamò non appena mi ebbe raggiunta, gli occhi chiari sgranati e le braccia strette attorno ad un cumulo di vestiti che probabilmente doveva aver raccolto da terra.
Non ebbi tempo di chiederle perché li avesse lei: le sue parole mi distrassero troppo. Ero sicura di non aver mangiato nulla da un bel po' di tempo, dunque ero salva. Ma era stato sul serio qualche cibo a ridurre gli altri in quelle condizioni?
“Cos'hanno mangiato? Che sta succedendo?”, non potei fare a meno di chiedere, continuando a guardarmi intorno con espressione a dir poco preoccupata.
Octavia ci pensò su per un attimo, poi mi voltò le spalle e continuò a fare ciò stava facendo prima di vedermi – incetta di vestiti. Avevo supposto bene, quindi.
La seguii mentre le riservavo uno sguardo confuso e ancora aspettavo una risposta da parte sua.
“Sono state quelle dannate noccioline”, mormorò ad un certo punto, afferrando la felpa rossa che solo pochi minuti prima io ero riuscita a schivare. “Chiunque le abbia mangiate è completamente andato”.
Non che avessi bisogno di ulteriori conferme per capirlo, fatto sta che il vedere un ragazzo provare a liberarsi anche dei boxer – unico indumento sopravvissuto a quel suo spogliarello senza senso – mi fece rendere conto ancor di più della gravità della situazione.
Fermo!”, gli urlai contro senza potermelo impedire, redarguendolo con un gesto veloce.
Non ci tenevo mica ad assistere a certi spettacolini. La situazione era già piuttosto imbarazzante di per sé.
Octavia mi diede manforte e alla fine riuscimmo a convincere il ragazzo – Alan, si chiamava – a desistere. Peccato che fossimo solo all'inizio dell'opera.
“Ho bisogno del tuo aiuto”, ammise la piccola Blake in un sospiro rassegnato e stanco, voltandosi nuovamente a guardarmi. “Io torno subito, tu va' a cercare Raven. Dovrebbe stare bene anche lei”.
Di nuovo aggrottai le sopracciglia. E non per Raven – quello di chiederle aiuto mi sembrava un buon piano – ma perché avevo all'improvviso l'impressione che Octavia stesse provando a sgattaiolare via inosservata. Lo sapevo perché ormai ero un asso nel farlo. Ma non le chiesi niente, limitandomi ad annuire mentre l'osservavo dileguarsi velocemente con ancora i vestiti dei ragazzi stretti al petto. Se avesse voluto, me ne avrebbe parlato lei, pensai mentre mi dirigevo a grandi passi verso la tenda di Finn.
Era finalmente giunta l'ora di conoscere la famosa Raven, e me ne resi conto solo in quel momento. Scoprii però che mi ci sarebbe voluto un po' di tempo prima di arrivare a destinazione. A metà strada infatti mi sentii afferrare per un braccio e la mia camminata venne bruscamente interrotta.
“Brayden!”, urlò Jasper richiamando la mia attenzione. Mi voltai a guardarlo di scatto: aveva il viso ancora bagnato dalle lacrime e gli occhi spiritati. Per un attimo ebbi veramente paura. “Proteggimi dai Terrestri, ho perso il mio bastone!”.
Continuò ad urlare cose insensate, ma io nemmeno mi sforzai di comprendere cosa sul serio volesse dirmi. Semplicemente mi liberai della sua stretta tremante con uno strattone e presi – come se niente fosse successo – a muovermi nuovamente nella direzione della tenda di Finn. A Jasper ci avrei pensato dopo, mi ripromisi. Ma ancora una volta raggiungere la tenda non fu facile.
Ad un passo da quest'ultima infatti, un corpo impattò violentemente contro il mio e allora trattenere una delle mie solite colorite imprecazioni mi fu impossibile.
“Monty!”, strillai, non appena sollevando lo sguardo mi ritrovai di fronte il colpevole. “Perché non guardi dove cammini?”.
Il mio ovviamente era fiato sprecato, perché Monty nemmeno provò a darmi ascolto. Al contrario, non appena mi ebbe riconosciuta si limitò a sorridermi ampiamente prima di afferrarmi le spalle con una stretta tanto forte che non potei evitare di fulminarlo con lo sguardo.
“Brayden!”. Anche lui urlò il mio nome, improvvisamente eccitato da morire. Penso che se non fossi stata così scazzata da tutta quella situazione assurda, avrei anche riso. “Mia salvezza. Sono così contento che tu sia tornata. Sei brava in fisica, no? Allora cambiamo il verso della marea! Insieme!”.
Ma cosa diavolo stava dicendo? Non ebbi tempo di chiederglielo.
“Non ora, Monty”, redarguii semplicemente, liberandomi della sua stretta una volta per tutte e sorpassandolo per entrare – finalmente – nella stramaledetta tenda di Finn e Raven.
“Se non ora, QUANDO?”, sentii che Monty mi urlava dietro, ma anche quella volta lo ignorai.
Semplicemente m'intrufolai nella tenda tanto agognata come se non ci fosse un domani. E ciò che mi ritrovai di fronte lasciò davvero poco spazio alla mia immaginazione, tanto che riuscii a non arrossire per pochissimo.
Proprio a me doveva capitare il compito di disturbare la coppietta tubante? Gesù. Poteva quella situazione diventare più imbarazzante di così? Me lo chiesi mentre distoglievo alla velocità della luce lo sguardo da Finn – intento a coprirsi il più possibile con una delle poche coperte pesanti che l'Arca aveva messo a nostra disposizione – per puntarlo invece sulla ragazza che gli faceva compagnia, quella che supposi fosse proprio la fantomatica Raven.
Fu proprio lei a rompere il ghiaccio, raggiungendomi sulla soglia dopo essersi sistemata sui fianchi la leggera maglia azzurra che aveva indossato in tutta fretta.
“Cosa sta succedendo qui?”, domandò.
Prima di risponderle, l'anticipai all'esterno. Sapevo che non si sarebbe resa conto di ciò che le avrei detto finché non l'avesse visto coi suoi occhi. Parlai solo quando fummo fuori, difatti.
“Sono state le noccioline. Li hanno fusi”.
Raven trattenne a malapena un'imprecazione. Stette un po' in silenzio, guardandosi intorno con un'espressione che mi fece quasi venir voglia di ridere. Poi ridonò lo sguardo alla tenda che aveva abbandonato da pochissimo.
“Finn, in piedi!”.

 

“Mi uccideranno, Brayden”.
Avevo perso il conto delle volte in cui avevo sentito quella frase da quand'ero tornata al fianco di Jasper, pronta a badare a lui con tutta la buona volontà del mondo. Era passato un bel po' di tempo, eppure lui non aveva smesso un attimo di piagnucolare e lamentarsi dei Terrestri. Diceva che l'avrebbero fatto fuori e che gli serviva trovare il bastone perduto. Un mucchio di cose senza senso, insomma. Arrivati a quel punto nemmeno ci facevo più caso: mi limitavo semplicemente a bruciare qualsiasi sacchetto di noccioline catturasse la mia vista.
“Mi uccideranno, Bray”.
Jasper ripeté ancora una volta la sua frase di rito, peccato che allora non riuscì a completarla. Terrorizzata dal suo improvviso silenzio, diedi le spalle al fuoco caldo e scoppiettante per cercare il suo sguardo. L'effetto allucinogeno di quelle noccioline si stava dimostrando molto più duraturo del previsto ed era mio dovere impedire che Jasper – o chiunque altro – potesse farsi del male, giacché Octavia era ancora nascosta chissà dove.
“Brayden”, ripeté Jasper quando ebbe individuato i miei occhi, donandomi uno sguardo confuso a dir poco. “È questo il tuo nome?”.
Per poco non mi coprii il viso con le mani. Stavamo sfiorando livelli di demenza inauditi. E sebbene inizialmente avessi avuto paura di quella situazione e soprattutto delle brutte conseguenze alle quali avrebbe potuto portare, arrivati a quel punto ne ero più divertita che altro. Tanto che – ignorando Jasper come mio solito – ripresi a cercare noccioline superstiti – ancora per poco – mentre ridacchiavo di gusto.
“L'ultima volta che ho controllato si chiamava così, Jas”, intervenne Finn allora, divertito almeno tanto quanto la sottoscritta.
Stava visibilmente prendendo in giro Jasper, ma lui proprio non se ne rese conto.
“Non hai la faccia da Brayden”, mormorò difatti serissimo, continuando a squadrarmi mentre per me trattenere le risate stava diventando sempre più difficile. “Hai la faccia da... Maya. Posso chiamarti Maya?”.
Per un attimo aggrottai le sopracciglia. Pensai che gli avrei chiesto il perché di quella scelta, ma realizzai ben presto che sarebbe stato tutto fiato sprecato. Ecco perché mi arresi.
“Chiamami come ti pare, Jasper”, concessi, sorpassandolo per recuperare altre noccioline da buttar via.
Perlomeno non stava più frignando come un bimbetto.
“Mi uccideranno, Maya”. Ritiro tutto. “Sono vicini!”.
Presi un grosso respiro, cercando di non perdere le staffe. Ce l'avevo fatta fino a quel momento, non avrei mollato allora. Semplicemente lasciai perdere ciò che stavo facendo e mi diressi lentamente nella direzione di Jasper, senza mai fermarmi finché non gli finii di fronte. Cercai i suoi occhi nella luce scarsa del fuoco scoppiettante, poi gli posai le mani sulle braccia.
“Nessuno ti ucciderà, Jasper”, mormorai lentamente, come se stessi parlando ad un bambino piccolo. “Ti proteggerò io. Ti fidi di me?”.
Dovevo stare al suo gioco perché si calmasse una volta per tutte. O perlomeno, così speravo.
“Ovvio che mi fido di te”, rispose senza nemmeno pensarci su, e potei vederlo di già un po' più tranquillo.
Tanto che sorrisi, facendomi lontana da lui solo per tornare a lavorare vicina a Finn e Raven – che mi riservò un gesto di piena approvazione. Non la conoscevo per nulla, ma già mi stava simpatica. Il suo aiuto era stato prezioso proprio come quello di Finn.
Avevo creduto che Jasper si fosse finalmente calmato, eppure mi sbagliavo.
“Maya”, chiamò all'improvviso, comparendomi alle spalle proprio quando meno me l'aspettavo. Sobbalzai vistosamente: quando diavolo si era mosso? “Ho bisogno del mio bastone. Aiutami a cercare il mio bastone”.
Strinsi i pugni per evitare di combinare guai. Poi, pianissimo, mi voltai nuovamente a guardare Jasper.
Dio santo, Jasper”, soffiai, inviperita a dir poco. “Si può sapere cos'è questo bastone di cui parli tanto?”.
“Il bastone anti-Terrestri!”, spiegò, su di giri come non mai. “Me l'ha dato Octavia e io l'ho perso. Sono una delusione. Sono...”. La sua eccitazione svanì nel giro di mezzo secondo. Lo fermai prima che potesse ricominciare a piangere a fiumi senza nessun motivo valido.
“Ma no, no”, lo rassicurai – sforzandomi di sembrare dannatamente sincera, per quanto ce ne fosse in effetti poco bisogno – inginocchiandomi di fronte a lui che nel frattempo si era seduto a gambe incrociate sulla terra bagnata del campo.
Prima di riprendere a parlare incoraggiata dal suo improvviso silenzio, gli scompigliai i capelli mentre speravo ancora di essere riuscita a tranquillizzarlo almeno un po'.
“Andiamo a cercare un altro bastone, okay? Uno più bello ed efficace”, proposi. Poi ritornai dritta e gli posi una mano. “In piedi”.
Jasper fece subito come da ordine, e insieme ci incamminammo lontani dal baccano che ancora infestava il campo. L'effetto di quelle dannatissime noccioline durava un'eternità e ancora non avevo idea di quando sarebbe finito. Feci anche il pessimo errore di chiederlo a Jasper.
“Quando ti passerà?”, domandai, rivolgendogli un'occhiata stanca e abbattuta.
Inutile dire che lui non capì. Si limitò infatti a guardarmi sorpreso – come se fossi io la pazza della situazione – prima di ridacchiare, visibilmente divertito.
“C-Cosa?”.
“Lascia stare”.
Quasi non finii di parlare. Jasper mi mollò di botto la mano per correre nella direzione di ancora non sapevo cosa – o chi. Per poco non mi venne un infarto: in quello stato avrebbe potuto combinare di tutto e mettersi nei guai così facilmente che quasi rischiai di morire di paura.
“QUELLO!”, lo sentii che urlava indicando uno dei rami più sporgenti del primo albero che si ritrovò a fronteggiare. “Quello funzionerà bene!”.
… Il bastone anti-Terrestri era dunque un insulso rametto? E Jasper contava davvero di sentirsi protetto da tutto e tutti con un misero pezzettino di legno stretto tra le mani? Sbuffando incredula, lo raggiunsi e mi occupai personalmente di staccare il ramo tanto agognato da Jasper dall'albero a cui sarebbe stato attaccato ancora per poco.
“Ecco. Ora nessuno ti farà del male”, mormorai una volta raggiunto l'obbiettivo, voltandomi a fissare Jasper solo per consegnargli il tanto agognato talismano.
Lui lo accettò senza pensarci su due volte. Doveva essere proprio fuso per poter credere ciecamente ad una sciocchezza simile. Ma di che mi stupivo ancora?
“Sì, è vero”, asserì avviandosi senza che io gli dicessi niente verso il posto in cui avevamo lasciato Finn e Raven. “Grazie, Maya. Puoi smettere di proteggermi adesso”.
“Certo”, asserii, ma Jasper quasi non mi sentì.
Era troppo impegnato ad evitare di rovinare a terra – all'improvviso aveva assunto una preoccupante camminata traballante – per prestarmi ascolto. Preoccupata, gli corsi al fianco il più velocemente possibile.
“Ho un po' sonno”.
Pensa io. Non lo dissi ad alta voce, limitandomi ad annuire. Pareva che finalmente l'euforia datagli dalle noccioline stesse scemando, tanto che anche gli altri ragazzi al campo sembravano finalmente più tranquilli. Indicai a Jasper un posto vicino al fuoco, ordinandogli di sedersi.
“Aspettami qui, ti porto una coperta”.
Lui non se lo fece ripetere due volte e annuì soddisfatto da quella mia proposta, riservandomi l'ennesimo sorrisino soddisfatto mentre stringeva al petto il suo nuovo bastone anti-Terrestri.
“Sono al sicuro”.
Ridacchiai ancora, scompigliandogli i capelli un'ultima volta prima di ritornare in piedi.
“Sei al sic-”. Non ebbi tempo di finire la mia frase, perché un urlo appartenente a chissà chi m'interruppe all'improvviso.
“È SPARITO! Il Terrestre è sparito!”.
Sobbalzai immediatamente, spaventata. Tutta la storia delle noccioline aveva distolto la nostra attenzione dalla vera minaccia e me ne resi conto sul serio solo in quel momento.
“Siamo nei guai”, sussurrò una ragazzina di fianco a me, e dovetti trattenermi dall'annuire.
Sapevo che probabilmente il Terrestre sarebbe tornato al campo con dei rinforzi e allora sì che sarebbero stati problemi. Ma non volevo dire certe cose ad alta voce. Non volevo che si scatenasse il panico.
Cosa che ovviamente successe.
“E se quello torna con altri Terrestri per ucciderci tutti?”, urlò chissà chi, seguito subito da altre voci concitate e di già terrorizzate.
Pensai fosse il momento giusto per intervenire e sedare il panico prima che questo – come al solito – degenerasse. Ma quando feci per parlare una voce si sovrappose alla mia.
“Lasciate che vengano”. Era Bellamy. Era tornato. “Abbiamo vissuto nella paura troppo a lungo. E io sono stanco di avere paura”.
Si trattava di un altro dei suoi discorsi incoraggianti, vero? Non ebbi tempo di chiedermelo a lungo, perché Jasper balzò in piedi all'improvviso e attirò tutta la mia attenzione su di sé.
“Anch'io!”, urlò a squarciagola, guadagnandosi diverse occhiatine confuse mentre continuava – come se niente fosse – ad agitare il suo preziosissimo bastone anti-Terrestri.
Trattenni l'ennesima risata.
“Abbiamo trovato delle armi”.
Quando Clarke parlò, cercai subito la sua figura al fianco di Bellamy.
“Domani cominceremo ad allenarci. Semmai i Terrestri torneranno, saremo pronti a combattere”.
Era guerra aperta. E quella volta sul serio.

 

Quella sera toccò a me stare di vedetta, ma non mi dispiacque più di tanto. Stavo morendo di sonno, certo, ma sapevo già che pur volendolo moltissimo non sarei riuscita a chiudere occhio. Quindi meglio rendersi utili, no?
Non era programmato che tenessi d'occhio il campo da sola, ma erano tutti ancora un po' scossi dalle noccioline allucinogene oppure stanchi per una spedizione dell'ultimo minuto, dunque non si era riuscito a trovare nessuno da affiancarmi. Inutile dire che la cosa mi avesse fatto tremendamente piacere. Mi sentivo a mio agio nella solitudine.
Con la testa affollata da ogni tipo di pensiero, sospirai mentre mi stringevo le ginocchia al petto e poi vi ci posavo sopra il mento. Guardai dritto di fronte a me nel buio fitto della vegetazione, la mente che vagava libera. Ero tranquilla. C'era voluto un sacco di tempo, ma potevo finalmente dirlo. Ero tranquilla. Ero al sicuro. E non stavo bene – quello no – ma sopravvivevo. Andavo avanti. Perché quella era l'unica possibilità che avessi.
Continuai a torturarmi con altre migliaia di pensieri simili finché non sentii un rumore di passi alle mie spalle e allora tutto s'interruppe. Nella mia mente restò solo un lungo fischio d'allarme, sostituito poi da un sospiro sollevato quando voltandomi a controllare scorsi nient'altro che la figura di Finn. Sciolsi la presa sul coltello che già stringevo tra le dita – pronta a combattere – mentre sentivo i battiti del cuore tornare a poco a poco regolari.
“Dovresti essere a letto”, gli sussurrai, più per rompere il silenzio che ci avvolgeva – quello diventato all'improvviso di troppo – che per altro.
A dire il vero ero seriamente preoccupata per lui, ma non ero in grado di farglielo capire. Perciò mi limitai semplicemente ad attendere una risposta da parte sua, gli occhi fissi sul suo viso tranquillo. Finn fece spallucce prima di inginocchiarsi accanto a me.
“Non riesco a dormire”.
Benvenuto nel club. Evitai di dirlo. Spinsi a fondo quella frase deglutendo e distolsi lo sguardo da Finn. Prima di parlare nuovamente, assunsi la stessa posizione che avevo prima che arrivasse.
“Tutto a posto?”.
“Sì, sì”, mi rassicurò, imitando il mio tono di voce sussurrato. Non c'era nessuno che potessimo disturbare, eppure ci ostinavamo a parlare a bassa voce. “È solo che...”.
Dopo più di un minuto di silenzio, mi voltai nuovamente a guardare Finn. Gli donai uno sguardo confuso, con tanto di sopracciglia aggrottate.
“Che?”, chiesi, intimandolo a parlare.
“Promettimi di non dirlo a nessuno”.
Inutile dire che un po' mi preoccupai – anche se sapevo che sarebbe stato meglio non farlo. Finn era all'improvviso tremendamente serio, e nel promettergli che avrei tenuto la bocca chiusa mi ritrovai a temere più del previsto ciò che avrebbe potuto dirmi di lì a poco.
Raven russa”.
Ma poi Finn se ne uscì proprio con quella frase, e nonostante il fatto che una grossa parte di me volesse picchiarlo come se non ci fosse un domani, alla fine finii semplicemente a ridere di gusto. Risi come forse non avevo mai fatto da quand'ero sulla Terra – e come davvero poche volte avevo fatto sull'Arca – così forte che credetti di aver svegliato dal proprio sonno almeno metà campo.
“Ehi!”, mi rimbeccò subito Finn, riservandomi uno schiaffetto infastidito da quel comportamento. “È un segreto!”.
Avrei tanto voluto calmarmi, ma non ci riuscii che due o tre minuti dopo – quelli che a Finn dovettero sembrare davvero un'infinità di tempo. Alla fine comunque, lasciai che la risata scemasse e quando riuscii a sentirmi completamente calma, spazzai via con un dito alcune delle lacrime arrivate ad inumidirmi gli occhi.
“Non puoi essere serio”, mormorai, ancora divertita seppur di nuovo tranquilla.
Finn di nuovo fece spallucce. Poi vidi il suo viso attraversato dall'ombra di un sorriso.
“No, infatti. Volevo solo vederti ridere di nuovo”.
Inutile dire che mi congelai immediatamente sul mio posto. L'espressione divertita che avevo in viso si cristallizzò, e fui ad un passo dallo sgranare la bocca in modo davvero poco fine. Per fortuna Finn mi distrasse ancora con le sue chiacchiere.
“Raven ha un sacco di difetti, ma non russa quando dorme. Grazie a Dio”.
Non sapevo più come portare avanti quel discorso, né tantomeno volevo che l'attenzione restasse ancora focalizzata sulla mia persona come in realtà lo era. Ecco perché abilmente la spostai su Finn.
“Sei sicuro di sentirti bene? Penso di aver fatto il pieno di problemi, per oggi”.
“Tranquilla, è solo un taglietto”. Indicò l'addome con un gesto veloce. “Clarke l'ha ricucito per bene”.
Al nome della Griffin, non potei far altro che lasciarmi sfuggire uno sbuffo a metà tra il profondamente infastidito e il divertito.
“La nostra eroina”, mormorai, traboccante d'ironia.
“So che ce l'hai con lei”.
“Riesci a darmi torto?”.
“No! Ma non riesco a darne neanche a Clarke. Né a Bellamy”. Finn fece una breve pausa. “Murphy è pericoloso. Andava mandato via”.
Mi venne una gran voglia di aggredirlo – e non solo a parole. Ecco perché prima di dire cose delle quali avrei potuto pentirmi, inspirai profondamente e cercai di tranquillizzarmi.
“Voi l'avete reso pericoloso”, spiegai poi, stando il più calma possibile.
Non volevo che Finn si sentisse attaccato, ma capii di aver già fatto una gaffe con quel “voi”. Finn non aveva fatto nulla. Sospirai sconfitta.
“Ascolta”, ripresi, cercando sempre di restare calma. “so benissimo che John è un cazzone e che riesce a farsi odiare senza nemmeno provarci. Ma non puoi darmi torto quando dico che non avrebbe mai fatto seriamente del male a qualcuno. Non se non provocato”.
Finn rimase a lungo in silenzio, e io presi quella sua risposta come un'affermazione. Mi stava dando ragione, ed è inutile dire che la cosa mi fece profondamente piacere.
“Eri con lui in questi giorni, non è vero?”.
Annuii. “Sì”.
“Come sta?”.
Scrollai le spalle, non riuscendo a trattenere un sorriso non troppo convinto.
“Se la cava”, raccontai. “Non ha voluto tenermi con sé”.
Non sapevo perché gliel'avessi detto. Forse perché sentivo di poter parlare con Finn.
“Puoi dargli torto?”.
No. Ma non l'avrei mai ammesso.
“Non voglio parlarne”. Distolsi lo sguardo dal viso di Finn e deglutii a fondo. “Ma comunque, grazie per ciò che hai fatto. Sei stato l'unico ad aiutarci quando le cose sono degenerate”.
Sentii Finn sorridere, poi lo osservai che scuoteva la testa come se fosse stata una cosa da niente. Per me invece il suo aiuto era stato importantissimo.
“Non ho fatto nulla”.
“Non è vero”.
Cadde di nuovo il silenzio, ma quella volta nessuno dei due si preoccupò di porgli fine. Avevamo detto tutto ciò che c'era da dire: io mi ero sfogata quanto volessi e Finn mi aveva ascoltata, comprensivo. Ritornai col mento sulle ginocchia e poi me le strinsi al petto, tranquilla.
“Brayden?”. Solo a quel richiamo, cercai nuovamente gli occhi di Finn.
“Mh?”.
“So che non vorresti essere qui, ma sono felice che tu sia tornata. E sono convinto che ne è felice anche Murphy. Qui sei al sicuro”.
Non lo disse, ma sono convinta che avrebbe voluto dire qualcosa come puoi contare su di me. Non lo fece comunque, lasciando che quelle parole restassero sospese in aria e che potessi recepirle solo io. E fu proprio questo il punto: capii cosa voleva dirmi, e non sorridergli grata – ancora una volta – mi fu impossibile.


 

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Ringraziamenti
Ai Thirty Second to Mars, la canzone che dà il titolo a questo capitolo è loro (come anche i versi citati all'inizio, come quasi sempre).
Alle persone che hanno recensito e che leggono/inseriscono nei preferiti/ricordati. Vi adoro tutte.

Note
Non ho molto da dire su questo capitolo, credo sia tutto piuttosto chiaro (in caso contrario potete scrivermi su efp o fb, sono sempre disponibile) dunque evito di dilungarmi tanto più che sono come al solito malaticcia e non vedo l'ora di mettermi a letto. çç
Anyway questo è forse il capitolo più leggero dell'intera storia, quindi godetevelo. Nel prossimo ci sarà un'ulteriore flashback sul passato di Alida (credo di averlo già detto).
A proposito del capitolo 9, aggiornerò tra due settimane (ovvero il 25). D'ora in poi gli aggiornamenti andranno avanti così, non posso più postare un capitolo al mese: ci metterei troppo tempo e ad essere sincera ci sono altri progetti che necessitano della mia attenzione. :)
Detto questo, spero che il capitolo possa piacervi e ci sentiamo presto.

P.S.
Risponderò alle recensioni dello scorso capitolo domani. Scusatemi.

   
 
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